Conoscere Corbin Strong

Intanto il nome: c'è qualcosa di evocativo dietro al nome Corbin Strong, che non è altro che Corvino Forte. Dove corvino, come spiegato dal sito Behind the Name, deriva dal francese Corbeau, corvo.
Dove corvino in italiano sta per "di un bel nero intenso" solitamente associato al colore dei capelli. Pare che il nome debba la sua diffusione nel mondo anglosassone a un attore americano, Corbin Bernsen (se non vi viene in mente chi è, appena cercherete la sua foto direte: “ah ma è lui”), celebre per aver interpretato l'avvocato Arnold Becker nel telefilm L.A. Law, ma caratterista in decine e decine di produzioni televisive e cinematografiche.
Stiamo perdendo il filo, scusate, torniamo alle due ruote: dove sta la verità o il romanzato poco importa; c'è quel cognome, Strong, ed è inutile specificare significhi forte. E lui, Corbin Strong, forte è forte davvero.
Poi c'è la nazionalità: la Nuova Zelanda. Tra flessioni e picchi si affaccia al ciclismo (su strada) come una nazione minore, ma non di nicchia: senza voler scomodare pionieri come Dalton o Tabak (quest'ultimo fu anche campione olandese davanti a Zoetemelk!), ricordiamo tutti la maglia “all black” con felce argentata del velocista e pesce pilota Julian Dean che spiccava notevolmente nelle volate di gruppo (soprattutto nel momento di lanciarle); un movimento che vede attualmente punte come George Bennett - scalatore da piazzamento nei dieci nei grandi giri e riciclatosi gregario di Pogačar - corridori completi come Patrick "Paddy" Bevin capaci di andare forte a cronometro, dotati di spunto veloce e una certa resistenza, oppure chi, a proposito di telefilm, porta il nome di Jack Bauer, che ha passato un periodo nel quale si imponeva come gregario di primo rango in gruppo. Ma sono quelli in arrivo a destare più attenzione: i fratelli Niamh e Finn Fisher-Black, per esempio. Niamh si è appena laureata campionessa del mondo Under 23, più per particolare circostanza che altro, ma è una ragazza dall'indiscutibile valore. Nell'ultimo biennio si sono fatti conoscere soprattutto Reuben Thompson e Laurence Pithie - ma non solo. Reuben Thompson è stato uno dei migliori scalatori della categoria Under 23 con un Giro della Val d'Aosta nel suo palmarès e tante prove di altissimo valore, spesso in appoggio a capitani che portano il nome di Grégoire e Martinez. Entrambi i due neozelandesi passeranno professionisti nel 2023 con la maglia della Groupama.
Nel 2023 una delle novità più interessanti che porterà il ciclismo sarà proprio la presenza nella categoria Professional di un team neozelandese: la Black Spoke capitanata da Aaron Gate, che ha già calcato terreni importanti su strada, ma è soprattutto in pista che ha vissuto il suo apogeo. Sarà un importante sbocco nel ciclismo professionistico per i diversi talenti di quelle parti.
Se ci spostiamo dal rugoso asfalto alla turbolenta pista, il movimento mostra capacità di sfornare corridori e risultati: il già citato Gate, l'inseguitrice Bryony Botha, lo specialista delle prove di endurance Campbell Stewart, senza dimenticare un quartetto dell'inseguimento da diversi anni costantemente in lotta per le medaglie tra Giochi Olimpici e rassegne iridate, e tra i talenti nati dalla pista c'è appunto l'oggetto del discorso, Corbin Strong, biondo, a dispetto del nome, ma come suggerisce il cognome, forte.
Classe 2000, pistard di primissimo livello nonostante la giovanissima età, Strong nasce e cresce letteralmente in pista - arriva da un paesino di contadini vicino Invercargill dove si trova uno dei due velodromi al coperto della Nuova Zelanda- ed è nei velodromi che scopre la sua vocazione: specialista dell'endurance, tanto da conquistare, escludendo i diversi titoli nelle categorie giovanili e nelle corse del suo continente, l'oro mondiale a Berlino 2020 in una delle gare simbolo degli ovali, la corsa a punti, l'argento sempre a Berlino nell'inseguimento a squadre e, poche settimane fa, l'argento nella corsa a eliminazione nella rassegna iridata di Saint-Quentin-en-Yvelines battuto solamente da Elia Viviani. Strong è stato capace da ragazzo di misurarsi con buoni risultati anche nel settore della velocità.
Su strada, da neoprofessionista, ha effettuato il primo salto di qualità negli ultimi mesi della stagione 2022 in maglia Israel-PremierTech dopo aver anche concordato una crescita della forma in chiave Mondiale su pista: in poche settimane vince una tappa al Tour of Britain, chiude 5° il GP di Vallonia battuto solo da grandi nomi (tra cui van der Poel e Girmay), 13° alla Agostoni, ma vincendo la volata del gruppo, 2° alla Bernocchi, qui battuto solo da Ballerini ma dopo aver tentato la fuga vincente con Alaphilippe e Hirschi, e infine ha chiuso 7° il Gran Piemonte. Una campagna italiana nella quale è mancato solo il successo.
C'è quello che dicono di lui: Zak Dempster, suo direttore sportivo, ha definito le sue gambe: «perfette, grazie anche alla sua attività in pista», e recentemente Michael Woods ha raccontato: «Ci stavamo allenando e un giorno avevamo deciso di fare le cose sul serio. Stavo affinando il mio scatto: ci provo una volta e Corbin rientra. Ci provo una seconda e lo stacco: “ok”, ho pensato “ mi sono sbarazzato di lui”. Mi giro e vedo 'sto ragazzo che mi torna sotto con una forza incredibile, mi supera ed è lui che si sbarazza di me e se ne va. Avevo sentito fosse forte, ma non avevo mai immaginato avesse tanta fame».
Mentre Luca Saugo su Cycling Chronicles ne fa una dettagliata recensione: "è un corridore molto particolare, profondamente diverso, nella sua incarnazione da stradista, rispetto anche a molti altri pistard che alternano le due discipline. Corbin non è particolarmente possente, è alto 173 cm e pesa 63 kg. Nonostante ciò, però, ha nello spunto veloce uno dei suoi punti di forza. Su questo, molto probabilmente, incide una conformazione fisica particolare e il background ciclistico molto variegato. Ha il baricentro basso e cosce voluminose, retaggio dell’esperienza nella velocità. Nonostante sia un po’ scomposto in bicicletta, quando mette le mani sulla parte bassa del manubrio e sfoga tutta la sua potenza sui pedali, Strong riesce a prodursi in accelerazioni devastanti. È un fascio di muscoli sgraziato che dà l’impressione di poter spaccare la bicicletta da un momento all’altro tanta è la forza che riesce a sprigionare. E ha nelle gare in linea dal profilo tortuoso il suo areale".
Che sia forte, lo ribadiamo, lo dicono gli esperti, lo si capisce guardandolo come si muove in gruppo, lo confermano i suoi compagni di squadra. Che sia forte non c'è alcun dubbio e nel 2023 lo seguiremo con ancora più attenzione, avendo ormai bene in mente pure il significato del suo nome.


