Evento Points: Bike Line Bagnacavallo
Al lemma "evento", nel vocabolario di Fabio Conti, compare la filosofia di Bike Line, negozio di biciclette, a Bagnacavallo, in via Garibaldi 74. Spiega Fabio, che assieme a Mattia Zoli gestisce l'attività, che l'evento è, per eccellenza, il fulcro di un'attività che si proponga l'obiettivo di promuovere la cultura della bicicletta, questo perché permette la partecipazione delle persone e la conoscenza, di fatto, avviene proprio attraverso la partecipazione. L'evento è il momento in cui, prosegue, le persone si incontrano e sull'onda della curiosità e del senso di comunità anche chi non ha mai pedalato viene coinvolto e, magari, prova per la prima volta. «Inizialmente la spinta era quella di portare la nostra terra al di fuori dei propri confini. Sì, lo spostamento di una bicicletta consente, oltre al viaggio reale, anche quello metaforico, dato dal bagaglio di esperienze e passato che trasporta il pedalatore. Successivamente ci siamo accorti di quanto bene avrebbe potuto fare questo approccio alla nostra comunità: ci sarà tutto il tempo per andare fuori, per esplorare città lontane, però abbiamo il dovere di partire da noi. Di appassionare chi è vicino di casa o di bottega. Di farlo sorridere o di farlo divertire. La nostra Romagna, a ben vedere, con il sorriso ed il divertimento ha una stretta familiarità». Tutto ciò senza rinunciare alla competenza, alla professionalità, semmai provando a coglierne un'altra sfaccettatura, quella legata alla passione per il proprio lavoro.
MAREA
Accanto al colore azzurro e alla schiuma delle onde del mare di Marina Romea, in provincia di Ravenna, Marea è intriso del profumo del mare. Anche l'idea viene da ciò che c'è di più marino: il bagno Polka, i cui titolari si servono da tempo da Bike Line. Dal dialogo, la proposta: «Perché non proviamo ad organizzare assieme un evento strutturato che cerchi di approfondire le potenzialità dell'unione tra i nostri due ambiti lavorativi?». Si tratta della prima iniziativa organizzata da Bike Line fuori dalle mura del negozio con l'idea di coinvolgere quante più persone possibili attraverso una forma di cicloturismo totalmente inclusiva: dagli esperti ai profani, a chi si affaccia per la prima volta con qualche timore in questo mondo. Si svolge sulla durata di un fine settimana: al sabato pomeriggio, sul posto, avviene l'apertura delle iscrizioni, con la consegna del kit di benvenuto e del body per pedalare e con tutte le operazioni svolte dalla segreteria. Tuttavia il sabato è, in realtà, il giorno delle parole: sul palco centrale del bagno Polka, gli ospiti, che, in qualche modo, hanno vissuto alcuni aspetti dell'universo bici, non solo in veste di pedalatori, raccontano le proprie esperienze. Il sole è quello della fine di aprile, i raggi iniziano ad essere più caldi e l'estate non è così lontana: nel 2024 a narrare Dino Lanzaretti, per conoscere meglio la componente del viaggio e dell'avventura, e Iader Fabbri, biologo nutrizionista, che ha svelato agli ascoltatori i segreti della componente alimentazione nel ciclismo.
La primavera fa sì che qualche temporale possa turbare la quiete, ma non è poi così male. La domenica è, invece, il giorno dedicato ai pedali: due percorsi, uno più lungo ed uno più corto, entrambi, però, caratterizzati dalla pianura, nei dintorni del litorale, evitando la collina ed esplorando nuove prospettive vicino alle zone lagunari di Comacchio. A fare da sfondo i fenicotteri, gli specchi d'acqua e la brezza di un maggio imminente. Al ritorno, ancora festa e una lotteria organizzata presso il bagno Polka con diversi premi, cercando di promuovere le specificità del territorio. Circa 150 i partecipanti ed una dimostrazione pratica di fiducia «perché quando chi viene in negozio da te sceglie di partecipare a qualcosa che accade al di fuori di quei locali, vuol dire che si fida del tuo modo di guardare la realtà, vuol dire che apprezza la tua visione e questo fa bene al lavoro di tutti i giorni». Mattia, Fabio e Giulia sono già all'opera per l'edizione 2025 di Marea e chissà che non vi tornino coloro che si sono appassionati solo quest'anno agli ingranaggi della bicicletta ed al suo enorme potenziale, coloro che proprio a Marea l'hanno scoperta, comprendendo la loro passione e facendola propria. La seconda edizione dovrà essere ancora più inclusiva, con un percorso più lungo, magari collinare, tra mare e monti, aggiungendo anche qualcosa dal punto di vista tecnico. Resteranno i talks e, forse, si aggiungerà della buona musica la domenica sera. Il mare sarà sempre il sottofondo: Bagnacavallo non è molto distante. Le acque sono un richiamo al romanticismo ed allo stesso tempo significano privazione delle montagne. Ma l'alba accanto al loro frusciare resta una sensazione indescrivibile, da provare sulla propria pelle. Sono i luoghi delle famiglie, dove le madri ed i padri pedalano vicino ai più piccoli e reciprocamente insegnano ed imparano, mentre vivono la lentezza, lontano dal caos quotidiano.
SCARAMELLO
In romagnolo stretto, per scaramello si intende una strada stretta, un passaggio ostico all'incrocio di due vie, talvolta una scorciatoia, spesso, più semplicemente una strada sconosciuta e dissestata. Allora appare chiaro perché Mattia Zoli e Fabio Conti abbiano così denominato su suggerimento di Marco Casadio e Luca Ferri l'evento che propone ai partecipanti di arrivare alla meta evitando la strada principale, scegliendo l'esplorazione, invece della certezza. Il motto è «godiamoci il viaggio», ma l'edizione 2024 di Scaramello è cambiata radicalmente rispetto a quella dell'anno precedente: nel 2023, infatti, si era costruito un percorso permanente di 330 chilometri, dal mare alle colline. Nel 2024, invece, l'evento si è svolto su un'unica giornata e due percorsi possibili; il più corto, di 70 chilometri, e il più lungo di 110, entrambi collinari. All'origine era previsto anche un ulteriore tracciato di 175 chilometri reso impraticabile dall'alluvione che ha colpito la Romagna. Resta nel cassetto e chissà che in un giorno di sole non possa mostrarsi. «L'alluvione è avvenuta esattamente due settimane prima di Scaramello e, di fronte ad una tragedia di questo tipo, l'istinto è senza dubbio quello di rinunciare, perché le priorità cambiano e quando si perde tutto non si ha di certo in mente un giro in bicicletta. Abbiamo pensato fosse quella la cosa più giusta, poi ci abbiamo riflettuto e siamo giunti ad un'altra conclusione: Scaramello poteva essere un modo per stare vicino a chi aveva perso tutto, magari per aiutare la comunità.
A questo è servita la lotteria di beneficenza, a questo sono serviti i gadget del negozio messi in palio. Il ricavato è, poi, andato al comune di Traversara, una delle zone maggiormente colpite. Non sarà molto, ma è qualcosa. Purtroppo l'unica cosa che si può fare, certe volte, è provare a portare un poco di sollievo, magari un sorriso per alleggerire una quotidianità che mostra il proprio lato peggiore. Tanti nostri amici e conoscenti hanno perso tutto: ti chiedi cosa fare e la risposta è sempre più difficile».
Scaramello arriva a fine settembre, con un sole più arancione che giallo, coi colori caldi dell'autunno imminente ed il rosso che invade le foglie degli alberi. Nel 2024 è coinciso con la festa di San Michele che è per eccellenza la festa a Bagnacavallo: il sabato è il turno degli aperitivi, delle piadine, dei cappelletti e della birra. La domenica girano i pedali, eppure l'arrivo in negozio è ancora l'esaltazione della festa più pura, in cui si concentrano tutte le energie, tra le porte aperte dell'area espositiva ed ancora cibo e bevande. Il profumo di Scaramello è quello della piastra, della piadina, della gastronomia, del ragù che bolle, delle caramelle, della cucina in generale, mentre le vie si riempiono, pullulano con i loro suoni ed i loro rumori, le persone si incontrano, si aiutano, assaggiano l'iconico Gin Scaramello e partecipano alla festa della bicicletta «perché in Romagna una piadina non manca mai e l'avventura e la meraviglia sono il pane della nostra gente».
Vollering, Labous, la crescita di FDJ-Suez: Alessia Vigilia racconta
In una frazione di corsa dell'edizione 2024 della Freccia del Brabante, al comando si è formato un terzetto: Elisa Longo Borghini, Demi Vollering ed Alessia Vigilia. Forse è questa la prima occasione in cui Vollering e Vigilia si incrociano da vicino. A noi lo racconta proprio Alessia Vigilia: «Non so nemmeno come ho fatto a ritrovarmi lì. Elisa, probabilmente conoscendomi e vedendo la mia fatica, non mi ha mai chiesto un cambio. Demi, invece, ad un certo punto, voltandosi verso di me, mi ha invitato ad andare in testa a fare il ritmo. Cos'ho pensato? Che avrei voluto dirle che era un miracolo essere lì per me e che, se avessi resistito altri due chilometri, sarei già stata contenta. Non ho detto nulla, ma il cambio non l'ho dato, no».
L'aneddoto non è casuale, infatti Vollering e Vigilia sono compagne di squadra a partire da quest'anno. Non è una novità per l'atleta bolzanina essere al servizio di una ciclista di quel calibro, già l'anno scorso in FDJ-Suez, c'erano Marta Cavalli, Cecilie Uttrup Ludwig e Grace Brown e a causa del confronto con queste cicliste, Vigilia ha fatto proprio un modus di affrontare il ciclismo: ridimensionarsi, questa è la parola chiave. «In Fassa Bortolo ero, forse, l'atleta con maggiore esperienza. Tutti erano interessati a sapere cosa pensassi ed il mio parere era al centro dell'attenzione. In queste condizioni, puoi sentirti parzialmente arrivato: ecco, ritrovarsi in squadre con gente come Cavalli o Brown, ad esempio, ti fa capire che ne hai di strada da fare, di pastasciutta da mangiare, perché loro sono oggettivamente di un altro livello».
