Ci andiamo in bici?
Da ragazzino, diciamo tra i sedici ed i diciotto anni, quando ancora viveva vicino a Taranto, in un paesino, Frank Lotta voleva il motorino: il Piaggio SI, quello su cui molti giovani giravano in quel periodo. Lo chiese a papà: «Mi disse di no, almeno per quel momento. In realtà, il motorino non me lo comprò mai, però avevo la bicicletta, la mia bicicletta per andare da paese a paese con gli amici. E come si faceva? Come si diceva per organizzarsi e partire? Spesso bastava un "ci andiamo in bici?". Li risento ancora oggi quei "ci andiamo in bici?" e sono importanti per me».
Di più, per Frank Lotta quella frase è determinante e l'entusiasmo con cui ce la analizza, ce la racconta, quasi come fosse un prezioso testo letterario, è da ricordare: «Sì, è determinante. Ma ti immagini se ci dicessimo quelle poche parole ogni volta in cui andiamo al lavoro, ad incontrare un amico, magari a mangiare un panino ed a bere una birra? Se quella fosse la proposta o l'invito di ogni giornata, il proposito dietro le cose più semplici? La realtà è che non potrò mai spiegare in maniera esauriente quella frase perché è già così ricca, così piena, che l'essenza è lì e solo lì. Ogni parola che aggiungiamo, toglie». Silenzio.
"Ci andiamo in bici?" è divenuto così il titolo di un programma vodcast, in sei puntate, una ogni lunedì, a partire dal 9 ottobre, su Mediaset Infinity, in cui, in sella alla propria bicicletta, Frank Lotta si reca dai propri ospiti, mettendosi in dialogo ed in ascolto ed interrogandosi sulle possibilità di uno sviluppo sostenibile che non penalizzi le future generazioni, magari attraverso una filosofia di vita più rispettosa dell'ambiente. E Frank scherza: «Perdonami, ma qui ci sta bene la sincerità più schietta. Dovevo andare a Torino, a Bologna, a Roma, ma non sono un ciclista professionista. La mia regola in bicicletta sono le pause in cui guardo, osservo, fotografo, faccio un video del luogo in cui mi trovo. Quanto tempo ci avrei messo? Chissà. Allora ho scelto di coniugare la bicicletta con un mezzo elettrico, un'auto elettrica. Cosa ho scoperto? Che tracciare un itinerario e poi percorrere cinquanta, settanta chilometri, attorno allo stesso centro è una scoperta continua. Forse non dovrei dirlo, forse è banale, invece lo ripeto. Su quella bicicletta ho scoperto cose che nemmeno immaginavo». Una delle prime scoperte ha a che vedere con la gioia.
«Stai solo pedalando, eppure è come se ti fossi messo parrucca e naso rosso da clown e girassi per le strade in cerca della felicità. Stai solo pedalando ma chi pedala come te ha voglia di starti accanto per un tratto di viaggio, chi ti vede ti guarda, si avvicina, ti chiede se è tutto a posto. In Australia, qualche anno fa, ho capito che in sella non sei mai solo: nemmeno se ti trovi in mezzo alla strada con la bici rotta. Qualcuno arriverà, ti chiederà, ti aiuterà. Si può diventare felici in sella, è un lasciapassare per la gioia». Allora si va in bici, certo, ma da chi si può andare per capire, scoprire, imparare? La guida deve essere la curiosità e l'ispirazione la cultura: se si è curiosi si ha il desiderio di ascoltare e di imparare, chi sa, invece, può spiegare. Dopodiché il segreto è ascoltare, riflettere. Ascoltare Paolo Cognetti che racconta le montagne, Mariasole Bianco che parla della conservazione dei mari, Mia Canestrini che narra la biodiversità animale, Luca Parmitano che porta alla scoperta dell'esplorazione spaziale, Luca Mercalli che indaga il cambiamento climatico e Nicola Armaroli che si occupa di transizione energetica.
Frank Lotta era con ognuno di loro e per descrivere quel che è stato questo viaggio adotta un paragone che resta impresso: «Immagina Marco Pantani che scala il Mortirolo come sapeva farlo lui, immaginati quella sensazione. Luca Mercalli trasmette la stessa cosa, seppur in un altro ambito». Le domande scavano, provano a svelare realtà complesse, molto complesse, e Lotta deve fare i conti con una realtà ineluttabile: ciascuna di quelle frasi affermative e certe, almeno per chi le pronuncia, che sentiamo tutti i giorni, del tipo in realtà il cambiamento climatico non esiste, per essere smentita richiede minuti e minuti, argomentazioni e argomentazioni. «Anche se sono false, anche se non hanno motivo di esistere, quel tempo serve ed è giusto prenderselo. "Il cambiamento climatico non esiste, le auto elettriche non aiuteranno la transizione": parlo di queste parole che gli esperti sviscerano, vanno indietro nel tempo e, di analisi in analisi, portano prove, motivazioni».
Anche perché, e Frank Lotta lo spiega bene, in molti casi loro hanno visto con i loro occhi quel che spiegano: sono fatti, non supposizioni. «Luca Parmitano me lo ha detto: “Ma io ho visto dalle stazioni orbitali i deserti che aumentano, ci sono le foto. Come si può dire che non è vero di fronte a questo?"». Se lo chiede Parmitano e se lo chiede anche Frank Lotta mentre ne parliamo: certo è necessario un cambiamento planetario per provare a cambiare davvero qualcosa, ma le piccole abitudini, i comportamenti che ognuno di noi adotta, possono già essere importanti.
Luca Mercalli lo ha spiegato così: «Prendiamo l'esempio di un corpo ammalato, non importa tanto la malattia ai nostri fini, importa il fatto che il nostro corpo sta male, che noi stiamo male. In questi casi, si fanno degli esami clinici e, una volta individuato il problema, ci si cura per risolverlo. Il pianeta sta male, è nella stessa condizione. Il problema non è irrisolvibile, però bisogna muoversi per risolverlo. Bene, chissà perché, di fronte a questo malessere, invece di scegliere di curarci, scegliamo di ignorarlo».
Probabilmente perché, come esseri umani, facciamo fatica a percepire la pericolosità nel momento in cui non si presenta a livello personale, quindi, è verosimile, che si arrivi a comprendere il pericolo solo quando sarà irreversibile e questo è assurdo, anche perché, come aggiunge Luca Parmitano, «non è solo a rischio l'esistenza di un pianeta, è a rischio la nostra esistenza, come esseri umani. Che lo vogliamo o no, la situazione ci tocca direttamente». Tra l'altro, come precisa Paolo Cognetti, non è nemmeno detto che qualcosa si faccia nel momento dell'irreversibilità della situazione, perché l'essere umano è estremamente adattabile ed il rischio è che riesca a ritagliarsi una sfera protetta anche in un ambiente ingestibile. Una prospettiva apocalittica, da considerare, tuttavia.
Frank Lotta trova nei giovani un seme per sperare nel cambiamento, non in tutti, magari, non sempre, ma senza dubbio lì c'è una possibilità: «Io mi sono commosso quando ho incontrato per la prima volta i ragazzi dei Fridays For Future perché guardavano oltre le loro giornate, la loro quotidianità, avvertivano la preoccupazione per qualcosa di più grande e se ne occupavano. Se penso ai miei quattordici anni, non avrei avuto questa forza, questa volontà». Si parla di elettrico, che, attualmente, è una possibilità per ridurre le emissioni di CO2, un domani chissà, magari ci sarà altro, e si torna a parlare di quella bicicletta «di raggi, ruote, catene, pezzi di ferro, che non possiamo non usare, che per me è stata una vera e propria folgorazione, quando ho iniziato ad avvertire un senso di colpa profondo per l'ambiente. Allora sono arrivati i viaggi, perché è questo il bello: non solo si risparmia qualche quattrino, non solo si può andare più veloci o più lenti, ma si può essere felici, come me quando passo da Piazza Duomo, a Milano, in sella, quando sto nel silenzio con lei o quando arrivo dove non potrei arrivare con nessun altro mezzo. La bicicletta mi ha fregato, me ne sono innamorato». Allora sì, andiamoci in bici.
Matilde Vitillo: crescendo e cercando
Matilde Vitillo sta raccontando della sorella più piccola, dieci anni in meno, che già ora si cimenta con il ciclismo. La frase è veloce e quasi scivola via nella conversazione, però è importante, così la memorizziamo e torniamo a rifletterci pochi istanti dopo: «A quell'età, il ciclismo serve soprattutto per imparare a perdere». Già, ma cosa significa imparare a perdere e soprattutto perché è tanto importante.
«Significa che nella vita, nonostante le molte similitudini, le cose sono più complesse che in una gara di ciclismo, soprattutto la vita non è una di quelle gare in cui si vince: la coppa, i fiori, il podio, gli applausi, non sono all'ordine del giorno. Anzi, spesso non ci sono proprio. Di vincere non capita molte volte, ma fare i conti con la vittoria, fuori dalla metafora, con quel che ci riesce semplice, con quello in cui riusciamo bene, è molto più facile. Quando le cose vanno bene, del resto, è sempre facile. Il punto è che, soprattutto nella società di oggi, si ha un disperato bisogno di sapere perdere, di riconoscere il valore della sconfitta e degli sconfitti. Credo che si debba imparare da bambini, perché da adulti non si impara più. E crescere convinti che conti solo vincere, impreparati ai fallimenti, alle delusioni, è un grosso problema. Non si impara, si molla, si lascia perdere appena si soffre, si resta scottati. Le prime gare in bicicletta, quelle in cui si perde sempre, te lo fanno capire molto bene». Vitillo accompagna tante volte la sorella alle gare e vede i genitori dei bambini riversare molte pressioni sulla loro prova, sul risultato, su quel che fanno o non fanno: si chiede il perché, si ricorda che lei queste pressioni non le ha mai avute e alla sorella, che, per carattere, tende a preoccuparsi, cerca di spiegarlo.
Per lei, poi, perdere, da bambina, era una cosa naturale, la definisce proprio così: si allenava solo quando poteva, talvolta andava alle gare senza prepararsi, non si aspettava molto, non si aspettava quasi nulla e tutto quello che arrivava era un di più. A fine gara, dice, era sempre contenta. La sconfitta vera, quella che fa stare male, che non fa dormire, l'ha conosciuta qualche anno dopo, da juniores secondo anno, in una cronometro. Era andata anche in ricognizione sul percorso perché teneva particolarmente a fare bene e tutto sembrava perfetto: «In curva, ho provato a superare una ragazza. Sono scivolata e finita malamente a terra, in un'aiuola, dall'altra parte della strada: a pezzi, sia per le ferite che per il morale. Mi è dispiaciuto, certo, ma, alla fine, cosa fare? Salvare il buono, senza lamentarsi troppo. Ora non farei più quel sorpasso. Ho imparato». Ripensandoci ride e il suo sembra ottimismo, in realtà, di lì a poco, ci confesserà di essere di indole pessimista, di pensare molto a quello che potrebbe non andare, di non avere quasi mai, prima di una corsa, la sensazione di poter vincere facilmente, di avere la gamba. Forse fa parte dell'introversione, sicuramente l'aiuta perché ancora oggi, come da bambina, a fine gara riesce a essere soddisfatta, qualunque cosa sia successa. A focalizzarsi sulla parte positiva e guardare oltre.
Classe 2001, di Frinco, Asti, al ciclismo non pensava proprio. Con i fratelli ha sempre fatto sport e spesso, quasi sempre, tutti e tre facevano lo stesso sport, che fosse il tennis, lo sci ed anche la danza classica. Solo una volta, Matilde Vitillo non ne voleva proprio sapere dello sport intrapreso dal fratello: la volta in cui, quello sport, era il ciclismo. «No, non lo praticherò mai. Io continuo a fare danza classica». Sì, disse proprio così, convinta. Servì poco meno di un anno per provare e decidere che la sua strada era questa: «Due parole: odi et amo. Non ci avrei mai pensato, non volevo nemmeno iniziare e ora fatico a pensarmi se non ciclista». Gioco di contrasti, come la prima volta in pista, stranamente con una bici con i freni, che rende tutto ancora più pericoloso: una brutta caduta, tirando i freni mentre si trova fra due biciclette, per paura. Catapultata in avanti, ammaccata e intimorita.