Spunti dal velodromo

È vero: ieri il conteggio delle medaglie per la nazionale italiana si è fermato (ieri a un certo punto si è anche fermato tutto il carrozzone, durante la Madison femminile, per un problema alle luci del velodromo: succede anche questo); e ancora bisogna metabolizzare per bene quello che è accaduto il giorno prima: perché Ganna ha registrato col pollicione e le gambone quella che resta senza ombra di dubbio una delle prestazioni indimenticabili della rassegna (e sbilanciandoci anche della storia recente del ciclismo italiano) - un venerdì sera da raccontare, ancora e ancora, e da rivedere: con Mathilde Gros che, battendo Emma Hinze nella semifinale della sprint femminile, dopo una lotta di nervi e sguardi, e poi conquistando l'oro, faceva impazzire il pubblico francese e pure la stampa di casa.
Tornando a ieri, però, cose ce ne sarebbero e ce ne sono da sottolineare anche o soprattutto al di fuori del contesto Italia.
Hayter ha dominato l'Omnium con una superiorità che potremmo definire imbarazzante - un imbarazzo direttamente proporzionale, come ben spiegato da Marco Grassi su Cicloweb, a quello provocato dalla regia, che non ci faceva capire nulla di quello che succedeva, e dagli stessi giudici che dovevano guardare e riguardare i video per capire chi, infine, si sarebbe dovuto mettere al collo il bronzo tra Gate e Larsen. Per la cronaca ce l'ha fatta il capellone neozelandese il quale speriamo prima o poi possa avere una chance importante anche su strada.
Nominiamo il giovane canadese Bibic (classe 2003 e già oro nello Scratch giovedì) prima di ritornare con due parole su Hayter. Bibic è un under 23 al primo anno e già lotta con gli élite, vince medaglie pesanti, non si ritira dalla contesa. Pure ieri c'ha provato e riprovato prima di "arrendersi" alla superiorità ed esperienza altrui. Qual ora dovesse mantenere (e crescere) avremmo trovato un futuro fuoriclasse della pista.
A proposito di fuoriclasse, Hayter. Fenomenale la sua condotta di gara nell'Omnium - di cui era campione in carica. Una gestione totale della superiorità: ha vinto una delle volate della corsa a punti finale tenendo in fila il gruppo per tre giri senza che nessuno riuscisse nemmeno ad affiancarlo. E dietro aveva gente come Thomas, Gate, Viviani, eccetera. Esce da questi quattro giorni, Hayter, con due ori al collo, e oggi la possibilità di vincerne un terzo. Niente male per il ragazzo londinese che in Inghilterra da anni è considerato una sorta di prescelto. Sia su strada che su pista.
Anche perché ha battuto Benjamin Thomas che l'ha spuntata per il secondo posto più di nervi (e classe, e attitudine, lui signore dell'Omnium, una rimonta d'argento consumata negli ultimissimi giri della "sua" corsa a punti, spinto dal pubblico che lo adora, giustamente) che di forma, visto che, parole sue, non è al massimo.
Oggi ci sarà una Madison che al via vede nomi di altissimo livello. C'è la rivincita tra Gran Bretagna e Francia (tra Hayter e Thomas che, come vuole il format, non saranno però da soli a difendere le proprie bandiere) ma con almeno altre sette, otto coppie, Italia compresa, pronte a inserirsi.
A proposito di Madison ieri è stata la giornata di Lotte Kopecky che grazie a un'azione furba e furibonda nel finale (aiutata chiaramente dalla compagna Bossuyt) è andata a rimpolpare un palmarès 2022 che ha semplicemente del clamoroso. Su strada: vittoria alla Strade Bianche, al Giro delle Fiandre e nella cronometro nazionale. Seconda alla Roubaix e al Mondiale.
Su pista: oro europeo nell'eliminazione e nella corsa a punti, oro mondiale nell'eliminazione e nella madison. E anche lei oggi ha un'altra (grossa) occasione nella corsa a punti che chiude il programma endurance femminile.
Ieri è stata anche la giornata di Franziska Brauße che non ha mollato mai nell'inseguimento femminile (a proposito: brava Paternoster che dopo tutto quello che le è successo trova un buonissimo 8° posto) resistendo alla rimonta di Botha e vincendo finalmente, dopo il bronzo nel 2020 e l'argento nel 2021, l'oro individuale.
