Cosa aspettarsi dalla Strade Bianche
Chiamatelo un po’ come vi pare: ciascuno ha il suo modo. Chiamatelo calcolo scientifico, oppure tifo, malattia, passione, persino common sense. Chiamatela attesa, bramosia o speranza, quella di vedere van Aert, Alaphilippe e van der Poel (scritti in ordine casuale) giocarsi fino all’ultima stilla di sudore la Strade Bianche.
Magari con un attacco sulle Sante Marie (non prima eh, ragazzi, mi raccomando, sennò ce lo perdiamo: inizio diretta tv o streaming ore 13.45 circa), intanto, per vedere che effetto fa sulle gambe degli altri. Fin dove lasciano il segno.
Vedremo chi emerge dalla polvere – o dal fango, se il tempo volge al brutto – e poi, se proprio non ci si vuole giocare tutto salendo verso Piazza del Campo, ecco che tra Colle Pinzuto e Le Tolfe, con quei nomi allegorici che solo in Toscana, il terreno c’è per il colpo risolutivo, e il contorno a ispirare non manca.
Mancherà solo la gente che non è poco anche se ci stiamo facendo la brutta abitudine. E poi: vogliamo riappropriarci del finale più degno e che solo una disattenzione generale – di corridori, di moto e di pianeti male allineati – ci ha tolto al Fiandre 2020? La risposta è una sola ed è ovvia.
Nel 2019 a Siena vinse Alaphilippe, lo scorso anno toccò a van Aert, mentre van der Poel ottenne un quindicesimo posto al termine di una giornata tutt’altro che da van der Poel.
In Belgio, pochi giorni fa, ha sgasato, si è testato, un paio delle follie delle sue, attacchi da lontano, poi piccole scaramucce con gli avversari, scelte strategiche forse non brillantissime nel finale della Kuurne-Brussels-Kuurne e persino un manubrio rotto a Le Samyn, ma, senza ombra di dubbio, pioggia o sole, caldo o freddo, strada bianca ben battuta – come si è visto dalle ricognizioni di questi giorni – oppure più carrareccia, beh domani è il favorito (assoluto) con qualche punto di margine sul francese e soprattutto sul belga che ancora in strada non si è visto in questo scorcio di stagione, ma dicono che in allenamento abbia fatto paura.
Poi certo, la gara non si ferma a loro tre: il cast è stellare e con Pogačar e Pidcock rischia di essere corale. Loro i favoriti a cinque, quattro e tre stelle e poi ci sono gli altri: Van Avermaet, Štybar, Wellens, Kwiatkowski, Fuglsang, Bardet, Madouas, ecc.
Si discute sulla carta, ma le contese non ammettono regole né copioni già scritti e quella carta qualcuno potrebbe anche prenderla e stracciarla, tanto più in una corsa così. Vedremo.
E gli italiani? Generazione di corridori che hanno maturato una sorta di intolleranza a ghiaia, balze e biancane senesi. Unico vincitore Moreno Moser, figliol prodigo di un’intera discendenza e che poi ha preferito fare altro. Pochi pure i podi, anche quando la corsa era appena nata (era il 2007, vinse Kolobnev) e i nomi alla partenza non erano quelli dei migliori come accade oggi, o meglio domani. Lo scorso anno gran bella gara di Formolo e Bettiol, ma non bastò: d’altronde come si poteva battere van Aert? E andare forte a loro potrebbe non bastare nemmeno domani. Gli altri: Ballerini potrà tenere i migliori sugli strappi? Difficile. Brambilla può essere un nome spendibile per un piazzamento a ridosso del podio; da Rosa, Conca e De Marchi ci si aspetta più un attacco da lontano, come i due fratelli Bais che vederli in fuga assieme sarebbe come una saga familiare. Assenti per diversi motivi possibili protagonisti: Nibali, Ulissi, Moscon, Bagioli e Trentin – così come Sagan e Schachmann. Complesso immaginarsi il tricolore sventolare in alto, salvo un miracolo che di questi tempi è meglio riservare per altro.
IL PERCORSO
Pittoresco, piuttosto e anzichenò, come esclamava il Lord H.G. Wells di Dylan Dog. Da Siena a Siena, 184 chilometri di corsa, circa. 63 di sterrato suddivisi poco democraticamente in 11 settori e finale sullo strappo che porta in Piazza del Campo. Primo punto chiave Sante Marie (o Settore Fabian Cancellara) e il lungo tratto in su e giù una volta scollinati con ancora diverso sterrato e qualche curva difficile.
Per dare alla corsa un credito ulteriormente leggendario di quello che si è costruito in sole 14 edizioni ci vorrebbero quei 50 chilometri in più, inutile nasconderlo. A dividere ulteriormente quelli forti da quelli ancora più bravi. Corsa che, tuttavia, premia corridori completi, che siano grangiristi o classicomani, pietraioli o ardennisti: non fa differenza, qui negli anni sempre – più o meno – vincitori ben attrezzati.
I FAVORITI DI ALVENTO
⭐⭐⭐⭐⭐ Alaphilippe, van der Poel
⭐⭐⭐⭐ Van Aert
⭐⭐⭐ Pogačar, Pidcock
⭐⭐ Fuglsang, Van Avermaet, Bardet, Wellens, Kwiatkowski, Brambilla, Madouas, Mollema
⭐ Formolo, Ballerini, Venturini, Vendrame, Stybar, Bettiol, S.Yates, , Almeida, Küng, Mohorič, Asgreen. Clarke, Bernal
Foto: Paolo Penni Martelli
Deserto di ghiaccio
Questo Jonas Vingegaard va davvero forte in salita. Magrolino, non del tipo troppo tisico di quelli che ti danno l’impressione che se mollano la bici potrebbero volare via da un momento all’altro, ma con quella magrezza da scalatore. Faccia pulita da sbarbato, con occhi che sembrano ogni volta dire “ma che ci faccio qui?”. Sia chiaro, che sia bravetto non ce se ne accorge di certo su una salita – che poi non è nemmeno una Salita è più una “salita” – come quella che l’altro giorno portava verso i 1489 metri di Jebel Jais all’UAE Tour. Una ventina di chilometri con strada larghissima, lunghissima, liscissima; un asfalto che sembra una pista da ballo o forse persino uno di quei posti che tanto piacciono a lui, come quando si fotografava il giorno della partenza da casa con occhi che non riuscivano a nascondere un velo di malinconia, pronto per la prima gara dell’anno. “Sto per lasciare la mia bellissima casa ghiacciata per la prima corsa della stagione” scriveva, immortalandosi con sullo sfondo uno specchio d’acqua completamente congelato.
Ora, è vero che l’altro giorno sembrava un po’ spaesato sulle ultime “rampe” – doveroso continuare a mettere le virgolette – , ma quando arrivi dalla Danimarca e ti ritrovi a vincere in mezzo al deserto è innegabile che faccia un certo effetto. Anche se poi, altro inciso, i corridori sono viaggiatori, avventurieri, marinai; salpano di mare in mare o meno romanticamente vengono sballottati di scalo in scalo, quindi chi più di loro è abituato a conoscere posti completamente diversi tra di loro? Ma torniamo al senso della strada: guardate chi si mette dietro, Vingegaard, per la sua seconda vittoria in carriera: Pogačar, Adam Yates, Higuita (il ciclista), Almeida (idem), Kuss – che potrebbe iniziare a farsi venire i primi complessi, a furia di tirare per gli altri non riesce ad avere spazio nemmeno quando dovrebbe essere lui il capitano.
Vingegaard riprende Lutsenko a poche centinaia di metri dall’arrivo ( superato da Vingegaard, gli occhi di Lutsenko leggermente a mandorla si sono fatti ancora più aspri) stacca tutti e vince. Al Tour de Pologne di due anni fa, prima vittoria in carriera, dietro di lui: Sivakov, Hindley, ancora Higuita il ciclista, Majka. Insomma niente male.
Già, questo Jonas Vingegaard non è davvero niente male. Che va forte in salita lo aveva già fatto vedere lo scorso anno sull’Angliru alla Vuelta; il gruppo faticò a stargli dietro, c’è una foto in cui si vedono i suoi occhi, adesso spiritati più che spaesati, con Kuss (di nuovo lui) che per stargli a ruota si esibisce in smorfie facciali e fatica extra. A ruota del danese (di Hillerslev, nato nel 1996) rimasero una decina di corridori, i migliori in classifica. «Potevo andare anche più forte in realtà. Avevo gambe piene e ancora gas. Avessi fatto il ritmo che mi sentivo di fare probabilmente in gruppo sarebbero rimasti la metà. Ma sapete, dall’ammiraglia mi han detto di tenere quell’andatura» dirà a fine corsa.
Ama il gelato – e a chi non piace – il manzo alla Stroganoff con purè di patate e soprattutto il Badminton. Che per un danese è come per noi seguire il calcio. In Danimarca è uno sport popolarissimo, tanto che spesso si trovano a dominare le principali manifestazioni internazionali o comunque ad andarci vicino. «Non avessi fatto il ciclista, avrei fatto Badminton, ma probabilmente quando smetterò di pedalare, mi ritroverò con una racchetta in mano» così si racconta. E se deve sognare? Amstel nel 2021, magari come leader della Jumbo-Visma, più avanti capitano nei Grandi Giri mentre impara il mestiere da Roglič che definisce “bravo e simpatico” e poi vorrebbe tornare ad Anfield Road per vedere il “suo” Liverpool. Magari quel giorno avrà una faccia meno spaesata e non ci spiacerebbe nemmeno qualche chiletto in più.
Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021
Ma un Giro d'Italia, quando lo vinceremo di nuovo?
Per ovvi motivi il 2020 è stato un anno differente dal solito, ma per quanto riguarda il valore del ciclismo italiano nei Grandi Giri, è proseguita la costante tendenza degli ultimi anni che oscilla verso il basso. Dato che la narrazione ciclistica dalle nostre parti ruota perlopiù attorno ai risultati nelle grandi corse a tappe, abbiamo deciso di prendere in esame il movimento italiano nella sua massima espressione agonistica proprio in virtù di quello che è stato ottenuto nelle gare di tre settimane.
È vero: le grandi classiche o i mondiali, le vittorie nei traguardi parziali o nelle volate, hanno fascino e importanza, ma la tradizione vuole che ci si scaldi principalmente per le imprese in maglia gialla di Nibali, per gli scatti in salita di Pantani o Chiappucci, per la maglia rosa di Gianni Bugno, senza nulla togliere ai buoni risultati raccolti negli anni nelle altre corse. E non è solo una questione di tradizione, è anche il termometro dell’espressione di una scuola, quella del ciclismo italiano, che fino a qualche anno fa esprimeva diversi corridori di valore assoluto e che ora per vari motivi si è vista superare da altre nazioni.
Giro d’Italia: cartina tornasole del movimento
Nella Corsa Rosa della passata stagione è arrivato il peggior risultato di sempre per i corridori italiani in classifica generale con il settimo posto di Nibali – tra i primi dieci anche Masnada, nono. Oltretutto è stata una corsa decimata prima dalle assenze e poi, strada facendo, dai ritiri di alcuni possibili protagonisti.