«Ricordo come ora il momento in cui il Commissario Tecnico della Regione mi accompagnò negli spogliatoi e mi aiutò a togliere la polvere dalle ferite. Mi segnarono quegli istanti, fu molto difficile e, fosse stato per me, non sarei più tornata in pista. Quel C.T. mi fece capire che dovevo riprovare: non potevo fuggire, scappare. Riprovai». La pista le ha insegnato la tattica, l'essere pronta, attenta, a gestire lo stress. Le piace, in particolare la corsa a punti, i risultati arrivano, ma lei non si sente una pistard, non è quella la sua vocazione. Si sente una passista-scalatrice: ama la fuga, ma sulle montagne deve tornare, per migliorare. Da giovane era già brava, è solo questione di recuperare quelle sensazioni. In pista invece vuole lavorare sulla resistenza.
Se non avesse fatto la ciclista, forse avrebbe studiato architettura o qualcosa di simile. Ci ha pensato anche quando si è trattato di iscriversi all'università, ma è un percorso difficile da portare avanti correndo in bicicletta. «Ed io so correre in bicicletta, non so cosa altro potrei fare»: un appunto messo lì, significativo, genuino. Nel periodo della scuola, pensava più alle gare in bici che allo studio e oggi si chiede se fosse giusto: sicuramente ha vissuto meglio lo studio grazie al ciclismo, a quei momenti di sfogo, di libertà. Che potesse diventare un lavoro l'ha capito grazie ad una convocazione in nazionale, da junior: «Erano dei test, nemmeno una gara. Ed io, pessimista come al solito, ero certa che avrei deluso le aspettative. Però, vedi, anche in quell'occasione mi sforzavo di trovare qualcosa di positivo: "Male che vada, avrai comunque un body della nazionale a casa". Mi salvavo così». Evidentemente non andò male.
L'anno scorso è stato da ricordare. Matilde Vitillo è emersa come una rivelazione, vari risultati importanti, soprattutto una vittoria, a la Vuelta a Burgos. I pensieri che volano, su come confermarsi, sul fatto che il 2023 sarebbe stato l'anno della consacrazione, di un passaggio importante. Purtroppo il 2023, per una serie di circostanze e vari problemi fisici, l'ha delusa: si aspettava di più.
In Be-Pink c'è Walter Zini, colui che le ha insegnato praticamente tutto del ciclismo, con una visione di gara perfetta, anche dall'ammiraglia: «Walter è molto duro, rigido, ma non sbaglia un colpo. Quando ti dice di attaccare, puoi farlo ad occhi chiusi, perché è il momento giusto. Sigrid Corneo ha, invece, sempre rappresentato la parte di comprensione: "Basta l'impegno, poi quel che succede succede". Non so quale approccio preferisca, so che mi sono serviti entrambi per essere quella che sono oggi. Non è stato facile, ma ho deciso di cambiare squadra, di proseguire il percorso». Percorso è una parola chiave per Vitillo, che non parla di gare sognate o di traguardi, ma riflette molto sul continuare a crescere ed in ogni valutazione guarda il percorso più del risultato. Anche ora che deve confrontarsi con la fiducia che il nuovo team le ha consegnato: una fiducia di cui è felice, una fiducia che ha anche paura di deludere, com'è normale che sia.
Non parla nemmeno di sacrifici, ma di stile di vita, quello dei ciclisti, in cui si riconosce. Parla invece di fatica, essenziale, e dei suoi fratelli che la seguono ovunque e, se non possono partire, sono davanti ad uno schermo: loro che sono stati corridori e capiscono meglio di chiunque altro quel che prova. Nel suo vocabolario c'è anche la parola provare: da quella richiesta del team del politecnico di Torino, per testare un prototipo di bicicletta reclinata, una bicicletta su cui si corre da sdraiati: con una corona da 108 denti e un pacco pignoni da dodici velocità. «Non vedi fuori, se non attraverso degli schermi posti all'interno. Vieni lanciata ai dieci, quindici chilometri orari, poi inizi a pedalare, puoi raggiungere velocità altissime, fino ai 120 all'ora. Posso assicurare che è bellissimo: l'ho provato grazie al team policumbent, in Nevada, a "World Human Powered Speed Challenge". Ne sono grata». Un altro pezzo di percorso, per crescere.
Non ha mai avuto idoli o modelli nel ciclismo: spiega che è una domanda a cui non ha mai risposto. «Mai, tranne oggi. Perché quello che ha fatto Lotte Kopecky nell'ultimo anno mi ha toccato molto. Mi sono sentita e mi sento ispirata da lei: non solo per la ciclista che è, ma per la persona che ha dimostrato di essere. Per la sua semplicità e per come ha affrontato una perdita difficile, un grande dolore. Quindi, sì, da quest'anno ho un modello: è Lotte Kopecky». Sempre crescendo e cercando.
Trek Store, Massa
«Proviamo a pensare ad un panino, sì, ad una comune michetta di pane. Una di quelle lavorate di notte e sfornate la mattina presto, che arrivano tra le mani ancora calde. Bene, facciamo un passo indietro: al panettiere che sta preparando l'impasto mentre fuori è buio. Qualcuno seguirà scrupolosamente la ricetta: l'insieme di ingredienti sarà perfetto e certamente il panino piacerà al cliente che lo porterà a tavola. Qualcuno, invece, farà delle modifiche: non casuali, assolutamente. Per esempio considererà l'umidità dell'aria e saprà che anche quella influirà sul sapore del pane, così aggiungerà un pizzico in più di qualche ingrediente piuttosto che un pizzico in meno di un altro. Chissà se il signore o la signora che assaggeranno quella michetta lo capiranno. Forse sì, forse no. Non è nemmeno questo l'importante. Di certo, però, la seconda tipologia di panettiere avrà fatto una cosa fondamentale: avrà ascoltato. Non si ascolta quel che si fa per un riconoscimento esterno, per la voce degli altri, lo si fa per una forma di rispetto verso ciò a cui si lavora». La descrizione di Claudio Rossi, General Store Manager del Trek Store di Massa, è così dettagliata che, nel primo pomeriggio della città, quasi ricerchiamo il profumo del pane fresco, in realtà, fra le pareti del negozio, si respira l'odore degli ingranaggi delle biciclette, ma il discorso non cambia e la parola, il verbo all'infinito è sempre quello: ascoltare. «La bicicletta va ascoltata, non c'è nulla da fare. Anche da come si fa cadere il manubrio si può capire se ci sono dei problemi. Il suono della catena, quando gira, rivela moltissime cose. La linea guida deve essere la base, poi c'è quello che ti scorre fra le mani e lì anche un quarto, persino un decimo, di giro di vite fa la differenza».
Si tratta di una conoscenza antica, che affonda le proprie radici nella pratica di qualunque ciclista. Anche Claudio Rossi, infatti, ha corso in bicicletta e ricorda con una sensazione di malessere il momento in cui, talvolta, i meccanici gli riconsegnavano la bicicletta e lui continuava ad avvertire qualcosa che non andava. Forse, proprio per questo, quando ha smesso, ha voluto comprare una propria bicicletta e quella ha cercato di conoscerla nel modo più profondo possibile: smontandola, rimontandola, guardando e toccando ogni singola parte, esplorandola. Mettendoci le mani, insomma, e provando la soddisfazione di aver risolto da solo il problema del proprio mezzo che, ora, poteva tornare in strada. Così Rossi non riesce proprio a capire quei ciclisti che non conoscono la propria bicicletta, che non l'ascoltano. Sarà che lui sin da bambino era praticamente incantato dall'oggetto bicicletta: «Ricordo che le osservavo muoversi in città e restavo stupefatto dai riflessi del sole sulle parti cromate: quel loro luccicare, nel movimento, mi ha sempre affascinato. Tanto da portarmi lontano da Como, dalla mia città natale». Sì, era il 2010 e Claudio Rossi si era appena licenziato dal suo vecchio lavoro, immaginando un luogo in cui quella passione potesse diventare un mestiere. Quel luogo è in Toscana, vicino al mare: si tratta di Massa, la città in cui Rossi ha scelto di vivere.
«Lo dico spesso: venite a Massa, sedetevi su una panchina, magari proprio sul lungomare, e guardate cosa succede. Biciclette che vanno e biciclette che vengono. Si percepisce la gioia dell'andare in bici da queste parti. In questo senso, Massa assomiglia a Como. Se chi arrivasse qui dovesse inventarsi un lavoro, penso che lavorare con le biciclette potrebbe essere una buona soluzione, una bella idea». In quei giorni, per la prima volta, Rossi sentiva dire spesso da qualche ciclista: «Mi si è rotto un razzo». Non capiva di cosa si trattasse, poi glielo hanno spiegato. Il razzo, per un toscano, è il raggio della ruota: «Sinceramente, se ci penso, rido di gusto ancora oggi. Ma, allo stesso tempo, il razzo mi ricorda qualcosa che va veloce, che va lontano. La bicicletta può avere senza dubbio queste due caratteristiche: quindi vada per il razzo». Siamo, allora, nel 2010 e Rossi "crea", questo è il verbo scelto nella chiacchierata, il suo primo negozio di biciclette, con officina e servizio clienti. «Era un salto nel buio: chi avrebbe potuto dire come sarebbe andata? L'investimento era stato minimo: era uno spazio di quaranta metri quadrati, presto sono diventati centocinquanta metri quadrati ed ho inserito vari marchi di biciclette». Un agente Trek, qualche anno dopo, gli chiede se è interessato a rivendere biciclette Trek: lui accetta. Tutto diventa più grande, più importante, gli eventi si susseguono: nel 2016, quel negozio diventa il primo concept store Trek in Italia, successivamente sarà il primo negozio bandiera in Italia, con una sede ancora più grande, fino a divenire il primo negozio ufficiale di proprietà Trek, nel nostro paese. Non è solo uno scorrimento temporale, perché, in corrispondenza di ogni data, di ogni cambiamento, bisogna considerare il rapporto con i clienti, con chi torna in quei locali.
«All'inizio c'è stata una fase di assestamento, forse anche di diffidenza perché chi mi conosceva, chi mi aveva visto tirare sù la serranda di quella prima officina, ora mi vedeva in un nuovo ruolo, come dipendente, e faceva fatica a capire. Anche i rapporti, le relazioni di ogni tipologia, sono fatte di ascolto e di dimostrazioni, di spiegazioni. Qui si incontrano persone, con il loro vissuto, la loro storia, e avviene uno scambio umano. Io la definisco proprio esperienza umana. Col passare dei giorni, tutti hanno capito che il rapporto era rimasto lo stesso». L'ospitalità disegna i confini delle cose: una forma di ospitalità che, fino a non molti anni fa, non era nemmeno immaginabile in un luogo in cui, di fatto, si vende, si aggiusta o si ripara: «Le persone devono essere sempre a proprio agio, se è così, tornano. Magari anche senza acquistare: tornano perché stanno bene in quell'ambiente. Si sentono a casa, si trattasse anche solo di chiedere un consiglio. La parola giusta è empatia». Lo stabile si affaccia su viale Roma e viale della stazione, siamo nel centro di Massa, non lontano dal mare: la struttura è industriale, il parcheggio è all'interno. L'ingresso è costituito da un'ampia vetrata, coperta da sticker ed immagini di ciclismo, guardando verso l'alto, all'interno, si nota il soffitto con travi di acciaio sospese, a cui è collegata l'illuminazione. Ci sono ingressi diversi per la vendita e per l'officina.