E ieri è stata la giornata di Kouame che nei 500m femminili ha lasciato di sasso, ancora una volta, Hinze: per lei il velodromo francese si sta trasformando in uno strano crocevia. Anche se non ci sono incroci negli ovali, c'è il diavolo che aspetta la fortissima tedesca e quel diavolo porta diversi nomi francesi.
E nella prova di Keirin oggi ci sarà da diventare matti perché dentro ci sono tutte le protagoniste (anche quelle mancate, vedi Mitchell per esempio) della velocità femminile e alcune hanno il dente avvelenato. In più ci sarà tantissimo pubblico a spingere le ragazze di casa (presenti sia Gros che Kouame) che stanno facendo ammalare di piazzamenti le fortissime tedesche.
Infine due parole sull'Italia: ieri non è arrivata la medaglia (oggi ci si può rifare): pazienza! In ogni caso non possiamo che applaudire tanto da farci male alle mani per quello che continuano a fare tecnici e atleti della squadra azzurra (da più di un lustro ormai nel settore endurance e un po' alla volta si prova a costruire qualcosa nella velocità); sperando - per il momento invano, purtroppo - che prima o poi qualcosa si possa muovere (ma lo diciamo da anni) a livello di impianti.
Perché saremmo anche stufi di parlare di miracoli; preferiremmo rendere i risultati ottenuti in questa disciplina meravigliosa che è la pista, sistematici, facendo diventare la pista azzurra qualcosa di cui vantarci; un movimento da farci invidiare in tutto il mondo - che già si domanda come riesca l'Italia, senza letteralmente un velodromo (attenzione! iperbole voluta per sottolineare quello che fa l'Italia su pista nonostante le difficoltà), a fare quello che fa.
Anche se, a furia di sperare, diceva quello...


Alla maniera dei più grandi

Focus nella serata di Saint-Quentin-en-Yvelines. La rimonta di Balsamo nell'Omnium che partiva dalla gara a eliminazione, quella che lo scorso anno le aveva tolto qualcosa ai Giochi Olimpici di Tokyo. Nella corsa a punti un paio di ore dopo è andata com'è andata. Lei ci stava, ma ha vinto Jennifer Valente, americana, al primo titolo individuale dopo una carriera a battagliare e a piazzarsi. Pazienza, va bene così.
La lotta di sguardi come pugili sul ring tra Mathilde Gros ed Emma Hinze nella velocità femminile è una delle immagini del giorno. Gros va in finale sfruttando gambe immense, acido lattico e forza mentale e poi batte anche Lea Friedrich e vince l'oro, tra le urla del velodromo di casa che scandisce in delirio il suo nome.
Osservare, poi, Matteo Bianchi, classe 2001, in finale nel chilometro, dove non c'eravamo da tempo ma oggi sì, con dei ragazzini che non erano nemmeno nati l'ultima volta che l'Italia prendeva una medaglia, è stato un piacere. Vince chi doveva vincere - Hoogland - sul podio ci sale uno spagnolo - Martinez Chorro - per il quale a un certo punto abbiamo iniziato a tifare. Bianchi arriva quinto senza avere il fisico da colosso che hanno tanti altri, e anche così va benissimo. Un punto di partenza.
Tanti focus nella serata di Saint-Quentin-en-Yvelines, su Havik, olandese, che vince la corsa a punti a 31 anni e ci ricorda che in un ciclismo di talenti precoci non è mai troppo tardi per indossare la maglia più ambita del ciclismo e mettersi una medaglia preziosa al collo. Lui principalmente seigiornista, batte Kluge, Van Den Bossche, Strong, di mestiere anche stradisti. La bellezza della pista punto d'incontro di talenti.
La lotta di nervi tra Milan e Ganna con il ragazzo friulano, fortissimo ma non quanto bastava oggi per battere Ganna, che parte alla grande seguendo il suo schema. Un rapporto leggermente più agile (sic), 66x15 rispetto al 67x15 di Ganna.
Un modo di intendere l'inseguimento fatto di partenza a schioppo.
Una sorta di lepre per Filippo Ganna che stamattina ha pensato di non gareggiare per andare in vacanza, che in una settimana si prende record dell'ora, argento nell'inseguimento a squadre e poi oggi crea e firma l'ennesimo dipinto da esporre in un velodromo: medaglia d'oro nei quattro chilometri dell'inseguimento in 3:59.636, record del mondo, una serie di numeri che forse solo lui in tempi più o meno brevi potrà pensare di ritoccare ancora.