Mai, prima di allora, il migliore italiano in classifica si era trovato così in basso. E non va dimenticato come il risultato peggiore, prima di quello arrivato nel 2020, fosse stato il quinto posto di Pozzovivo nel 2018: due risultati intervallati dal podio del solito Nibali nel 2019, unico italiano nei dieci in quell’edizione: alle sue spalle il migliore azzurro fu Formolo, quindicesimo. Se ci spostiamo ancora di due anni: nel 2016 vinse Nibali, ma il migliore dietro il siciliano fu Visconti, tredicesimo, risultato acquisito principalmente grazie alle fughe.
Usando la “corsa di casa” come cartina tornasole del ciclismo italiano, non possiamo derubricare il cammino dell’ultima stagione come un’annata difficile o un incidente di percorso; si tratta più di una tendenza in voga ormai da tempo e con le sue eccezioni, vedi il 2017. Quell’anno, oltre al podio di Nibali, terzo, interessanti furono il sesto di Pozzovivo e il decimo di Formolo, in un’edizione di buon livello, in quanto a concorrenza internazionale, di sicuro tra le migliori degli ultimi vent’anni di Corsa Rosa.
Nelle altre occasioni in cui il ciclismo italiano non metteva nessun suo rappresentante sul podio si era riuscito a piazzarlo a ridosso: quarto Scarponi nel 2012, stessi risultati per Chiappucci nel 1995 e Giupponi nel 1988. Andò peggio, come nel 2018, nel 1987: quinto Giupponi, ma subito alle sue spalle Giovannetti, sesto.
E per trovare un risultato simile bisogna scavare negli annali e scorrere indietro fino al 1972: ancora nessun italiano sul podio, né ai piedi. Il migliore? Panizza, quinto, nel Giro dominato da Merckx. Quella però fu la prima volta in assoluto senza italiani sul podio dopo ben cinquantaquattro edizioni. Per l’epoca non fu che un’eccezione. Il biennio ’87-’88, invece, resta la prima e unica volta di due Giri consecutivi senza un rappresentante del ciclismo italiano tra i primi tre – l’impressione è che, se potessimo osservare il futuro prossimo nella sfera di cristallo, un destino simile si potrebbe prefigurare per il biennio 2020-2021, salvo exploit al momento difficilmente prevedibili.
Nei due Giri del 1987 e del 1988, nonostante le indubbie qualità di Giupponi, che dopo i due quarti posti sarà secondo nel 1989, si viveva un momento di transizione. Si era pressoché chiusa l’epoca di Moser e Saronni (un po’ prima quella di Battaglin e di uno dei più grandi incompiuti del nostro ciclismo, Baronchelli) e si stava per aprire quella di Bugno, Chiappucci e Pantani – senza dimenticare Gotti che vinse due Giri in chiusura di secolo – per poi arrivare velocemente negli anni duemila ai successi nella Corsa Rosa di Garzelli, Cunego, Simoni, Di Luca, Savoldelli e Basso.
Proprio oggi, come a fine anni ’80, stiamo invece vivendo un cambio generazionale, anche se il mondo ciclistico è decisamente mutato e non solo dal punto di vista tecnologico. Muta la sua geografia e il peso specifico del movimento italiano, e oggi appare più difficile trovare da subito la svolta come avvenne negli anni ’90, dove, senza addentrarci in altri – spinosi – argomenti, l’Italia del pedale conobbe alcune delle vittorie più memorabili della propria storia.
Anni duemila: un contesto particolare
Nelle edizioni degli anni duemila del Giro, gli italiani vincevano, dominavano, ma i loro avversari non rappresentavano certo l’élite del ciclismo internazionale – per usare un eufemismo. Spesso gli sconfitti erano passisti dal profilo non di primissimo piano per una corsa a tappe, vedi Honchar, Hamilton o Gutierrez, oppure erano giovani speranze come nel caso di Popovych o Andy Schleck. I vincitori italiani di quelle edizioni erano corridori di grande spessore, non lo mettiamo in dubbio, ma inseriti in un contesto sempre più tourcentrico e dove il Giro veniva perlopiù relegato a gara di secondo piano – rispetto al Tour – e il meglio del ciclismo dei Grandi Giri si dava appuntamento fisso oltralpe un mesetto più tardi. E difatti i corridori italiani facevano incetta di podi e vittorie “tra le mura amiche” salvo poi essere un piatto poco più sostanzioso di un contorno – all’infuori di Basso – in Francia.
E in Francia Savoldelli vinse una tappa (nel 2005) e corse persino come gregario di Armstrong, ottenendo un venticinquesimo posto come risultato migliore, mentre Simoni rimbalzò tutte le volte che provò a testarsi al Tour, salvo conquistare un prestigioso successo di tappa nel 2003. Il suo miglior risultato in classifica fu il diciassettesimo posto l’anno successivo.
Garzelli non fece mai meglio di un quattordicesimo posto nel 2001, invece Cunego mostrò nella Grande Boucle solo sprazzi del suo enorme talento: undicesimo nel 2006 quando conquistò la maglia bianca al termine di una lotta serrata con il carneade tedesco Fothen, mentre nel 2011 arrivò sesto al termine di una corsa di grande livello e che all’epoca veniva persino criticata e sottovalutata e che oggi, visti i risultati dei suoi eredi, si arriva a rimpiangere.
Infine, per restare ai vincitori del Giro d’Italia degli anni 2000: Di Luca partecipò a due Tour e si ritirò entrambe le volte, ma per caratteristiche l’abruzzese, discorso doping a parte, non era del tutto adatto alle corse a tappe e si reinventò uomo da tre settimane solo in un secondo momento.
E arrivarono così la bellezza di undici successi consecutivi al Giro, dal ’97 di Gotti al 2007 di Di Luca, fino al 2008 quando sulle strade italiane si presentò, per vincere, uno dei più forti corridori in assoluto della storia recente: Alberto Contador, che si ripeté poi nel 2011 – successo poi revocato – e nel 2015. Mentre resta emblematico e spartiacque dei Giri d’Italia successivi, quello del 2012. Ci fu un podio tutto straniero ma occupato per due terzi da corridori che mai più avrebbero ottenuto un risultato simile e né lo avevano sfiorato prima: Hesjedal (primo) e De Gendt (terzo). Spartiacque perché fu un Giro di non eccelso livello dal punto di vista della partecipazione, però, a differenza di quello che succedeva qualche anno prima, l’Italia non riuscì a vincere, né a piazzare un corridore sul podio nonostante la presenza dei maggiori esponenti del nostro ciclismo delle corse a tappe di quegli anni: Scarponi, Basso, Cunego e Pozzovivo – pur se tutti e quattro in momenti differenti della loro parabola. Tutti i migliori italiani presenti tranne Nibali, che da par suo ottenne il suo primo podio al Tour. Si affacciarono a quel Giro 2012 corridori all’epoca più o meno giovani e che potevano rappresentare nell’immaginario il futuro per le corse a tappe: Brambilla che chiuse tredicesimo e Caruso ventiquattresimo. Cambieranno, però, gli obiettivi, i risultati e i ruoli in carriera e nessuno di loro sarà mai capace di lottare non solo per la maglia rosa, ma nemmeno per un posto vicino, trasformandosi in corridori con altre caratteristiche e prospettive.
Nel decennio appena trascorso (2011-2020) un solo corridore ha conquistato a tutti gli effetti la maglia rosa finale, Nibali, vincitore nel 2013 e nel 2016. E a rendere ulteriormente pesante lo storico degli italiani ecco che solo altri due atleti negli ultimi anni sono riusciti a salire sul podio oltre al siciliano: Scarponi nel 2011 – tempo dopo gli fu attribuito il successo di quel Giro per la squalifica di Contador – e Aru nel 2014 e nel 2015.
Ed è pesante proprio il confronto tra i primi due decenni degli anni 2000. Tra il 2001 e il 2010 il ciclismo italiano ha portato a casa otto Giri su dieci, lasciando per strada solo quelli del 2008 e del 2009 con 19 podi, ottenuti da 12 corridori diversi, su 30 disponibili. Dal 2011 al 2020 invece tre successi se vogliamo considerare anche quello assegnato a tavolino a Scarponi e 8 podi, ottenuti da 3 corridori, su 30. È vero che in questi anni è aumentata la concorrenza straniera, ma allo stesso tempo è diminuita la potenza di fuoco di quella italiana. Ed è emblematico in questo il Giro del 2020, dove, a un parterre non esagerato per la lotta al podio, l’Italia non è riuscita a opporre alcuna controparte.
Tour e Vuelta
Se volessimo invece in breve considerare anche le altre due corse a tappe, si parla, anche a livello storico, di cifre assolutamente differenti, come se trattassimo un altro tipo di esercizio: dal ’65 a oggi sono tre le vittorie finali al Tour con Gimondi, Pantani e Nibali, e sedici podi con lo stesso Gimondi, Balmamion, Motta, Bugno, Chiappucci, e ancora Pantani, Basso e Nibali, mentre alla Vuelta i successi sono sei in tutta la storia, con quelli ottenuti negli anni 2010 da Nibali e Aru. E proprio per questo motivo, per chiarire meglio le difficoltà, occorre principalmente parlare della corsa di casa, quella che più di ogni altra riscalda il sentimento popolare italiano.
Carta d’identità e faticoso cambio generazionale
Fatti un po’ di numeri facciamo i nomi. Intanto identifichiamo subito nell’età avanzata dei protagonisti uno dei problemi che affronteremo anche in questo 2021 e poi successivamente nel 2022, salvo l’improvvisa esplosione di qualche interessante talento – che per inciso c’è. Nibali compirà 37 anni a novembre, Pozzovivo 39, eppure sono loro due i corridori che hanno ottenuto i migliori risultati nelle ultime stagioni. Pozzovivo, oltretutto, con una serie di infortuni anche abbastanza gravi che ne hanno condizionato il rendimento.
Gli altri corridori che andremo a nominare, per motivi diversi, non danno garanzie per un successo finale, per un podio o qualcosa di molto vicino ad esso. Eppure sono quelli che nell’ultima stagione hanno ottenuto i risultati migliori alle spalle del siciliano della Trek-Segafredo. Sono tutti professionisti di caratura importante, non c’è dubbio, ma pare difficile immaginarli a raccogliere l’eredità del corridore messinese.
E i perché vanno ricercati non solo nell’elevata competizione che anno dopo anno si sta facendo sempre più serrata e che coinvolge elementi di diverse nazioni, ma anche nel ruolo che i corridori italiani ricoprono all’interno dei propri team, e che a lungo andare ne condizionano la possibilità di potersi esprimere per la vittoria, modificandone le prospettive.
È il caso di Damiano Caruso, corridore di talento, ma da sempre votato alla causa altrui. Diciamocelo francamente: un conto è essere abituati a lottare per un successo o per un podio, oppure crescere per gradi con l’obiettivo di svettare poi nelle parti alte della classifica; un altro discorso è passare una carriera compiendo grandi sforzi in aiuto ai propri capitani e poi, nel momento della disputa decisiva, sfilarsi andando del proprio passo al traguardo. L’abitudine al successo, facendo il gregario, manca.
