Quest’inverno, mentre la EF Education-TIBCO-SVB era in ritiro in Spagna per preparare la stagione, c’era un rituale che si ripeteva ogni giorno, prima degli allenamenti. Alison Jackson, la vincitrice della Paris-Roubaix Femmes, lo scorso 8 aprile, utilizzando un’applicazione, disegnava i percorsi da fare e, ogni giorno, il tragitto era diverso, con pari difficoltà altimetriche, ma diverso. All’inizio, nessuno ci faceva molto caso, se non fosse che, dopo molti giorni, con un sacco di strade già attraversate, una mattina, la traccia evidenziata da Jackson porta tutta la squadra in una strada sterrata, lontana dalla città, abbastanza dispersa, insomma, in una di quelle strade in cui si può finire per sbaglio, magari dopo essersi persi. Difficilmente, però, ci si va apposta, per allenarsi.
«Alison ma che ci facciamo qui? Torniamo sul percorso di ieri, era bello, non credi?» chiedono tutte.
«Sì, ma non si fa mai due volte la stessa strada, soprattutto in allenamento, dove si può cambiare. La mia applicazione serve a questo».
Non riusciamo a descrivervi a parole il volto sorpreso delle sue compagne, possiamo, tuttavia, riportarvi il primo pensiero che quel giorno ha fatto Letizia Borghesi, è lei stessa a dircelo: «E tu, per non rifare due volte la stessa strada, vai in questi tratti sterrati e malmessi? Sei tutta folle, ragazza mia». Il tutto seguito da una risata fragorosa che condividiamo con Letizia.
Sì, un tipo decisamente particolare Alison Jackson, ma di questo dovreste già esservi resi conto seguendo la Parigi-Roubaix: un attacco da lontano, di quelli che sembrano destinati al nulla, sempre davanti a tirare, a rischio di sfinirsi e poi perdere, la volata vincente nel velodromo e anche un balletto. Così, tanto per gradire. Quei balli, quelli che posta sui social, li impara dal web: quando l’allenamento finisce, distesa sul letto, in camera, vede moltissimi video di danza e prova a capire i passi, poi li imita. Ballare da sola, però, non la soddisfa molto, allora si è fatta una promessa: «Insegno a tutte le mie compagne a ballare, le filmo e, alla fine dell’anno, vediamo i progressi. Impareranno tutte». Ed anche qui, Borghesi se la ride: «Considerando il mio punto di partenza, un miglioramento lo vedrà di sicuro, ma non credo basti a soddisfarla».
Alison Jackson è nata a Vermilion, in Canada, il 14 dicembre del 1988. È cresciuta in maniera semplice, con le cose genuine che si vivono nelle zone rurali: andava nei campi, raccoglieva i sassi e li trasportava fino ad un camion che li avrebbe portati via. Ha confidenza con i minerali, con rocce e pietre, per questo, tempo fa, in una sgambata, ha detto a Borghesi: «Ma, sai, l’unica pietra che davvero vorrei avere a casa mia non è in Canada. È una di quelle pietre della Parigi-Roubaix». Ci è riuscita e ci è riuscita a modo suo.
Sì, perché alla riunione del mattino, non era minimamente programmato il suo attacco. Anzi, lei, Zoe Backstedt e Letizia Borghesi avrebbero dovuto stare tranquille e aspettare le fasi finali di gara, ad attaccare avrebbero pensato altre. Tranquille? Come no. Alison Jackson è subito andata in fuga. «È esuberante, istintuale. Avevamo capito tutte- continua Borghesi -che ci teneva particolarmente, non immaginavamo questa azione. Ha sentito che era giusto farlo e lo ha fatto. Cosa vuoi dirle?». Chissà che, prima di scattare, non abbia guardato il manubrio, dove, su pezzetti di nastro adesivo azzurro, aveva scritto a pennarello: “Don’t think, just do”. Per ricordarsi di non pensare, di agire solamente. Tra l’altro, ci hanno detto che è la prima volta che le hanno visto queste scritte sul manubrio. La conclusione potrebbe anche essere abbastanza facile: Alison Jackson sapeva che, pensandoci anche solo un attimo, una giornata così non l’avrebbe vissuta, perché pensandoci non avrebbe fatto quasi nulla di ciò che ha fatto. Così l’ha scritto, a promemoria, nel caso le venisse qualche dubbio.
A Letizia Borghesi si rompe la radiolina e, ad un certo punto, perde il contatto con la gara. Giusto poco dopo aver detto alle sue compagne che, con il vantaggio che il gruppo aveva lasciato, forse c’erano buone possibilità di far bene. Sì, appunto: “far bene”. Vincere è un’altra cosa. Che Jackson ha vinto, lo viene a sapere dalla sua massaggiatrice, all’entrata nel velodromo, anche abbastanza delusa perché un problema tecnico negli ultimi chilometri, le ha impedito di giocarsi il finale con il gruppo. Il pensiero è lo stesso di quel giorno in Spagna, su una strada sterrata chissà dove: «Ma tu sei folle, ragazza mia».
Alison Jackson ha passato tante squadre, anche un anno in Italia, nel 2017, con la Bepink Cogeas, l’anno in cui ha scoperto che l’Italia le piace e ha imparato diverse parole italiane, poi Sunweb, Liv Racing, fino a quest’anno in Ef Education. Nel tempo, ha elaborato una sorta di filosofia personale per certe situazioni, tanto che in squadra ce lo dicono: «Serviva coraggio per lavorare come ha lavorato, mentre le altre si risparmiavano per l’eventuale volata. Vero. Però a lei interessava portare la fuga al traguardo, una sorta di sfida con il gruppo, anche a costo di perdere. Nella sua esuberanza c’è anche questo: “Noi siamo poche e stanche, ma vi faccio vedere che arriviamo noi”. Mettiamola più o meno così”. Queste cose le vive e le spiega, consiglia. A Letizia Borghesi, ad esempio, ha insegnato a studiare bene i percorsi prima delle gare, nel minimo dettaglio, perché “la gara si inizia a fare da lì». Dopo la Roubaix, il suo sogno da sempre, chissà quale sarà il suo prossimo traguardo. Di certo il suo modo di correre e lo spunto veloce la aiuteranno.
Vederla abbracciata a quel sasso, dopo un inizio di stagione che non è andato proprio come aveva immaginato, riporta indietro, all’infanzia, ad immaginarcela bambina curiosa, nella natura. E, sorridendo, porta avanti, ai prossimi balli, in cui, a quanto pare, vorrà coinvolgere anche quella grossa pietra. Chissà cosa ne verrà fuori.
Foto: Sprint Cycling Agency
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