«Sai che, ogni tanto, mi capita di passare dal vecchio negozio, il primo, quello che ha segnato l'inizio di questa avventura: ora è sfitto, non utilizzato. Quando hai passato molto tempo in un posto, ti spiace vederlo così, vorresti ancora il movimento, l'andirivieni di persone. Io, però, cerco di ricordarmelo ancora com'era, perché è da lì che tutto è partito». In Toscana si usa il termine biciclettaio per chi vende o aggiusta biciclette, Rossi racconta che, visto il livello a cui si è arrivati oggi, fa strano quel termine, molto originario, genuino, allo stesso tempo, però, è bello, è legato alle radici, è importante: «La bicicletta deve essere fatta per durare, credo sia necessario raccontarlo. Nel processo di vendita non viene mai menzionato il prezzo, nonostante colui che acquista cerchi di focalizzarsi subito su questo aspetto. Si prova, invece, a mostrare la qualità del prodotto più bello nella categoria desiderata. Si beve un caffè assieme e se ne parla. Ma non ci si ferma qui: si può provare la bicicletta, farci un giro. L'importante è che la persona che è di fronte a te capisca il valore della bici, non solo il prezzo. Si tratta anche di un fatto di cultura».
Il valore si traduce, nella quotidianità, nel prendersene cura e nel farlo con determinate attenzioni: entro ventiquattro ore dall'ingresso in officina la bicicletta deve essere sistemata e tornare nelle mani del ciclista. In generale, Claudio Rossi parla di un controllo del mezzo un paio di volte l'anno, in ogni dettaglio, in ogni ingranaggio, una sorta di revisione. In quest'ottica Trek ha una filosofia ben chiara: il cliente è l'eroe, colui che compie il viaggio, l'impresa, mentre chi lavora sulla bicicletta è la guida, qualcuno che si mette a disposizione per permettere all'avventura di prendere il là. I dubbi ci sono anche in chi lavora, in chi mette le mani fra le viti e l'olio, fra la catena, la sella, il manubrio e l'importante è che questi dubbi vengano espressi, che ci si confronti: «Serve una sensibilità particolare anche per lavorare su una bicicletta, per accorgersi di un rumore strano, di una rigidità, di una vite da stringere. La sensibilità, però, si può imparare, a patto di chiedere, di fare affidamento sull'esperienza e di scambiarsi queste esperienze. Con i miei collaboratori lavoriamo in questa direzione». La buona notizia è che sempre più persone vogliono muoversi in bicicletta, anche in bicicletta elettrica, in città e questo è indubbiamente qualcosa di grande che permette di guardare verso le città del Nord Europa, il modello a cui ispirarsi, il futuro per quanto concerne le biciclette.
Il dialogo procede fitto fino a che l'attenzione si posa su un quadro, inviato a Claudio Rossi dal presidente di Trek, John Burke. L'immagine raffigura un grosso capanno rosso, poco più sopra una dedica con un pennarello nero, ancora più sù, stampato, un altro testo, anche questo in rosso, evocativo: “Vedi qualcosa di più grande”. Rossi ci spiega che si tratta di un estratto dal libro "filosofia" di Trek. «Tu vedi un capanno rosso, giusto? Anche io ed in effetti il capanno rosso c'è ed è ben chiaro, evidente. Questa è la situazione in cui ci troviamo tutti quando iniziamo a realizzare un progetto a cui abbiamo tanto pensato, che abbiamo tanto immaginato. Muovendo i primi passi abbiamo la sensazione che ci sia poco o nulla. Un capanno rosso, forse neanche quello. Quel quadro è un invito a ricordare che, quando saremo in quella situazione, avremo l'obbligo di guardare oltre, di cercare qualcosa di più grande: quello che potremo realizzare, con impegno, con costanza, con sacrificio, con fatica. Il punto è che per muovere il primo passo è necessario vedere oltre il capanno rosso. Nonostante ci sia, ci sia sempre». Fuori, vicino al mare, anche adesso c'è il fruscio delle ruote di biciclette che partono e ritornano. Bisognerebbe fermarsi su una panchina e limitarsi ad ascoltare, ad ascoltarle. A Massa, in Viale Roma 5.
In bicicletta in Irlanda: l'avventura di Pietro Franzese
Il Royal Canal era sempre stato lì, a Dublino, sfiorato dai raggi del sole. E chissà da quanti giorni, sulla superficie delle sue acque, affiorava quel telaio di una vecchia bicicletta. Chissà quante persone, passando di lì, saranno rimaste colpite da quell'oggetto che brillava alla luce del sole, chissà quante saranno state tentate di capire cosa fosse, di prenderlo, di portarlo a riva. Pietro Franzese viveva proprio a Dublino in quei giorni, ma, nella sua camera, al seminterrato, la luce quasi non arrivava e il Royal Canal era poco più di un'idea. Eppure, quasi per un gioco del futuro, a trovare quel telaio, a portarlo a riva e a prendersene cura, ad assemblarlo, fu proprio lui. Poi, si sa, le coincidenze sono una cosa seria, così Franzese ha iniziato a viaggiare in bicicletta: è arrivato a Capo Nord in scatto fisso, ha attraversato gli Stati Uniti durante la USA Coast to Coast, ma in Irlanda, in sella, non è mai tornato, almeno fino allo scorso mese di settembre.
Sì, tornato, perché Pietro soprattutto voleva tornare. «Al termine delle scuole superiori ero partito per l'Irlanda per continuare a studiare ed imparare l'inglese. Ero da solo, pagavo l'affitto e lavoravo in un "food bank", un banco alimentare. Essendo un'esperienza di volontariato vivevo realtà difficili, spesso di sofferenza, ma non ho mai visto una persona triste, arrabbiata con la vita, con gli altri. Mi sono interrogato spesso su questo fatto». Ora capiamo meglio quell'espressione che Pietro ripete spesso durante l'intervista: «Sono un popolo eccezionale». Ora capiamo meglio il suo tono, quando parla dei luoghi e delle persone: «Si tratta di una terra che ha vissuto la povertà per anni e lo ha fatto con una dignità enorme. Sarà per questo che, in quelle strade, non ci si sente mai soli, pur essendolo. Hanno un forte senso della compagnia, dell'accoglienza». Infatti, anche mentre si è seduti al tavolo di un pub, dei signori si avvicinano, offrono una o due birre, un bicchiere di whisky, quattro chiacchiere, magari una partita a biliardo o una cantata al karaoke: «Il prezzo della Guinness è fisso a 4,80 euro. Era così nel 2014, è così oggi. L'Irlanda non è cambiata, è come me la ricordavo. C'è meno verde, forse, almeno a Dublino, ci sono più palazzi, più case, ma l'atmosfera è la stessa. Mi hanno addirittura accompagnato a vedere una partita di calcio gaelico e si notava che erano felici che fossi con loro».
Franzese voleva tornare ed è tornato, in bicicletta: dal 31 agosto al 28 settembre, percorrendo 2300 chilometri, lungo la Wild Atlantic Way e la Causeway Coastal Route. L'occasione è stata legata al decimo anniversario della Wild Atlantic Way che Pietro Franzese ha voluto raccontare attraverso foto e video per l'ente del turismo locale: «La via è sempre esistita. Selvaggia, certamente, ma popolata. Lontana, ma nemmeno troppo e, soprattutto, facile da percorrere, ben segnalata, con cartelli che indicano la direzione, su asfalto. Mi piace immaginarlo come primo viaggio di un ragazzo o di una ragazza che stanno scoprendo il piacere di pedalare». L'equilibrio di una bicicletta, in Irlanda, è un equilibrio nel verde: dal verde scuro, denso, a quello così chiaro da ricordare l'acqua dei Caraibi. La sabbia è bianca, l'acqua turchese, il rumore dell'acqua che si infrange sulle scogliere è tanto bello quanto ipnotico: quella spuma bianca, guardando giù, è davvero ipnotica, lascia un senso di vertigine, di paura, quasi.
«Nelle notti in tenda si sentiva l'umidità proveniente dall'oceano. I primi dieci giorni mi hanno meravigliato con un meteo incredibile: non una goccia d'acqua, un cielo azzurro intenso, incontro a cui correvo veloce, cercando di non perdermi nulla. L'applicazione del cellulare con il meteo sempre sotto controllo, perché le piogge di settembre sono arrivate». Gli occhi di Pietro Franzese vedono il tipico paesaggio irlandese: muretti a secco, campi, verde, pecore ovunque, oceano a lato, una striscia di asfalto, un'erba tenera nel mezzo, una collinetta verso l'orizzonte e le case di un bianco acceso.
«Tutti si fermano a salutare, anche dalle auto, dai trattori. Ci si sente sicuri in sella, non si ha timore. Un giorno, una macchina mi è passata accanto, in quell'istante, un sassolino ha colpito la carrozzeria dell'auto. L'autista si è subito fermato: ha verificato cosa fosse accaduto, si è preoccupato per me, temeva di avermi, in qualche modo, danneggiato. Una forma di attenzione, di cura, che fa bene». Nelle soste ad una qualunque gas station, chi incontra un ciclista chiede dove stia andando, cosa voglia vedere, magari lascia qualche consiglio. La routine di Pietro Franzese prevede un risveglio lento, prendendosi tutto il tempo che serve prima di partire. Anche in città non si avverte il consueto senso di fretta che si vive, solitamente, nei centri abitati.
La mattina ha il sapore tipico della Full Irish Breakfast: uova, salsiccia, pomodori, funghi. In quel piatto, magari gustato in spiaggia, c'è tutta l'energia della giornata. Il brown bread è il pane più consumato, mentre il pane bianco è più difficile da trovare. Della birra si "mangia" quasi la schiuma, il salmone ha un colore intenso, un sapore mai provato prima: «Ho scoperto viaggiando che, in quelle terre, il salmone, fino a non molti anni fa, era considerato un cibo per poveri, al contrario della tradizione che lo associa alle classi più benestanti».
Si può pedalare lentamente, gustandosi l'attimo, entrare in un pub e chiedere la zuppa del giorno, "soup of the day", che cambia per l’appunto ogni giorno, che ha ingredienti diversi, ma è un omaggio all'ospitalità, all'accoglienza. Una zuppa calda, da gustare da mezzogiorno a mezzanotte, dopo aver preso il vento in faccia e respirato a pieni polmoni, nella verde Irlanda, in cui ci si sente benvenuti. Quando si arriva o quando si torna, come ha fatto Pietro Franzese.
Biciclette Rossignoli, Milano
Ai tempi di Sergio Rossignoli, Milano era completamente diversa. I negozi, allora situati nel centro-sud della città, vennero distrutti dalle bombe della guerra mondiale, ma anche Corso Garibaldi, dove trovò casa "Biciclette Rossignoli", non aveva nulla a che fare con quel che si vede oggi, mentre ci si accosta alla vetrina. «Non c'era tutto questo sbrilluccicare. Ai nostri giorni, Corso Garibaldi è un'isola felice, di una felicità anche finta, se vogliamo, è una via di miliardari, di privilegiati. Quando ero piccolo io e vivevo qui, era quasi una strada della rive gauche di Milano. Si vedevano prostitute ed alcolizzati. Si sapeva che da queste parti c'era il covo degli anarchici e la casa di Pietro Valpreda. Certo, questa è la nostra strada, quella da cui proveniamo e non lo scordiamo nemmeno per un secondo, tenendo sempre presente che è una strada di fatica, sacrifici, grosse difficoltà, non un eterno presente del privilegio»: a parlare è Matia Bonato, nipote di Sergio Rossignoli, eppure, pur non avendolo conosciuto, siamo subito convinti che parole simili avrebbe potuto pronunciarle anche Sergio.
Lui che capiva a vista d'occhio se un telaio fosse dritto o storto. Quel vecchio telaista che, tanti anni fa, scaricò una cinquantina di telai nel cortile di Rossignoli potrebbe ben raccontarlo. Sì, perché Sergio, prendendone uno in mano, lo ammonì con uno sguardo: «Quei telai sono tutti storti». Il telaista contestò, ma il signor Rossignoli, con la dima, confermò quell'impressione «e lo cacciò "a pedate", facendogli portare via pure tutti i telai». Lui che considerava i meccanici parte della famiglia e a molti comprò casa. Lui che, forse, non aveva la classica dolcezza dei nonni, ma a Matia ha insegnato le cose più importanti: «Poteva esserci un copertone da mettere o due viti da sistemare nel divano della casa in montagna e lo sentivi che mi chiamava: "Ue' nani, sù, vegn qui a darmi una mano!". Era andato a lavorare giovanissimo: dormiva spesso in officina, perché c'era tanto lavoro da fare e poco tempo per farlo. Un uomo molto affezionato alla sua creatura, sempre presente nel momento del bisogno della famiglia. Autorevole, autoritario. Tutti gli davano del lei per il rispetto che suscitava».
