Le scelte di Soraya Paladin all'Amstel

Potremmo dire che la prestazione di Soraya Paladin, Canyon SRAM Racing, all'Amstel Gold Race di domenica 16 aprile, trovi le sue radici in un fatto tanto semplice e quotidiano, quanto complesso: la decisione. Sì, perché quel giorno la squadra aveva tutte le intenzioni di rendere dura, aspra, una gara già zeppa di difficoltà e resa ancor più angusta dalla pioggia, dal vento e dal freddo che rimbalzavano da una parte all'altra sulle salite, sugli strappi irti del Limburgo. Il punto è che Paladin, nella tattica originale, avrebbe dovuto aspettare il finale e giocarsela nell'eventuale sprint ristretto oppure, comunque, sull'ultimo Cauberg; in riunione, però, c'è la domanda che è il preludio di ogni decisione: «Vorrei movimentare la gara già dall'inizio, mettermi in gioco da subito, anche perché, sul finale, nonostante lo spunto veloce che posso avere, è tutto da dimostrare. Facciamo così?». Le hanno detto sì e lei non ha tardato a mettere in pratica l'idea.

«Mi piace correre in maniera aggressiva anche perché vivi proprio la gara, la senti. Aspettare, alcune volte, ti fa sembrare quasi affacciata ad una finestra a vedere la scena, invece, per come penso io al ciclismo, voglio crearla quella scena, esserne al centro. Provarci, almeno». In giorni così, la prima cosa a favore di Paladin è il suo rapporto con la pioggia, col brutto tempo: preferisce il sole, l'asciutto, ma si ritiene fortunata perché, anche quando piove, sa di riuscire lo stesso a giocarsi le proprie carte ed in gruppo, si sa, in molte, con le stesse condizioni, partono battute. Forte di questa consapevolezza, si getta nel primo tentativo di fuga.

UAE Tour Women 2023 - 1st Edition -2nd stage Al Dhafra Castle - Al Mirfa 133 km - 10/02/2023 - Soraya Paladin (ITA - Canyon SRAM Racing) - photo Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Non è che in fuga ci si trovi, bisogna andarci ed è sempre uno sforzo, ma c'è modo e modo di farlo, convinzione e convinzione: «Che avevo le gambe, in quel momento, l'avevo già capito. Ma non pensavo che fosse quella la fuga decisiva, eravamo lontane. Però ho detto: "Vediamo, entriamoci e poi capiamo cosa succede". In effetti ci hanno ripreso». Fatica e ancora fatica, ma già qualche giorno dopo, Paladin ci scherza sopra, in particolare quando le diciamo che dalle immagini televisive pareva quasi rilassata, quasi sorridente: «Magari lo fossi stata, magari!». La fatica è qualcosa con cui ha sempre convissuto, ma a cui, negli anni, ha dato significati e letture diversi: «Penso di aver capito che non bisogna pensarci. Mi spiego: il corpo sente il male, l'acido lattico, ma l'input per spegnere la lampadina non viene dal corpo, viene dalla mente. Appena pensi: "Che fatica", quasi automaticamente, ti lasci andare. Non devi pensarci, è un dato di fatto. Lo accetti e vai avanti».

Soraya Paladin riparte, più volte. Fino a quando, nel finale, riesce a creare il varco, siamo pochi chilometri prima del Cauberg, in un tratto che, già nelle tornate precedenti, aveva adocchiato. Il gruppo la bracca, Grace Brown la insegue e la raggiunge: «La sfida è con te stessa, il gruppo non puoi bloccarlo e sai che tante atlete assieme, solitamente, sviluppano maggiore velocità». Tra le idee c'era anche un attacco finale proprio sul Cauberg, ma visto che il gruppo ha lasciato un poco di margine, si continua.

Ronde van Vlaanderen - Tour des Flandres 2023 - Women 2023 - 20th Edition - Oudenaarde - Oudenaarde 156,6 km - 02/04/2023 - Soraya Paladin (ITA - Canyon SRAM Racing) Marta Bastianelli (ITA - UAE Team ADQ) - /SprintCyclingAgency©2023

Paladin sempre fresca, molto fresca, sino a che, proprio all'imbocco del Cauberg, Brown sembra quasi staccarla. La sua è una mossa ben pensata: «All'imbocco della salita, si svolta e ci sono delle strisce pedonali. La vernice di quelle strisce, con la pioggia, fa scivolare. Ho scelto volutamente di rallentare all'ingresso, poi sapevo di dover spingere ancora più forte, ma la gamba diceva che era possibile». Si dice che il Cauberg sia una salita all'aroma di birra, al profumo di birra, ma Soraya Paladin ha una sua versione: «Non è il profumo di birra quello che annusiamo, è il profumo di vittoria. Visto che sul podio danno un calice di birra, è automatico collegarlo. Devo dire che una bella birra trappista, in quel momento, non l'avrei rifiutata. Anzi».