Vincere come Martina Fidanza

È stata la prima serata del Mondiale di Saint-Quentin-en-Yvelines ed è stata subito così la serata di Martina Fidanza, così per i colori azzurri, così per la squadra italiana. Così come una vittoria.
Vincere con i favori del pronostico in una disciplina di gruppo in pista non è uno scherzo, anzi: è roba per le più grandi; vincere confermandosi è ancora più complicato, vincere come ha vinto lei: di sagacia tattica e gestione nella prima parte; guardandosi intorno e poi scatenandosi nel finale, per distacco, imprendibile per le altre, dimostra lo spessore dell'atleta. E qualcuno ha pure detto a denti stretti: "fosse partita un po' prima prendeva un giro a tutte".
Vincere facendo sembrare tutto così facile all'apparenza, al modo di quelle baciato dal talento. Nella testa e nelle gambe. Vincere come Martina per aprire "discretamente" bene la rassegna iridata su pista, nello Scratch, come un anno fa sempre in Francia, ma a Roubaix. Cambia il velodromo ma la più forte resta Martina Fidanza. Che goduria.


Au Revoir Philippe

Ci viene in mente quel 24 aprile del 2011 quando Philippe Gilbert vinceva la sua prima -che poi sarà l'unica e ci è sempre parso come uno scherzo del destino - Liegi-Bastogne-Liegi, battendo i fratelli Schleck. Frank ed Andy sul traguardo, nell'ordine.
Gilbert realizzava un filotto che non era proprio robetta da nulla o da tutti gli anni: Freccia del Brabante, Amstel Gold Race, Freccia Vallone e appunto Liegi nel giro di una decina di giorni.
«Scambierei quelle tre corse per vincere una Liegi» disse alla vigilia della corsa il ragazzo di Remouchamps, pochi chilometri dalla salita simbolo della Doyenne, la decana delle classiche; il figlio della Redoute, quello che vedeva il suo nome scritto per terra su quella storica "montagna" quando ancora non era nemmeno maggiorenne tanto che quella volta a darsi battaglia erano due tipi niente male come Bartoli e Vandenbroucke.
In quel 2011 segnato dal dominio nelle Ardenne, Gilbert vinse anche Strade Bianche, Gp Quebec, San Sebastian, campionati nazionali in linea e poi a cronometro, una tappa al Tour e una alla Tirreno, salì sul podio alla Sanremo e chiuse nei 10 il Lombardia.
Ci viene in mente quella volta, un anno dopo o poco più, quando con la maglia della sua nazionale attaccò sul Cauberg, partì e se ne andò lasciando per terra schiantati i suoi avversari: divenne Campione del Mondo.
Un Campione del Mondo belga sette anni dopo Boonen; e i suoi connazionali dovranno aspettare dieci anni esatti per vincere nuovamente il titolo: un legame tra due corridori che su strada hanno mostrato caratteristiche completamente differenti, ma uno spessore simile. Tra uno che, crescendo in bicicletta, guardava ammirato le sue imprese, e l'altro che, invecchiando, non nascondeva la stima per il giovane emergente. «Non potevo sognare di avere un successore più degno di te - raccontava Gilbert in un video su Youtube fatto durante un allenamento, poco dopo la vittoria di Evenepoel a Wollongong - È stato commovente, tanto che, devo ammettere, mi sono scese le lacrime quando hai tagliato il traguardo».
Ci potrebbero venire in mente altre mille occasioni: quella Roubaix nel 2019, quasi inaspettata, lui campione perlopiù da corse vallonate, da scatto bruciante al termine di uno strappo «Ho attaccato con Politt - dirà nella conferenza stampa al termine della gara - perché è fatto come me, non fa molti calcoli: è generoso e coraggioso, lo stimo molto. Oggi meritavamo entrambi la vittoria»; si potrebbe pensare al Fiandre del 2017 vinto dopo una lunghissima fuga (un po' come quando vinse la sua seconda Omloop Het Nieuwsblaad, era il 2008, si fece cinquanta chilometri in avanscoperta) e l'arrivo in maglia tricolore con bici sollevata sul traguardo, a modo, si direbbe dei ciclocrossisti, in una di quelle giornate da racconto epico come il ciclismo spesso sa regalare senza andarsi a inventare chissà quali significati retorici dietro le azioni di un corridore. Gilbert che attacca, Boonen che corre l'ultimo Fiandre con una bici con telaio bianco e scritta in oro, Sagan, favorito e campione uscente, che cade nel finale dopo essersi impigliato a una giacca appesa su una transenna lungo l'Oude Kwaremont e rovina a terra portandosi dietro Naesen e van Avermaet e regalando così a Gilbert quel vantaggio di cui aveva certamente bisogno, in avanscoperta da troppo tempo, per completare l'opera.