Sergio Rossignoli è stato a capo di Rossignoli fino agli anni ottanta: andava spesso in bicicletta, anche in città, e delle biciclette si prendeva cura come fanno i meccanici perché era un meccanico. Matia Bonato ha ancora oggi presente la bellissima Rossignoli, con telaio Alan, su cui pedalava: la puliva attentamente, registrava il cambio e prima di uscire si vestiva da ciclista. «Portava la camera d'aria, ma non la borraccia. Diceva che bere, in bicicletta, fa male. Per i suoi ottant'anni, i miei diciotto, facemmo un giro assieme. Negli ultimi tempi, portò quella bicicletta, quasi a custodirla, nella sua casa in collina, in Val d'Intelvi. Mi è rimasta la cura nel parlare di bici e nell'aver a che fare con le bici che aveva lui». La storia racconta che Matia arriva in Rossignoli circa dodici anni fa, nel 2011, proprio quando manca il nonno ed il negozio attraversa un periodo difficile. Lascia il suo precedente lavoro e sceglie di proseguire la via tracciata dal nonno, non senza timori, non senza preoccupazioni: «Il primo concetto con cui mi sono trovato a fare i conti è quello di responsabilità, o meglio, di una responsabilità diversa da quella che si sperimenta da dipendente. In un'attività di questo tipo, ci sono persone che arrivano alle sette del mattino in officina, a lavorare, che magari hanno un mutuo, dei bambini piccoli e tu devi pensare a loro, è un dovere morale. Ho vissuto almeno un paio di momenti davvero complessi qui ed il nostro stipendio era l'ultimo ad essere pagato. Non è facile». Eppure Matia, insieme a Giovanna, Renato e Giorgio, della vecchia generazione, e a Matteo, suo cugino, continua a lavorare in negozio: è orgoglioso di essere l'unico Bonato insieme a tanti Rossignoli e ci scherza sopra. Quando gli chiediamo come si gestiscano le altre difficoltà del suo lavoro, la risposta, già dal tono, ridimensiona tutto: «Credo sia evidente ai più che cosa facciamo. Non operiamo a cuore aperto, non curiamo bambini gravemente malati: sì, è un lavoro ed in tutti i lavori ci sono cose difficili, ma una volta che si ha chiaro questo, si capisce che, bene o male, è tutto alla nostra portata».
Quando si entra da Rossignoli e si sente l'odore di gomma, di muri leggermente scrostati, è impossibile non pensare alla storicità, non artefatta, del luogo e a tutta la strada fatta. Si avverte subito la bicicletta vissuta come mezzo: per andare al lavoro ed anche per “sbarcare il lunario”, il che apre tutto un discorso sulla professionalità e sulla cultura che, ci spiega Bonato, sono sempre più necessarie nel mondo del ciclismo: «Rossignoli è anche storia, ma non solo storia. La storia va di pari passo con la modernità: ogni giorno arrivano da noi biciclette di altissimo livello e voglio che i nostri meccanici sappiano trattarle. Siamo anche il negozio del freno a mazzetta e dell'anziana sciura milanese, però non solo. I miei figli sono nati al Buzzi e quando mi è stato chiesto se fossi tranquillo, ho risposto: "Sì, perché lì fanno nascere bambini come da noi si cambiano le camere d'aria". Parlavo di casistica e competenza. Mi piace pensare che chi viene da noi abbia lo stesso pensiero, la stessa fiducia». Già, i meccanici ed il loro "posto sincero": «Sì, perché come tutti i meccanici sono scontrosi, poco amici dei santi, litigano tra loro, usano le mani per lavorare, si tagliano, si fanno male, conoscono la teoria e l'empirismo che la manualità porta». Quel male alle mani, per giorni e giorni, Matia Bonato lo conosce bene: l'ha provato a marzo, quando ha scelto di montare lui copertoni e camera d'aria sulla sua bicicletta e, dopo quaranta minuti, ne è uscito con le mani distrutte. Quel giorno, ha ripensato a una massima del dialetto milanese, in cui si riconosce: "Ofelè fa el to mesté!". Ovvero alla necessità che ognuno faccia il proprio, in ogni campo.
È la realtà di ogni negozio, di ogni luogo in cui le persone si alzano all'alba per iniziare a lavorare, in cui qualcuno porta dentro e fuori quaranta, cinquanta biciclette al giorno, si confronta, parla, ascolta, cerca di capire. E questa consapevolezza, aggiunge Bonato, è il motore per decidere di fare rete, di fare squadra: mentre l'e-commerce che è sempre più importante, un fenomeno con cui non si può competere, può spazzarti via. Mentre la specializzazione, l'iperspecializzazione, ti lascia indietro se non studi, se non ti aggiorni e la bicicletta è cambiata tantissimo, da quella prima gravel, «che sembrava una bici da corsa, ma col passaggio più ampio e le gomme tassellate», che Matia vide e di cui mandò la foto ai suoi collaboratori, meravigliato, affascinato. C'è tutto questo e poi c'è la sensazione che si prova mettendo in bicicletta qualcuno e quella non cambierà mai: «A cascata, in quel momento, succede una quantità di cose e si trasmette una quantità di valori incredibili, la libertà, lo stare insieme, la sostenibilità, l'efficienza. Se si tratta di una bici da città, intuisci il modo in cui cambierà la città, la modificherà con il suo scorrere, se è una bicicletta da corsa pensi allo sport, al benessere, alla scoperta del territorio, se, invece, metti in sella un bambino sei certo del fatto che quel giorno la sua vita cambierà, perché la prima bicicletta la ricordiamo tutti. In generale, quando metti qualcuno in sella inneschi un cambiamento fortissimo ed inesorabile».
Matia Bonato si ferma, un attimo di silenzio, e riflette su quel permanere di questo sentimento. Poi, a voce più bassa, riprende a parlare: «Rossignoli è da sempre legato alla città, a Milano: una città in cui ci riconosciamo, ma, allo stesso tempo, una città profondamente imperfetta, che deve cambiare. Provare ad innescare il cambiamento e, poi, leggere di incidenti mortali in bicicletta è scoraggiante. Porta a riflettere sulle conseguenze di ciò che facciamo: spesso meravigliose, talvolta drammatiche. Io ho due figli e guardo la città con i loro occhi: quel che va bene per i miei figli va bene anche per me. Serve una città a misura di persone, le biciclette vengono di conseguenza. Se continuiamo a fare quel che facciamo è perché crediamo nel fatto che una città a misura di persone sia meglio, per tutti. Per questo noi incontriamo chi ha una responsabilità politica e chiediamo cosa intenda fare per questa situazione. Da un campo non si possono pretendere solo i frutti: bisogna lavorare, bisogna zappare. La città è il nostro campo».
Da molti anni, in Rossignoli si è presa la decisione di restare aperti anche al mese di agosto: si parla di presidio della città, di punto fermo in cui si sa che, anche nel caldo soffocante, ci si può rifugiare e sentirsi a casa: in un luogo non anonimo, che, in qualche modo, permette di riconoscersi e, quindi, di tornare. Il tutto perché l'essere umano, come diceva Aristotele e come ricorda Matia Bonato, è un animale sociale, con tutto il bello ed il brutto che ne consegue: «Non siamo ipocriti: c'è anche tanta maleducazione, bisogna dirlo. Anzi, a dire il vero, c'è di tutto, perché così sono le persone. Milano è anche la città dei "fighetti", dei giovani che si comportano da "fighetti", ma noi ci siamo da prima e sappiamo che anche questa è una maschera, che, grattando grattando, l'essere umano è sempre lo stesso. Spesso pieno di solitudine, di dolore, di voglia di sfogarsi, di raccontare tutto, anche se non ci si conosce. Basta una birra, una coca cola, per liberarsi. Può essere pesante, talvolta lo è. Può essere gratificante, perché per noi la bicicletta è un mezzo per parlare alle persone, per fare cultura, attraverso un libro o un incontro. Alla fine, non può bastare vendere una bicicletta. No, non può proprio bastare».
Così passare da Rossignoli - che nel 2021 ha ottenuto l'Ambrogino - vuol dire vedere il compressore fuori dal negozio, utilizzarlo, magari dire un "grazie", scoprire un servizio che un negozio offre alle persone, alla città. La nuova sfida riguarda la biomeccanica e il Rossignoli Bike Lab, appena aperto, rivolto sia agli amatori di lungo corso, a chi controlla i millimetri della sella ed i watt, ma anche a chi la bici l'ha scoperta più di recente ed ha male alle spalle, al ginocchio, al sedere, formicolio alle mani: «Al suo interno, un professionista, preparatore atletico, si preoccupa di metterti in sella e un software di Retool verifica ogni parametro. Si tratta di qualcosa di simile alle astronavi: si pedala con tutti dei bollini addosso e ci si vede pedalare sullo schermo. Ad essere sincero, questa cosa mi ha messo un poco i brividi, pensando a nonno che chiudeva un occhio per mettere a fuoco. Chissà cosa avrebbe detto, me lo sto immaginando». Si sorride qualche istante, poi, chiediamo cosa avrebbe effettivamente detto il nonno. «Fammi vedere come si fa»: avrebbe detto così, Matia ne è certo: sarebbe stato entusiasta come era entusiasta del primo cambio Campagnolo, quando uscì.
Parlando di una bicicletta: «quella che ha traghettato il nostro paese dalle macerie della guerra al boom economico che, purtroppo, poi, l'ha cancellata, quella di Coppi e Bartali, dell'epica e della tragedia di Pantani, quella che racconta moltissimo sia a livello sportivo che a livello spiccio». Quella di "Biciclette Rossignoli", in Corso Garibaldi 71, a Milano.
Greta Marturano: scoprire il limite e oltrepassarlo
Ogni tanto, soprattutto dopo le cose belle, qualcuno, avvicinandosi a Greta Marturano, le chiede: «Ma non sei felice? Perché non gridi, non ridi a più non posso, non salti od esulti?». Lei prova a spiegare, come fa con noi, ma sa bene che non è facile capire: "Sono felice, talvolta anche molto felice, ma la mia felicità è dentro di me, la custodisco lì e ti dirò che, certe volte, mi pare persino di proteggerla, tenendola dentro. Certe sensazioni vivono solo dentro di me: è questo il punto". Viene pronunciata qui, per la prima volta, una parola che riveste grande importanza nella quotidianità di Greta Marturano: la timidezza.
Uno stato che fa parte di Marturano ragazza prima che atleta: «Sono sempre stata timida. Molto timida. Da bambina ancor di più. In ogni corsa, alla presentazione squadre, le atlete vengono chiamate per nome e cognome e alzano la mano per segnalare la loro presenza e salutare il pubblico. Io quella mano non l'ho mai alzata e, anzi, quando sento pronunciare il mio nome non vedo l'ora che si passi al nome successivo perché l'attenzione non sia focalizzata su di me. Non è facile, perché spesso la timidezza è scambiata per antipatia: non lo è. Solo che fuori dalla bicicletta trovo davvero difficile esprimermi». In sella, invece, "non si può essere timidi", è la certezza della venticinquenne di Cantù, per questo, da ciclista, Greta Marturano si sente un'altra persona e, da come ce lo dice, dal tono di voce, percepiamo che le piace.