Il siciliano, classe ’87, ha fatto le sue scelte di carriera, più che opportune, ovvero mettere le sue grandi qualità a disposizione dei propri capitani e nonostante tutto ha raccolto risultati di prestigio. L’ultimo in ordine di tempo è forse il più interessante: 10° al Tour de France 2020, sebbene esemplare nel suo lavoro in appoggio al capitano Landa. Nonostante la sua affidabilità, tuttavia è difficile immaginarcelo capitano da un giorno all’altro e pretendente al podio da qui alle prossime stagioni. Certo manca la controprova, ma cosa sarebbe potuto diventare Caruso se si fosse messo in proprio? Non lo sapremo mai.
C’è poi Fausto Masnada: il secondo migliore italiano in un Grande Giro nel 2020. È un classe ’93, ha una carriera davanti, e il Giro di pochi mesi fa è stata la sua prima vera prova con ambizioni di media classifica. Se a grinta Masnada non è secondo nessuno, il bergamasco pare voglia ripercorrere le orme di Caruso. «Mi rivedo molto in Damiano Caruso» racconta lui stesso ai microfoni di Giada Gambino su Bici.pro «Credo sarà proprio questo il mio ruolo nei prossimi anni».
Masnada è un attaccante nato, come Caruso si difende bene in salita, ma non ai livelli dei migliori in assoluto; come Caruso vince poco – anche se al momento ha raccolto qualcosa in più. Come Caruso ha ottenuto una bella top ten nel 2020 pur avendo sgobbato come un forsennato per aiutare il suo capitano al Giro. Anche per lui, almeno sulla carta, si prospetta un 2021 nel quale lo vedremo ancora lavorare per il capitano designato. Gli potrebbe venire incontro la condizione di quest’ultimo, ovvero Evenepoel. Qualora il belga non dovesse dare grandi garanzie di forma dopo l’incidente del Lombardia 2020, e Almeida fosse confermato verso il Tour, magari al corridore italiano della Deceuninck-Quick Step potrebbero toccare davvero i galloni del capitano. Attendiamo curiosi.
A conferma della tesi esposta poco sopra prendiamo in esame la parabola di Nibali: il siciliano dopo anni di apprendistato in maglia Liquigas – attenzione: apprendistato non gregariato – sulle orme di Ivan Basso, è cresciuto progredendo stagione dopo stagione andando a conquistare poi i successi che tutti conosciamo. Certo, quando parliamo di Nibali, parliamo di un grande talento, ma quello da solo, se non coltivato, non basta. Il passaggio da talento a campione passa da tanti piccoli fattori che condizionano la carriera di un corridore. Per lui questi fattori sono stati, oltre alla classe, anche la fortuna di trovarsi al posto giusto nel momento giusto e la bravura di essersi messo in proprio giocandosi le sue chance. E ha funzionato alla grande.
Il caso di Pozzovivo poi, in proporzione al talento, non è così diverso. Il lucano, passato tardi nel World Tour, dopo una lunga militanza con le squadre dei Reverberi, ha (quasi sempre) potuto giocarsi le sue carte e così facendo, dal 2007 al 2020, esclusi i ritiri, solo una volta è uscito dai primi 20 della classifica di una grande corsa a tappe, ottenendo risultati di prestigio e con una certa continuità: sei top ten, tra cui due quinti e due sesti posti tra Giro e Vuelta. E difatti nel decennio appena alle nostre spalle è di sicuro stato il corridore più costante dopo Nibali, anche se gli è sempre mancato l’acuto necessario o quel podio che ne avrebbe coronato la carriera.
Non solo uomini-squadra
Non può mancare Davide Formolo in questo elenco. Il classe ’92 della provincia di Verona dopo essersi testato diverse stagioni come uomo di classifica ha capito che il suo meglio lo potrebbe dare nelle corse di un giorno impegnative – un campionato italiano vinto e un podio alla Liegi e alla Strade Bianche non mentono, così come le cavalcate trionfali in una tappa del Giro del Delfinato 2020 e in una della Volta a Catalunya 2019.
Jonathan Vaughters nel 2015, a inizio stagione si sbilanciò: «Davide Formolo vincerà sicuramente un Giro d’Italia» disse alla Gazzetta dello Sport. E quelle aspettative sono diventate un po’ la croce della narrazione attorno al corridore. Quell’anno Formolo vinse una tappa al suo esordio al Giro con quello che, secondo noi, è il suo vero marchio di fabbrica, la fuga da lontano su percorsi misti. Ha grinta, tempismo, tiene bene in salita e quando lanciato all’attacco sa far valere un motore di livello: tutte caratteristiche ideali per trasformarsi definitivamente in un corridore capace di togliersi quelle due tre grosse soddisfazioni a stagione, piuttosto che navigare a vista per un ottavo, decimo posto nella classifica generale di un Grande Giro. Fino a oggi a Formolo, che ha tuttavia ottenuto alcuni piazzamenti in classifica tra Giro e Vuelta, ma senza acuti, è sempre mancato quel salto di qualità in una corsa a tappe di tre settimane, a causa magari di una giornata storta dove perdeva tempo in classifica, oppure a prestazioni a cronometro non in linea con i più forti. Tutto questo con buon pace della profezia di Vaughters.
Su Fabio Aru, invece, superfluo spendere più parole di quelle che si leggono in giro ed è doveroso quindi ampliare il discorso che lo riguarda a tutta la sua generazione di corridori. Quelli nati tra il 1989 e il 1991 – con l’eccezione di Roglič e in attesa di capire Quintana – che sembrano stati spazzati via dal nuovo che avanza. Aru, come Pinot, Bardet, Barguil, Chaves, mettiamoci dentro il Dumoulin delle ultime stagioni, Landa, corridori con un ottimo palmarès, ma che per un motivo o per l’altro si guarderanno indietro un giorno con l’impressione di essere stati quasi degli incompiuti. Certo è che il sardo tra 2014 e 2017 fu capace di risultati di enorme prestigio: vince la Vuelta 2015, due podi al Giro (2° nel 2015 e 3° nel 2014), un 5° posto sempre alla Vuelta (2014), un 5° posto al Tour (2017), con tanto di vittoria di tappa e maglia gialla indossata, mentre nel 2016 sempre in Francia, saltò per aria il penultimo giorno di corsa mentre si trovava sesto in classifica a poco più di un minuto e mezzo dal podio di Quintana. Sembra passata un’epoca per noi, figuriamoci per lui che ancora annaspa alla ricerca di un se stesso in bicicletta che forse mai più ritornerà.
Giulio Ciccone è il più giovane tra i corridori sin qui nominati (è un dicembre ’94): chi scrive stravede per l’abruzzese ma giudica il tentativo di puntare su di lui per le corse a tappe al momento azzardato. A costo di prendere una grossa cantonata: Ciccone dovrebbe confrontarsi con i migliori corridori nelle corse di un giorno impegnative – tagliatissimo per certi percorsi come il Lombardia, il trittico delle Ardenne, ma anche diverse semi classiche del calendario – e abbandonare le velleità di alta classifica.
Potrebbe prendere le misure nelle brevi corse a tappe provando fughe e vittorie parziali, e poi nei Grandi Giri essere libero di esprimere l’indole battagliera senza restare ingessato per un piazzamento da primi dieci posti, ma non da podio. Felici di essere smentiti: ma a ora non riusciamo a immaginarci Ciccone capace di lottare per una vittoria (o un podio) al Giro o alla Vuelta, figuriamoci al Tour. Eventualmente ne avremo la contro prova al Giro di quest’anno. La concorrenza è spietata, il livello nelle ultime stagioni si è alzato notevolmente e Ciccone appare un gradino sotto rispetto a corridori come Bernal, Pogačar, Roglič, Carapaz, Mas, persino paradossalmente a un Evenepoel che un Grande Giro non lo ha mai corso, ma anche ai vari López, Thomas, Sivakov, Geoghegan Hart, Landa.
Infine si potrebbe inserire in questa lista anche Mattia Cattaneo per il quale però vale un discorso differente da tutti gli altri. È l’ultimo vincitore italiano del Giro Under 23, passò subito nel World Tour in maglia Lampre ma più che le caratteristiche, le opportunità o i ruoli in squadra a frenarne l’ascesa è stata tutta una serie di problemi fisici. Dopo l’ottimo ultimo anno in maglia Androni (2019), Cattaneo si è guadagnato un contratto con la Quick Step provando, dopo un anno complicato dall’ennesimo infortunio, a fare classifica alla Vuelta. Ha chiuso al diciassettesimo posto, migliore degli italiani, sfiorando un paio di volte il successo di tappa. Difficile, però, oggi, a trent’anni già compiuti, immaginarlo in un ruolo differente dal gregario – seppur di lusso.
I motivi della crisi
Ma non si parla solo di numeri o di nomi. Detto di come influenzino negativamente i risultati i ruoli in squadra e la scarsa abitudine a lottare con l’eccellenza nelle fasi importanti, un’altra causa è che, banale a dirsi, si vive un momento storico sfavorevole. Un momento in cui, dopo Nibali, manca un campione assoluto – e sottolineiamo campione, non talento – capace di tenere testa ai migliori. Un momento in cui il movimento ciclistico italiano non è riuscito a dare alla luce uomini da grandi corse a tappe in grado di scontrarsi con tutta una generazione di corridori stranieri.
La forte concorrenza nei Grandi Giri che arriva dagli paesi stranieri è un altro fattore: non sono più le solite tre, quattro nazioni a dominare il ciclismo. E difatti, ma non è questa la sede giusta per parlarne, non è che altre nazioni “storiche” come Francia e Belgio se la passino meglio rispetto a noi, anzi. Anche se, soprattutto dal Belgio, stanno arrivando talenti che prima o poi saranno capaci di sfatare alcuni tra i tabù più lunghi della storia del ciclismo – il loro ultimo Grande Giro vinto risale al 1978. Sono tornati gli olandesi e arrivano in vetta con costanza inglesi e australiani, sloveni, colombiani ed ecuadoriani, tutte nazioni che dicono la loro nel nuovo assetto geopolitico mondiale e dove l’Italia mostra carenze a livello strutturale, con le proprie metodologie di crescita e di avvicinamento al mondo dei professionisti che evidentemente non funzionano più così bene come un tempo. Un po’ come se fossimo rimasti a guardare gli altri crescere cullandoci nella tradizione, convinti che bastasse per fare risultato.
C’è poi una questione che potremmo definire generazionale: i corridori passati negli ultimi anni nella massima categoria, lo hanno fatto dopo aver disputato poche o quasi nessuna corsa a tappe nelle serie giovanili. Questo pone un margine di svantaggio soprattutto nel confronto con i loro coetanei; si effettua il grande salto senza aver mai sviluppato né testato quelle caratteristiche fondamentali per imporsi nell’esercizio delle tre settimane: fondo, resistenza e recupero. E spesso quando ci si ritrova a lottare contro i pari età si prendono sonore sberle.