Ha vinto ovunque e in ogni modo, ci sono stati dei momenti in cui pareva così dominante da farci dire: "Gilbert è il ciclismo" oppure "Gilbert può vincere a piacimento ogni corsa di un giorno a cui prende parte". È stato una sorta di van der Poel ante litteram per la capacità di sprigionare potenza con un solo scatto devastante, ma anche di infiammare il cuore dei tifosi che ovunque, pure qui in Italia (ha vinto al Giro sul traguardo di Anagni nel 2009 e si è ripetuto due volte nel 2015), lo hanno amato.
Si potrebbe pensare ancora alle cadute rovinose, alla poetica del suo modo di attaccare o stare in bici, alla sua eleganza da re Vallone come spesso è stato chiamato, amato anche dai fiamminghi. Fatto tutt'altro che scontato.
Invece ci tocca pensare che nel week end che ha visto lasciare il ciclismo a Valverde, Nibali, Nieve, Kangert, Terpstra per fare giusto qualche nome di peso, anche il suo è stato scritto per l'ultima volta nelle liste di partenza di una gara di professionisti di quello sport chiamato ciclismo. È pensare a questo ci fa male, ma passerà. Almeno si spera. Altrimenti chiuderemo gli occhi e ci immagineremo ancora una volta il suo attacco quasi prepotente sul Cauberg con la maglia della nazionale belga, il cerotto al naso e i denti di fuori per lo sforzo, mentre dietro gli avversari arrancano, sfuocati sullo sfondo.


L'Enric Mas, il Mimmo, Tadej Pogačar

E a ogni giro, su quella curva, la Curva delle Orfanelle, le speranze della maggior parte del gruppo andavano infrangendosi contro aspre pendenze che inacidivano le gambe.
A ogni giro, lungo i 2,1 chilometri circa che portano in cima, oltre il Santuario della Madonna di San Luca, Enric Mas sembrava stare sempre meglio.
Tantissima gente dietro le transenne, un boato a ogni passaggio, un ritmo cadenzato di mani e urla per i corridori che digrignavano i denti, alcuni costretti a fare zigzag, altri, come Rochas, mettevano il piede a terra per forza di cose: un problema al cambio e su quelle percentuali di salita non ci si poteva inventare nulla.
E a ogni giro tiravano forte gli uomini di Tadej Pogačar, il favorito, senza troppi pensieri per gli altri: prima Majka, che divorava ogni tornata come se non avesse mangiato abbastanza; dopo di lui Ulissi, e poi, quando sarebbe toccato a Formolo (ottimo anche oggi, nono all'arrivo), mancavano due giri, provava l'allungo Fortunato, che frantumava definitivamente il gruppo; Fortunato che si vede poco, ma quando si vede prova a lasciare il segno, e a maggior ragione prova a farlo su quella salita che lui conosce come fosse, anzi praticamente lo è, la strada di casa sua.
E quella strada che portava su in vetta ispirava il miglior Enric Mas possibile: nemmeno Pogačar riusciva a stargli dietro. Enric Mas, l'Enric Mas, quella che solitamente si vede quasi solo nei grandi giri o tutt'al più nelle brevi corse a tappe, possibilmente spagnole; a volte si dice non sia proprio un attaccante, uno scaldacuori, un aizza popolo, uno per cui ti strapperesti i capelli o spenderesti tutti i tuoi averi per vederlo correre. Ma questa sua versione in progressione vincente sul San Luca ha detto tanto. Sulla sua forma, sul suo status, sul momento di salute, volendo, del ciclismo spagnolo che fra sette giorni perderà - agonisticamente parlando - Valverde, che anche oggi arrivava lì vicino al podio chiudendo quarto, applaudito e applaudendo.
E così vince l'Enric Mas l'edizione numero centotre del Giro dell'Emilia, secondo Pogacar, e terzo Domenico Pozzovivo, semplicemente Mimmo per molti o forse per tutti pure in gruppo o tra la gente che urlava il suo nome; "Mimmo" sul quale ci sarebbero da spendere ancora parole non bastasse vederlo a 40 anni tenere la ruota di colui che è considerato uno dei corridori più forti del mondo. Se quelli lì davanti lo sono, chissà lui cos'è.