Il gruppo ritorna, Paladin inizia a zigzagare, viene ripresa e iniziano le manovre per il finale, con Vollering che anticipa tutte e va a vincere. Anche rispetto a questo momento, quello in cui il gruppo riprende i fuggitivi, la visione di Paladin è cambiata nel tempo: «Ovviamente la delusione c'è, il rischio, però, è quello di buttare via tutto ciò che si è fatto. A me l'ha insegnato un mental coach: il problema è dove si focalizza l'attenzione, perché qualcosa di positivo c'è sempre e, se non c'è, si può cercare. In quel momento l'ho cercato: dopo una giornata così, minimo dovevo fare la volata».

De Brabantse Pijl - La Flèche Brabançonne WE 2023 - 8th Edition - Lennik - Overijse 141,2 km - 12/04/2023 - Soraya Paladin (ITA - Canyon SRAM Racing) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

E le forze? Sono nella testa. Paladin ritiene che, a quel punto, il 70% sia un fatto mentale e solo il 30% un fatto fisico. Arriva un quinto posto, un altro quinto posto in questa gara: «Il cinque potrebbe essere il mio numero, no?» ironizza Soraya, prima di tornare a parlare della sua condizione: «La forma è buona, non dico nulla, ma, se resta così, si possono fare ottime cose, nelle prossime gare. La Sd-Worx, al momento, ha qualcosa in più, ma arriviamo anche noi. Arriviamo presto». C'è soddisfazione in squadra per il tipo di corsa fatta e c'è soddisfazione anche in Soraya Paladin che, tra le consapevolezze che porta via dall'Amstel, ne ha una in particolare.
«Avere coraggio ripaga sempre. Fare, invece, di aspettare ripaga sempre. Magari non immediatamente, non nei risultati, ma, quando hai coraggio, quando sai di aver avuto coraggio, sei soddisfatta di te, sei felice».


Le nuove strade gravel di Valverde

Quanti aggettivi si sono usati, nel tempo, per descrivere Alejandro Valverde? "L'Embatido" è, forse, quello che più si ricorda, ma il ciclismo di Valverde è sempre stato affollato di aggettivi e non era un caso: servivano per descrivere ciò che accadeva, a renderne l'idea, a darne una forma, uno schizzo, quasi si trattasse di una bozza di un pezzo o di un dipinto. Talvolta si dice che gli aggettivi vanno tolti, che non bisogna esagerare, noi, invece, crediamo all'altra scuola, quella di Gianni Mura, ad esempio, secondo cui gli aggettivi servono, sono necessari, e si può anche abbondare, a patto che ne valga la pena, a patto che siano quelli giusti.
Per Valverde, in questi giorni, ad esempio, ne abbiamo in mente un altro. Strano, forse insolito. Però ci piace dire che Alejandro Valverde è gravel. Sì, non abbiamo sbagliato. Poi andremo oltre, perché lì vogliamo arrivare, ma partiamo dal fatto: Alejandro Valverde è davvero un ciclista che si dedica al gravel, o, almeno, lo sarà fra qualche giorno, quando disputerà la prima gara su sterrato con Movistar, la "Indomable", ad Almeria, il 23 aprile. Ciclista lo è da tempo, anche se si è ritirato lo scorso ottobre: guardate la sua pagina Instagram, reca ancora la dicitura "ciclista professionista", può essere disattenzione, può essere altro. Legame, ad esempio. E se è legame, come tutti i legami, si sottopone al tempo che passa e a quanto il tempo, agendo, cambi, modifichi.