Differente è anche l'organizzazione; Vigilia definisce «una cosa da pazzi» osservare quante persone lavorino per le atlete in FDJ. Allo stesso modo parla della cura dei dettagli, dell'attenzione ad ogni sfumatura. Si è trovata spiazzata nel momento in cui ha dovuto scegliere i materiali, piuttosto che quando ha deciso che tubeless utilizzare prima della sua prima Roubaix: «Era tutto nuovo, questo era ancor più nuovo. Se così si può dire. Io non provengo da una famiglia di ciclisti, non ho punti di riferimento in tal senso a casa e credo che questo mi abbia penalizzato in diverse occasioni. Sia chiaro: l'appoggio non mi è mai mancato e senza i miei genitori non sarei una ciclista, perché da soli non si riesce ad inseguire una carriera di questo tipo. Mia mamma si caricava in macchina la mia bicicletta ed il passeggino di mia sorella ancora piccola per accompagnarmi ai primi allenamenti. Mi hanno capita, supportata, ma di fronte ai dubbi ed alle indecisioni non potevo chiedere a loro. Capita spesso di dover decidere da che parte stare, se fidarsi oppure no ed in quei momenti io sono sola. Qualche volta telefono a Lucio Rigato ed è lui a consigliarmi». L'ultima volta è accaduto l'anno scorso, prima del Campionato Italiano che, di solito, Alessia Vigilia preparava in altura, soffrendo il caldo: nel 2024 una scelta differente, con la rassicurazione che la condizione non ne avrebbe risentito. «È andata male. Non posso dire che abbia a che fare con quella decisione, non lo so. Però una cosa l'ho capita: ho tanto da imparare, tantissimo, ma non sono nemmeno l'ultima arrivata. Devo ascoltare di più le mie sensazioni ed avere maggior coraggio nel dire quello che penso». Quella famiglia lontana dal ciclismo è stata anche un vantaggio per una donna-atleta che "si è fatta da sola": «Non ho mai avuto pressioni in casa ed ho il grosso vantaggio che da noi non si parla solo di ciclismo. Non ho mai corso per altro se non perché lo sentivo. E, sono sincera, corro ancora per passione, nonostante il ciclismo sia diventato il mio lavoro».

L'arrivo di Demi Vollering è stato, continua Vigilia, uno stimolo continuo a dare tutto ed anche di più. Il timore poteva proprio risiedere in questa responsabilità, nel rischio di trasformarla in ansia e l'ansia è nemica di un'atleta: Vollering ha scongiurato questa possibilità. «L'ha fatto attraverso il suo modo di comportarsi, attraverso la propria tranquillità e disponibilità. Anche negli allenamenti non cerca una compagna in particolare, ma vuole il gruppo al proprio fianco. La sua capacità di essere leader è a tutto tondo. I presupposti sono stati buoni. Vogliamo correre da squadra, ben sapendo che, avendo Vollering, molto spesso il lavoro toccherà a noi. Abbiamo traguardi ambiziosi: li raggiungeremo o non li raggiungeremo tutte assieme». Demi Vollering fa bene alla squadra, quindi, ed anche al ciclismo, in realtà, perché è innegabile che l'arrivo di uno sponsor importante come Nike abbia anche a che fare con lei: «Hai detto bene, anche ma non solo. Almeno così la penso io. Per Specialized abbiamo sentito la stessa cosa: "hanno Specialized perché hanno Vollering”. In realtà, la firma è avvenuta a dicembre dello scorso anno e ancora nessuno sapeva dell'arrivo di Demi. Credo il merito sia anche del lavoro che FDJ-Suez ha sempre fatto e continua a fare, non solo su strada, ma anche nel racconto delle atlete, con i video e le presentazioni social tratte da episodi della vita reale di una ciclista. I brand si attirano così, diversamente come possono notarti ed investire? Vogliamo fare qualcosa per il ciclismo femminile? Raccontiamolo: è il primo passo».
Non senza difficoltà, perché, dice Vigilia, per una ciclista è quasi più faticoso fare ore di riunioni con gli sponsor piuttosto che fare allenamento, «ma si fa, perché serve per avere materiali migliori, per crescere, per far diventare il ciclismo un lavoro per la maggior parte delle persone che, comunque, lo vivono e faticano». Dall'uso dei social della squadra a quello delle singole atlete: un passo che, con questi brand, probabilmente tutte le cicliste dovranno fare, prima o poi. «Il tema è importante: abbiamo la possibilità di trasmettere un messaggio a molti giovani, dobbiamo fare attenzione a quello che pubblichiamo. Dobbiamo riflettere più volte prima di inviare un post o una storia. Però è una possibilità importante se colta bene. Dall'altro lato, c'è il fatto che non sempre siamo giudicate solo per i risultati su strada, ma anche per come ci "vendiamo" sui social, pur se è finzione, per come curiamo lì la nostra immagine. Ecco, questo non rientra nel mio modo di leggere il mondo, perché, a mio avviso, l'unico biglietto da visita di una ciclista devono essere i risultati, però il mondo va in quella direzione. Forse mi adatterò anche io, ci sto pensando» FDJ-Suez è, di fatto, un team a gestione familiare, indipendente dalla squadra maschile, che continua a investire, nonostante le difficoltà del settore: «Non so da cosa dipenda, di certo mentre da noi, in Italia, spariscono varie squadre, in Francia il panorama è differente: i minimi, da loro, sono molto più del nostro minimo. Equivalgono già ad una ipotetica professional».

In questo contesto, assieme a Demi Vollering, è arrivata anche Juliette Labous: il ricordo di Vigilia è legato all'Europeo 2016, quello vinto da Lisa Morzenti, seconda proprio Vigilia, terza Labous. «Proprio Juliette mi ha detto che si ricordava di me per averle soffiato il secondo posto in quella giornata, per lei non era un bel ricordo, per me sì, abbiamo riso molto. Labous è una ragazza tranquilla, molto calma, pacata, una bella persona. Molto professionale, si vede che è cresciuta in DSM-firmenich». Per chi deve mettersi al servizio, osserva Vigilia, l'importante è sempre saper reagire, adattarsi alle situazioni ed avere la giusta flessibilità per cambiare ove necessario, anche in corsa. I ruoli devono essere chiari, ciascuno deve sapere cosa deve fare e cosa devono fare gli altri. L'anno appena trascorso è stato intenso per Alessia Vigilia: «Inutile dire che inizialmente il timore di essere un numero c'era, di fronte a tanta esperienza e ad un ambiente diverso. In realtà, così non è stato: ho avuto un calendario importante. Mi sono messa alla prova, ad esempio, con la Paris-Roubaix che, se all'inizio sentivo distante, in realtà mi è piaciuta e le pietre mi incuriosiscono. La cosa più importante da dire è che, per l'ennesima volta, ho avuto la certezza, spesso a mie spese, che tutto deve partire da noi, possiamo avere chiunque al nostro fianco, ma se la scintilla non parte dall'atleta non si va da nessuna parte. Per questo continua la mia ricerca: voglio capire chi sono, che tipo di atleta sono, esattamente, e dove posso davvero arrivare. Definire i contorni dei miei limiti. Continuo a lavorare sulle cronometro e sul passo, perché i margini di miglioramento fisico e mentale ci sono. Continuo a lavorare perché tutto ciò che è arrivato è stato possibile solo grazie al lavoro. Il mio grande credo».
Anche grazie a questo “credo” si è rialzata in tempi rapidi da una caduta nella prima frazione dell’UAE Tour che le è costata la frattura della clavicola. Voleva essere alla Sanremo Women, ci è riuscita. E prima è tornata all’università, giusto qualche giorno dopo l’operazione: «Vuole laurearsi». Ci ha detto così papà Ciro. E si laureerà.
Il coraggio delle scelte: Trinca Colonel e l'approdo in Jayco AlUla
Solo un anno e mezzo fa, o poco più, Monica Trinca Colonel era a mani vuote. Anzi, a mani vuote ed a mente piena, come succede con i progetti nuovi, diciamo pure con i sogni. Per questo, la realtà che si trova davanti oggi, nelle sue sensazioni, è anche più bella di quella che tutti noi che ne siamo estranei possiamo vedere e analizzare. Il dato di fatto è che, dopo appena un anno dal suo ritorno nel ciclismo con BePink, nel 2025, Trinca Colonel ha già firmato un contratto e iniziato una nuova stagione con Jayco AlUla: «Non solo non sapevo come sarebbe andata, ma mi chiedevo anche quante possibilità di fare la ciclista ci sarebbero state. Paradossalmente questa storia avrebbe potuto non iniziare mai ed io lo sapevo. Non bastava volerlo e neppure lasciare il vecchio lavoro e allenarsi duramente. Non fosse iniziata, non avrei comunque più avuto un lavoro, avrei dovuto ricominciare da capo. Per questo è enorme quel che sta succedendo. Per me è una conferma di aver fatto le cose per bene. Una conferma del fatto che, forse, certi rischi vanno corsi. Non è questione di eroismi, è, semmai, questione di quel che vogliamo ed io volevo essere una ciclista». Un anno, solo un anno: si potrebbe dire che è stato tutto veloce, sin troppo. La verità è diversa, pur se nessuno la conosce fino in fondo. Sì, i primi interessamenti da parte di squadre World Tour sono avvenuti dopo le prestazioni di Trinca Colonel alla Vuelta a España dello scorso. Avrebbe potuto dire subito sì, invece ha aspettato, ha corso il Tour de Suisse ed il Giro d'Italia Women ed ha preso una decisione solo successivamente.

«Volevo conoscermi, capire realmente il mio valore ed acquisire sicurezza in me stessa. Non credo nelle decisioni affrettate, anche se portano a qualcosa di bello. Ho continuato a correre, senza pressioni, comprendendo che ruolo potessi avere nel ciclismo. Solo dopo, ho firmato. era da poco finito il Giro». Nel frattempo proseguivano le gare con BePink, la squadra senza cui, parole sue, non sarebbe qui a parlare oggi: la gratitudine è per l'ambiente, per il rapporto che ha instaurato con le compagne e, soprattutto, per la serenità. «Queste squadre sono fondamentali, vanno tutelate perché sono l'unico ambiente in cui le atlete possono crescere senza pretese, imparare senza tensioni. Persino sbagliare, senza dovere nulla a nessuno. Sono cose che si ricordano, andrò sempre a salutare lo staff BePink perché a loro devo il mio essere ciclista e la mia felicità nell'esserlo». La firma e la decisione perché era quello che voleva, perché ha 26 anni e non intende aspettare oltre e perché, forse soprattutto, «in questo sport non è possibile attendere troppo, tutto può succedere e bisogna essere pronti perché, spesso, capita una volta sola».