Sua madre e suo padre correvano in bicicletta ben prima che lei nascesse: suo padre ha continuato anche dopo. Anche lei ha iniziato molto presto: a sei anni. Erano i tempi in cui correre in bicicletta significava soprattutto passare una domenica diversa dalle altre, magari andare a vedere il cugino correre o accompagnarlo alle gare. Certamente erano domeniche libere, nel senso più fisico del termine: «La libertà di una bicicletta è la libertà degli spazi aperti, senza mura e soffitti. Ci sono anche molte altre forme di libertà, quando si pedala, ma la prima è quella». Le normali domeniche finiscono, allo stesso modo quelle domeniche sono cambiate, si sono trasformate in qualcosa di diverso, pur cercando di mantenere almeno parte della spensieratezza che le contraddistingueva. In certi momenti è più semplice, in altri più complesso: «Le pressioni non vengono dall'esterno, vengono da me. Cerco di mettermene il meno possibile, ma, alla fine, mi sono convinta che, con il mio carattere, non sia facile vivere serenamente quel che accade. Così qualche pressione me la impongo sempre». Per anni, quella pressione autoimposta era la realizzazione del sogno di passare professionista, di poter fare del ciclismo un lavoro. Ora che ci è riuscita, che quel sogno si è avverato, anzi, che quel sogno l'ha avverato, Marturano vuole sapere, vuole conoscere. A costo di stare male.
«Non mi è ancora accaduto di terminare una corsa e di sdraiarmi a terra, senza alcuna energia. Di sentirmi sfinita, finita. Non mi è ancora capitato e, sebbene sia una sensazione bruttissima da provare, vorrei provarla. Devo arrivare al limite: mi ci sono avvicinata parecchie volte, ma non l'ho mai toccato. Il giorno in cui capiterà, mi sarò conosciuta fino in fondo e, da lì, potrò davvero guardare avanti e dirmi dove voglio arrivare, dove posso arrivare». Scalatrice, con un buono spunto veloce che le permette di giocarsela in volate di gruppi ristretti, è affascinata dai percorsi nervosi: quando è passata nelle élite, ha iniziato a partecipare a quelle gare che considerava "da sogno" e questo è un orgoglio, ma il pensiero della vittoria bussa spesso. E la vittoria, quando arriverà, arriverà seguendo la legge di quella frase che a Greta piace tanto: "Se arrivi al limite, superalo".
Un detto che, a dire il vero, ha già applicato. L'estate scorsa, ad esempio. Era il 28 agosto, quando è arrivata la chiamata della Fenix-Deceuninck, nei giorni immediatamente successivi alla rottura della clavicola nella gara di Vittorio Veneto, nei giorni in cui continuava a chiedere ai medici quando sarebbe potuta tornare in sella: dopo una settimana era sui rulli, poi di nuovo in bicicletta, nonostante il dolore. «Piangersi addosso, lamentarsi, non è una soluzione- racconta- tanto più che le donne e gli uomini possono reagire a quel che accade, trovare soluzioni». Sì, le soluzioni che Greta Marturano ha imparato a trovare anche di fronte alle cose belle, perché anche lì c'è una parte che spaventa e di fronte a cui è necessario mettersi d'impegno e cercare una via da percorrere.
«In quella telefonata ero contenta ed impaurita. A tratti più contenta, a tratti più impaurita. Sarebbe stata la prima volta all'estero, da sola, con tutte persone che parlavano inglese ed il mio livello di inglese, in quella circostanza, non era adatto a sostenere una conversazione quotidiana». Giorni e giorni con un insegnante, a fare esercizi di comunicazione e di ascolto e sere e sere ad ascoltare podcast in lingua originale, due mesi per la precisione, poi la richiesta al suo coach: «Per favore, con me parla in inglese, ne ho bisogno». Gli ostacoli che capitano e che si superano perché, al primo training camp, tutti erano pronti a fare i complimenti a Marturano per come riusciva ad esprimersi, stupiti da quella capacità appresa in così poco tempo. Momenti che hanno a che vedere con il concetto di limite ma anche con quello di consapevolezza, di fiducia nei propri mezzi: «Mi sembra di sentire ancora Lucio Rigato, in Fassa Bortolo, quando mi telefonava una volta a settimana, anche nei momenti in cui "non sapevo da che parte fossi girata", e mi diceva di credere in me. Me lo diceva perché era lui a crederci, molto più di me. Anche adesso, ogni tre, quattro settimane ci sentiamo e Lucio è orgoglioso, così orgoglioso, di avermi affiancata nel percorso che mi ha portato fino a qui».
Le è servito anche lo scorso mese di agosto, al Tour of Scandinavia, dove è avvenuta un'altra prima volta: una caduta, varie ammaccature, sbucciature, ferite, il ritiro, l'attesa in aeroporto e un volo da prendere da sola. Sempre in agosto, un mese per lei sfortunato, su cui, ancora dolorante, trova modo di ironizzare. Nel frattempo ripensa a quello che il Tour of Scandinavia le ha lasciato: due top ten ed un prestigioso quarto posto nella seconda tappa, dietro a Ludwig, van Vleuten e Cadzow.
«L'idea della squadra è quella di permettermi di sbagliare il più possibile. In un certo senso, vogliono che sbagli, perché il confronto dietro ogni errore mi permette di crescere. Avessi lavorato meno, durante la seconda tappa, probabilmente avrei fatto anche meglio, ma io stavo bene, non faticavo a stare con le prime. Ricordo che, ad un certo punto, dietro a van Vleuten, ho persino pensato al significato di essere alla sua ruota in una delle sue ultime gare prima del ritiro. C'è stato un momento in cui non capivo più niente e l'indicazione era di fare come mi sentivo. Credo sia stato giusto così: la prossima volta, però, saprò come gestirmi. Lo stesso vale per le volate: vero è che mi sono piazzata decima nella terza tappa, ma ho preso la volata in quarantesima posizione. Chissà, se fossi partita dalla posizione giusta, cosa avrei potuto fare». Tra le scelte della squadra, anche quella di proporre a Marturano un calendario con solo gare World Tour, perché solo gareggiando contro le più forti è possibile continuare il miglioramento. Un periodo di apparente blocco, con l'aumentare delle difficoltà, poi un ottavo posto in Sardegna, al Giro Donne e le cose che cambiano prospettiva, mentre il poter sbagliare senza alcun giudizio, rafforza il coraggio di agire.
Durante la quarta frazione del Tour of Scandinavia, una caduta. Greta Marturano porta i segni delle ferite e il male dell'impatto a terra ed è proprio questo a preoccupare lo staff della squadra che, a sera, chiede alla sua compagna di camera, Carina Schrempf, di controllare come stesse Marturano durante la nottata. Greta dorme, ma sente Schrempf che si avvicina al letto: «Ogni ora, ora e mezza, veniva a guardare se stessi meglio. Avevo il volo del ritorno alle sei del mattino. Alle tre e mezza si è svegliata con me, mi ha aiutato a portare valigie e zainetto in aeroporto, accanto all'albergo: "Non torno in camera, fino a che non passi i controlli". A causa dell'annullamento del volo, stando già male, sono andata in tilt: alle tre e mezza del mattino non potevo certo chiamare qualcuno per aiutarmi a riorganizzare il viaggio: "Tu mettiti tranquilla- mi ha detto Carina- non fare nulla. Dammi tempo, ti prenoto tutto io: vedrai che ce la facciamo". Ce l'abbiamo fatta, ho ancora dolore ovunque, l'importante è che non ci sia niente di rotto. Importante è stato ogni gesto di Carina, quella notte».
Qualche giorno dopo, Greta Marturano aveva già ripreso a pedalare: «Avrei dovuto fare un'ora, ne ho fatta una e mezza. Ne avevo bisogno, domani riposo, dopodomani ne farò due». Ha scelto di non seguire il Gp Plouay in televisione, per il dispiacere che ha provato nel non esserci, mentre al prossimo Giro di Romandia vuole continuare il percorso iniziato in Scandinavia, cercare le stesse sensazioni. Nel frattempo, sono sul tavolo idee e programmi per l'anno prossimo. Per scoprire il limite e andare oltre.
Scavezzon Biciclette, Mirano
A Mirano, in via della Vittoria 141, dalla strada non si vede pressoché nulla. Sì, ci sono due finestre, ma l'occhio è ben lontano da intuire cosa possa esserci dietro quei vetri. Un piccolo mistero, che accresce la curiosità. Il primo incontro con "Scavezzon Biciclette" ha soprattutto il profumo della sobrietà e della cautela, dell'attenzione, delle prime volte: di quando ancora non ci si conosce, ma qualcosa dice che è il momento giusto per iniziare a scoprirsi. Di lunedì mattina, è Martino ad accompagnarci verso l'interno del negozio che non si è ancora svelato, e lo fa parlando del più e del meno, come sempre in queste occasioni, mentre sta passeggiando con il cane: «Nostra madre ci ha insegnato la cura degli oggetti, anche di quelli vecchi, già usati: recuperare, rivedere, riproporre. Grazie a mamma abbiamo imparato che un pezzo di falegnameria può diventare ben altro dal suo primo utilizzo, come una parte di rotaia o la catena di una bicicletta ferma da tanti anni. Non è un fatto molto diverso dalla cura dei regali, dal posto che si dedica ad un pensiero su una mensola o su un tavolo.
Quello che vedrai è legato a stretto filo a questo pensiero. Ed in ogni cosa che guarderai ricorda: sii ironico. L'ironia è fondamentale, non se ne può fare a meno». Una sorta di lente attraverso cui guardare, un modo per sentirsi a casa propria, quando le porte si aprono e l'universo "Scavezzon Biciclette" si mostra. Universo perché ricco di cose, di oggetti, di scritte, di carte, di quadri e ovviamente di biciclette. Ed in ogni universo, tanto è ampio l'ambiente che serve qualcuno che accompagni.
«Vorremmo- continua Martino- che la visita del negozio fosse un viaggio emotivo, persino spirituale arrivo a dire, un percorso che possa suggestionare e portare oltre quello che c'è. Ah, dato importante: un poco di stronzaggine ce la mettiamo, ma è buona, è per guardare meglio la realtà». Martino Scavezzon ride, noi invece prendiamo a riflettere sulle sue parole, chiave di lettura dell'osservazione. Andrea, fratello maggiore di Martino, aveva proprio ragione: «C'è qualcosa di artistico in ogni idea di mio fratello, è il suo modo di essere e lo ha portato in negozio. Io dico che è l'anima artistica di queste mura: tutto ciò che vedi sulle pareti, appoggiato, scritto o raffigurato è farina del suo sacco. Ha studiato all'Accademia di Belle Arti e la sua formazione si sente».
Sì, gli Scavezzon sono tre fratelli; il terzo è Emilio, il meccanico dell'officina. «Lui è burbero-narra Andrea- ma è una caratteristica abbastanza comune dei meccanici. Con le biciclette se la intende perfettamente. Testardo, di certo, ma geniale. Deve trovare la giusta sintonia e poi non lo ferma nessuno». Raccontano che hanno sempre vissuto assieme, lavorato assieme, condiviso tutto. Che qualche volta non è stato facile, ma non avrebbero potuto o saputo fare diversamente. Anche nel 1985 quando, con cinque milione di lire, rilevarono una licenza per la vendita delle biciclette ed iniziarono a fare questo lavoro assieme al cugino, almeno fino al giorno in cui il cugino disse: «Sono stufo, qui si fa la fame, io me ne vado». I fratelli si guardarono e fu Andrea a prendere l'iniziativa: «Proseguiamo noi». Così fu, dopo che Andrea Scavezzon terminò l'università, la facoltà di architettura, e provò diversi altri lavori, tra cui un lavoro in comune e uno a Marghera, nell'ambito dei servizi ferroviari. In effetti, nel negozio, si intravedono oggetti realizzati con materiale delle rotaie e Martino riprende a raccontare: «Non c'è un disegno o un progetto preciso dietro quel che si vede. Semmai c'è una riflessione continua ed un affidarsi a quel che sentiamo o viviamo noi. Crediamo sia il racconto di un percorso di tanti anni».