Nelle ultime stagioni, però, la tendenza si sta invertendo grazie ad alcune squadre dilettantistiche o Under 23 che stanno intensificando la loro attività all’estero in aggiunta al rilancio o alla nascita di corse a tappe nostrane. I frutti non si vedono ora, li vedremo semmai fra qualche stagione.
Davide Cassani, su Cyclingpro, spiegava a fine Giro 2020: «Io credo che, il non avere un dopo Nibali, non è un problema nato oggi, ma le conseguenze di un qualcosa che è mancato anni fa. Mi spiego: dal 2012 al 2016 in Italia, la categoria Under 23 aveva in calendario una sola corsa a tappe, il Val d’Aosta. Il Giro d’Italia giovani ed altre gare a tappe erano sparite. Cosa vuol dire? Che le nostre squadre dilettantistiche, ottimamente organizzate ma in grado solo di gareggiare in Italia, avevano a disposizione un calendario non all’altezza e questo ha abbassato il livello della categoria. Mentre nel resto del mondo i ragazzi correvano a destra e a manca facendo esperienze fondamentali alla loro crescita, noi ci siamo chiusi a correre in Italia. Ma se negli anni ’90 avevamo 7/8 corse a tappe che tenevano alto il nostro livello, in seguito sono sparite ed il nostro movimento ne ha subito le conseguenze. Credo che, anche per questo motivo, non abbiamo, per il momento, il dopo Nibali perché non siamo riusciti a preparare nel modo giusto i nostri giovani nel passaggio al professionismo. E abbiamo perso una generazione di scalatori».
Per diversi anni in Italia difatti era sparito persino il Giro dei dilettanti (con tutte le sue denominazioni e formule, Giro Bio, Giro Under 23, ecc.) fondamentale vetrina di talenti per i giovani azzurri che riuscivano così a misurarsi con i coetanei più forti. Da quando è stato riportato in auge (2017), nessun italiano ha vinto la classifica finale e solo lo scorso anno, con il terzo posto di Colleoni, un corridore di casa è riuscito nuovamente a salire sul podio dopo otto anni – l’ultimo Aru, secondo nel 2012.
Un problema di World Tour
Ci sono poi problemi legati alla mancanza di sponsor e di investimenti che hanno portato all’uscita totale dal World Tour delle squadre italiane. Non è un caso che gli ultimi vincitori di un Giro d’Italia o lo hanno fatto in Liquigas oppure sono cresciuti lì. La Liquigas possedeva una struttura e una filosofia ideale, che ha permesso a un corridore come Nibali di maturare per gradi, senza pressioni esagerate legate al tutto e subito, con un programma da seguire, un contratto a lunga durata e senza il rischio di bruciarsi come spiegato benissimo in questa intervista dall’ex Team Manager Roberto Amadio. Un Nibali cresciuto oltretutto attorno a un capitano di spessore come Basso dal quale ha potuto carpire i segreti del mestiere. La stessa Lampre, l’ultima World Tour italiana, ha visto la parabola completa di un certo Cunego, uno dei più grandi talenti del nostro ciclismo degli anni duemila. L’uscita di scena di queste due squadre è stato un danno che tutt’oggi stiamo ancora pagando.
Si tende a pensare che la mancanza di squadre World Tour sia solo la punta dell’iceberg delle difficoltà del nostro ciclismo, mentre in realtà è proprio da qui che a cascata derivano tutti i problemi. L’assenza di World Tour italiane significa meno corridori italiani che passano nel mondo dei professionisti, ma anche meno attenzione ai corridori italiani, meno ragazzi che hanno la possibilità di misurarsi e di fare del ciclismo un mestiere vero e proprio – non tutti riescono a navigare sino a 27/28 anni tra i dilettanti con un rimborso spese o con i premi gara – significa un effetto domino che porta all’abbandono precoce dell’attività, significa, come fa l’ Uroboro, innescare un processo dove senza un corridore italiano di vertice non si riesce a vendere il prodotto ciclismo e di conseguenza non si raccolgono grandi investimenti. Significa che il ciclismo non viene nemmeno più preso in considerazione come lavoro per il futuro.
Per Giorgio Furlan, attuale tecnico della General Store, squadra Under 23, «Oramai mancano corridori di valore perché il bacino da cui attingere è sempre più in diminuzione, ci sono tante corse in realtà, ma non bastano quelle. In Veneto abbiamo centocinquanta junior: siamo ai minimi storici». Mentre Christian Murro, ex corridore e ora organizzatore del Giro del Friuli dilettanti aggiunge: «Il problema è che gli allievi sono trecento: dove finisce quella metà? Dobbiamo capire perché tutti questi ragazzi smettono».
E poi, come accennavamo, manca un talento di livello assoluto, che deve ancora nascere o non lo abbiamo ancora visto arrivare (e a Ganna per il momento lasciamo fare benissimo quello che sa fare), oppure bisogna coltivarlo fra i tanti nomi interessanti e trasformarlo in campione. Perché bisogna avere la capacità, la pazienza, i mezzi per prendere questi talenti, costruirli e farli crescere. Bisogna dare loro la possibilità di esprimersi e misurarsi con i pari età stranieri.
Certo è che diminuiscono i praticanti, che meno ragazzi vanno in bici e meno si iscriveranno a una società ciclistica. E meno ragazzi che praticano significa meno possibilità di attingere a un bacino dal quale possa emergere un futuro talento. Il giornalista inglese Herbie Sykes in un recente articolo sulla crisi del ciclismo italiano nei Grandi Giri, apparso sul magazine Pro Cycling, riporta alcuni dati che fanno capire qual è la situazione nel nostro paese. «Nel 2019, l’anno in cui British Cycling ha raggiunto 150.000 iscritti, la sua controparte italiana ne aveva 103.124. Di questi, 31.000 hanno affermato di essere giudici di corsa e organizzatori, e circa 41.000 gareggiavano tra gli amatori. L’Italia ha perso il 12% dei suoi corridori competitivi in tre anni, e due terzi del suo gruppo professionistico dal 1999». Sykes si riferisce al 1999, precisamente ai fatti di Madonna di Campiglio al Giro, perché per lui sono un po’ il grande spartiacque della parabola del nostro ciclismo. «La caduta in disgrazia di Pantani provocò un esodo di capitali, corse e interessi» scrive. Uno scotto che paghiamo ancora oggi.
Non è solo un fattore agonistico
Ci sarebbe da analizzare l’esasperazione delle categorie giovanili, ma questo, oltre a coinvolgere tutto il mondo del ciclismo e non nello specifico solo quello italiano, è un argomento che tratteremo un’altra volta. Scavando più a fondo nei concetti, invece, e ribaltando la prospettiva, per Silvio Martinello il problema sta alle fondamenta, nell’educazione e nella cultura. «Alla mancanza di sicurezza che sta minando alla base il movimento» afferma in una recente intervista apparsa su www.bikeitalia.it l’ex campione olimpico su pista. «È un tema centrale: il ciclismo su strada sta attraversando un momento di crisi epocale per via della mancanza di sicurezza sulle strade. Basta guardare le corse giovanili dove il 90% dei partecipanti provengono da famiglie in cui si parla già la lingua del ciclismo, non si riesce più ad intercettare nessuno di nuovo. Più ciclisti per strada significa più sicurezza per tutti e un bacino di utenza più ampio che aumenterà anche la quantità e la qualità degli agonisti. È un concatenamento di fattori che abbiamo già visto altrove in Europa, in Germania o in Gran Bretagna per esempio, dove si è agito sulla sicurezza con determinazione e questo ha comportato anche un miglioramento dei risultati sportivi». Chi di voi, appassionato di ciclismo, manderebbe a cuor leggero il proprio figlio per strada a praticare questo sport? Urge in questo senso un intervento forte da parte delle istituzioni. E a proposito di basi: allargando il dibattito per un secondo, l’impressione è che in Italia lo sport non sia più al centro del discorso. non sia più un fattore di importanza culturale, né politica, né educativa. Magari ci si fa belli quando si contano le medaglie – finché dura – grazie a tecnici preparatissimi, come lo sono quelli del ciclismo, ma è un modo per continuare a nascondere i problemi. A scuola si parla quasi niente di sport, della sua storia e delle sue capacità educative come fosse argomento frivolo e di poco conto, ma soprattutto lo si insegna poco e male, come riportato da questo dettagliato dossier di Maurizio Mondoni.
Che futuro?
Torniamo, per concludere, al lato strettamente agonistico della faccenda. Siamo arrivati a un evidente cambio generazionale. La storia vive di cicli – mai immagine fu più appropriata – e chissà che in questi anni, come successe proprio a fine anni ’80, non possa esserci un passaggio di consegne. Il dopo Moser-Saronni ha visto la velocissime parabola di Visentini e Chioccoli, ma poi ha conosciuto Bugno, Chiappucci, Pantani, Gotti: non servono presentazioni per i nomi citati. Ci sono stati Simoni, Savoldelli, Basso e poi Nibali (e Aru, anche lui protagonista di una parabola intensa quanto rapida). E ora si guarda al futuro per capire chi possa raccogliere l’eredità.
È un contesto liquido: le difficoltà della generazione di quei corridori che adesso hanno dai 25 ai 32 anni circa, potrebbero non essere più le difficoltà di quei corridori arrivati nelle ultime stagioni o che devono arrivare. Grazie al cambio di filosofia di diverse squadre giovanili i volti nuovi del ciclismo italiano sembrano pronti a raccogliere il testimone.
Fra i più interessanti ecco Aleotti, Colleoni, Fancellu, Piccolo e Tiberi. Aleotti è quello che negli ultimi anni da Under 23 ha ottenuto i risultati più incoraggianti. Il secondo posto al Tour de l’Avenir nel 2019, al cospetto del meglio in gara nel panorama internazionale, è una base importante da cui partire, per un corridore che ci viene dipinto dai suoi tecnici non solo come uno dal gran motore, ma come uno con la testa fatta per primeggiare.
Colleoni è stato il migliore italiano all’ultimo Giro Under 23 e, come Aleotti, ha da subito la possibilità di cimentarsi nel World Tour con una squadra importante – Aleotti nella BORA-hansgrohe, Colleoni nel Team BikeExchange. E poi ancora Fancellu, scalatore della EOLO-Kometa, che secondo il suo Team Manager Basso ha tutte le qualità per emergere persino come fuoriclasse del ciclismo.
Tiberi e Piccolo, rispettivamente con Trek-Segafredo e Astana da questo 2021, hanno qualità importanti, ma andranno anche loro fatti crescere con grande calma e per gradi, anche perché, a conti fatti, non hanno ottenuto risultati di rilievo tra gli Under 23 nelle corse a tappe. C’è poi Conca, il quale però sembra, parole sue, voler raccogliere il testimone delle fughe vincenti da De Gendt, nonostante tra 2019 e 2020 abbia ottenuto risultati importanti nella categoria Under 23 in alcune corse a tappe di prestigio. Tra quelli che già stanno correndo tra i professionisti almeno dall’anno scorso, vanno seguiti Bagioli (Andrea) e Covi, che però, nonostante i risultati tra gli Under nelle prove a tappe, sembrano decisamente più tagliati per le corse di un giorno, mentre Conci e Fabbro, dopo qualche stagione di apprendistato, devono ancora dimostrare tutto nei Grandi Giri. Anche se per loro potrebbe valere quel discorso di crescita graduale di cui si parlava prima. D’altra parte, come dice il detto colombiano: non tutte le arance maturano allo stesso tempo.