Paure per la nuova avventura? Trinca Colonel, al momento, non ne ha praticamente mai avute, è solo contenta. Ha sempre saputo che i cambiamenti sarebbero stati molti, per esempio non sarà sempre lei la donna di punta, colei per la quale le compagne fanno rifornimento di borracce all'ammiraglia, spesso le toccherà proprio questo ruolo e sarà bandito ogni protagonismo, ma non importa, anzi ne è orgogliosa. I segnali di miglioramento, tra l'altro, sono costanti ed in aumento, in particolare nello scorso finale di stagione: «Me la sono cavata sempre abbastanza bene quando si è trattato di stare davanti in gruppo, la differenza, però, è la convinzione. Mi è capitato di perdere posizioni a causa di cadute perché, di base, non mi muovevo in maniera decisa. Ora sì, ora so esattamente quello che voglio e vado a prendermelo, all'inizio del 2024, invece, non c'era un obiettivo vero e proprio e raccoglievo quel che mi capitava». Vorrebbe migliorare a cronometro, aiutare una sua compagna a vincere tappe o un grande giro. Nelle gare dello scorso fine stagione, alle partenze ed agli arrivi, ha parlato con lo staff di Jayco AlUla e, via messaggio, con Letizia Paternoster, che ricorda quando correvano assieme da bambine e non vede l'ora di ritrovarla in squadra. Il resto del team l'ha conosciuto durante i primi ritiri stagionali e anche lei si è fatta conoscere, si è raccontata. Ha sempre voluto tornare alla Strade Bianche ed ha un leggero timore nel rivelare che le piacerebbe vincerla, «ma sì, diciamolo, in fondo non si può mai sapere e nulla è impossibile». Qualche indizio, tra l'altro c'è e risale a pochi giorni fa: quell'undicesimo posto sugli sterri senesi, "più di una semplice gara", per usare le sue parole. Ammette, invece, che ha nel mirino un buon risultato al Giro d'Italia Women e vorrebbe correre il Tour de France Femmes. Il suo giorno più difficile è stato all'ultima tappa del Giro d'italia conquistato da Elisa Longo Borghini quando una crisi ha buttato al vento parte del lavoro fatto nelle frazioni precedenti, in altri casi erano state cadute o malessere a guastarle i piani, una crisi però è diversa e lascia più amaro in bocca.

La sua famiglia è, se possibile, più felice di quanto lo sia lei stessa, perché il cerchio si sta chiudendo e tutto inizia a combaciare. Il suo compagno, appassionato di ciclismo, gareggia anche lui, ultimamente rinuncia alle proprie gare per seguirla, per starle accanto: «In fondo, è stato lui a convincermi a prendere il coraggio a piene mani e a buttarmi in questa avventura. Non è solo una cosa mia, è una cosa nostra tutto questo che si sta realizzando e, forse, è questa la parte migliore».
Gocycling, Città di Castello
Federico Rossi è nato e cresciuto a Città di Castello, poi, le circostanze della vita l'hanno portato a Milano e lì, nella grande metropoli, ha conosciuto Anna, così una parte della sua quotidianità, negli ultimi quindici anni, ha fatto radici nel capoluogo lombardo. La città, qualunque città, prende, dona, talvolta toglie: da un lato le opportunità dell'agglomerato urbano, dall'altro le mancanze ed è ciò che manca ad essere seme per quel che verrà. A mancare è la natura, l'outdoor, in cui sperimentare quelle biciclette che, anche a Milano, per Federico sono pane, per mestiere e per passione. Ad un certo punto la domanda che si fa strada: «Siamo sicuri che davvero non ci sia altro? Siamo veramente certi di non desiderare qualcosa in più per la nostra esistenza?». Un'esistenza simile pare quasi mutilata e la risposta arriva presto, con all'interno la consapevolezza che altro c'è, deve esserci per forza. Allora torna in mente l'Umbria selvaggia, in cui la natura cresce ed esplode, talvolta divora i sentieri, li ridisegna. Un luogo dove, a otto chilometri dal centro, già ci si perde, tra alberi, rovi, animali selvatici, pastori maremmani: si chiama Città di Castello ed è l'origine.
Federico e Anna ripartono verso una nuova casa, forse due: quella in cui abitare e quella da cui diffondere biciclette e racconti di bici. La seconda sarà in Via Mario Angeloni 7, in pieno centro storico, ed è di questa che vogliamo parlare: in un palazzo storico, dai muri bianchi, dalle volte a crociera, con grandi stanze piene di luce, quasi la portassero dentro, e muri spessi, in cui scavare e riporre libri, quasi fossero piccole cripte riservate alla conoscenza. Al centro della stanza un tavolo da falegname enorme, qua e là vecchie bici appese, quelle del padre di Federico, il primo telaio mtb Bianchi, prodotto negli Stati Uniti d'America, quello di alluminio incollato, una piccola opera d'arte, e ancora numeri delle granfondo e chicche di storia, in un ambiente minimale per scelta. Il locale l'ha scelto Anna, si chiama GoCycling e nasce nel centro storico di Città di Castello, non per un caso, ma per una precisa filosofia, con forti elementi etici, di non facile comprensione immediata.
«Non è una scelta comune, soprattutto in un mondo autocentrico, anche perché la stradina che conduce qui è stretta, in pietra serena, difficile da percorrere con la macchina, caratteristica delle città rinascimentali. Il venditore ci ha subito scrutato stranito, noi abbiamo proseguito- raccontano i due- e ne siamo orgogliosi, altrimenti nei centri storici cosa resta? Solamente bar e tavolini per gli aperitivi serali?». Il territorio che circonda GoCycling è pieno di bellezza, di storia e cultura: San Francesco, Raffaello, Piero della Francesca, musei e chiese di valore inestimabile. La nuova realtà, che ha aperto le porte ai visitatori lo scorso 20 settembre, cerca di restare in sintonia con questo sottofondo: lo spazio commerciale e di "rent a bike" si sovrapporrà con qualcosa che somiglia più a un centro culturale per tutto quel che è outdoor, ovvero piacere e scoperta della natura, delle attività nuove, di nuove idee e nuove invenzioni. La metafora di Federico è esemplificativa: succede come se la provincia, dopo tanto tempo, decidesse di spalancare le proprie porte e di aprirsi all'altro. «Forse è una caratteristica insita in certe zone quella di restare un poco chiusi all'altro, al resto, come se l'altro non interessasse o non fosse importante. La verità è l'esatto contrario: abbiamo bisogno come l'aria di condividere, di chiamare qui persone e bici, sogni, avventure».
Perché, proseguono Anna e Federico, se vi è una sicurezza, un punto fermo, quando si inventa un progetto simile, questo non è certamente in un riscontro economico, necessario, ma sempre sottoposto ai tempi e alle circostanze, bensì da piccoli piaceri quotidiani che un mestiere simile è ancora in grado di consegnare: «Il sollievo del sorriso di chi acquista la prima bicicletta, ad esempio, cancella tante cose che non vanno: più è la prima volta, più il brivido è forte. Si costruisce così una sorta di bagaglio culturale nel rapporto con il cliente: prima di parlare di bicicletta, si parla di dove si vuole andare, di quanto si vuole pedalare per arrivare in quei posti e di come si immagina il percorso. L'anima delle persone e delle cose, per noi, non è solo importante, è fondamentale. La sfera tecnica viene dopo, nonostante anch'io abbia sempre montato e smontato biciclette per capirle meglio. Amo alla follia qualunque bicicletta, per questo proietto questo mezzo in una sfera umana: quella del dialogo continuo, anche con i turisti, del racconto continuo anche delle proprie esperienze».
L'analisi di Federico Rossi è lucida: se il settore bici, a tratti, sembra implodere è perché per lungo tempo si è considerata la bicicletta in maniera troppo fredda, distaccata, come si considererebbe una lavatrice. Allora la bicicletta è divenuta un oggetto asettico, lontano e, quando questo accade, prevale una forma di "machismo" che si concentra solo su numeri e cifre, soprattutto in un tempo in cui è avvenuto un grosso cambiamento e le informazioni tecniche arrivano a getto continuo da qualunque fonte, rispetto ad ogni bene materiale: si tratta di informazioni commerciali, massificate e ultra dettagliate. «Talvolta i clienti possiedono anche informazioni che tu stesso non conosci, ma il gesto della pedalata va oltre quel tecnicismo. Io dico sempre: "Prima fai un giro su quella sella, poi mi racconti se ti è piaciuto, se ti sei divertito". Se ne parla e si interpreta il dato che, altrimenti, non vuol dire nulla: una bicicletta deve comunicare qualcosa. Colui che si interfaccia con il cliente ha il compito di leggere le emozioni del cliente e proiettarle su un mezzo piuttosto che un altro. Questo non potrà mai accadere in un centro commerciale, con turni lunghi, talvolta sottopagati, la domenica pomeriggio: non potrà mai accadere perché quel tipo di logica non lo permette, nonostante la buona volontà del lavoratore».
L'Umbria è una regione che sta crescendo e sta cambiando: il turismo è in aumento, ma anche la scelta di vivere in questa terra viene presa da sempre più persone. La bellissima Toscana, raccontano Federico ed Anna, è sempre colma di persone, qui il processo è differente, tuttavia è in corso. Si esce dal garage di casa e, nel raggio di qualche chilometro, ci si ritrova nel selvaggio, dove è necessario anche fare attenzione ai cinghiali, tra sentieri carrabili, mezzadri, luoghi disabitati che il ciclista medio tifernate, ovvero originario di Città di Castello, conosce. Tuttavia il suo giro classico è di un paio d'ore, con ritorno a casa verso le undici: «Pensiamo sia un peccato e, anche qui, portiamo un dato. Nella zona di Milano, seimila chilometri in mtb corrispondo a 17000 chilometri in auto per giungere in luoghi in cui è possibile pedalare: magari a Biella o in Lomellina. A queste condizioni, si capisce bene quanto sia difficile scegliere la bicicletta, anche il gravel, attraversando le campagne, che, visto il problema sicurezza che vivono le nostre strade, è, senza dubbio, maggiormente indicato, da questo punto di vista. In Umbria la storia è differente. Allora la domanda è: perché non ampliamo quelle due ore di pedalata? Anche qui si tratta di uscire, di aprirsi al resto, all'altro. Vorremmo smuovere le acque, proponendo una giornata e mezza di viaggio, un bikepacking con una notte fuori, magari al sabato ed alla domenica».