L'attività, come noi la vediamo, risale al 1990, «in quegli anni in cui c'era tanta buona volontà ma pochi soldi e bisognava crescere in fretta anche per quello, ora siamo in nove in negozio». Dice così Andrea e poi apre una parentesi personale: «A me piace proprio l'oggetto bicicletta. Mi è sempre piaciuto, come mi sono sempre piaciute le corse e andare a correre in bicicletta. L'oggetto bici, però, è ineguagliabile, di qualunque bicicletta si tratti. A questo proposito, ripenso a nonno». Il ricordo è quello di una bicicletta Umberto Dei, comprata dal nonno negli anni 50, utilizzando due stipendi dell'epoca: una bicicletta che c'è ancora e che, con la giusta manutenzione, svolge ancora il proprio compito. «Forse la domanda da porsi è: chi lo farebbe oggi? Probabilmente nessuno o quasi. Quando mi confronto con altri commercianti io mi concentro molto su questo punto: la qualità è necessaria perché permette di durare, di essere usufruibile nel tempo e una bicicletta deve durare nel tempo. Di più: una bicicletta deve entrare nella nostra quotidianità e far parte dei gesti di ogni giorno: andare a fare la spesa, andare dal barbiere, dal dentista, a sbrigare commissioni. Qui parliamo di cultura, di mobilità sostenibile. Non è vero che non si può, si può. Ma la qualità è il primo tassello della catena: c'è uno standard sotto cui non si può andare. Il nostro pensiero è questo».
Nel negozio si vedono: Brompton, cargo bike, biciclette pieghevoli, mountain bike, bicicletta da corsa, fino alle bici gravel. Andrea racconta di avere un rapporto stretto e particolare con ogni bicicletta presente e passata, con la Brompton, però, il legame è più forte: «Rispecchia quell'ampiamento dell'uso della bici di cui parlo: con lei ho percorso lo Stelvio, il Sellaronda e, sempre con lei, ho vissuto gli attimi più usuali delle mie giornate di lavoro». Ci sono i cani che girano per il negozio e c'è un tavolino con una macchinetta del caffè che lascia intuire il profumo della bevanda.
«Sai perché? Perché è una vera macchinetta del caffè, con ancora i chicchi, non di quelle con le cialde". Esclama Andrea sottilmente orgoglioso: "Il rapporto umano è quel che più ci interessa: noi dobbiamo conoscerti, farti tante domande prima di consigliarti una bicicletta. Poi tu sceglierai quella che preferisci, ma il nostro dovere è consigliarti quella che, in base a ciò che sappiamo di te, è quella perfetta. Sì, c'è un qualcosa di armonico tra una bici e chi ci pedala sopra. La conoscenza serve a scovare questa armonia». La parte umana del lavoro degli Scavezzon sulle biciclette è raccontata magistralmente da seicento cartoline, scritte a mano, ognuna con un francobollo, inviate ai clienti del negozio, con un messaggio diverso ogni volta, cartoline che vengono collezionate, cartoline da collezione per la cura e l'attenzione con cui vengono preparate e poi spedite.
L'interesse per le persone è anche visibile da quei dogi di Venezia ritratti in bianco e nero ed esposti e dall'inciso di Martino: «Perché fanno parte della storia di questo territorio, ma soprattutto perché sono personaggi curiosi». Un'attenzione coniugata con un pari interesse per la bicicletta ed il binomio è il viaggio, le strade che portano da un luogo all'altro. «La realtà è che- parola di Andrea Scavezzon- quando viaggiamo in bicicletta percorriamo spesso sempre le solite strade, quelle a cui siamo abituati. Prendiamo coloro che, nelle nostre zone, vanno al Montello: spesso lo fanno per vie pericolose. Ma quante strade alternative ci sono, magari fra i boschi o lungo il corso dei fiumi, che non conosciamo e che potrebbero piacerci? Sono strade sicure, lontane dal traffico». Da questa considerazione è nata la MiAMi, social ride che quest'anno affronterà la decima edizione, il 28 ed il 29 ottobre: «Da Mirano a Mirano, passando un anno per Asolo ed un anno per Arquà Petrarca, su strade secondarie, nella natura, affascinanti. Sono sempre più le persone che ci raggiungono e alla fine restano tutte meravigliate. La frase più comune? "Non avremmo mai pensato". Rende l'idea».
Viaggi come quelli che fa Andrea che, senza alcun dubbio, ammette: «I viaggi che hanno a che vedere con la bicicletta sono i migliori, però io mi guardo sempre intorno, vado a vedere altri negozi e qualche idea, qualche spunto lo porto sempre a casa». Ci fa l'esempio di quando è andato a Seattle e ha visitato questo negozio, nato da un anno e mezzo: il clima è freddo, spesso c'è anche ghiaccio per le strade, allora, in un locale, lì sotto, sono stati posizionati dei ciclosimulatori e le persone, quando hanno voglia di pedalare e non possono uscire, lo fanno attraverso di loro. Scavezzon osserva anche il posizionamento delle bici, il modo di esporle: è interessato soprattutto al mondo anglosassone, al loro approccio alla bicicletta.
Il flusso del racconto riprende con Martino che mette al centro l'ironia: «I nostri non sono clienti, sono pazienti. Il termine non è casuale, visto quante attenzioni hanno per il loro mezzo. Ma non finisce qui, ognuno ha le proprie fisse, le proprie stranezze. Devo andare nel dettaglio?». Noi stiamo già ridendo, pregustandoci i particolari, e la risposta non può che essere affermativa: «Un signore del Friuli Venezia Giulia, ad esempio, è fissato con gli ingrassatori. A me è venuto il dubbio: "Ma pedala anche oppure prende la bicicletta per avere l'ingrassatore?". Di sicuro ha una sorta di collezione di ingrassatori a casa ed è una delle prime cose che guarda quando viene qui, osservando minuziosamente Emilio ingrassare le bici. Un pomeriggio c'era qui un ragazzo con una bici da ingrassare: beh , l'abbiamo fatta ingrassare a lui. Non riesco a descrivervi la sua felicità nel farlo». Una sorta di squarcio dell'umanità che può racchiudere un negozio ed un negozio di biciclette.
Ogni tanto arriva anche il figlio di Andrea: ha voluto scegliere lui ogni dettaglio della propria bici ed ovviamente, visto l'ambiente in cui è cresciuto, di biciclette se ne intende, ma per ora non pensa a questo tipo di lavoro per il futuro. «Io fra qualche anno vorrei lavorare meno, verrò comunque in negozio, ma una volta alla settimana, magari. Vorrei vivere ancor di più la bicicletta sulla strada e farla entrare ancor più nella mia vita quotidiana. Lo dico ai giovani, c'è possibilità di vivere con questo lavoro ed è un bel lavoro». La passione si sente, uguale a quella che ha fatto iniziare tutto trent'anni fa, sebbene molto sia cambiato: «Indubbiamente, è cambiato il mondo e la bici con lui, ma il bello è che la bicicletta, per quanto cambi, resta sempre la stessa, almeno nelle linee base. Ora c'è più elettronica ed è una differenza sostanziale. Sono aumentati anche- il tono di voce fa intuire lo scherzo- i modi in cui i clienti chiamano la camera d'aria. Non è così difficile da dire, ma non hai idea di quante variazioni sul tema si incontrano». Storie di incontri e della lingua che è parte di una terra, come i ciclisti, come Toni Bevilacqua, soprannominato "Labron", che è rimasto nel ricordo della gente.
Anche le fotografie sono parte del negozio, alcune in particolare. Martino, circa 25 anni fa, ha ritratto, in bianco e nero, circa 250 clienti affezionati; quelle foto ci sono ancora e sono una testimonianza, del tempo che passa, dei cambiamenti, di un momento preciso e del rapporto che si crea con le persone, in quello spazio senza vetrine, tra il ferro ed il legname che viene riutilizzato, tra le immagini del gruppo che va e della gente che lo aspetta e poi lo segue con lo sguardo, tra i vari soprammobili, che si celano e si mostrano, e tra tutte quelle biciclette. Quello spazio dei tre fratelli Scavezzon che non è solo un negozio di biciclette.
Foto: @maxiezzi
Seguendo il flow: Giulia Baroncini è arrivata a Chicago
Di Giulia Baroncini e del suo viaggio in bicicletta, da Trecenta, paese in cui è nata, a Chicago, sulle orme del viaggio di 130 anni fa, di Luigi Masetti, vi avevamo raccontato un paio di mesi fa, prima della partenza, ma, come molti dei fatti della quotidianità, l'arrivo di Giulia a Chicago, a inizio agosto, è stato diverso da come se l'era immaginato lei e da come, scrivendone, ce lo eravamo immaginato anche noi, così, al settantaquattresimo giorno lontano da casa, dalla camera riservata agli ospiti di una casa di Cleveland, una videochiamata ha riavvolto il filo del racconto. «Sto da Dio, altrochè» esclama decisa, seduta su una sedia, con una camicia hawaiana ed in mano una tazza di caffè ancora caldo, negli Stati Uniti è mattina presto, sul soffitto della camera un ventilatore le cui pale, ora, sono ferme.
«Da Chicago sono ripartita giusto l'altro ieri, avrei dovuto fermarmi tre o quattro giorni, mi sono fermata per dieci giorni e, quando sono ripartita, ero dispiaciuta, ma non era iniziata così bene. Qui non sono abituati al bikepacking, così, se vedono qualche viaggiatore in sella, lo fermano tutti e fanno le più svariate domande. A Chicago no, a Chicago mi fermavano tutti e mi dicevano solo "be careful", stai attenta. Queste parole sono state uno schermo attraverso cui, almeno nei primi giorni, ho vissuto la città. Sapevo che la città poteva essere abbastanza complicata, a tratti pericolosa, non così, però. Alla fine, come altrove, sono state le persone a salvarmi dalle paure». Giulia Baroncini spiega che senza gli incontri, probabilmente, sarebbe potuto anche essere noioso, perché una camera d'albergo ed il paesaggio non possono bastare a colmare le giornate di un viaggio. Le persone l'hanno salvata, portandola a fare kayak e mostrandole la città mentre si muovevano su un fiume, oppure accompagnandola in vetta ad un grattacielo per guardare tutto dall'alto, ad un concerto jazz o su una ciclabile accanto al fiume: «Questi due mesi per me sono stati molto intensi, sembrano passati anni da quel nove giugno. Ero arrivata ad un punto di saturazione, forse anche per questo quel "be careful" mi aveva spaventato più del solito, ero stanca. Chicago mi ha ricaricato, le sue persone mi hanno ricaricato e adesso, al pensiero che fra un mese sarà finito tutto, provo già una sorta di malinconia. Non fatevi influenzare da quel che dice la gente, non troppo almeno, vivete le esperienze sulla vostra pelle. Ricordatelo».
Proprio ricordando questo principio, Giulia Baroncini ha preso una decisione: da Chicago è salita su un treno e a Cleveland è arrivata in treno. Quelle strade, quei drittoni, nel nulla, campi, case e asfalto, li aveva già percorsi all'andata, e ora sa cosa è giusto fare: «Non devo fare numeri, non mi interessa tornare a casa e vantarmi dei miei 8000 chilometri in bicicletta, preferisco farne meno, ma gustarmeli. Mi spiego? Voglio dare qualità al mio tempo. Avrei perso l'entusiasmo di pedalare per continuare a chiedermi quando sarebbe finita. Non aveva alcun senso». Qui Baroncini si sofferma per qualche minuto: «Gli americani parlano di "get a feeling", avere una sensazione, provare qualcosa, ascoltare te stesso: ecco, noi dovremmo vivere e viaggiare così. Seguendo il "flow", il flusso, di quel che c'è e di quello che proviamo e, se non sentiamo nulla di buono, forse, dovremmo anche trovare il coraggio di lasciar perdere, di andare altrove, di fare altro. Dobbiamo fare qualcosa per noi, per essere felici». Così, il tempo risparmiato percorrendo quei 500 chilometri in treno Baroncini lo utilizzerà per fermarsi qualche ora in più con le persone con cui si trova bene, per vedere meglio una città. Già altre volte avrebbe voluto farlo e non lo ha fatto, adesso questa occasione non la perderà più.