Dire che Valverde è gravel non significa solo dire che Valverde correrà ad "Indomable" e, poi, a "The Traka", il 29 aprile. Dire che Valverde è gravel significa raccontare una storia che prosegue, significa dare una possibilità alla circolarità delle cose e permettere alla parola fine di avere un altro senso. Finisce una carriera, non un modo di essere, di vedere le cose: quello si reinventa da un'altra parte e continua a parlare lo stesso linguaggio.
Valverde che ha continuato a correre fino a 42 anni non è così diverso da chiunque, in un giro in bicicletta. Da quando si dice: "arriviamo fino a lì e poi torniamo" ed invece si va avanti e l'imprevisto è, se volete, una scusa per cercare altro divertimento. A noi viene in mente il ritorno di Valverde sul luogo della caduta alla Vuelta 2021, la precisione con cui ha ricordato il momento della scivolata, della caduta, del timore, per tutti, anche per lui e quel ritiro dolorante. Non solo nel corpo. Viene in mente il fatto che a 41 anni si potrebbe anche pensare di lasciare stare dopo un rischio simile, perché di rischi se ne corrono sempre tanti, ma a quarant'anni fanno più paura. Invece no. Un altro anno e poi un altro ciclo, la curiosità di vedere cosa si prova nel gravel.

Tour de France Saitama Criterium 2022 - Saitama - 06/11/2022 - Alejandro Valverde (ESP - Movistar Team) - photo Kei Tsuji/SprintCyclingAgency©2022

L'Embatido è gravel per quello sguardo che ha sempre avuto in sella; qualcosa a metà tra il prendere in maniera maledettamente seria il pedalare ed il cercare un altro spazio che sia più leggero, più fantasioso. Eravamo a Innsbruck, al Mondiale da lui vinto nel 2018, e ricordiamo quello che ci disse un amico: "Don Alejandro ne ha fatta un'altra delle sue". Ed essere gravel ha anche a che vedere con il "combinarne qualcuna", affrontare uno sterrato e sentirsi a proprio agio, fare qualcosa di assurdo, magari anche pedalare fino a notte, cercare un luogo nuovo, magari scoprirlo, come da ragazzini quando si tornava a casa felici per aver visto un passaggio nuovo, salvo poi sapere che già tutti lo conoscevano, ma non importava, perché per te era nuovo.

Alejandro Valverde è gravel per il suo rapporto con le emozioni, per la capacità di farle trasparire sempre e di arrivare anche così dall'altra parte, dalla parte di chi guarda. È gravel il suo rapporto con il pubblico, con i tifosi, con le persone che, a ben guardare, possono essere anche loro gravel: se gravel significa condividere un tragitto, costi quel che costi, e uscirne a pezzi, ma interi o ricomposti. A pezzi per i muscoli, interi per ciò che ritorna nella testa quando il corpo fatica. Quella forma di felicità, di entusiasmo quasi originario.

Certo, saranno gare e si lotterà anche per vincere e pure lì Valverde sarà gravel, come tutte le volte in cui, magari, non ha vinto, però di lui si ricordano tutti, talvolta più che del vincitore. Essere gravel rientra in una certa modalità di fare le cose e pure nella memoria, nel ricordo che si lascia.

Con tutto questo, Valverde partirà per "Indomable" e per "The Traka", un altro ciclo. Ciclo da circolare, da ciò che gira e rigira. Da ciò che cambia giro, ma non finisce. Alejandro Valverde, signore e signori.


Dalle colline si vede il mare: GeoGravel Tuscany

Avete presente la "Ribollita"? Sì, parliamo di biciclette, non preoccupatevi, non di cucina, ma con Paolo Bettini partiamo proprio da questa ricetta: «Sai, si dice sia un piatto semplice da preparare. Non è difficile, ma se non sei attento, anche quelle "verdure ribollite" non prendono il gusto che vuoi. È un piatto povero dell'antica cucina toscana, ma non è detto che sia "facile" nel senso comune del termine». In realtà, l'analisi culinaria non si ferma qui: qualcosa di simile ci diciamo per il pane raffermo della pappa al pomodoro, per quel sapore che il "Grillo livornese" ben conosce, che saprebbe distinguere, perché anche per quello serve una cura particolare.

La stessa cura serve per pedalare, per entrare nella modalità gravel, che, in fondo, è un gioco di equilibri e sintonie.

In bilico tra questi equilibri, con l'orecchio teso a queste sintonie, si parla di GeoGravel Tuscany, delle sue strade grigie, ora e nel fine settimana del 23-24 settembre 2023 quando si svolgerà la prima edizione di quella che è un'autentica avventura, tra boschi inesplorati e lune che paiono calate in terra, ma in realtà sono solo strade non ancora percorse dai più, immerse nella solitudine. «Pedalare, anche lentamente-racconta Bettini- è comunque fare un minimo di fatica, perché stare fermo è sempre più comodo. Alfredo Martini me lo diceva sempre: "Sono quelle endorfine che liberi mentre fai un giro in bicicletta a farti stare bene. Si tratta della fatica bella: bisogna riconoscerla, costruirla, assaggiarla e viverla. Semplice, ma complesso, come sempre le cose facili».