Il papà, adesso, è un signore novantenne e Federico si sente fortunato all'idea di averlo vicino, anche in GoCycling, perché è bello e perché è un valore aggiunto, come il tempo che si dedica ad un genitore e come il tempo che un genitore dedica ad un figlio. È felice vedendo le sue biciclette appese al muro, quelle biciclette viste, amate e poi acquistate. Anche gli amici del liceo e dell'università hanno ritrovato Federico e per loro è stato come incontrare l'uomo di città che, per amore, torna in provincia, dopo tanti anni. «Molte volte si ha il timore di iniziare qualcosa di nuovo soprattutto per quel che potrebbe dire la gente se non funzionasse. Abbiamo il timore di essere considerati un poco "sfigati". No, non si è sfigati: se si fa qualcosa con il massimo degli intenti, con passione, senza fare i furbi, senza fare scorrettezze, non si è sfigati nemmeno se non va. Certo, così facendo ci sono notti insonni con le bollette da pagare e tanti pensieri, ma pazienza, va bene così. Me lo ripeto spesso». Nel frattempo la bicicletta per Federico ed Anna continua ad essere avventura, a coincidere con la domanda "chissà com'è quel sentiero?" e con la voglia di andarci. La bicicletta è la meraviglia di quando si vede una bici caricata su un aereo per volare da un'altra parte ad esplorare strade, è risata quando, nel 1999, non si sapeva esattamente cosa fosse un "single track", lo si chiedeva a chiunque ed in molti non avevano risposta eppure tutti non vedevano l'ora di pedalarlo. La fitta rete stradale umbra pone varie alternative, così i ciclisti possono sentirsi maggiormente sicuri, non trascurando mai l'alternativa del gravel, che abbina sicurezza e natura. La raccomandazione è sempre la solita: rendersi visibili ed indossare il casco, anche nei pacchetti turistici che Federico, Anna e GoCycling propongono e dove la responsabilità di garantire la sicurezza di ciascuno è prioritaria. L'auspicio, invece, è che sempre più persone possano conoscere meglio il codice della strada, perché spesso è proprio la cultura di base a difettare.
I piedi, per Federico, devono essere sempre ben saldi a terra, mentre lo sguardo deve avere il più ampio orizzonte immaginabile per sperimentare, creare, inventare. GoCycling è sempre lì e cerca di essere presente nel modo migliore possibile, ovvero con quell'apertura di cui tanto Federico Rossi ci ha parlato. Aperti per un caffè, una chiacchierata, per l'inaugurazione e un prosecco, per consigli e scambi di idee. Probabilmente è per questo motivo che molte persone si sentono proprio partecipi del negozio e quando ne parlano usano il noi: «Dobbiamo fare...». In realtà, a metterci mano saranno sempre Federico ed Anna ma questa voglia di far parte di una realtà è così bella che nessuno osa mai dire nulla e quel "noi" sperano tutti di sentirlo spesso, più spesso ancora.
Silvia Persico: alla ricerca del tempo perduto
Silvia Persico è tornata da qualche giorno dagli Emirati Arabi Uniti, quando le telefoniamo. Dalla voce si intuisce serenità, giusto il cielo cupo dell'inverno italiano, dopo la bella stagione incontrata correndo l'UAE Tour la lascia perplessa, ma presto ripartirà al modo delle cicliste e dei ciclisti: «La certezza è che correrò in Belgio, a proposito di cieli grigi, poi la Strade Bianche, ma, sono sincera, ora non ricordo nemmeno il calendario preciso, però una cosa, rispetto all'anno scorso, mi ha colpita: dal nulla, mi capita di chiedermi quanto manchi al ritorno in corsa, anche adesso che non sono tornata a casa da molto tempo. Me lo chiedo e sento di aver voglia di correre, di gareggiare, di competere. Questo è il bello»..
Non c'è considerazione più importante di questa, almeno per la donna, prima che per l'atleta, perciò partire da qui semplifica tutto. L'inverno di Persico è stato un buon inverno ed il debutto a Maiorca l'ha ampiamente evidenziato, con un terzo ed un secondo posto al Trofeo Palma Femina ed al Trofeo Binissalem-Andratx. All'UAE Tour, dopo una prima giornata dedicata alle velociste, il secondo giorno, quello del vento e dei ventagli a spazzare il gruppo e di Elisa Longo Borghini e Wiebes davanti, a dominare le raffiche dal deserto, Silvia Persico non era riuscita ad entrare nel ventaglio di testa in quanto durante il trasferimento, brevissimo in quella tappa, era dietro l'ammiraglia e la partenza così veloce non le aveva dato il tempo di rientrare. Se il vantaggio del primo gruppo è arrivato a toccare oltre i tre minuti, però, è merito anche del lavoro di Silvia Persico che «a quel punto, con Elynor Backstedt, ci siamo inserite nei ventagli per rallentare il ritmo e per una buona parte di corsa ha funzionato». Al terzo giorno, quello di Jebel Hafeet, si è arrivati così. Anzi, con qualche passaggio che non tutti sanno e che noi apprendiamo durante la telefonata. Si parte da una sera: Silvia Persico ed Elisa Longo Borghini condividono la camera d'albergo.
«Nel 2014 avevo dichiarato in un'intervista che Elisa Longo Borghini era una sorta di idolo per me. Beh Elisa ha letto quel pezzo e, ti dirò di più, se n'è ricordata. Me lo ha proprio detto durante questa trasferta: "Ma ti ricordi cosa dicevi di me dieci anni fa?"». Sì, io me lo ricordo e ci ho pensato quando ho saputo che saremmo state compagne di camera». Proprio in quei giorni aveva provato la salita con Longo Borghini, da un paio di settimane sentiva di stare particolarmente bene e l'aveva detto alla campionessa italiana. Il tratto più duro dell'ascesa era fra i meno tre ed i meno due dal traguardo: lì era previsto l'attacco della capitana. Un piccolo inconveniente, in realtà, c'è: l'assenza di Karlijn Swinkels che avrebbe dovuto fare il ritmo per una parte di salita. «Le situazioni di gara sono così, bisogna adattarsi. Ho pensato solo ad impostare un'andatura che fosse il più regolare possibile in modo da stancare le rivali. Quando Elisa è partita, le avevo appena chiesto via radio cosa fare, se e quanto proseguire con la "menata". Ricordo che mi sono spostata ed ho tirato il respiro, ho rallentato. Un attimo, non più di dieci secondi».
Silvia Persico conosce bene la salita, sa che più avanti tornerà a spianare, non vuole fare allontanare molto il gruppetto con Kimberley Le Court, Monica Trinca Colonel, Barbara Malcotti e Antonia Niedermaier perché se riuscisse a "tornare sotto" potrebbe fare qualcosa di buono. Elisa Longo Borghini vince la tappa, conquista la maglia di leader e, di fatto, la classifica generale, negli stessi attimi dalla radio giungono delle grida: «Silvia, sei forte! Vai che la gamba c'è, puoi prenderti il secondo posto. A tutta!». Ora racconta che quello sprint per il secondo posto l'ha vinto anche per quelle urla dalla macchina e che in quegli istanti le è balenata l'idea del piazzamento in generale. Quello per cui il giorno successivo ha "battagliato" agli sprint intermedi con Le Court, da cui la separavano solo due secondi: l'ha difeso anche grazie alle compagne di squadra che, nel secondo intermedio, sprintando, hanno sottratto all'atleta di AG Insurance-Soudal Team gli abbuoni.
«È stata una liberazione: non solo la prestazione in salita. Siamo all'inizio della stagione, ma ho provato sensazioni che non sentivo da non so quanto su una salita, in gara. È stata una liberazione anche perché sono arrivata al traguardo ed ho visto tutti felici. È bello sapere che tutto è andato bene, che la squadra è contenta. In me c'è una sorta di leggerezza, fatta di cose semplici. Direi una bugia se dicessi che Elisa (Longo Borghini) mi ha dato un consiglio particolare o detto qualcosa in particolare e, forse, è proprio questa la differenza. Ho ritrovato benessere nelle cose semplici, di tutti i giorni, nello stare in squadra e nell'andare a correre. Del resto, sono una ciclista, cosa c'è di più importante?».
Cinque amici e un'avventura in Marocco
La lunga strada, a tratti sterrata, che porta da Marrakech a Agadir, poco più di 850 chilometri e 13000 metri di dislivello, a tratti assume contorni alienanti e pare perdersi nel deserto roccioso che non si capisce dove inizi e dove finisca, mentre la destinazione resta sullo sfondo, quasi irraggiungibile. Il repentino cambio di paesaggio umbro è ormai troppo lontano. Qui il sole è bianco e pare quello anche il colore della solitudine dei ciclisti, mentre si incontrano davvero poche persone in bicicletta, talvolta qualche compagnia di ragazzini. In Italia, l'autunno sfuma nell'inverno, Lorenzo Sensi e i suoi amici, Alberto, Mattia, Andrea e Massimo, infatti, sono partiti tra la fine di novembre e l'inizio di dicembre, ma in Marocco le temperature ricordano un tiepido maggio. Il viaggio è un'abitudine per loro, appena il lavoro molla la presa: almeno una volta all'anno partono assieme, cercano mete adrenaliniche, non usuali, le inventano, oppure le percorrono «al modo della tribù», ma a questo arriveremo presto.
Nell'autunno 2023 era il Rwanda, l'anno scorso il Marocco, sulla via dell'Atlas Mountain Race. «I quarant'anni hanno cambiato qualcosa. Hanno acceso il desiderio di sfruttare questo tempo perché, per quanto sembri lunghissimo, ma è limitato, come le esperienze che ciascuno può fare. Siamo dei "cani sciolti", senza bici all'ultimo grido, senza un fotografo professionista che ci segua, senza abbigliamento top di gamma e anche senza strutture prenotate. L'attitudine è questa ed è l'attitudine a lasciare una traccia in chi incontri. Così le persone si sentono accolte, al sicuro, e si uniscono a questo entusiasmo. Augh, in fondo, è nato in questo modo: due giorni immersi nella natura dell’Appennino Umbro, per pedalare su una traccia off-road, raggiungere il villaggio, piazzare la tenda, nutrirsi con buon cibo e fare festa». Ed ecco la tribù, non solo quella di Augh, ma quella di tutti coloro che si riconoscono in questa filosofia e montano in sella. Magari cercano su Komoot le tracce gratuite, caricate da questi amici, progettano un viaggio e partono insieme. Il Marocco, alla fine, è una possibilità da raccontare anche per questo.
