Gaia Tormena ricorda che, da ragazzina, nel bosco, si divertiva a fare impennate: se cadeva, si rialzava come nulla fosse e ricominciava a giocare con quella bicicletta. Non è cambiato molto e non potrebbe che essere così, perché la diciannovenne della Val d’Aosta sa bene che il ciclismo è uno sport troppo faticoso per continuare a farlo se non ci si diverte più, così, se si proietta avanti nel tempo, ha solo una speranza: «Fra cinque anni spero di divertirmi come adesso, altrimenti sarà un problema. Anche perché, per chi è cresciuto come me, è difficile pensare di fare altro nella vita».
Tempo fa, si era iscritta a Strava, ma tutti i suoi percorsi erano privati, nessuno poteva vederli se non lei e lei non si è quasi mai preoccupata dei percorsi degli altri, dei loro tempi, dei loro watt. «Credo sia una perdita di tempo e di tranquillità per un professionista. Per migliorare puoi lavorare solo su te stesso, questi strumenti invece continuano a metterti in competizione con altri e, alla fine, ti tolgono tempo e spazio per lavorare su di te». Già, perché per quanto le piaccia la competizione, Tormena sa che non è tutto, che c’è altro. Così, ogni tanto, chiama il suo allenatore e gli dice che stacca, che va al Bike Park di Pila e si butta in discesa. Giù, in libertà, come qualche anno fa.
Non tutti conoscono la sua disciplina, l’Eliminator, e a lei, che è Campionessa del mondo della specialità, piace raccontarla. Si tratta, ci dice, della disciplina sprint del fuoristrada: tra i cinquecento e gli ottocento metri fra ostacoli naturali o artificiali. Qualificazioni e poi gare a batteria, a torneo. In Italia è l’unica a praticarla a così alti livelli: «Quando mi applaudono alle gare ci penso. Penso che, in fondo, ciò che sarà dell’Eliminator, da noi, dipende anche da me, da ciò che riesco a fare».
Essendo una disciplina recente manca ancora una regolamentazione specifica. Soprattutto in Italia perché in Coppa del Mondo le regole sono rigide. L’Italia non ha una prova mondiale dal 2019. «Mi scrivono giovani allenatori e mi mostrano filmati di bambini che provano le nostre partenze. Sono spettacolari e si divertono molto, ma c’è ancora da lavorare per resistuire all’Eliminator lo spazio che si merita».
In primis vanno sconfitte le concezioni errate. «All’estero non interviene quasi mai un’ambulanza in queste gare. In Italia, invece, si considerano pericolose e forse lo sono ma solo perché mancano regole rigide, così ci sono cadute con conseguenze importanti. Per noi sarebbe un passo fondamentale l’affiancamento delle nostre gare a quelle di cross country, ma gli atleti di cross country hanno timore a correre sui nostri tracciati perché, senza quelle regole, rischiano seri infortuni, rischiano di rimetterci la stagione».
Inoltre, l’Eliminator è una possibilità per i giovani che possono gareggiare da subito accanto a un Campione del mondo, magari stargli davanti alla ruota per un giro, sfruttando quelle fibre veloci che si hanno da ragazzi. «Anche i commissari tecnici studiano questa disciplina. Per questo vado in pista a Montichiari o faccio lavori specifici su strada: cerchiamo di capire come si interfaccino le diverse discipline, cosa aiuta e cosa penalizza».
Diciannove anni e tanta maturità. Perché Tormena sa aspettare e spesso ne parla con papà. «Potrei passare in una squadra più grande rispetto al G.S. Lupi Valle d’Aosta perché le cose più importanti piacciono a tutti, ma sono ancora giovane e ho già tanto. Ho paura che il troppo mi tolga questa “fame”, questa voglia che sento. Mi spaventa l’idea di trovarmi a venticinque anni e avere la sensazione di avere già dato tutto. Per ora mi bastano i risultati per avere stimoli, quando quelli mancheranno, forse, li cercherò nell’ambiente, in una squadra più strutturata».
Se l’esplosività, fra qualche anno, dovesse venire meno si dedicherà alle discipline endurance, discipline di sviluppo più ampio in cui serve più resistenza. Guardare avanti, però, non significa solo questo. «Alcuni sponsor mi supportano ma queste discipline, ad oggi, difficilmente consentono di avere uno stipendio. Fino a qualche anno fa, era papà a comprarmi tutto e già il fatto di avere qualcuno a supportarmi con del personale mi sembra tantissimo. Però si cresce, gli anni passano e bisogna costruirsi una propria indipendenza. Lo sport è l’unico lavoro che ti impegna tutto il giorno, quasi tutti i giorni, è triste pensare che alcuni sportivi non possano pagarsi le bollette col frutto del loro lavoro. Il cambiamento è necessario».
Foto: Alessandro Di Donato