Certo, per questi corridori lo scontro sarà duro e da essere un buon prospetto a diventare un vincitore del Giro d’Italia ce ne passa. Oltretutto stiamo vivendo uno dei momenti più floridi a livello di competitività nelle corse a tappe. Il livello è altissimo. I corridori appartenenti alla stessa generazione dei giovani italiani menzionati sono Bernal o Pogačar, che hanno già vinto un Tour, oppure Mas o Gaudu che hanno già dato segno di poter lottare al vertice, senza dimenticare Geoghegan Hart o Hindley, primo e secondo al Giro 2020. La strada da fare è ancora molto lunga, probabilmente passeranno anni di risultati ancora peggiori rispetto al 2020. Ma il futuro non possiamo che guardarlo con gli occhi pieni di fiducia.
Foto in evidenza: Gio Auletta / Pentaphoto
Di super tuck e modifiche UCI
In questi giorni l’UCI ha apportato delle modifiche sostanziali rivolte, tout court, alla sicurezza dei corridori in gara. Modifiche attuate nei limiti del possibile e con tutte le difficoltà del caso che ci saranno per chi organizza le corse, ma che cercano di venire incontro ai corridori che esigono, a ragione, che il loro posto di lavoro sia sempre sicuro, ogni giorno di più. Anche se, come vedremo, non tutti hanno accolto favorevolmente i cambiamenti.
Alcune modifiche saranno graduali e per il momento si partirà dal World Tour: si passa dal transennamento dei finali di gara alla segnaletica dei pericoli, dalla protezione di ostacoli lungo il percorso di gara al rifornimento e alla raccolta dei rifiuti, ma non solo (qui, per chi fosse interessato a entrare nel dettaglio, potete trovare tutte le modifiche https://www.uci.org/docs/default-source/rules-and-regulations-right-column/part-ii-road/2-roa-20210401-e-amendments-on-01.04.2021—updated-08.02.21.pdf mentre qui il comunicato ufficiale dell’UCI: https://www.uci.org/inside-uci/press-releases/the-uci-reinforces-rider-safety-and-its-commitment-to-sustainable-development).
Ma quello che sta facendo discutere di più è il divieto delle posizioni in bici definite “super tuck” e, per comodità, “da crono”. La “super tuck”, posizione usata in discesa, con il corpo quasi disteso sul tubo, già adottata da diversi corridori tra gli anni ’80 e gli anni ’90 e tornata in voga nelle ultime stagioni, era già discussa tempo fa e formalmente sembrava essere già vietata, anche se tollerata: “Il ciclista deve normalmente assumere una posizione seduta sulla bicicletta. Questa posizione richiede che gli unici punti di appoggio siano i seguenti: i piedi sui pedali, le mani sul manubrio e il sedere sulla sella” così riportava la regola 1.3.008 . Molti già si stanno chiedendo allora se è vietato scattare in piedi.
Mentre con le modifiche apportate l’8 febbraio si entra più nello specifico: “I corridori devono rispettare la posizione standard definita dall’articolo 1.3.008. Inoltre è vietato stare seduti sul tubo orizzontale e utilizzare gli avambracci appoggiandosi sul manubrio, tranne nelle prove a cronometro”. Dal 1° aprile entrerà in vigore il nuovo regolamento: da un’ammenda fino alla squalifica dalla corsa per chi adotterà questa posizione.
Dunque niente più “super tuck” che, diciamolo francamente, mette i brividi a vederla, emoziona certo, ti dà una scarica di adrenalina, ma è quell’emozione che fa paura. In più uno studio fatto qualche stagione fa dall’Università di Eindhoven che metteva a confronto diverse posizioni in discesa, sosteneva come la posizione, oltre che pericolosa, non fosse di certo la più redditizia: https://www.linkedin.com/pulse/which-cyclist-hill-descent-position-really-superior-froome-blocken/.
Diverso il discorso se dovessimo esprimerci sul divieto della posizione “da crono”, adottata per essere più aerodinamici, nelle gare in linea: quella con gli avambracci distesi sul manubrio per intenderci. Utilizzata soprattutto quando si è in fuga oppure davanti al gruppo a tirare. Qui magari verrebbe forse da sorridere, anche se alla fine chi rischia la pelle sono loro, i corridori, e quindi il nostro giudizio lascia un po’ il tempo che trova. Oltretutto per alcuni è una posizione pericolosa se trovi una buca in strada, una folata di vento che ti sposta all’improvviso o se magari la stai mantenendo pedalando in gruppo.
Tuttavia si presume che alcune di queste modifiche – almeno sulla carta – siano state portate al tavolo delle discussioni proprio dai rappresentanti dei corridori, ma sappiamo come in gruppo vi sia una spaccatura e la nascita di un nuovo sindacato e questo potrebbe avere un peso anche sulle dichiarazioni di queste ore. E difatti per qualcuno il problema è diventato non tanto il cambiamento della regola, ma il fatto che in realtà i corridori non sarebbero stati interpellati.
Difatti Alex Cataford, corridore della Israel Start-Up Nation, sostiene: «Per essere chiari: come membro del CPA non sono mai stato informato di discussioni su possibili divieti su posizioni aerodinamiche. La prima volta che ne ho sentito parlare è stato sui media dopo che le regole sono state ufficializzate».
Mentre secondo Gianni Bugno, presidente del CPA, la responsabilità dei corridori è quella di essere esempi per chi li vede e li emula: «I corridori sono liberi di tenere le diverse posizioni in bici quando si allenano da soli ma non nelle gare quando sono in televisione. Hanno una responsabilità come esempi da seguire per tutti gli altri. Sanno come guidare ad alta velocità nelle gare e sono meno a rischio perché corrono su strade chiuse: le posizioni potrebbero non essere un pericolo per i corridori professionisti, ma lo sono per i giovani corridori e per i corridori occasionali che cercano di emularli».
Guarnieri, corridore sempre attento e pronto a esprimersi quando si parla di sicurezza, scrive sul suo profilo Twitter: «Le modifiche sulle posizioni in bicicletta sono buone» anche se per la verità, al momento, pare uno dei pochi tra quelli che si sono espressi, su questa linea.
Di diverso avviso invece Iljo Keisse, ma anche altri suoi colleghi (De Gendt, Vervaeke, Jungels, tra gli altri, andate a cercarvi i loro messaggi su Twitter e i vari botta e risposta in rete). «Siamo professionisti e pedaliamo ogni giorno. È ridicolo che qualcun altro decida come dobbiamo stare in bici» il parere del belga della Deceuninck-Quick Step. Keisse aggiunge anche che «nessun corridore metterebbe le mani sul manubrio in posizioni pericolose su una strada non adatta». Sempre secondo Keisse: «È assurdo. ognuno dovrebbe decidere da solo cosa è sicuro e cosa no, non servono regole imposte da chi non ha mai corso in bici o che lo ha fatto vent’anni fa».
Nemmeno sulla sicurezza un fronte comune. Le spaccature all’interno del gruppo proseguono e le polemiche non sono destinate a fermarsi nelle prossime ore.
Foto in evidenza: Kei Tsuji/BettiniPhoto©2020
Fem van Empel e la filosofia olandese
Un calcio al pallone non si rifiuta mai, figuriamoci in Olanda, terra dove il calcio assume da un secolo significati persino filosofici. È vero che, come afferma il giornalista inglese David Winner, si iniziò a scrivere di Totaalvoetbal nel 1974, ma le basi furono gettate diversi decenni prima grazie a Jack Reynolds, allenatore inglese che guidò l’Ajax, a fasi alterne, dal 1915 al 1947.
A lui pare si debba una certa impostazione del gioco palla a terra, una struttura di scuola calcio basata sull’insegnamento dello stesso metodo di allenamento e di gioco a ragazzi appartenenti proprio al settore giovanile dei lancieri. Non ultimo, a Jack Reynolds si attribuisce il celebre aforisma calcistico “l’attacco è la miglior difesa”.
Se poi il grande Ajax negli anni ’60 e ’70 perfezionò il metodo e lo strutturò in una vera e propria armonica filosofia di gioco, beh sappiamo tutti chi sono stati alcuni tra i grandi artefici: Rinus Michels e Ștefan Kovács, o come non citare poi Johan Cruijff. La loro idea è arrivata fino ai giorni nostri, fino a Pep Guardiola, il suo più importante (e vincente) rappresentante contemporaneo, catalano di nascita, ma olandese dal punto di vista della filosofia calcistica.
Tuttavia questa è una digressione, concetti semplificati allo stremo – d’altra parte si parla di ciclismo. Un volo pindarico per introdurre la veloce e recente ascesa di Fem van Empel, diciottenne di Sint-Michielsgestel, Brabante olandese, Brabante del Nord, che domenica scorsa ha conquistato il titolo iridato nella prova Under 23 femminile del ciclocross a Ostenda, in Belgio.
Fem van Empel inizia a muovere i primi passi – davvero in questo caso – proprio giocando a calcio, nonostante una famiglia che nel ciclismo si distingue non solo per passione, ma anche per lavoro. Suo zio Ad van Empel è un noto costruttore di bici – le Empella, mezzi sui quali negli anni sono stati vinti diversi titoli mondiali proprio nel ciclocross – ma a Fem, figlia della tradizione descritta sopra, inizialmente piaceva di più giocare a pallone – anche se siamo pronti a giurare che a lei della filosofia del calcio totale e della sua architettura, poteva interessare il giusto. Fino a 13 anni, Fem si misura con i ragazzi, poi, a causa della differenza fisica che si faceva via via più marcata, si adatta a giocare con le sue coetanee.
Leggiadra e talentuosa col pallone tra i piedi e come più tardi lo si scoprì vedendola in sella a una bici, van Empel sfruttava le sue qualità come ala destra del club di Neunen, squadra della piccola cittadina dove Vincent van Vogh visse una brevissima parte della sua breve vita e vi trovò ispirazione per dipingere una delle sue opere più conosciute: “De Aardappeleters”, “I mangiatori di patate”. Neunen, città dove è nato e vissuto anche Steven Kruijswijk.