Allora torniamo sulla strada e torniamo alla solitudine, lenita da pochi ma significativi incontri. L'arrivo a Marrakech avviene di notte: il tempo di montare le biciclette, a letto alle quattro, sveglia alle sette e via a pedalare, verso Taddart. C'è un signore, avvisato del loro arrivo, ad aspettarli sulla strada, ma dovrà attenderli circa due ore, perché il viaggio sarà più lungo di quanto programmato. «Ahmed, così si chiamava, si sarà chiesto dove eravamo finiti, ma al nostro arrivo non ci ha detto nulla. Era solo preoccupato per noi, ci ha preparato la cena e accolti in un piccolo albergo» . Qualche tempo dopo sarà un altro Ahmed a farli sentire a casa, a Tiouadou. Un ragazzo di soli ventotto anni, seduto con loro accanto al fuoco: era partito per studiare inglese all'università, a Casablanca e chissà quanto avrebbe potuto viaggiare quel ragazzo, quanti sogni avrebbe potuto realizzare, eppure è tornato al borgo. Suo zio era un importante politico locale, che ha molto aiutato l'economia della zona, mancato in un tragico incidente in moto e Ahmed ha sentito di dover tornare per continuare a realizzare quel progetto, per gestire la struttura ricettiva avviata, assieme al fratello. «Mentre il fuoco crepitava, lui ci insegnava a giocare a carte e anche qualche parola di arabo. Stavamo bene, eravamo felici e bastava questo incontro a farci sorridere». E ancora quel signore alle Oasi Aguinane che non parlava inglese e nemmeno italiano, ma aveva un figlio a Modena: così gli ha telefonato e la cena l'hanno ordinata al telefono, con una traduzione istantanea.
Nel ricordo di Taznakht sempre più vicino al deserto e lontano dai classici luoghi turistici, e la strada coloniale che dalle Oasi Aguinane, in discesa, si tuffa in un tramonto stupendo: solo cinque amici, una strada carrareccia, le rocce e uno strano senso di libertà. Sulla pelle il caldo, sino ai 35 gradi, e il lungo mare che accoglie la fine di questa avventura ad Agadir: «Avrebbe potuto essere Rimini, con qualche turista in infradito e un locale sul mare: abbiamo bevuto un boccale di birra fresca e brindato ad un'esperienza rara. E, dico la verità, mentre ne parlo penso a cosa potremmo organizzare il prossimo autunno».
Così il gruppetto di questi amici storici è tornato a casa, dopo giorni e giorni a progettare, organizzare la sera quel che avrebbe fatto il giorno successivo, dividendosi i compiti, in modo che ciascuno potesse fare quel che gli riusciva meglio, quello in cui più si sentiva a proprio agio, aiutandosi e sostenendosi. «Ero già stato in Marocco- spiega Lorenzo- ma alla velocità sbagliata, la bicicletta mi ha permesso di ritrovare il ritmo giusto per guardarmi attorno e per gustare ogni chilometro in più fatto perché frutto della nostra fatica, del nostro sacrificio. Il sapore viene anche da lì. Se, negli ultimi anni, ad Augh arrivano quattrocento iscrizioni in poche ore, crediamo sia anche per questo, per un reciproco riconoscersi in avventure che certamente non sono banali, ma nemmeno impossibili, però serve un poco di allenamento e tanta fantasia. Quelle avventure che, quando ci ripensi, ti dici: quanto bello è stato? E sorridi».
In cucina da Chef Sut
È l'agosto del 2021. Dal volo per Tokyo, assieme alla nazionale italiana di ciclismo, scende uno chef: fra i suoi bagagli un insieme di fogli, pieni di ricette, trascritte e tradotte solo pochi giorni prima. Tanti fogli, un ricettario intero. La nazionale di ciclismo non alloggia nel villaggio olimpico, bensì in un albergo ed è proprio nella cucina di quell'hotel che quei fogli verranno depositati su un tavolo attorno a cui stanno conversando diversi chef giapponesi. L'albergo sarà adoperato esclusivamente dalla nazionale in quelle settimane e Mirko Sut, sì, il viaggiatore sceso da quell'aereo, ha voluto incontrarli subito e formulare una proposta: «Ascoltate: queste ricette sono vostre, ve le regalo con tutta la mia esperienza ed i piccoli segreti che metto nei miei piatti. Voi avrete altre cose da insegnarmi, cose che io non potrei mai imparare senza il vostro supporto: rinuncio ad ogni pomeriggio libero solo per apprendere le vostre ricette, le vostre abilità. Se siete d'accordo, è questo lo scambio che vi propongo». Uno scambio culturale, nulla di diverso. Quegli chef hanno accettato ed in quel mese Sut ha scoperto i segreti del sushi e non poteva immaginare nulla di simile. Il riso, ad esempio. La sua scelta avviene attraverso il raffronto di diverse tipologie di riso di varia età, prediligendo sempre quello più "vecchio" in quanto più consistente, più sfumato al gusto: qualcosa di simile a ciò che in Europa avviene con le farine, nella panificazione. Ora che Mirko Sut sa tutto questo, il sushi è spesso sulle tavole degli atleti di Lidl-Trek per cui cucina: in particolare gli Onigiri. Altre preparazioni non sono replicabili, perché mancano gli ingredienti da noi, ma quell'esperienza ha continuato a costruire allo stesso modo la professionalità dello chef veneto e degli chef giapponesi: «Mi hanno raccontato che i principi dietro la cucina italiana e giapponese sono simili: al centro c'è la materia prima, da ricercare con cura, e la preparazione, che deve essere minuziosa. Forse per questo, erano interessati alle crostate e alla pasta al pomodoro. Un piatto semplice, eppur complesso come tutte le cose semplici. Pochi ingredienti: la pasta, l'olio, il pomodoro, il basilico. Pochi passaggi. Basta un errore ed il risultato è compromesso, non si può rimediare». Avrebbe pensato a tutto questo un bambino cresciuto al tavolo di un'altra cucina, in Germania? Probabilmente no.
Eppure Mirko Sut passava tutti i suoi pomeriggi nella cucina in cui i suoi genitori lavoravano e ad ispirarlo è stato proprio suo padre, nonostante in famiglia i cuochi fossero molti, tre degli otto fratelli della madre. Tuttavia «ogni papà è una sorta di eroe negli occhi di un bambino, così nasce l'emulazione». Mirko Sut ha sempre pranzato in quella cucina e la sala da pranzo di casa l'ha vissuta ben poche volte. Disegnava, colorava, leggeva: il suo piccolo mondo era tutto fra quelle mura. È cresciuto in questo modo: da ragazzino, d'estate faceva la stagione tra Caorle e Bibione, in inverno, invece, era pizzaiolo. «La possibilità migliore che abbiamo è quella di creare qualcosa che ancora non c'è e con i cibi basta cambiare un accostamento per dare vita a qualcosa di nuovo, perché sono davvero mille le sfumature che si possono ottenere partendo dagli stessi ingredienti». Il ciclismo l'ha sempre amato, tuttavia è stato un giorno del 2009 a farglielo incontrare più da vicino, quando un manager di Liquigas, passando da quel ristorante, l'ha conosciuto e gli ha proposto di accompagnare la squadra alla Vuelta a España. Non ha avuto bisogno di pensarci molto prima di dire sì. «Era un'altra era per quanto concerne il mio lavoro. Non c'erano nutrizionisti con le squadre, solo i medici. Pochi gli chef. Ricordo che prima delle tappe di montagna mi chiedevano di preparare la carne rossa: oggi è quasi esclusa dall'alimentazione di un ciclista in una corsa a tappe. Forse due volte, prima del giorno di riposo. Non c'erano nemmeno bilance, oggi si pesa tutto e ne servono almeno due ad ogni cuoco». Già in quel momento, Sut avrebbe voluto che fosse quello il suo mestiere, avrebbe voluto cucinare per i ciclisti, per gli sportivi.
C'era un contratto firmato di mezzo, viaggi tra Venezia, Roma, Londra e stelle Michelin da ottenere, così attese. Ma avrebbe aspettato lo stesso, per acquisire tutta l'esperienza necessaria e l'esperienza ha a che vedere con le ore di volo, con gli imprevisti che si incontrano e si risolvono, perché nel ciclismo è tutto un poco diverso, un poco più difficile. «La preparazione meticolosa e la materia prima eccellente sono la base in entrambi i casi, tuttavia in un ristorante ci si può permettere di spaziare maggiormente: non bisogna badare ad un pizzico di sale in più, ad un cucchiaio d'olio aggiunto ad un soffritto, a quanto burro si usa. Nel ciclismo è necessario controllare tutto, anche quanto finemente sono tagliate le cipolle. Immaginiamo un recinto: da lì non si può uscire, i paletti sono vincolanti, ma, all'interno, si può, anzi, si deve sbizzarrire la fantasia, sperimentare, innovare ed è una sfida, un banco di prova quotidiano». Il dovere di uno chef è eliminare ogni possibile fonte di stress, dal punto di vista alimentare, per l'atleta che, una volta a tavola, sa che tutto quel che c'è è controllato, sicuro, ma non si ferma qui. «In mesi e mesi lontani da casa, anche il gusto è importante, perché aiuta ad appagare, a soddisfare. Pensate ai bambini: non mangerebbero mai un broccolo al vapore, in una tortina, con una forma particolare, invece, magari, ne mangerebbero anche più di uno. I miei tacos al cavolfiore sono nati da questa intuizione e piacciono. Sembrano tacos ma sono cavolfiori. Gli atleti si nutrono così di ciò che è necessario, con piacere». La responsabilità è importante, perché una disattenzione nella pulizia o nella materia prima potrebbe provocare il ritiro di un atleta da una gara, un danno enorme di cui Mirko Sut vive il peso, con dedizione ed impegno. Per esempio quando, a casa, prova nuovi accostamenti oppure nel momento in cui, al supermercato, si lascia ispirare dagli alimenti e studia per ore ed ore nuove pietanze in modo da non avere più dubbi nel momento in cui le proporrà agli atleti. Il dubbio si toglie solo così in cucina: con il lavoro.
Un lavoro itinerante, in cui le cucine cambiano continuamente, i tempi sono contingentati, le liste degli ingredienti richiesti sempre più dettagliate, eppure talvolta gli ingredienti stessi non sono all'altezza di ciò che serve e bisogna cambiare piani. Ecco il perché di quell'esperienza che Sut voleva acquisire, la stessa che nel 2016 l'ha riportato nel ciclismo e dal 2014 in nazionale. Ha ripreso a viaggiare, a conoscere nuove usanze culinarie, a chiedere a cuochi di altri paesi, mutuando una tradizione italiana, quella per cui in Liguria vengono offerte le trofie al pesto e a Napoli le sfogliatelle. Resta un lavoro in cui la comprensione ha un ruolo decisivo, perché il mondo che si esplora all'esterno è, in realtà, lo stesso che compone le squadre: «Per un ragazzo americano, la pasta al sugo è la pasta con il ketchup che è ben differente da un piatto di pasta con un buon sugo e una foglia di basilico. All'inizio, pare assurdo ma è vero, può non piacere la nostra proposta, è questione di abituarsi. Bene, non c'è soddisfazione maggiore di quando un atleta, ad un certo punto, afferma: "Non c'è storia, da oggi in poi mangerò solo questa". Un cambio di usanze e di gusti significativo».