Il centro del mondo

Passato un Mondiale se ne fa un altro, e tra circa un paio di settimane, in Francia, a Montigny-le-Bretonneux, la rassegna iridata su pista occuperà le serate di metà ottobre. E l'aria di pista che si respira ha sbloccato due dei nostri corridori più interessanti, già campioni olimpici nell'inseguimento, uno ormai un veterano (fa strano dirlo, ma come dicevano i Kina "Questi anni stan correndo via. Come macchine impazzite"), Simone Consonni, che in pista è un abile cacciatore di punti e giri, intelligente uomo da Madison, tassello fondamentale del quartetto.
E quell'aria di pista che si inizia a respirare ha fatto bene a Simone Consonni, che nel pomeriggio di domenica 28 settembre, mentre la maggior parte di noi cercava di riprendersi dalla #MaratonaWollongong, si è sbloccato tornando al successo (il suo secondo in carriera) dopo quattro anni: l'ultimo fu al Giro di Slovenia del 2018.
Simone Consonni, pilotato in maniera perfetta dal suo compagno di squadra in Cofidis Piet Allegaert, ha vinto di un niente, ma di quanto basta, la Paris-Chauny. Ha vinto davanti a Groenewegen (che altri due metri e lo avrebbe superato): chissà che l'aria di quelle zone non gli stia facendo particolarmente bene.
Meritato, perché Simone Consonni lo inseguiva quel successo e non arrivava mai, perché Simone Consonni sa essere uomo squadra, ma avrebbe un talento che - parere di chi scrive - ancora non si è espresso del tutto in corse di grande livello a cui potrebbe, dovrebbe chiedere di più.
E quell'aria di Mondiale su pista che si avvicina ieri ha fatto bene a Jonathan Milan: il ciclopico corridore friulano ha conquistato la sua prima vittoria da professionista vincendo la prima tappa della CRO Race, in pratica il Giro di Croazia in sei giorni.
Pioggia battente, strade allagate, Milan ha impressionato prima per come ha tenuto in salita i migliori, poi per come ha gestito il finale decidendo quando sarebbe stato il momento giusto per affondare il colpo. SI è messo davanti al gruppo sfilacciato quando ha visto scappare Mohorič, che in discesa sotto il temporale e con l'asfalto sporco di detriti sembrava avesse accelerato su una moto, Mohorič distanziava il gruppo nel rettilineo scendendo con quella leggerezza che solo lui sa come.
Milan, noncurante di avere il suo compagno davanti, nelle ultime centinaia di metri ha fatto partire una lunghissima volata maltrattando bici e avversari, che se avessero voluto gli organizzatori avrebbero potuto anche segnare la vittoria per distacco.
Non ha esultato e mica per qualcosa: subito dopo il traguardo si è rivolto, con quella sua faccia da bambino (ma in effetti lo è, e su quel corpo gigantesco fa ancora più impressione) e ha chiesto con la massima sincerità al suo massaggiatore: "ma ho vinto, io?". Non se ne era accorto.
Poi ha dato un pugnetto contro delle barriere di protezione, si è messo le mani sul casco incredulo, non riusciva a stare fermo mentre la pioggia continuava a scendere incessantemente sul traguardo di Ludbreg, città considerata "il centro del mondo" e molto banalmente ieri il centro del mondo di Jonathan Milan.
Per Consonni e Milan la gamba in vista del mondiale sembra decisamente buona, sarà forse quell'aria di pista che si inizia a sentire nelle gambe e nella testa.