Così, la fine di settembre, in Toscana sarà solo "viaggiare assieme", senza primi e ultimi, senza altro che la ricerca della capacità di apprezzare un viaggio per cui non servono parole: «Succede che pedali per minuti e minuti assieme a qualcuno, magari ore. Non si parla, semplicemente perché sei concentrato sulla strada, talvolta sui pensieri, eppure, appena ti fermi a una fontana, o ad un bar, trovi una confidenza che non capisci da dove sia nata. Da quel silenzio, posso garantirlo». Accadrà quando da una collina, in seconda, in terza fila, vicino ai boschi, ci si volterà e si vedrà il mare, perché la terra toscana sta anche in questo: in uno squarcio inaspettato, che, però, ritrovi quando più ne hai più bisogno.

Il freddo è meno freddo, perché, anche in inverno, cinque o sei gradi ci sono sempre: si può pedalare con le ruote "in spiaggia" a Cecina oppure a Bibbona, poi andare verso Bolgheri, quasi toccare con mano le vigne delle uve che danno gusto ai vini di qui, fino ai boschi, alle colline, ai parchi e ancora alle strade che portano sino a Siena, sino in Piazza del Campo. «Credo che ogni paesaggio- aggiunge Paolo Bettini- assomigli a un carattere: c'è chi ha necessità di vedere l'orizzonte libero e la linea del mare per prendere fiato e chi, invece, si trova bene nelle valli, fra i monti, che sembrano proteggere». Dalla macchia mediterranea ai castagni e ai faggi.

Quattro percorsi: il breve, nel mezzo della riserva naturale di Monterufoli, fra i borghi, il medio, fra gli uliveti, passando a Querceto, luogo di ricordi e vino, il lungo, da Pomarance a Bolgheri, tra mare ed entroterra e l'ultra. Ognuno con un desiderio particolare, ognuno con sensazioni già conosciute e sensazioni nuove da conoscere, da esplorare. Paolo Bettini, che ha calcolato di aver percorso più di un milione di chilometri in bicicletta nella sua vita, in questi boschi ha scoperto oltre settecento chilometri di strade in cui è possibile svoltare quando si è stanchi della quotidianità. Poi vi ha accompagnato amici e la sensazione di essere a casa si è ampliata ogni volta in cui, a metà pedalata, qualcuno gli si è affiancato e gli ha detto: «Ma quanto è bello qui?».

In quei momenti, alla sensazione di libertà, di felicità, si accostava un ricordo, che risale ai primi tempi, dopo la fine della carriera, ai giri con gli amici.

«Ad un certo punto, gli altri andavano e io mi fermavo da qualche parte, in un punto panoramico: stavo lì e guardavo. Alla fine, non vedendomi più, tornavano indietro.
"Paolo, tutto bene?"
"Sì, ma in che posti siamo? Guardate che meraviglia!"
E loro, fissandomi: "Paolo, nei posti di sempre. Questi panorami ci sono sempre stati, il fatto è che tu non avevi tempo per vederli, per guardarli”. Penso spesso a quella frase. Quanto è vero! C'è chi perde dei dettagli, io non coglievo nulla, in preda ai miei traguardi da raggiungere».

Sì, la natura ed il ritorno a ciò che è natura ed è naturale.
In primis, alla bicicletta usata come mezzo per spostarsi, per unire due luoghi, per permettere l'incontro di più persone e cercare un posto in cui prendere vento in faccia. Attraverso la lentezza, attraverso la sua velocità: senza forzare nulla. Genuino, sì, come la risata e la parlata toscana. Naturale come una festa e la musica che fa ballare. Naturale come il silenzio che appartiene a queste strade grigie e che, ogni volta, permette quella confidenza che nemmeno tante parole consegnano.