Restano e resteranno sempre la pasta, il riso, le patate, dolci o salate che siano, aumenteranno sempre più gli chef con le squadre, perché sempre più saranno i dettagli da controllare, sempre "a blocco" dal mattino alla sera: per questo, già qualche squadra ha almeno due chef nell'organico. Gli ingredienti freschi, la materia prima, saranno ancor più importanti, unico e riconoscibile il loro sapore, simili ai pomodori nell'orto dei genitori di Mirko Sut, perché quel bambino che passava i pomeriggi nella loro cucina ora è uno chef ed in cucina crea, esplora, costruisce, accosta, racconta, assaggia, prepara.
Foto di Mirko Sut: Sean Hardy
Foto Pedersen: Sprint Cycling Agency
Locanda Hirondelle, Aosta
Quel nido di rondini, in un angolo, sotto il tetto della locanda, c'era già ai tempi di Rita e Aurelio. Poi le rondini erano tornate, come ogni primavera, e quei due signori avevano pensato che fosse un segno, per questo la loro locanda l'hanno chiamata "Hirondelle", ovvero rondine in lingua d'oltralpe. Qualche anno più tardi, anche Nathalie e Alice Pellissier, le loro nipoti, dopo tanto studiare, viaggiare, provare diversi lavori, avevano fatto ritorno in quel luogo, dove erano cresciute. I nonni se ne erano andati e i ricordi che ne hanno queste ragazze che, oggi, gestiscono questa attività ad Aosta, sono testimonianze, perché di loro hanno spesso raccontato i genitori, Vanda e Livio, magari a sera, comunque in quella locanda visto che Alice e Nathalie, sin da bambine, sono cresciute in una casa che era un albergo, quell'albergo dove lavoravano mamma e papà, dopo nonno e nonna. Erano gli anni degli 883 e di una canzone che recitava «questa casa non è un albergo» e con gli amici, a scuola, ne ridevano, si prendevano in giro. Ricordavano quando, ancora piccole, giravano per i corridoi in pigiama, disseminavano giocattoli ovunque, si avvicinavano ai tavoli mentre i clienti facevano colazione, pranzavano, cenavano e, qualche volta, venivano invitate ad uscire in gita, forse per quella naturale simpatia che suscitano i bambini. «Mamma e papà erano sempre impegnati, di corsa, di fretta, perché questo è un lavoro difficile, un lavoro che toglie tempo alla sfera privata e diventa il centro, assorbe qualunque cosa con cui venga a contatto: nella ristorazione, nell'accoglienza, non esiste il sabato, non esiste la domenica e nemmeno il Natale o la Pasqua. Se queste mura sono sopravvissute a decenni e decenni, lo dobbiamo ai loro sacrifici. Nell'infanzia, però, si desidera un adulto accanto, con cui giocare oppure uscire a camminare. Noi non potevamo chiederlo a loro, così lo chiedevamo agli ospiti che, alla fine, si affezionavano». Allora, fra tanti pomeriggi afosi d'estate, bui di inverno, tempestosi d'autunno e freschi di primavera, indirettamente, continuando a respirare quelle abitudini, Alice e Nathalie avevano imparato quel mestiere. Una consapevolezza arrivata d'improvviso: «Alla fine, noi quello sappiamo fare. E, forse, proprio quello dovremmo fare». Sì, le rondini che tornano a casa, con i primi cieli azzurri della bella stagione.
In gergo si parla di ristrutturazione ed è questo ciò che fanno le sorelle Pelissier appena presa in mano l'attività. Ristrutturare significa mettere a nuovo, pur facendo i conti con quello che già c'è stato, con il passato. L'impostazione di base viene mantenuta, ma alcune scelte si distanziano abbastanza da quello che è l'arredamento classico delle case in Valle d'Aosta, con molti orpelli ed un particolare legno tipico: «L'idea comune è che così si trasmetta calore. Noi abbiamo sempre seguito una filosofia: less is more. Meglio togliere che aggiungere e, togliendo, alla fine aggiungerai. La semplicità, se ben interpretata, non priva di nulla, anzi porta altri significati e le persone se ne accorgono. Il calore qui giunge attraverso la luce ed uno stile nordico: sono chiare le pareti, è chiaro il legno. I colori vengono dai tavoli, dalle sedie, dalle poltrone, dagli elementi d'arredo. Il tutto crea luminosità». All'ingresso si incontra subito la reception a destra ed il bar a sinistra, spazi che, di solito, sono anonimi, poco abitati negli alberghi, in quanto, di base, luoghi di transito per pochi minuti, il tempo di fare il check in oppure di bere un caffè: in locanda "Hirondelle" proprio in questi luoghi vi è una libreria, vi sono dei giochi, per favorire la socializzazione fra gli ospiti stessi e fra gli ospiti ed i gestori dell'hotel. Il sottofondo è in una parola che Nathalie, Alice e Beatrice, loro fidata collaboratrice, hanno fatto propria: sostenibilità.
«Si tratta di un discorso a 360 gradi. Parte dall'alimentazione, ad esempio, dalla nostra scelta vegana, anche se l'etichetta non ci piace, però non si ferma lì: intendiamo un modo di vivere che non causi sofferenza ad altri esseri viventi, che ci rimetta in pari con la natura e con i nostri ritmi naturali. Quelli umani che, troppo spesso, dimentichiamo». Nathalie e Alice parlano anche di loro stesse, del loro modo di affrontare quel lavoro, ad esempio. Il primo impatto le ha messe a dura prova, perché, come i genitori, si stavano lasciando trascinare nel vortice di un'attività che annullava tutto il resto, che prosciugava, attraverso lo stress che c'è, in ogni mestiere, ma era tanto, troppo: «Riconosciamo il merito di mamma e papà, senza alcun dubbio, però ricordiamo anche come passavano le loro giornate. Siamo state distanti per diverso tempo, vivevamo in paesi differenti, ma, quando siamo ritornate ad "Hirondelle", ci siamo dette che, pur ammirando l'esempio, dovevamo staccarcene, per il nostro bene. Solo un'altra strada ci avrebbe permesso di continuare a lavorare qui. La persona deve essere al centro, nonostante il lavoro sia importantissimo. Tuttavia prima noi stessi, poi il lavoro, qualunque lavoro». Di fatto, aprire un'altra via vuol dire lasciare la via maestra, il percorso ed il modo di vivere segnato dai genitori e non è mai facile. Racconta Alice che il cambiamento è stato impattante, soprattutto quando ne ha parlato con la madre che, per cultura, non ha mai detto no al lavoro, ha sempre cercato di accontentare tutti e ha rinunciato a molto per quella locanda, senza rammarico, era soddisfatta: «Ha patito questa nostra volontà di cambiare completamente approccio, soprattutto all'inizio, ed era normale. Per lei è stata quasi una messa in discussione personale. In realtà, alla fine, è come se avessimo vissuto una sorta di psicoterapia transgenerazionale e anche mia mamma, così ansiosa, piano piano ha capito ed ha acquisito morbidezza. Ha compreso che è possibile dire no, che talvolta è necessario farlo».
Un passaggio che non riguarda solo Nathalie e Alice, ma anche Beatrice Durantini, «energia nuova e travolgente», che si è unita all'attività da qualche anno, provenendo dalle Marche ed avendo alle spalle studi in giurisprudenza, perché si era stancata di quel tipo di vita "standard" e cercava altro. A lei i genitori hanno ricordato gli studi pagati, la carriera che avrebbe potuto avere e quella scelta di un lavoro che, a fronte di molto impegno, spesso restituisce poco. Beatrice non ha avuto dubbi e, oggi, "Hirondelle" è una locanda gestita da tre donne: «Ognuna di noi ha portato e porta una propria parte, una propria peculiarità in questo progetto: io con la mia passione per il ciclismo e la bicicletta, Nathalie con lo yoga e la meditazione e Beatrice con questa ventata di aria fresca, attenta alle nuove generazioni, alla città, alla stand up comedy, alla cinematografia. Non a caso organizzeremo delle rassegne cinematografiche, tra cui una retrospettiva su David Lynch, ma anche dei corsi di ceramica e delle cene con delitto. Non mi piace usare la parola orgoglio, tuttavia, sono contenta di questo esempio di imprenditoria femminile, per la sinergia che poniamo in atto, per l'attenzione alla questione di genere e alla questione sostenibilità. Senza perdere la delicatezza». Sì, le persone che entrano in locanda si confrontano con questi temi, spesso, attraverso l'occhiata ad un libro nella libreria, piuttosto che per avere sfiorato l'argomento, senza che nessuno lo imponga, perché non sarebbe giusto e perché dalle imposizioni nasce il conflitto, il rifiuto e questo Nathalie, Alice e Beatrice lo sanno, perché hanno sbagliato anche loro, hanno alzato i toni anche loro per un'idea, pur giusta, e poi sono state male. Da una parte c'è il messaggio che Hirondelle prova a trasmettere, dall'altro, la quotidianità.
«Io e Nathalie fatichiamo ancora a trovare il giusto equilibrio. Qualche volta, soprattutto in estate, quando il lavoro è sempre più ed il tempo libero sempre meno, Nathalie e Beatrice mi vedono stanca e mi propongono di andare a farmi un giro in bici. Bastano un paio d'ore e torno rigenerata». Alice confessa che il suo luogo preferito è un sentiero chiamato Ru Neuf: parliamo, il più delle volte, di antichi percorsi di ruscelli, canali di irrigazione in epoca medievale, che si addentrano nei boschi, nella natura, nel silenzio, per, magari, venti chilometri, sempre in pianura. Democratici, perché possono essere percorsi da chiunque, basta una gravel, una mountain bike, talvolta a piedi. Anche Nathalie e Beatrice, quasi per osmosi, hanno iniziato ad interessarsi di biciclette e ciclismo. Beatrice, poi, avendo anche un compagno pedalatore è «circondata» e non può che imparare cose. Per Alice è iniziato tutto da una vecchia bicicletta e da un viaggio in Sardegna: da quel momento non è più riuscita a viaggiare al ritmo di aerei, bus e macchine. Ha sempre cercato una bicicletta, più simile a lei, con la possibilità di scoprire, addentrandosi in paesini e vicoli che altrimenti non sarebbero esplorabili. Una bicicletta come inno alla lentezza ed alla riflessione.