Il bello e l'attimo

È vero, oggi qualcuno con gli occhi da tifoso potrebbe parlare di delusione, potrebbe dire "che peccato!" - sì "che peccato" lo potremmo dire anche noi - ma oggi celebriamo il bello. È vero, tre secondi sono niente, fanno male, più a loro che a noi, ma oggi è sceso in strada anche il bello.
Guazzini, Cecchini, Longo Borghini che non sono solo armonia e musicalità in quei loro cognomi in rima e ritmo, ma il bello è la cadenza che mettono in strada, nella cronometro a squadre mista.
La tattica studiata nei dettagli, la potenza: a tutta nella parte finale, veloce, tecnica. Peccato, sì per quei tre secondi, ma va così, nonostante una prova che li ha portati a guadagnare diversi secondi alla Svizzera, ma non quanto bastava per vincere l'oro, tanto quanto bastava per vincere un argento: un argento che è bello lo stesso.
E va così, anche perché cambiamo punto di vista e pensiamo a Stefan Küng: quanto bello è stato finalmente vedere mentre si scrolla di dosso per una volta quei pochi secondi di ritardo che finalmente diventano di vantaggio? Tre secondi che sono un attimo e lui contro quegli attimi ci ha sbattuto per una carriera intera. È vero c'è qualcuno che sostiene come questa gara valga poco o non sia interessante (noi siamo dello schieramento opposto: a noi la cronometro a squadre mista piace un sacco! ), ma nei panni di Küng godiamo per quell'attimo - e chissà che gli serva anche per spostare un po' di quella magia e farne qualcosa di ancora più grande domenica.
Un attimo, come direbbe il Groucho inventato da Tiziano Sclavi: "Un attimo è il tempo che intercorre tra lo scattare del semaforo verde e l'idiota dietro che suona il clacson". Sì, un attimo è davvero poco, anche nel ciclismo.
Il bello oggi a Wollongong non era certo il tempo, ma lo erano le curve prese a tutta che ogni volta ti lasciavano il respiro in gola. Per un attimo, prima di vedere i corridori lanciarsi come degli elastici.
E oggi lo celebriamo il bello, il bello contro l'attimo, come quello che passa tra la partenza della frazione maschile olandese e la catena che si incastra e costringe Mollema a fermarsi; il bello contro l'attimo come quello che passa invece tra la partenza della frazione olandese femminile e la caduta di Annemiek van Vleuten che ne compromette definitivamente la gara. E non c'è stato bello nel non poter vedere gli olandesi giocarsi le proprie carte. Ma va così.
Il bello è quello di Bissegger - anche se il casco è così brutto - Schmid, Küng che danno, al tempo delle ragazze, Reusser, Koller e Chabbey, quel poco che bastava per vincere e loro resistono per quei tre secondi, per quell'attimo.
Il bello è vedere come il movimento femminile italiano crea talento, perché Guazzini, anche oggi con un passo da prima della classe, è talento, e anche lei ci farà divertire, rendendo bello ciò che a noi piace del ciclismo. Non solo per un attimo.


A Wollongong riapre l'ufficio facce

È una danza con diversi attori. Diversi balli per tutti i gusti. Cambia da corridore in corridore, da posizione a posizione. Sembrano, quei corridori, lo abbiamo detto più volte, esseri arrivati dal futuro che fanno un tutt'uno con la bicicletta, metà uomini e metà mezzo meccanico e dove forcelle, manubrio, ruote e pedali sono semplici appendici del loro corpo. Che esercizio assurdo la cronometro!

La prova contro il tempo è questa: un miscuglio di gestione delle forze al millimetro, di posizione aerodinamica, di forza e di cadenza di pedalata, di scelta del rapporto, di sofferenza mentale, di sforzo fisico da portare oltre ai propri limiti per - come nel caso di oggi - quaranta, cinquanta minuti.
Quella di Wollongong, 18 settembre 2022, è qualcosa in più rispetto a tante altre perché in palio c'è una maglia da campione del mondo. E a Wollongong, Australia, 18 settembre 2022, è saltato il banco. Perché? Alzi la mano chi si aspettava Tobias Foss vincitore. Buon corridore, è vero, un Tour de l'Avenir nel palmarès - che arrivò, se non a sorpresa come il titolo di oggi, poco ci manca - un passato prima nel biathlon, dove pareva una promessa, sciava bene e sparava meglio, e poi nella mountain bike dove imparò a guidare oltre i limiti come successe alla Liegi Bastogne Liegi per Under 23 di qualche stagione fa quando si lanciò come un matto in discesa per staccare i due in fuga assieme a lui che poi lo superarono nettamente in volata, e all'epoca, ma anche prima, parlando del ragazzo norvegese si diceva: "Bel corridore, ma per vincere deve arrivare da solo". E più solo che in una cronometro...

La prova contro il tempo di oggi non è solo danza o sorprese, aerodinamica, potenza o cadenza, ma è anche, o soprattutto, una questione di facce: quella di Stefan Küng è incredula, dove la delusione è smorzata dalla fatica; ne trova sempre uno che va più forte di lui, anche se di poco, in linea o a crono non fa differenza: se la sua costanza fosse stimata a un centesimo per piazzamento, Küng varrebbe oro, altro che argento o bronzo.
La crono di oggi è questione di facce, sì: quella di Remco Evenepoel, appena tagliato il traguardo - sarà terzo - quando gli dicono che ha vinto Tobias Foss è tutta un programma. «Chi? Foss?!».

Quella di Foss, da Vingrom, paesino vicino Lillehammer dove qualche anno fa il censimento contava 642 abitanti quasi equamente diviso tra maschi e femmine, è quella di un incredulo campione del mondo a cronometro: tra i professionisti aveva vinto solo a casa sua in Norvegia; quella faccia sarebbe utile da studiare per capire cosa c'è dietro - e magari quale fede - ma per farlo dovrebbe riaprire l'Ufficio Facce di Viola, Cochi e Renato. Quella faccia è un campionario di incredulità, di dubbio, di piacere, di lacrime.