Van Empel, però, a suo dire si divertiva molto più con le due ruote che col pallone. E difatti la scelta non tarda ad arrivare: a un certo punto doveva decidere se diventare calciatrice, da piccolina sognava di vestire la maglia del Bayern Monaco, oppure iniziare a praticare uno sport che vede l’Olanda come una delle nazionali sportive più forti e dominanti in assoluto. Dopo buoni risultati in mountain bike, nel 2019 si indirizza verso il ciclocross entrando a far parte di quel mondo che oggi vede gente come Alvarado, Betsema, Brand, Worst, Kastelijn, senza dimenticare l’eterna Vos o le altre rampanti emergenti come van Anrooij, Pieterse, van Alphen, Bakker, governare in modo assoluto. Aggiungendoci proprio il nome di van Empel farebbero undici, proprio come una squadra di calcio. Aggiungendoci, poi, quello che fa van der Poel, o il titolo conquistato sempre a Ostenda da Ronhaar davanti a Kamp – altri due olandesi – tra gli Under 23, e la tripletta tra le donne nella prova élite, fanno otto medaglie su dodici totali nel recente mondiale: se questo non è dominio totale figlio di una filosofia vincente, ditecelo voi cos’altro può essere.
Domenica scorsa, mentre tutti aspettavano il duello van Aert contro van der Poel, un dualismo che ha fatto parlare anche il Wall Street Journal e che è stato seguitissimo in televisione sia in Olanda – a dispetto di alcuni match di Eredivisie in contemporanea – che in Belgio, Fem van Empel era una delle favorite nelle gara delle Under 23, ma alla fine poteva essere un nome tra i tanti da pescare in mezzo al mazzo delle pretendenti in arancione. A un certo punto della gara cade con la faccia in mezzo alla sabbia. Si rialza e invece che difendersi, attacca, inizia a macinare, raggiunge e supera le avversarie sulla spiaggia prima di mantenere il distacco necessario a vincere, nel tratto in erba. Quando sta per tagliare il traguardo un sorriso appare finalmente sulla faccia tonda da adolescente, quasi incredula, così acerba da vedere persino spuntare ancora qualche brufolo.
«Il fatto principale» dicono di lei i suoi tecnici «è che avendo cominciato a correre da pochissimo, nessuno conosce i suoi limiti». Un altro nome da appuntarci non solo per il prossimo inverno di ciclocross, ma prima o poi anche su strada. In Olanda la filosofia recente più che al bel gioco sembra virare spedito verso il concetto di vittoria. Almeno sulle due ruote.
Foto: Dion Kerckhoffs/PN/BettiniPhoto©2021
Il suono caldo del ciclocross
Il sottofondo che accompagna ogni evento a Ostenda ci piace immaginarlo con la voce calda di Marvin Gaye. Sembrerebbe quanto mai fuori luogo scomodare il cantante americano, non fosse che qui ci sono diversi ricordi legati alla sua presenza. Trent’anni fa, più o meno esatti, sbarcò da Southampton per cercare redenzione: i debiti lo stavano divorando, come la cocaina; ai ferri corti con moglie e con la Motown – la celebre casa discografica che lo aveva lanciato – Marvin Gaye trovò ispirazione e purificazione proprio in questa città nel nord Europa grazie all’aiuto di Freddy Cousaert, produttore musicale belga.
Chiuso in un piccolo appartamento vicino la spiaggia, osservando la schiuma del mare del Nord e i bagnanti intenti a prendere sole scavando buche nella sabbia per ripararsi dal vento, Marvin Gaye compose una delle sue più celebri canzoni “Sexual Healing”, che gli valse un grammy un anno prima di venire ucciso a colpi di pistola dal padre. Visse il suo momento di pace in questo posto freddo e grigio come solo un luogo affacciato sul mare del Nord può esserlo. Un posto nato per i pescatori, e che pochi chilometri più a sud, a Oostduinkerke per la precisione, vede ancora attiva la pratica della pesca a cavallo di piccoli gamberetti grigi chiamati “rikze garnalen” e che pare siano buonissimi da mangiare con la salsa rosa, oppure pastellati.
A poche centinaia di metri dalla partenza delle prove iridate di questi giorni, all’interno del Kursaal Oostende, edificio simbolo della cittadina belga, campeggia una statua in oro del cantante americano raffigurato mentre suona il pianoforte: è uno dei piatti forti del turismo del luogo e quando si è da quelle parti appare quasi d’obbligo farsi fotografare di fianco a lui, come fosse il Duomo a Milano o il Colosseo a Roma. Oppure, per entrare in argomento: sarebbe come cercare di farsi fare una foto con van der Poel o van Aert.
Schierati in attesa dello start di fronte all’Ippodromo, ecco gli artisti tanto attesi: abbondiamo di retorica, ma non si potrebbe fare altrimenti. D’altra parte: come chiamereste questi funamboli delle due ruote, capaci di guidare con tale tecnica tra i solchi sulla sabbia, abili a sprigionare forza e allo stesso tempo a prestare delicata attenzione nello stare in piedi, o a superare indenni il passaggio sul ponte al 21% di pendenza? O, “quasi come se nulla fosse”, a passare con tale leggerezza dal tratto iniziale della pista in cenere a quello in erba, capaci di scendere e poi di risalire al volo dalle loro biciclette?
Ma: “What’s going on”? Eccolo il caldo ritmo di Marvin Gaye in sottofondo, subito prima del via. Parliamo della corsa: cosa sta succedendo? Succede che Van Aert e van der Poel sono i due attori principali di questo spettacolo. Partono appiccicati e sembra possono esserlo fino alla fine dell’attesa ora di gara. Dopo centottanta secondi sono già da soli. Succede che Mathieu van der Poel è un organo caldo, di quelli che basta toccarlo un attimo per scottarti, mentre van Aert è una gran cassa che picchia sulla sabbia e quando è sul bagnasciuga sembra poter spostare, oltre che il suo avversario, anche le onde del mare. Quelle onde che si infrangono sulle ruote dei corridori e danno al quadro generale un tocco ai confini del reale.
I freni strombazzano a ogni curva come auto in centro all’ora di punta, mentre i due se ne vanno, salutano, non li rivedono più, e dopo un giro hanno già lasciato tutti gli altri distanti a fare un’altra corsa. Dietro Pidcock è un solista in mezzo a un’orgia fiamminga: proverà a rimontare, rimontare, giro dopo giro, per un attimo sembra farcela, sarà quarto alla fine, a un tiro da un incredulo Toon Aerts.
Ma davanti, di nuovo: cosa succede? La temperatura si alza, nonostante il freddo, ma l’atteso testa a testa dura pochi giri. Non si può sbagliare nulla: la sbavatura di uno, lancia davanti l’altro, la caduta di van der Poel sembra mettere le ali a quel ragazzo tutto testa e potenza con la marca di una bevanda energetica stampata sul caschetto.
Sono danzatori sulla sabbia, osano l’impossibile, sbattono sul terreno come se la loro fosse una danza tribale. E al terzo giro la temperatura è bollente. Van der Poel insegue a causa della caduta, van Aert e lì davanti che non si scompone, una sfinge, pochi secondi di vantaggio, poi d’improvviso vacilla. Van der Poel gli arriva sotto a una velocità che definiremmo doppia, quasi tripla avessimo gli strumenti per misurarla. Van Aert ha forato e viene superato dal rivale.
Il belga lo tiene a tiro ugualmente, tornata dopo tornata, dopo solco, dopo barriera, passaggio dopo passaggio verso la meravigliosa galleria veneziana, mentre alle spalle ci si lascia il mare del Nord tinteggiato sempre più di un colore cupo, quasi marrone.
Poco dopo metà gara, ogni piccola azione, ogni piccolo movimento, ogni piccola nota suona a favore dell’olandese; la sua taranta sulla sabbia lo infiamma, le curve sono come il bollente bacio di un innamorato, quello che era solo forza e talento oggi è anche acume e disciplina: otto secondi di vantaggio al quarto giro, tredici al quinto, ventidue al sesto, ventinove al settimo e penultimo.
Ora ci immaginiamo una musica che arriva da qualche parte, un po’ distante, sembra suonare un ritmo caldo: “Brother, brother, brother there’s far too many of you dying”. Accompagna l’ultimo giro di van der Poel, fa da cornice al breve rettilineo finale: van der Poel si inchina sul traguardo, mostra i muscoli, ritto verso un rito che lo porta al suo quarto titolo mondiale. Un successo reso ancora più grande da un grande avversario come van Aert che chiude a trentasette secondi.
P.S. Una postilla sulla divertente gara delle Under 23 femminile andata in scena poche ore prima: vince Fem van Empel, diciotto anni, che solo pochi anni fa giocava a pallone e sognava un giorno di vestire la maglia del Bayern Monaco. Quinta Francesca Baroni: un risultato di spessore, il migliore della spedizione azzurra.
Foto: Dion Kerckhoffs / BettiniPhoto © 2021
Si parte? (Ma si arriva?) - Tra maglie iridate (tre) e superstizioni
Come finisce, tutto prima o poi ha un inizio, logico meccanismo sul quale non serve nemmeno stare troppo a ricamare. Passano, ahinoi, le stagioni, scandite irrimediabilmente dagli eventi sportivi. Domani ci sarà una sorta di incrocio tra strada e cross, una sorta di fine che coincide con una specie di inizio: non chiamiamolo passaggio di consegne per carità, non lo è, ed è anche brutto da dire.
Nella sabbia belga andrà in scena l’atto principale – non quello conclusivo, ma ci siamo vicini – della stagione del ciclocross. Il Mondiale, a Ostenda, in Belgio, con quel tratto in spiaggia dove van Aert e van der Poel possono sprigionare potenza inaudita e più che pensare al gelo che arriva dal mare del Nord si prenderanno a biciclettate nei denti per l’ennesimo atto di una rivalità che parte da lontano nel tempo e che si riversa in strada e nel fuoristrada: il desiderio massimo, ma non diciamolo troppo ad alta voce, per questo 2021, sarebbe vederli contro sul pavè della Roubaix. Magari in una Roubaix (come un sogno) bagnata.
Tre a tre è il conto delle loro maglie iridate (tra gli élite), e, ironia della sorte, al via c’è un altro ragazzo che di titoli ne ha vinti tre, ma che ormai col ciclocross ha poco a che fare, Zdeněk Štybar. I tre oltretutto sono gli unici in gara ad aver vinto il mondiale nella massima categoria. In questa stagione del cross, Štybar, per “gli amici” Štiby, non si è mai visto, ma raccontava nei giorni scorsi di essersi allenato spesso in questo periodo con van der Poel, anche in mountain bike. Un privilegio. Ha aggiunto anche che è al via pagando tutta la trasferta di tasca sua e che invece di portarsi dietro venticinque coppie di ruote come ai (suoi) bei tempi, ne avrà soltanto sette. A proposito di numeri e di numeri tre: esiste una lista di terzi incomodi, anche abbastanza lunga e che difficile possa includere il ceco e lo diciamo con rammarico: stuzzica molto Sweeck su un percorso del genere, Pidcock è uno che sa esaltarsi nei grandi appuntamenti, ma il percorso potrebbe vederlo tagliato fuori, mentre occhio a Vantourenhout che è stato uno dei più continui in stagione.