Intanto a Cleveland, i proprietari di casa, che già l'avevano ospitata all'andata, le organizzano le giornate e lei resta senza parole: partite di baseball, gite e, qualche giorno fa, il giro "Little Italy", con amici italo-americani, che le hanno raccontato tanto della loro storia, di come sono arrivati lì, di come si sono stanziati, della ricerca delle loro origini: «Nel loro sguardo, mentre parlavano dell'Italia, ho capito quanto sia importante anche per me l'Italia. Ho sentito quanto sia bella, quanto siamo fortunati e, forse per la prima volta, ho detto ad alta voce che sono orgogliosa di essere italiana». Siamo abituati a sentirla ridere e anche ora Giulia sorride, ma i suoi occhi sono lucidi, la sua voce increspata: lei che non parla mai di mancanze, che esprime il concetto più totale di libertà, si è commossa. «Forse casa non mi manca, perché non so nemmeno io dove vorrei fosse la mia casa, la mia città. Vorrei casa fosse ovunque, mi sento a casa ovunque. Ho cambiato quattordici case, cinque o sei paesi».
Allora la casa di Giulia è in Svizzera, nelle sue ciclabili, a Lucerna, a Zurigo, in quel fiume dove le persone si tuffano, a Strasburgo, nella ciclabile lungo il Reno, a Bruxelles, che, dopo tante volte, questa volta, in bicicletta, sembrava nuova, a Canterbury, nelle sue campagne, nei suoi cottages, a Londra, nel movimento della città, a Manhattan, nelle sue luci, nella sua gente, di notte, a New York, vista, tempo fa, a Natale, ora in estate, fra qualche tempo, a settembre, in autunno, nella zona dell'Hudson, zona che di solito gli italiani non conoscono per motivi di turismo, a Buffalo, al Lago Erie, dove la vista si apre, all'Indiana Dunes National Park, nel tramonto sulle dune dorate del parco, sul lago Michigan, con Chicago sullo sfondo, casa è perfino nelle campagne e nei drittoni tra Cleveland e Chicago.
Casa è nell'ospitalità che l'America sa donare: «Si nota proprio una sorta di contentezza nell'avere un ospite a casa. Tutte le case hanno una camera in più per gli ospiti, porte aperte, ovunque. Vogliono conoscere, scoprire, se poi dici che sei italiano vanno in estasi. Qui sono abituati al mix di culture e sono affascinati dallo scambio culturale. Non avessi avuto il biglietto dell'aereo prenotato, forse avrei allungato ancora il mio viaggio. Non perché voglia vivere qui, non credo di volerci vivere, ma quelle piccole cose che accadono durante il viaggio mi danno una carica assurda per cui a casa, ora come ora, non vorrei tornare». Accanto alle parole, il rumore dei treni che Giulia ha registrato, perché particolare, diverso da quello che si sente in Europa.
C'è l'odore delle città, particolare, caratteristico, che identifica la città americana, tra mezzi di trasporto e rotaie, quello delle campagne da respirare a pieni polmoni, e c'è il sapore delle pannocchie che anche in Italia le ricorderanno l'America. C'è la lingua in cui si parla che è compagna di viaggio: «Le lingue mi piacciono perché sono una via per entrare nel profondo di una cultura. Qualcuno diceva che parlare la stessa lingua significa entrare nel cuore delle persone, è vero. Se si vuole raccontare qualcosa, ci si riesce, ci si fa capire, ma parlare la stessa lingua è un'altra cosa. Certe volte, ora di sera, sono stanca e faccio fatica anche io, ma mi sforzo lo stesso, le persone lo apprezzano. Mi sembra bello. Per questo motivo ho insegnato qualche parola di italiano a chi me lo chiedeva e ho spiegato come vediamo noi determinate cose: le domande sono un modo di avvicinarsi, di comprendersi».
Un ragazzo di Chicago le ha raccontato di aver vissuto a Bologna, anni fa, e di voler tornare in Italia in bicicletta per un viaggio in bikepacking. La bicicletta di Giulia Baroncini oggi è ferma, ripartirà domani, con un compagno di viaggio che, per quindici giorni, la accompagnerà nel tragitto di ritorno. Seguendo il flow, dei pedali, delle ruote, del vento in faccia, del viaggio.
Trek Bicycles, Firenze
«Quando si tratta di biciclette è diverso. Chi ti consegna una bicicletta da riparare oppure osserva una bicicletta che vorrà acquistare, direttamente o indirettamente, ti racconta una parte della propria vita. Vieni a sapere dove vive, cosa fa di lavoro, dove va di solito ad allenarsi, la strada sterrata che lo gasa, la discesa su cui fa velocità, con chi fa la gara al cartello, il luogo del lungo di domenica e molto altro. E, mentre conosci tutte queste cose, piano piano ti accorgi che quella persona che, appena è entrata dalla porta ti ha fatto un cenno per chiederti qualcosa, non ti è più estranea. Si tratta di un inizio di rapporto, di un principio di conoscenza: puoi aggiustare molte altre cose, puoi vendere tante altre cose, ma difficilmente vivrai questa sensazione. Personalmente vengo dal ramo dell’abbigliamento e so che è differente».
Sono le prime cose che ci dice Marco Della Maggiora, store manager del Trek Bicycle di Firenze, in via delle Cascine 35: ci troviamo nell’ex Manifattura Tabacchi, un tempo luogo di sigarette e sigari, riqualificata, negli ultimi cinque o sei anni, e rivista in chiave moderna. Restano i mattoncini rossi, le porte ampie in legno e le vetrate, sopra, su alcuni soffitti, anche i tubi che scorrono; fuori da qui, il Parco delle Cascine, da un lato, e i Lungarni che portano al centro, dall’altro, l’aeroporto dista dieci minuti o poco più. Si racconta che presto, in questa zona, sorgerà un albergo e le vie nei dintorni diverranno un nuovo polo attrattivo della città di Firenze, simile a Citylife a Milano, per rendere l’idea. Il futuro che si avvicina e cambia le cose, spesso le migliora, eppure
Della Maggiora tiene un angolo per la malinconia, per i ricordi, e, mentre chiacchieriamo e fuori infuria il temporale, torna con la mente alle vecchie botteghe dove si riparavano le biciclette: «C’erano il signor Mario o il signor Gianni, con la voce forte e le mani che avevano appena rivoltato la catena, il grembiule sporco di unto, sulla soglia di una botteghina. Mario e Gianni conoscevano tutti e tutti li riconoscevano, poi, sai come sono fatti i fiorentini: quando ti intravedono, iniziano a gridare metri e metri prima per salutarti con la loro cadenza ed il loro: “Ciao bimbo”. Sì, ora il mercato della bicicletta è andato da un’altra parte e Mario e Gianni non ci sono più, però sono un romantico della bicicletta e, anche se qui è tutto nuovo, io a quelle botteghine penso spesso».
Del resto, i fiorentini, Della Maggiora lo spiega bene, sono sempre gli stessi: scrutano il colore viola in ogni dettaglio della città, lo inseguono quasi, anche nelle cartelle dei bambini che vanno a scuola la mattina, e si fermano ad ammirare il Giglio, il simbolo di Firenze, ogniqualvolta lo vedono. In negozio ce n’è uno, illuminato al neon, grande come tutta la parete, mentre uno più piccolo è stampato sulla maglietta con il marchio Trek che Marco ha addosso: «Ho in mente una maglietta così, ma viola, non nera: vedrai, maglietta viola e giglio. Non resisterà nessuno, li conosco ormai, nonostante io sia di Massa Carrara». Per esempio, Marco Della Maggiora conosce la loro maniera goliardica di dir le cose, dei toscani e dei fiorentini in particolare: «Sono amiconi, ma solo se scelgono di fidarsi: in quel caso, pacche sulle spalle, abbracci, prese in giro sono all’ordine del giorno e vengono a trovarti in negozio anche se non hanno nulla da comprare o da sistemare. Però, attenzione, perché se non gli si va a genio, a Firenze hanno la memoria lunga e non c’è verso di fargli cambiare idea».
Anche quel professore dell’Università di Londra, nativo di Firenze, che qualche settimana fa è passato dal negozio e ha scritto una bellissima recensione, sull’aria europea che ha trovato in via delle Cascine, era così. Ma qui arrivano anche americani in viaggio, olandesi che visitano il Chianti, spagnoli e quasi sempre si fanno precedere da una telefonata e quel nome già conosciuto, Trek, per l’appunto, serve da rassicurazione, quasi fosse un conforto, un sentirsi a casa, pur se lontani. Poi entrano in negozio, sentono l’odore di copertoni e di uno spray lubrificante alla ciliegia, che ultimamente si usa spesso e impregna l’aria, sono socievoli, desiderano conoscere, spesso imparare, farsi consigliare, in poche parole, hanno voglia di fidarsi. «In Italia siamo diversi. Tempo fa abbiamo distribuito dei volantini per il lavaggio gratuito della bicicletta: si tratta di smontarla, lavarla, ingrassarla, comunque di metterci le mani. Voglio dire che fidarsi può non essere così istantaneo, però, anche per questo si può fare qualcosa. Venendo in negozio, capirai».
Il negozio ha due ingressi, uno sul lato del parco, l’altro interno. Tutto è situato su un solo piano, da una parte si trovano le biciclette destinate alla vendita, da corsa, elettriche, da bambino, da passeggio, mountain bike, e dall’altro quelle destinate al noleggio, tra cui un posto di rilievo è occupato dalle gravel. All’interno della manifattura tabacchi, è invece posta l’accettazione: Leonardo, il Service Leader, effettua la prima ispezione della bicicletta, proprio assieme al cliente, per vedere ogni dettaglio: il tutto viene registrato dal PC e da quel momento scattano le ventiquattro ore entro le quali la bicicletta, a meno di ricambio di pezzi non presenti in officina e quindi da ordinare, deve essere riparata e riconsegnata al cliente. Daniele, il meccanico, è in officina: richiama con una “pistola” lo scontrino e vede tutti i lavori che ci sono da fare, li esegue, poi custodisce i pezzi sostituiti che verranno riconsegnati insieme alla bicicletta, in modo da raccontare ciò che è stato fatto. L’officina è chiusa, ma non del tutto e Daniele, spesso, incontra il cliente quando viene a ritirare la bicicletta.
«Inutile nasconderselo, non è bello sapere che qualcuno ha messo le mani sulle nostre bici e non sapere chi. Siamo sempre curiosi di vedere ciò che viene fatto, o, almeno, di conoscere chi lo ha fatto. Nelle botteghine succedeva ed il meccanico era un confidente come il barbiere del centro. Un pezzetto di quel mondo, noi lo riportiamo qui, anche oggi che non basta più un martello per sistemare una bici, ma serve anche la tecnologia. Il contatto fa in modo che il meccanico diventi il tuo meccanico, un senso di appartenenza reciproco; si ha piacere di vedere il cliente che torna perché sai che il tuo lavoro è stato riconosciuto, che questa volta lascerà ancor più volentieri la bicicletta nelle tue mani». C’è il gergo fiorentino, una sorta di vocabolario della bicicletta: i copertoni sono i fascioni ed il leva copertoni è il leva fascioni, mentre il mastice è il masticione. In un’altra stanza si nota subito un vascone per lavare le biciclette e una vaschetta, più piccola, in cui lavare il pacco pignoni, la pedivella e la catena. La prima frase è sempre: «Come posso aiutarla?». Poi il lei diventa tu, fino ad arrivare al nome. Soprattutto non deve mai passare troppo tempo tra l’ingresso in negozio e le prime parole: «Si tratta di cura, di attenzione per qualcuno che ha bisogno di supporto e ti sta cercando. Puoi avere altre mille cose da fare, ma appena entra è doveroso che tu lo faccia sentire accolto. Con gli ospiti si fa così».
Ad un certo punto, tra ingranaggi di biciclette e racconti buffi, ecco la doccia e la cucina: sì, avete capito bene, entrambe presenti in negozio. Della Maggiora precisa che sono due elementi a cui Trek tiene molto, perché accrescono l’aria di casa e perché aumentano anche la voglia di andare a pedalare: lui stesso, spesso, esce al mattino alle sette, sgambata, due o tre ore di pedalata e via in negozio.