Poi alla fine tolte quelle facce e gli occhi piccoli incastrati in un viso da bambino, gli resta una medaglia d'oro sul collo e una maglia iridata che porterà fino all'anno prossimo. Mica male Tobias Foss, nuovo campione del mondo della cronometro.


«È stata dura?»

Intorno alla bocca, Giosuè Epis ha un segno che pare un principio di disidratazione. Subito tagliato il traguardo, affannato ma felice, circondato da un gruppo di persone, esclama con un sorriso a pieno volto: «Questa è buona!» lasciando in sospeso il riferimento: la vittoria nella seconda tappa del Giro della Regione Friuli Venezia Giulia, la più importante della sua giovane carriera? Oppure il piacere di scolarsi una bevanda - seppure in versione ridotta - che quando la mandi giù dopo una giornata in bicicletta provoca un benessere difficilmente spiegabile? Non glielo abbiamo chiesto.
Vanno all'attacco in nove, poi diventati otto vedremo, su un percorso che è un su e giù estenuante, durante tutto l'anno, per i ciclisti amatori della zona che spesso maledicono il dover tornare a casa passando per queste strade, sapendo che non c'è un metro di pianura, ma che invece, chi il corridore lo fa di mestiere (o studia per esserlo) beve di gusto come fosse, appunto, la bevanda di cui sopra. Dissetante, ma con le bollicine.
Ha tenuto duro, Epis, racconta a quel gruppo di persone che lo circonda, ma sapeva di poter contare sul suo guizzo veloce; con lui c'era gente navigata - per la categoria - come Zurlo, oppure la coppia piena di talento della Alpecin Devo, Vandebosch e Verstrynge, ma davanti è arrivato lui, con la maglia gialloblù della Carnovali Rime. Questo è ciò che conta.
Subito dopo passato il traguardo di Colloredo di Monte Albano, in provincia di Udine, un rettilineo infinito che tira all'insù, Davide Toneatti sembra quasi spaesato. Si guarda intorno dentro la sua maglia azzurra leggermente diversa dal celeste Astana che indossa in questa stagione su strada: è qui con la nazionale italiana che per l'occasione ha portato cinque corridori tutti provenienti dal ciclocross. Toneatti è un ragazzo della zona, di Buja per l'esattezza, come Milan, come De Marchi per contestualizzare il talento che arriva da un piccolo paese alle porte di Udine, e ci teneva a spiccare e poi a lasciare il segno. In fuga anche lui ci è andato vicino tanto così.
Lo dipingono tutti come puntiglioso, serio, quasi maniacale nel cercare la perfezione. Lo sprint lo vede battuto, ma più che spaesato in verità sta cercando con lo sguardo i suoi genitori che da almeno un'ora e mezza non stavano più nella pelle in attesa dell'arrivo del figlio.
La gioia di Epis, la tranquilla ricerca di uno sguardo familiare di Toneatti, la delusione di Nicolò Buratti, altro ragazzo quasi di casa, Corno di Rosazzo, sempre in provincia di Udine, ma quasi dalla parte opposta.
Indossa la maglia gialla di leader - che passerà sulle spalle di Zurlo - perché ieri sera la sua squadra, il Cycling Team Friuli, aveva dominato la crono che apriva il Giro della Regione Friuli Venezia Giulia (Giro del Friuli, per gli amici e per farla breve) e lui era passato per primo sotto lo striscione del traguardo.
Oggi l'arrivo era perfettamente tagliato sulle misure di un ragazzo (classe 2001) cresciuto per gradi, ora esploso quest'anno e appena uscito da tre vittorie in fila, Poggiana e Capodarco, dure e prestigiose, Rovescalesi. Tre vittorie che indicano perfettamente le caratteristiche di un corridore veloce, resistente, esplosivo.
Davanti in fuga c'era Bryan Olivo suo più giovane compagno di squadra (2003) nel Cycling Team Friuli: altro ragazzo friulano. Talento da coltivare del nostro ciclismo, forte nel ciclocross, fortissimo su pista e - giovanissimo, è un primo anno - alla ricerca della sua dimensione anche su strada.
Un problema meccanico lo ha tagliato fuori dalla fuga e la sua squadra successivamente non è riuscita a chiudere il buco. Ci dicono piangesse a fine gara per la delusione, ma le occasioni non mancheranno per ricamare un palmarès da primo della classe.
La rabbia di Buratti ha gli occhi rossi dalla fatica, ma si dissolve all'improvviso quando si accorge che dietro le transenne ci sono alcuni amici venuti a vederlo correre. «È stata dura?», gli chiedono. Buratti, fa un segno con la testa come dire: "che ci vuoi fare, questo e il ciclismo". Buratti, poi, sorride.