Tra le ragazze al via oggi, andrà presumibilmente in scena il Festival della Pedalata Olandese, nulla di nuovo, nulla a cui non siamo abituati, chi si veste di arancione ha una certa affinità con le vittorie. Sorte simile domani nella gara delle Under 23, qualche nome extra c’è: Vas, che non è Vos e arriva dall’Ungheria, Kay, sono nomi che stuzzicano la fantasia anche in chiave vittoria, occhio a loro per un pronostico nederlandifferente. Un accenno pure alle italiane, Lechner e Arzuffi, tra le élite (oltre a Teocchi, Gariboldi e Persico): un risultato nei primi dieci per le due azzurre sarebbe un traguardo da sogno. Qualcosa simile si può sperare anche con il trio in campo tra le più giovani: Baroni, Casasola, Realini in rigoroso ordine alfabetico. Anche se questa sabbia è dura da digerire.
Ma domenica si apre – in un certo senso – la stagione del ciclismo su strada, un po’ stampo anni ’90 con il Gp d’Ouverture – La Marseillaise. Anni ’90 perché a quei tempi quando leggevi il nome di quella corsa sapevi che finalmente si alzava il sipario. Poi le cose sono cambiate, Australia, Sudamerica a dare il là e a spostare altrove l’attenzione; è vero che si è già iniziato a correre (pochissimo per la verità) anche quest’anno ma è altrettanto vero che dalla rumorosa e multietnica Marsiglia si proverà a dare uno scossone al freddo torpore di un ciclismo che non si sa quando sarebbe iniziato e non si sa quando finirà, né come continuerà.
Intanto per il momento corse su corse vengono spostate a maggio, altre cancellate e ci rivediamo nel 2022. Anche il calendario giovanile è ancora una volta martoriato e – quasi sotto traccia – perde appuntamenti su appuntamenti, ed è un mezzo disastro su tutti i fronti.
Gp Marseillaise: ci sono sempre strane voci attorno a questa corsa, si parla di superstizione, e si sa che gli sportivi, i professionisti, ne sono sempre affascinati – proprio in senso etimologico, da fascino, fascinum – “maleficio”, oppure “amuleto a forma di…” e ci fermiamo qui. La si definisce “La maledizione della Marsigliese”. Si dice che chi vince questa corsa vivrà una stagione negativa. Lo scorso anno, per dire, primo fu Cosnefroy, poi in realtà è stato protagonista al Tour di tante belle fughe e di una buona stagione, ma il suo 2021 invece inizierà in ritardo per un problema al ginocchio.
Nel 2019 ha vinto Turgis che è l’ultimo superstite della dinastia di fratelli che hanno abbandonato il ciclismo giovani e giovanissimi. Jimmy si è ritirato a 29 anni, Tanguy, che pareva un talento super, a nemmeno 20 dopo aver ben figurato al Fiandre e alla Roubaix. Vichot che ha vinto nel 2017 si è ritirato quest’anno per problemi fisici legati all’overtraining.
A togliere ogni dubbio ci pensa tuttavia Bernard Hinault che nel 1982, terza edizione della corsa, vinse Marsigliese, Giro e Tour. Nell’albo d’oro figura anche Justin Jules che vinse qui nel 2013 e che nel 2008 fu condannato a 5 anni, poi ridotti a 3, di prigione per l’omicidio del patrigno. Justine una sera nel 2004 reagì fatalmente stufo di vedergli alzare le mani per l’ennesima volta su mamma e fratello. Il padre naturale di Justin invece era una buona speranza del ciclismo francese, nel 1984 vinse una tappa al Tour, due anni dopo morì a 26 anni in un incidente stradale. Ma queste sono storie sulle quali ci ritorneremo magari più avanti. Ora godiamoci nuovamente un po’ di ciclismo con van Aert contro van der Poel e speriamo persino che il destino possa farsi beffe della superstizione e che da Marsiglia in avanti (a proposito: Trentin e Vendrame tra i favoriti) si possa vivere una stagione di ciclismo. Avevamo scritto “piena di ciclismo” corretto e cancellato viste le ultime: a febbraio sta saltando una corsa dietro l’altra. Il problema è che poi svoltato l’angolo la stagione da marzo in avanti partirà a tutta. Si spera, almeno, perché non c’è molto altro da fare oltre che attaccarsi alle speranze. D’altra parte i tempi sono questi.
Foto: Nico Veereken/PN/BettiniPhoto©2021
Tutto il tempismo del mondo
Heinrich Haussler a quasi 37 anni correrà per la prima volta un mondiale di ciclocross, lo farà domenica difendendo i colori della nazionale australiana e ammette candidamente: «Spero di non farmi doppiare da Mathieu van der Poel. Se riuscirò a evitarlo per me sarà il più grande successo».
Ma quello che Haussler racconta – e anche come lo racconta – rispecchia il suo carattere, estroso, ma genuino, e anche il suo bizzarro talento: è uno che si fece battere alla Sanremo da Cavendish, superato al fotofinish sulla linea d’arrivo – era il 2009 – e che quando corre la Roubaix e il Fiandre lo fa guidando senza guanti e con risultati eccellenti.
Nella sua vita Haussler ha dovuto superare problemi di natura personale di una certa rilevanza, incidenti automobilistici causati dall’alcol, problemi fisici che sembravano irrisolvibili, e anche psicologici, ma oggi Haussler è cambiato e dice di sentirsi felice come un bambino nel prendere parte a questa esperienza e che si picchierebbe forte in testa per non aver scoperto il ciclocross vent’anni prima. Era il 2019 e lo convinse un amico e collega, Sascha Weber, che lo invitò a partecipare a una gara dalle parti di Friburgo, vicino dove Haussler vive. «Ho due gemelli di cinque anni. Se un giorno mi chiederanno di iniziare a pedalare, li manderò a praticare ciclocross».
Racconta che in questa stagione ha fatto tutto da sé, senza l’aiuto di un team, si è pagato da solo le trasferte, non ha uno staff o un camper al seguito, né un meccanico («Quando può la ragazza di Sascha Weber mi passa la bici di scorta, sempre che non sia impegnata a pulire la sua bici») , si sistema il mezzo da solo al termine di una gara o ricognizione, sentendosi come uno che lo fa per hobby in mezzo ai professionisti. «A volte mi fermo lungo il tracciato per osservare come si muovono van Aert e van der Poel». Resta ammaliato dalla loro maestria nello scegliere le linee, nel guidare la bici, nel prendere determinate traiettorie in discesa. «Sono due gladiatori: vinceranno tutto anche su strada».
Dice, Haussler, che fare ciclocross già lo scorso anno gli ha permesso di svolgere un’attività in strada di maggiore qualità grazie a quell’esplosività e reattività che solo il fuoristrada ti può dare e che i colleghi del ciclocross per lui hanno un motore superiore agli stradisti. «Pensavo fosse perlopiù qualcosa di tipicamente belga, un po’ di cross nel fango e ragazzi che non sarebbero capaci di fare granché su strada. E invece li ho visti da vicino: i migliori crossisti hanno un motore superiore alla maggior parte dei professionisti». E non parla solo dei soliti noti. «Per diventare un grande corridore devi passare da qui».
Domenica avremo un motivo in più per seguire il mondiale di Ostenda, soprattutto perché quel motivo ha la faccia simpatica di Heinrich Haussler, tedesco d’Australia, che pare avrà a disposizione due meccanici mandati dalla sua squadra, la Bahrain Victorious, appositamente per sostenerlo. Peccato che, difficilmente lo vedremo inquadrato – in stagione il miglior risultato è stato un 47° posto e non c’è mai spazio per gli ultimi secondo la regia – ma di sicuro qualcosa di interessante da tramandare ci sarà.
Foto: Anton Vos/BettiniPhoto©2020
Christophe, la neve, il martello, un vecchio Gallo
Baffi come si usavano un tempo a disegnargli il viso e ad acuire uno sguardo che, si racconta, ammaliava le donne.
Grossi polpacci lordi come il ciclismo a cui apparteneva, un maglione di lana sporco sudato alla fine di ogni gara anche se lui, Eugène Christophe, era uno che ci teneva particolarmente allo stile.
Lo chiamavano il vecchio Gallo – le vieux Gaulois – proprio per il suo aspetto. Vinse la Milano-Sanremo del 1910 tra freddo, neve e pioggia. Freddo, neve e pioggia annunciate a pochi minuti dalla partenza fissata alle 5.30 sul piazzale di Porta Genova “sotto una pioggia fine e noiosa, con aria pungente”: su novantaquattro che dovevano partire si presentarono al via in sessantatré, mancarono all’appello tra gli altri anche Faber e Gerbi, e arrivarono al traguardo in quattro, il secondo a un’ora di distacco da Christophe.
Non fosse stato per la sua abilità nel ciclocross – sostiene proprio Christophe, che vinse sette titoli nazionali francesi nel fango – non avrebbe mai scavallato il Turchino. «Un tempo cupo, spaventoso. Incontrammo la neve a bordo strada e un vento gelido che sibilava. Avevo mani e piedi completamente congelati. Prima di scollinare mi misi la bici in spalla e proseguii». Grandinava a tratti, chicchi grossi come pugni stretti, gli occhi lacrimavano, le labbra erano gonfie e tumefatte per il gelo.
Scese a rotta di collo, aveva un distacco di circa sei minuti dalla testa; incontrò Van Hauwaert sul punto di ritirarsi con un mantello sulle spalle per ripararsi dal freddo e accompagnato da un ragazzo che lo aveva incontrato per strada. C’era ancora neve, ma ora lo scenario era cambiato.
Il cielo si fece terso, sempre più freddo, venti, trenta centimetri di neve depositata sulla strada. Scese ancora dalla bici per superare alcuni tratti e affondò coi piedi: gli prese un crampo allo stomaco e un principio di congelamento, quasi svenne su una roccia e si poggiò ai lati della strada. Passava di lì un uomo; Christophe, che di italiano sapeva poche parole se non probabilmente solo casa e acqua, si fece capire, e quell’uomo lo prese in spalle e lo portò nella piccola locanda che gestiva. Si asciugò, fece qualche esercizio, bevve del rum, si racconta, per riscaldarsi, e nel frattempo altri corridori che videro la luce accesa si fermarono ed entrarono. Alcuni, raccontò tempo dopo proprio Christophe, misero le mani congelate direttamente tra le fiamme del camino. Ma Christophe tornò a fibrillare: aveva una missione.
«Dove pensi di andare?» gli disse il padrone di casa «Non vorrai mica tornare lì fuori?»
«Certo, ma non vi preoccupate: andrò fino a Sanremo in treno».
Invece, ripresosi, pedalando, superando uno per uno gli avversari, Christophe giunse a Sanremo verso le sei di sera, primo e vincitore, ad attenderlo una folla gremita. «A volte pensavo di aver sbagliato strada perché in giro non c’era più nessuno». Secondo arrivò Ganna “in stato semplicemente pietoso” che fu squalificato: «La mia carriera è finita con questa spaventosa Milano-Sanremo» dichiarò prima di essere trasportato via in braccio.