«Mia sorella Nathalie, invece, è la nostra parte spirituale. Ogni tanto la prendiamo anche in giro, perché i nostri ospiti avvertono questa sua vocazione e si confidano molto con lei, la cercano. Grazie a lei non mi abbatto quando arrivano i momenti difficili, perché mi ha insegnato che se arrivano c'è un motivo, ed è giusto affrontarli e proseguire, trarre ciò che possono darci. Nathalie è il motore di tutto questo. La locanda è un luogo tranquillo, in cui organizziamo anche incontri di yoga, invitando insegnanti, cercando di coccolare chi viene a trovarci, come proviamo a fare sempre».
Inclusività è la parola chiave ed è attraverso questa inclusività che, spiega Alice, dalla locanda "Hirondelle" si guarda il mondo. Certo, perché chi fa il suo lavoro conosce il mondo attraverso le persone che, soggiornando, lo portano fra quelle mura. Bisogna restare curiosi, attenti, è necessario averne cura, proprio mentre si lavora. «La nostra strada è iniziata da poco, impareremo molto e probabilmente cambieremo anche. Però non modificheremo mai la sincerità verso i clienti: non è stato facile intraprendere la via vegana, perché comunque è un lavoro e la preoccupazione di perdere una fetta di clienti poteva esserci. Non li abbiamo persi, nonostante la nostra clientela sia per la maggior parte onnivora, perché hanno compreso la nostra sincerità. Il lavoro crediamo sia questo e speriamo resti sempre questo. Ci sono i problemi, le avversità, le difficoltà, ma il lavoro può nutrire. Anzi, deve nutrire qualcosa nelle persone». Il nido di rondini là sopra, sul tetto, c'è ancora e le rondini continueranno a tornare perché, ormai, è casa loro.
Foto: Tommaso Longo
Ricordi, speranze, futuro: intervista a Nadia Quagliotto
Sono trascorsi ormai più di cinque anni da quell'otto luglio 2019 a Carate Brianza, al Giro d'Italia femminile, e ora che «è acqua passata, ci si può quasi ridere sopra», ma a Nadia Quagliotto quel giorno è come se fosse caduto il mondo addosso. Una volata a tre in un pomeriggio lombardo ed afoso e la fuga, inizialmente senza speranze, che arriva al traguardo: Nadia Quagliotto era all'attacco da diversi chilometri con Letizia Borghesi e Chiara Perin ed in quello sprint pareva la più veloce. La sua ruota è stata davanti a tutte fino all'ultimo, quando Quagliotto ha alzato le braccia al cielo e Borghesi l'ha superata, prendendosi la vittoria. In quell'esatto istante il mondo era crollato con un rumore fragoroso e un silenzio impossibile da ascoltare, quello della delusione e del dolore, dell'imbarazzo e della vergogna, anche.

«Sarebbe cambiato qualcosa per me? Non si può sapere ed il senno di poi vale quel che vale, tuttavia non credo. Ricordo perfettamente la sensazione di essere messa in croce: il giorno dopo non avrebbero voluto farmi ripartire. Ho sbagliato ed è stato un grosso errore, qualcosa che io stessa non mi perdonavo. Forse, però, non meritavo quella reazione, perché può succedere, non sono stata la prima e non sono stata l'ultima. Avrei dovuto reagire diversamente, ma avevo ventuno anni e si è più fragili a quell'età. Ero succube delle situazioni, subivo tutto quello che mi accadeva: ho imparato in quell'anno e in quello successivo a dire qualche sano "va a quel paese", a non logorarmi il fegato per quello che, alla fine, è solo un lavoro. No, non ho mai parlato con Letizia di quell'episodio». Classe 1997, da ragazzina si cimentava con il nuoto, anche a livello professionistico: ha smesso perché le sembrava troppo impegnativo e adesso si prende in giro: «Non so se nella scelta ci ho guadagnato, anzi sono convinta di averci perso ma, quando avevo una decina di anni, volevo a tutti i costi fare la ciclista. Non sono stata molto furba, dai». A casa Quagliotto il ciclismo non era praticamente mai entrato e tra il 2019 ed il 2020 stava per uscirne definitivamente. Perché dopo quella tappa, ci fu la parentesi in Cronos Casa Dorada.

«Tuttora non so cosa accadde, però so che per sette, otto mesi continuavano a dirci che sarebbero arrivati i soldi per ripartire e quei soldi non arrivavano. Era il periodo della pandemia, nessuno correva. Non sai del tuo futuro, non sai più nulla: se corri, qualcuno può notarti, ma se non corri? Finisci nel dimenticatoio, il nostro mondo è così. Ho pensato di mollare tutto e fare altro. Mi ha salvato Walter Zini che conoscendomi mi ha voluto con lui». Proprio con Zini ha imparato una certa leggerezza, la capacità di non far caso a tutto, di lasciarsi scivolare le cose addosso, «altrimenti con Walter smetti di correre»: Zini che tatticamente difficilmente sbaglia, Zini che ancora oggi la prende in giro con qualche battuta e lei ricambia allo stesso modo. Non molto tempo fa, le solite borracce che utilizza hanno cambiato colore e lei l'ha subito notato e ne ha parlato con una compagna: «Ora vedo anche quando una borraccia ha un colore differente, pensa te. Ha a che vedere con quel periodo buio. Ho iniziato lì a far caso alle piccole cose». Ha messo da parte l'ansia che ne caratterizzava il carattere, mentre le è rimasto un certo pessimismo su cui continua a lavorare: a casa, i genitori sono contenti della sua scelta, soprattutto dell'impegno che mette nel proprio mestiere. Le augurano successi perché è così che si continua a costruire una carriera ed anche lei li spera perché «sono stati anni di sacrifici economici anche per loro, per accompagnarmi alle gare, per sostenermi e nel ciclismo, da bambina o da ragazzina, se il genitore non ci crede devi fermarti, perché da sola non puoi andare da nessuna parte, sono trasferte lunghe, pesanti. Di certezze non ce n'erano, tanto più che non è un mondo che naviga nell'oro». Si definisce "all rounder" perché ha un buono spunto in volata e si difende in salita, poi scherza: «In sostanza è un modo carino per dire che non sono carne e non sono pesce: vado bene un poco ovunque ma non vinco, mi stacco sulle salite troppo impegnative e in volata fatico perché sono troppo magra. Non ho una corsa preferita, mi si addicono le gare di un giorno, non troppo lunghe, sennò mi annoio e, di conseguenza, mi deconcentro, e mosse. Sono sempre lì, ma vorrei la vittoria».
Lo scorso anno, in Laboral Kutxa, racconta di essere mancata a metà stagione, pagando forse l'intensità del mese di aprile e maggio: dapprima qualche malanno fisico dovuto al freddo nelle Ardenne, successivamente, a luglio, svuotata completamente dal Covid al Giro d'Italia. Il fisico ko, ma, soprattutto, la testa che ad un certo punto cede: è sicura di peccare più di testa che di condizione e su questo sta concentrando i propri sforzi, in questo modo spiega di essere riuscita, talvolta, ad andare anche oltre quello che lei stessa si aspettava. «Pativo la pressione e questo non mi permetteva di rendere al meglio. A metà stagione il cambiamento: mi hanno chiesto di fare un passo indietro e mettermi a disposizione delle compagne. Mi è servito, ho preso consapevolezza ed è stato tutto più semplice. Mi hanno detto che raramente hanno conosciuto un'atleta capace di mettersi a disposizione così volentieri: a me non pesa ed anzi mi sento gratificata da un ringraziamento, semplice semplice. Del resto anche queste sono piccole cose da apprezzare. Il ciclismo non è uno sport individuale, è una disciplina di squadra». Alle ultime gare di stagione, il suo allenatore l'ha presa da parte: «Nadia, sei arrivata qui che eri una persona e te ne vai completamente diversa, ci spiace perderti». Lei si è commossa. Sì, da quest'anno veste i colori di Cofidis: i primi contatti ci sono stati a marzo, successivamente alcune call ed a giugno la firma definitiva. Sarà un altro step nella sua carriera e le permetterà di disputare le classiche che, per tracciato, le si addicono. Sta studiando francese, anzi, a dire il vero sta provando a ripassarlo perché ha studiato all'Istituto Tecnico Turistico e fra le materie c'erano inglese, francese e spagnolo: «Studiato è una parola grossa, perché studiare non mi piaceva, col senno di poi, però, avrei preferito farlo prima che dover recuperare adesso. A parte gli scherzi, da casa mia alla scuola c'erano trenta chilometri: le mie compagne mi dicevano che al ritorno a casa vedevano i cartoni animati. Io tornavo sfinita dagli allenamenti e studiavo a sera. Già non era il mio forte, in queste condizioni poi. Però gli insegnanti mi hanno aiutato, devo dirlo».

In Cofidis ha ritrovato Martina Alzini, si conoscono da molti anni, da quando Quagliotto si cimentava con la pista, nel quartetto: quel periodo le ha cambiato il fisico perché spingere rapporti così duri ha certamente influito sul fisico. Ora probabilmente gli effetti non si sentono più, ma all'inizio riconosce siano stati importanti: «Ho smesso quando sono approdata in Fassa Bortolo nel 2016 ed era ovvio che accadesse così. Facevamo il Fiandre, sono cresciuta bene con loro, Lucio Rigato mi ha insegnato molto e, a dire la verità, credo di aver sbagliato ad andare via, avrei dovuto fare un altro anno lì e crescere con più calma. Ma non avevo molto la testa, non ero molto in bolla, così ho scelto frettolosamente. Del resto, fuori dalle gare sono un poco un disastro, è la mia indole». Alle gare ritrova la concentrazione ma il mondo professionistico diventa pesante ed ora della fine dell'anno si sente la necessità di staccare: «Di fatto siamo intrappolate nella solita routine: allenamento, rulli, massaggi, camera, cena, sonno e si ricomincia. Vero che giriamo molto, ma non esistono visite alle città, al massimo una pausa caffè al bar. Anche gli argomenti di dialogo sono più o meno sempre quelli. Non c'è altro, viviamo per il ciclismo. Sento la necessità di tornare a casa, fosse pure una toccata e fuga». Nata e cresciuta a Maser, da qualche mese si è trasferita a Bergamo, per stare accanto al suo compagno. Segue molti sport, in particolare documentari su Formula1, atletica, nuoto e tennis. Nel gruppo del ciclismo si dice ammirata dalla bellezza stilistica di Van der Poel in sella, ma ha imparato a mettere tutto al giusto posto ed a vivere di conseguenza, così è possibile soffrire meno, pur impiegando la stessa passione. Se deve buttarsi in volata, il pensiero di quel giorno del 2019 non c'è più e lei è libera.