«A Firenze si fa dislivello come niente. L’altro giorno ho fatto quaranta chilometri e ben mille metri di dislivello, la doccia in negozio però mi salva. Una sciacquata, ci si cambia e si è pronti per iniziare la giornata, come si fa a casa. Anche la cucina fa famiglia: in certi giorni passiamo lì la pausa pranzo, altre volte facciamo il punto della situazione, la riunione di quindici minuti prima dell’apertura. Siamo in quattro, forse non servirebbe, ma vogliamo farla lo stesso: un domani, quando sarà necessaria, avremo presente meglio il significato del ritrovarsi a parlare, non solo per sbrigare faccende, ma per la condivisione. Io ho quarantacinque anni, i miei collaboratori fra i ventiquattro ed i ventinove, potrei essere un babbo per loro, e per molti aspetti mi sento di esserlo, per le ore che scegliamo di passare assieme, pur non essendo obbligati a farlo, ad esempio. Forse, anche per questo fermarsi più ore in negozio pare semplice».
Sì, perché è capitato e capita spesso che quando fuori si fa buio e sui Lungarni cala il silenzio, intorno all’una di notte, sbirciando dagli ingressi dello store si intraveda ancora qualcuno, si sentano le voci, le risate, aria di festa, e, guardando meglio, si veda che nel locale ci siano tante persone, in tenuta da ciclista. C’è appena stata la ride notturna del mercoledì, talvolta nelle zone di Impruneta, altre verso San Casciano, organizzata da Trek Bicycle, e, tra una birra ed una coca cola, si continua a divertirsi.
«La bicicletta è uno strumento conoscitivo pazzesco. Quando si pedala, si inizia a parlare della salita o del tragitto, poi, però si finisce per affrontare discorsi che nemmeno ci si sarebbe sognati. Così si parla del figlio e di che scuola fa, dei genitori, di quello che è accaduto sul lavoro. In una parola, si fa comunità». Il luogo per eccellenza dell’incontro è un bancone, con quattro sgabelli, davanti ad un televisore attaccato alla parete, con una bici d’epoca vicina alla macchinetta del caffè e al frigorifero: lì in autunno ci sono i cioccolatini, con la forma di una maglia da ciclista, anche iridata, per le occasioni più importanti, prodotti dallo zio di Jasper Stuyven, cioccolatiere belga, ed in estate bevande ghiacciate, popcorn e patatine.
Qualcuno porta il proprio computer e, mentre aspetta che la bicicletta venga riparata, si mette a lavorare. Non ci si incontra solo per eventi legati alle biciclette, qui si possono organizzare corsi di yoga, presentazioni e qualsiasi altro evento che abbia alla radice l’idea dello stare insieme. In estate, sovente, a quel bancone, ci si mette a guardare il Giro d’Italia e il Tour de France: «Niente scherzi, eh. L’ho già detto a tutti: l’anno prossimo, quando parte il Tour de France da Firenze, il negozio resta chiuso e si va a vedere la corsa. Quel giorno, vedrai che anche i fiorentini al viola vorranno affiancare il giallo, un colore che riempirà le vie. Quel giorno saremo la casa della corsa più importante al mondo ed in città se ne parla già adesso». Se ci si guarda attorno, a dire il vero, si nota ben presto quante biciclette ci siano a Firenze e quanti pedalatori: si fa enduro sopra la città e si arriva qui dalla Versilia, mettendo chilometri nelle gambe, certe volte su percorsi da vera e propria classica. Certo, le biciclette girano, vanno, scoprono, si lasciano scoprire attraverso chi le guida, talvolta attraverso gli ambassador, e poi tornano, si fermano, aspettano di ripartire, che qualcuno le controlli o le sistemi. Magari le scopra. Che qualcuno ne abbia cura. Da queste parti, tra il Parco delle Cascine ed i Lungarni, Trek Bicycle, all’ex manifattura tabacchi, è la casa da cui partire ed in cui fare ritorno. Il temporale si è quietato, un giro, adesso, ci sta proprio bene.
Una bicicletta e le montagne come punti cardinali: la storia di Valeria Curnis
Valeria Curnis fa partire un vocale, sono minuti e minuti, a parlare è Giovanni Fidanza, suo direttore sportivo alla Isolmant-Premac-Vittoria, appoggia il telefono sul tavolo, prende un foglio, una penna e si appunta i dettagli salienti. Poco prima, il suo messaggio a Fidanza, alla vigilia di una cronoscalata: «Come mi regolo con l'alimentazione?». Fidanza parla, Curnis scrive. Altre volte, in allenamento, Giovanni Fidanza, in bicicletta, le dice: «Devi fare così in gara, cattiva ti vogliamo». Lei ascolta, lui le «entra sulla ruota e sgomita», poi, mentre Curnis perde l'equilibrio, lui la riprende per il taschino e ripete: «Proprio così». Accade quando si cambia rotta e si riparte.
Valeria Curnis, fino a qualche anno fa, sciava, cercava le montagne e la neve: «Non riuscirei a vivere in un posto in cui non si vedano i monti, è questo il punto. In un modo o nell'altro, ho bisogno di vederli e di andarci. Di scivolare sulla neve, in discesa, di alzarmi sui pedali di una bicicletta, in salita. Ma le montagne sono un punto fermo, qualcosa che, nella mia vita, orienta anche tutto il resto». Già, la bicicletta, che oggi è al centro, ma solo fino a qualche anno fa era una parte del tutto. Un mezzo che non conosceva, che utilizzava affidandosi all'istinto, al desiderio di un momento, talvolta ad uno sfogo. Poteva essere una vecchia Graziella oppure la Fisher con cui, da casa dei nonni, andava a scalare il Selvino, a freddo, senza alcuna preparazione. Un casco giallo, una vecchia maglia gialla, troppo grande per lei, del Tour de France e via che si va. «Credo fossi la ciclista più imbarazzante di tutta la Lombardia. Anzi, ne sono certa». Valeria Curnis ride a più non posso, si prende in giro, prende fiato e, ridendo, racconta: «Anche oggi, che corro in bicicletta, faccio cose strane per una ciclista. Sono in divisa ore prima della partenza, talvolta anche con i guantini, ma quelli si tolgono in fretta, per fortuna. Mi lego i capelli, mentre tutte le cicliste usano una fascetta. Forse dovrei acquistarla pure io, eppure, non so perché, ma ho la sensazione che non lo farò».
Quando le chiediamo se questo essere "nuova" non le abbia mai creato difficoltà, Valeria Curnis risponde certa di no, poi aggiunge: «Non mi manca la fiducia nei miei mezzi, quando ho fatto questa scelta, quella di diventare ciclista, credevo che potesse derivarne qualcosa di buono e lo penso sempre più, ma, nei primi tempi, temevo di sbagliare. O meglio, sapevo di poter sbagliare però mi sembrava che un mio errore, proprio perché "nuova", sarebbe pesato di più sulla bilancia. Adesso rido delle piccole stranezze che ho descritto e, poi, fanno sorridere anche la squadra, non sono inutili». Torna seria ed è seria in quest'ultima considerazione che la porta dritta a quando ha lasciato lo sci, per un insieme di cose, soprattutto per la mancanza di soddisfazione che ormai si era impossessata di quel tempo sulla neve.
In quei giorni, suo padre, appassionato da sempre di ciclismo, autore di una tesi sul telaio, le regala una Pinarello in carbonio, bella, sicuramente più adatta per le sue sgambate. Racconta Curnis che suo padre aveva capito bene che il suo mondo avrebbe perso l'equilibrio senza uno sport da praticare, così è arrivata quella bicicletta e sono iniziate le prime Gran Fondo, in cui la fatica la fa da padrona, ma la sensazione è la stessa di quando andava via in bicicletta dopo una giornata storta a scuola, cercando una soluzione. «Allo sci sono tornata tempo dopo e ho avuto il timore di essermi dimenticata come si facesse, invece una volta sulla neve sono scivolata sugli sci come sempre. Ho voluto diventare maestra di sci e, sostenendo i test, temevo di non riuscire a fare i tempi giusti. No, era rimasto tutto come prima, meglio di prima, forse. Ora il ciclismo mi prende le giornate e non posso praticare, ma sono maestra di sci, lo sono diventata, e questo non me lo porta via nessuno».
In sella porta la genuinità delle novità, la capacità di vedere i dettagli, tutte le cose che per le altre atlete sono ovvie e per lei sono speciali. Prendete quel giorno a Romanengo, dopo la cronometro in cui arrivò settima, «i tempi delle prime due erano imbattibili, con le altre, tuttavia, me la sono giocata": Valeria Curnis era già contenta. Una sua collega le si è avvicinata: "Sei andata a ritirare il premio? Guarda che devi andarci tu". Non se lo aspettava, non ci pensava nemmeno: "Quella busta l'ho ancora intatta a casa e resterà così. Uno dei giorni in cui mi sono sentita più fiera di me». Sì, perché dall'essere contenta, al ritorno, dopo la cronometro, Valeria Curnis era proprio felice.
Felice era anche a Roma, il 25 aprile, al Gp Liberazione, dopo il Covid, dopo un periodo difficile, pur in una gara non adatta alle sue caratteristiche, con continui rilanci e cambi di velocità, mentre suo padre alla partenza le diceva: «Mi sembri un gladiatore». Anche quando si è ritirata, era felice perché sapeva che, accanto al Colosseo, era tornata. Pure a Siena, nel giorno della Strade Bianche, Valeria ha provato qualcosa di unico: «Lo giuro, mi sentivo morire. Da quando ho iniziato a correre in bicicletta ho sentito spesso come se morissi, per la fatica che attanaglia. Eppure proseguivo, continuavo a pedalare. Non voglio farmi fermare da nessuno, lo dico e lo ripeto». Emotiva, ma capace di contenere quella emotività, «come dice Fidanza, serve un interruttore mentale: tranquilli prima della gara, perché tutta l'energia va scaricata in corsa con uno sforzo così lungo». Alle prime gare le capitava di avere 160 battiti al minuto prima della partenza; «fortuna che si partiva in leggera discesa, sennò chissà il fuori soglia». Incredula di fronte alle grandi campionesse delle due ruote, però capace di farsi rispettare, di non mollare la ruota su cui è: «Il rispetto è un conto, ma se ti fai intimidire è finita, devi fare quel che sei capace di fare, quel che fanno tutte in gruppo. Bisogna essere toste». Molti desideri nella sua testa, uno in particolare: «Servirebbero più gare internazionali per le donne, la crescita passa anche da lì. Vorrei se ne parlasse di più».
Si è abituata ai sacrifici del ciclismo, che sono più grandi che nello sci. Nel ciclismo, spiega Curnis, conta davvero tutto: un'ora di sonno in più o in meno, un pasto, una bevanda, un'uscita, l'atleta è anche l'insieme di tutte queste cose, di quelle che fa e di quelle a cui è capace di rinunciare. «Credo non mi abituerò mai completamente al riso e al pollo a pasto, ma sono sicura che continuerò a mangiarlo e, giorno dopo giorno, mi diventerà sempre più familiare. Sai perché? In parte per la ripetizione del gesto, in parte perché anche il riso ed il pollo mi permettono di essere una ciclista».
Essere una ciclista ovvero stare in gruppo, fare fatica, magari per la squadra, perché fatta per altri ha un valore maggiore, un significato in più, come osserva, soprattutto stare in gruppo e tenere le posizioni, capire come si muove il gruppo. Giovanni Fidanza glielo ha spiegato così, un giorno in cui Curnis voleva saperne di più: «Immaginalo come il mare con le onde. Non devi guardare solo la ruota davanti a te, piuttosto è opportuno capire i moti generali del mare, le sue onde. Per questo bisogna vedere molto avanti, poi, puoi decidere anche i tuoi movimenti». Valeria Curnis ci ha pensato e le è sembrata una definizione azzeccatissima. Valeria Curnis lo ha fatto e quelle onde sono diventate un'abitudine. Una gran bella abitudine.
Foto: per gentile concessione di Valeria Curnis