Lo chiamavano il Vecchio Gallo, ma anche il ciclista fabbro. Da bambino a scuola, quando non avresti scommesso un centesimo sul suo avvenire, picchiava forte sul ferro con il martello. Dopo quella vittoria alla Sanremo fu ricoverato un mese all’ospedale per congelamento e ci mi se un bel po’ prima di riprendersi. Fece secondo al Tour nel 1912 e divenne il favorito l’anno successivo. Si scalava il Tourmalet, il leader della classifica fino al giorno prima, Defraye, si ritirò dopo aver superato Osquich, Soulor e Aubisque. Ormai sembrava fatta per Christophe, secondo in classifica con il rivale Thys alle sue spalle a distanza di sicurezza. In cima al Tourmalet passò primo, si fermò per invertire le ruote, e si lanciò in discesa quando arrivarono le prime notizie su un vantaggio di circa diciotto minuti in classifica generale. All’improvviso sentì che c’era qualcosa che non andava, era il manubrio della bici: «Ho rotto la forcella» si disse. Disperato, iniziò a piangere, avrebbe dovuto fare tutto da solo come imponeva il regolamento. La sua fortuna, in quel frangente, fu quella di essere abile a battere il ferro: dopo una decina di chilometri a piedi trovò su indicazione di una bambina una fucina a Saint-Marie-de-Campan, di proprietà del signor Lecomte – e ancora oggi in quel luogo si ricorda quell’avvenimento con una targa – e lavorò per oltre quattro ore. I commissari lo stavano aspettando proprio lì, avevano chiuso le porte a chiunque volesse osservare quella scena. Il signor Lecomte voleva aiutare Christophe: «Posso aggiustare la tua forcella» ma non era permesso dai giudici che stavano lì a osservare come aguzzini. «Per lavorare mi servono entrambe le mani» disse il corridore quasi troppo velocemente, con gli occhi rossi di rabbia e lacrime, i vestiti strappati. «Come posso azionare il mantice allo stesso tempo per mantenere viva la fiamma?». Un bambino si intrufolò e gli diede una mano, Christophe ripartì dopo quattro ore con le tasche piene di pane che gli aveva dato la moglie del fabbro, non prima però di essersi preso una piccola rivincita morale con un giudice affamato. «Hai davvero fame? Non puoi andare da nessuna parte: il carceriere deve restare col carcerato, però guarda se vuoi lì c’è del carbone». Giunse a Luchon in serata, Christophe, penalizzato ulteriormente per aver avuto un aiuto esterno nel riparare la bici. Chiuse quel Tour al settimo posto, stanco, ma felice tra le braccia della sua amata che lo aspettava a Parigi.
È stato, lui sì per davvero, il primo corridore a indossare la maglia gialla: era il 1919 e quel Tour lo stava per vincere. Vestì il simbolo del primato, di un giallo sbiadito che, sempre parole sue, lo facevano sembrare un ridicolo canarino. Anche in quel Tour ruppe la forcella in un tratto in pavè a poche tappe dal termine mentre era in testa alla classifica. Nel ’22, ancora in corsa per vincere il Tour, lungo la discesa del Galibier, ruppe ancora una volta la forcella.
Suo nipote Bernard qualche tempo fa ha raccontato che Eugene non ha mai voluto parlare di quella maglia gialla, quanto piuttosto di quel giorno sui Pirenei, e lo descrive, come farebbe qualsiasi nipote, come un uomo probo «tanto che rettificò i giornalisti che gli attribuivano quindici chilometri percorsi a piedi invece che dieci, quel giorno sui Pirenei». E quando era in pensione sfidava i suoi ragazzi in bicicletta: «L’ultimo paga da bere! – esclamava – Ci faceva andare avanti e poi verso la fine ci superava come una moto».
Anni dopo il suo ritiro, il giornalista Jock Wodley gli fece visita nel suo paese natale, a Malakoff vicino Parigi. «Christophe – racconta Woodley – mi disse di non essersi mai sentito un uomo ricco dal punto di vista economico, ma di ricordi felici e dotato di buona salute». Andava ancora in bici, soprattutto nelle zone vicino casa sua, ma senza mai fare troppo sul serio. «Sulla bici ho sofferto a sufficienza».
Foto: Archivio S.E.S.
Le ferite di Fabio, di Dylan e del ciclismo
Mi piacerebbe poter chiedere conforto e ispirazione a Gianni Mura per questo incipit e magari trarre spunto da qualche sua bella frase, un commento, un virgolettato per essere il meno banale e retorico possibile e spiegare con parole che non mi vengono, o con maggiore accuratezza, che anno di merda sia stato il 2020. Purtroppo però, il tempo se lo è portato via.
Mi piacerebbe parlare di Fabio e Dylan – li chiamo per nome – come se i loro destini avessero preso strade differenti; come fossero due ragazzi che hanno battagliato per mesi subito dopo il traguardo di Katowice dove invece, qualcosa, che poi è il loro tutto, si sarebbe spezzato per sempre.
Erano lanciati a ottanta all’ora verso quell’arrivo in discesa che non ha senso di esistere; Dylan cambia traiettoria, chiude Fabio all’esterno, e allarga il gomito; è vero non si fa, non si dovrebbe fare, il suo gesto è pericoloso, pericolosissimo, quello del corridore è un mestiere infame: ma quante volte succede in volata?
(nessuna giustificazione, solo un dato di fatto).
Fabio sbatte sulle transenne e scompare per un attimo, sembra risucchiato, carambola a una velocità difficile da decifrare. Le transenne dovevano essere lì per ragioni di sicurezza e invece, posizionate e fissate male, troppo leggere, finiscono per disintegrarsi sotto l’energia cinetica del ragazzone olandese. «Stavo bene, ero a ruota di Davide e Florian, dopodiché il buio» – Fabio è tornato a parlare della vicenda qualche giorno fa su un quotidiano olandese.
Ricorda, o forse glielo hanno semplicemente raccontato, che se è ancora vivo il merito è del caso che ha le sembianze di un commissario UCI che ha attutito il violento colpo e ha fatto sì che Fabio rallentasse la sua paurosa corsa evitando di finire violentemente contro il pilone del traguardo. Poi l’intervento di Sénéchal, suo compagno di squadra. «Florian ha visto il panico nei miei occhi, ha visto il sangue che sgorgava: ha sollevato la mia testa in modo che il sangue potesse uscire dalla mia bocca e dal naso». E nemmeno Florian ricorda bene quegli attimi, sa solo che ha passato giorni a piangere e disperarsi pensando che con quel gesto avrebbe potuto provocare danni peggiori a Fabio. «Ha scelto tra due mali: ed è stata la scelta giusta».
Pensava di morire, Fabio – e lo abbiamo pensato tutti inutile girarci attorno. Chi ha visto quella scena dal vivo ha i brividi tutt’ora. «In ospedale perdevo conoscenza continuamente, mi svegliavo e mi riaddormentavo, ho preso diversi farmaci, facevo fatica a respirare e pensavo: è così ora morirò».
È a pezzi e probabilmente lo resterà per sempre, ha subito tutta una serie di interventi di ricostruzione del volto che ancora non sono terminati. «Il danno peggiore è alle corde vocali: sono vitali per respirare e per pensare di tornare a essere un corridore. A marzo mi piacerebbe essere in gruppo con i miei compagni e magari correre ad agosto, ma i medici vogliono fare le cose con calma. Paura? Non ho mai avuto incubi sull’incidente perché non ricordo nulla, ma non so come sarà quando e se tornerò in gruppo».
A pezzi è anche Dylan: ha sbagliato, pagherà. Più che la squalifica – tornerà in corsa a maggio – rimarranno per sempre squarci indelebili nell’anima, ferite tali che quando provi a mandare giù il groppone restano sempre lì, che diventano scosse elettriche che sembrano strapparti l’anima dal corpo. Paranoia, sensi di colpa, sarà straziante sopportare il giudizio di un gruppo – quello dei suoi colleghi – che punterà il dito contro di lui. «Nove mesi di squalifica sono una punizione severa, ma lo sarà ancora di più quello che si porterà per sempre dentro» afferma Gilbert. «Certo è che molti in gruppo faticheranno ad accettarlo di nuovo».
È stato sbattuto in prima pagina, ha sbagliato, ha pianto disperatamente, ha chiesto perdono. «La scena che avevo davanti mi ricordava quella di una famiglia in lutto, sconfitta. Scene di sofferenza e di vuoto» racconta una giornalista olandese che lo ha intervistato pochi giorni dopo l’incidente.
Ma ne esce a pezzi anche il ciclismo: il team manager della squadra di Jakobsen ha invocato il carcere per Groenewegen nelle drammatiche ore subito dopo l’incidente; l’UCI ha pensato inizialmente di lavarsi le mani e di fare di Dylan il capro espiatorio, nascondendo i problemi di sicurezza in corsa (non solo tra i professionisti, ma anche nelle corse minori, giovanili eccetera) che ci sono da anni e che negli ultimi tempi sembrano aumentare.
Nei mesi successivi all’incidente si è aperto un dialogo: ci sono stati incontri tra sindacato dei corridori, il CPA, organizzatori e UCI sul tema della sicurezza; dopo uno di questi incontri Gilbert ha strigliato i colleghi rei di non essersi interessati alla faccenda. «Si organizzano spesso incontri di questo genere e non si presenta mai nessuno. In questo caso sembra che solo io e Trentin abbiamo ritenuto valesse la pena presenziare alla riunione del Professional Cycling Council. Come se a ragazzi di vent’anni che corrono non stesse a cuore quello che è il loro futuro. Ci si lamenta sulla sicurezza attraverso i media, sui social ma se davvero vuoi cambiare qualcosa devi sapere quando è il momento buono per aprire la bocca e dire la tua».
Per alcuni non partecipare a questi incontri è invece sembrato il normale mutare delle cose che sta portando a una spaccatura all’interno del gruppo dei professionisti. Per Michael Mørkøv, compagno di squadra di Fabio Jakobsen, il CPA è un organo totalmente inutile e che non ha mai fatto nulla per cambiare il sistema. Altri lo giudicano una marionetta dell’UCI. Da poche settimane, invece, è nato un nuovo sindacato, The Rider’s Union, attualmente non riconosciuto dall’Unione Ciclistica Internazionale e del quale fanno parte diversi corridori ex corridori e procuratori.
Qualcosa in quelle riunioni, però, pare si sia intravisto: veicoli in corsa e transenne sono stati i temi maggiormente messi sotto esame. «Le transenne devono essere più sicure: se le colpisci non devi rischiare la vita. E devono essere disposte prima dei trecento metri dall’arrivo. E poi un altro tema delicato è l’esagerato numero di veicoli presenti in gara». Per Trentin la sicurezza dovrà essere tema prioritario per il 2021.
Intanto a margine di tutto ciò, il Giro di Polonia è stato premiato in patria come “Evento sportivo dell’anno per aver messo in piedi al meglio la prima corsa a tappe ciclistica internazionale dopo la pandemia”. Celebrato sul palco da Agata Lang, vicepresidente della corsa e dell’UEC (Unione Europea del Ciclismo), e sui social dall’account Twitter della corsa.
Le ferite di Fabio e Dylan resteranno per sempre, ma forse serviranno a cambiare qualcosa. Spaccature politiche permettendo e che si combattono, però, sempre sulla pelle dei corridori.
Foto: Tim van Wichelen/CV/BettiniPhoto©2020