Ogni tanto si ferma a pensare, perché sa che, per quanto sia giovane, la carriera da atleta prima o poi finirà: non sa cosa potrà fare quando scenderà di sella e la cosa la preoccupa. Poi scherza, sorride, ride forte e chiosa: «Finirà che arriverà il momento e ci penserò, altre soluzioni non ne ho. Sono fatta così».
Palo Alto Bikes, Rivignano
Palo Alto era Palo Alto Market, a Poblenou, Barcellona: una vecchia fabbrica tessile di mattoncini rossi, con una ciminiera che svetta alta nel cielo, il cosiddetto Palo Alto, per l'appunto. Questo spazio, un tempo simbolo dell'industria, oggi pulsa di nuova vita, ospitando giovani artigiani e creativi che ogni mese danno vita a un mercatino, un magico equilibrio tra modernità e tradizione. In Spagna, a Barcellona, Lorenzo Sandrin era arrivato per incontrare Michela, la sua attuale compagna, ma quello strano nome e la scelta di quegli artigiani l'avevano, da subito, meravigliato.
Che a Palo Alto, in California, esistesse già un negozio di biciclette dal nome Palo Alto Bicycles, l'avrebbe scoperto solo anni dopo, quando in via Umberto 79, a Rivignano, in provincia di Udine, i vetri di una piccola vetrina si affacciavano già su un altro Palo Alto Bikes, quello nato dalla sua idea di ricreare quell’atmosfera magica di artigianato moderno. In California, Lorenzo non è mai stato, ma Italo, un signore all'epoca ottantenne, gestore della ferramenta del paese, sì, per trovare suo figlio che vive negli Stati Uniti. «Italo aveva un inglese incerto e le movenze di un padre anziano, ma in quel negozio lontano, riuscì a spiegare che pure nel suo paese c'era una realtà con lo stesso nome. Non so quanto quel titolare, con svariati dipendenti e un giro d'affari importante, potesse essere interessato al racconto della mia storia, ricordo però l'ultima volta che Italo venne da noi e mi narrò questo fatto. Purtroppo Italo non c'è più, ma io lo rivedo orgoglioso come quel giorno e, nella mente, risento la sua descrizione, mentre lo immagino che parla in inglese del proprio paese e del nostro negozio». Così questa è la storia di quel nome curioso, dietro a cui se ne nasconde un'altra, schietta e sincera, come sono i friulani: senza fronzoli, senza retorica.
La verità è che Palo Alto Bikes è nato da una necessità, di più, è nato da diverse insoddisfazioni lavorative. Suo padre faceva il lamierista carrozziere, un mestiere quasi ormai scomparso, dedito alla riparazione degli oggetti in lamiera: che fossero pezzi di una vecchia Alfa Romeo Giulia, di una Lambretta o di un trattore non faceva differenza. Li portava a casa e ci lavorava pazientemente, mentre Lorenzo e suo fratello imparavano. All’epoca uno scooter usato, con qualche sistemazione e una riverniciatura, pareva come nuovo. Lo spazio per tutto questo era l'officina sotto casa, fino a che, un giorno, papà tornò con un telaio in acciaio datato, montato Campagnolo: era il periodo delle biciclette a scatto fisso, della Red Hook. Quell'officina diventò improvvisamente dedicata a quella e ad altre biciclette: Lorenzo montava, smontava, lucidava e costruiva ruote. Michela, di tanto in tanto, passava da quelle parti e le sue parole erano sempre più o meno le stesse: «Che bella la tua manualità, perché non ne fai qualcosa in più? Dovresti provare».
«Di fatto, fu un salto nel buio, un azzardo, seguendo un’ispirazione e un modo diverso di vedere il ciclismo. Ho viaggiato per le principali capitali europee, oppure a Barcellona e Berlino, ad esempio, cercando ispirazione ed imparando tutto quel che potevo captare, per poi applicarlo nel mio progetto. Avevo uno studio di produzione che, però, non riusciva a fornirmi alcun sostentamento a livello economico: dove c'era l'attrezzatura audio, ora ci sono attrezzature per biciclette, la musica degli strumenti è diventata vento tra le ruote e la passione è divenuta un lavoro».
Palo Alto Bikes è cresciuto di giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno: nel primo periodo vi trovavano casa biciclette molto standard, ora in esposizione è possibile trovare brand di nicchia (come BROTHER Cycles, O.P.E.N. e Bombtrack) e qualche ruota in carbonio assemblata a mano. Col tempo sempre più persone sono arrivate qui attratte dalla passione e dalla cura che Lorenzo mette nel suo lavoro. L'attenzione di Lorenzo è stata quella di rimanere al passo coi tempi, ricercare prodotti e soluzioni interessanti e dedicare tempo alle esigenze dei clienti e ai loro montaggi personalizzati. «Credo che questo mondo, quello del ciclismo, si possa dividere in tre macrocategorie: gli amatori, gli agonisti e gli appassionati. Da questi ultimi si trae sempre nuova linfa per le giornate: conoscono ogni salita e ogni altimetria, in vacanza, a tempo perso, vanno in bicicletta, magari salgono al Galibier o al Mont Ventoux, soprattutto conoscono cose a cui gli agonisti non fanno nemmeno più caso, presi dal risultato, dai numeri. Il mio lavoro mi ha permesso e mi permette ogni volta di vedere le diverse facce di questo piccolo universo chiamato ciclismo».
Un gestore, specifica Lorenzo, nel 2025, non può fermarsi alla vecchia logica del negoziante o del meccanico, bisogna, invece, entrare nell'ottica di una sorta di "meccanico 2.0", perché «mi si permetta il gioco di parole, fare solo ciò che paga, in realtà, non paga. Le persone ormai acquistano tutto dal divano di casa: bisogna aiutarle a fidarsi e, al giorno d'oggi, non è facile». Lorenzo non si sente venditore, anzi, narra che quella è la cosa che ha più difficoltà a fare, lui si diverte a costruire bici su misura, per quella persona o per quell'evento, quando, tuttavia, si trova a dover vendere inizia a fare domande, a chiedere, a rovistare fra le varie esperienze, fra le vecchie biciclette per reperire le misure corrette: qualche cliente non è rimasto al passo con i tempi, allora Lorenzo improvvisa, sa farlo bene, gli riesce, e così cerca di capire la persona che ha davanti, quel che vuole, che desidera.
«Mi interfaccio anche io con quello che chiamo "l'arrangismo friulano", un atteggiamento ben riassunto da una frase tipica: “fasin di bessôi”, ovvero "facciamo da soli", omaggio alle capacità ed ai talenti friulani e forse anche un poco alla proverbiale diffidenza di questo popolo. Mi capita che mi arrivino qui persone con biciclette in condizioni abbastanza precarie che, magari, hanno intenzione di fare lunghi viaggi, all'altro capo del mondo: in quel caso serve spiegare, è necessario mettere davanti alla realtà dei fatti. Non sempre capiscono perché è un qualcosa di ancestrale quel modo di fare, quello del pensare di non aver bisogno di nessuno, ma talvolta si riesce a cambiare. Dalla stessa origine deriva l'avversione che spesso, anche sui social, si ha nei confronti dei meccanici, quasi non fossero idonei ad occuparsi delle nostre biciclette perché "faremmo meglio da soli". La problematica è la stessa e vale per ogni zona d'Italia». Il friulano, inoltre, è diffidente, anzi, forse, molto diffidente, ma, una volta che si riesce a fare breccia nel suo scudo, si rivela una persona aperta e calorosa. Bene, in quel momento diventa impossibile anche solo passare dalla regione senza avvisare: ci tiene a mantenere il contatto, la conoscenza, l'amicizia.
Il locale è articolato in due ambienti distinti, caratterizzati da altrettanti, spazi, come fossero due mondi: uno relativo alla vendita con qualche bici in esposizione, l'altro all'officina, con una piccola vetrina ad attirare l'attenzione sul negozio. L'idea è sempre quella di cercare di offrire non solo prodotti e servizi ma anche un’esperienza divertente ed originale al cliente: «Penso, ad esempio, alla Cimiteri Ride, la nostra gravel annuale che organizziamo nel periodo della festa di Ognissanti. Sarà per il nome assurdo o il periodo particolare ma ogni anno attira sempre più partecipanti. Non serve molto: una traccia particolare, i ristori con prodotti appetibili, magari locali. La chiave è mantenere tutto semplice, genuino, anche se non è così scontato: alla fine, si tratta solo di una pedalata insieme, nulla di più. Un altro esempio potrei portarlo parlando delle uscite che organizziamo in notturna, al mercoledì, e, visto che siamo un poco distanti dalle principali città, ci siamo inventati una sorta di tour: siamo stati ad Udine, a Pordenone e in altre località. Sapete il bello? Alcune di quelle persone, che hanno pedalato nei nostri eventi, si scambiano nomi e numeri di telefono e, successivamente, si ritrovano per correre assieme: questo per me è un risultato, forse il più importante».
L'invito di Lorenzo è quello di restituire il maggior potere possibile all'utente finale, un potere che, di fatto, gli appartiene. Per farlo, spiega, è necessaria una sorta di involuzione, un ritorno alle origini. Si tratta di riscoprire le botteghe, dove trovavi non più di una ventina di biciclette, in contrapposizione ai grandi negozi, dove spesso «si vendono scatole vuote». In quelle botteghe, l’utente si riconnetteva con l’artigianato e con una dimensione più umana e autentica. Secondo Lorenzo Sandrin, quando queste due strade – tecnologia e artigianalità, modernità e tradizione – torneranno a incontrarsi, sarà stato fatto un grande passo avanti. È una visione in cui crede fermamente.
Intanto, da quel 9 marzo 2019, sono già trascorsi ben più di cinque anni, quasi sei, a dire la verità, mesi e giorni in cui quel salto nel buio e quella scelta coraggiosa si sono rivelati un successo. Di passi avanti se ne sono fatti e tanti e se ne vorrebbero fare ancora. Crescere, certo, ma con un punto fermo: la natura artigianale, che, ancora oggi, è preziosa e da preservare. Nelle pieghe dell'artigianalità ci sono le origini e le origini sono la base da cui costruire qualunque cosa: anche Palo Alto Bikes, dal nome californiano, dal ricordo spagnolo, dalla base friulana, dalla realtà a due ruote, come due ruote hanno le biciclette di qualunque ordine e grado.