Alison Jackson: mai due volte la stessa strada

Quest'inverno, mentre la EF Education-TIBCO-SVB era in ritiro in Spagna per preparare la stagione, c'era un rituale che si ripeteva ogni giorno, prima degli allenamenti. Alison Jackson, la vincitrice della Paris-Roubaix Femmes, lo scorso 8 aprile, utilizzando un'applicazione, disegnava i percorsi da fare e, ogni giorno, il tragitto era diverso, con pari difficoltà altimetriche, ma diverso. All'inizio, nessuno ci faceva molto caso, se non fosse che, dopo molti giorni, con un sacco di strade già attraversate, una mattina, la traccia evidenziata da Jackson porta tutta la squadra in una strada sterrata, lontana dalla città, abbastanza dispersa, insomma, in una di quelle strade in cui si può finire per sbaglio, magari dopo essersi persi. Difficilmente, però, ci si va apposta, per allenarsi.
«Alison ma che ci facciamo qui? Torniamo sul percorso di ieri, era bello, non credi?» chiedono tutte.

«Sì, ma non si fa mai due volte la stessa strada, soprattutto in allenamento, dove si può cambiare. La mia applicazione serve a questo».
Non riusciamo a descrivervi a parole il volto sorpreso delle sue compagne, possiamo, tuttavia, riportarvi il primo pensiero che quel giorno ha fatto Letizia Borghesi, è lei stessa a dircelo: «E tu, per non rifare due volte la stessa strada, vai in questi tratti sterrati e malmessi? Sei tutta folle, ragazza mia». Il tutto seguito da una risata fragorosa che condividiamo con Letizia.

Sì, un tipo decisamente particolare Alison Jackson, ma di questo dovreste già esservi resi conto seguendo la Parigi-Roubaix: un attacco da lontano, di quelli che sembrano destinati al nulla, sempre davanti a tirare, a rischio di sfinirsi e poi perdere, la volata vincente nel velodromo e anche un balletto. Così, tanto per gradire. Quei balli, quelli che posta sui social, li impara dal web: quando l'allenamento finisce, distesa sul letto, in camera, vede moltissimi video di danza e prova a capire i passi, poi li imita. Ballare da sola, però, non la soddisfa molto, allora si è fatta una promessa: «Insegno a tutte le mie compagne a ballare, le filmo e, alla fine dell'anno, vediamo i progressi. Impareranno tutte». Ed anche qui, Borghesi se la ride: «Considerando il mio punto di partenza, un miglioramento lo vedrà di sicuro, ma non credo basti a soddisfarla».

Alison Jackson è nata a Vermilion, in Canada, il 14 dicembre del 1988. È cresciuta in maniera semplice, con le cose genuine che si vivono nelle zone rurali: andava nei campi, raccoglieva i sassi e li trasportava fino ad un camion che li avrebbe portati via. Ha confidenza con i minerali, con rocce e pietre, per questo, tempo fa, in una sgambata, ha detto a Borghesi: «Ma, sai, l'unica pietra che davvero vorrei avere a casa mia non è in Canada. È una di quelle pietre della Parigi-Roubaix». Ci è riuscita e ci è riuscita a modo suo.

Sì, perché alla riunione del mattino, non era minimamente programmato il suo attacco. Anzi, lei, Zoe Backstedt e Letizia Borghesi avrebbero dovuto stare tranquille e aspettare le fasi finali di gara, ad attaccare avrebbero pensato altre. Tranquille? Come no. Alison Jackson è subito andata in fuga. «È esuberante, istintuale. Avevamo capito tutte- continua Borghesi -che ci teneva particolarmente, non immaginavamo questa azione. Ha sentito che era giusto farlo e lo ha fatto. Cosa vuoi dirle?». Chissà che, prima di scattare, non abbia guardato il manubrio, dove, su pezzetti di nastro adesivo azzurro, aveva scritto a pennarello: "Don't think, just do". Per ricordarsi di non pensare, di agire solamente. Tra l'altro, ci hanno detto che è la prima volta che le hanno visto queste scritte sul manubrio. La conclusione potrebbe anche essere abbastanza facile: Alison Jackson sapeva che, pensandoci anche solo un attimo, una giornata così non l'avrebbe vissuta, perché pensandoci non avrebbe fatto quasi nulla di ciò che ha fatto. Così l'ha scritto, a promemoria, nel caso le venisse qualche dubbio.
A Letizia Borghesi si rompe la radiolina e, ad un certo punto, perde il contatto con la gara. Giusto poco dopo aver detto alle sue compagne che, con il vantaggio che il gruppo aveva lasciato, forse c'erano buone possibilità di far bene. Sì, appunto: "far bene". Vincere è un'altra cosa. Che Jackson ha vinto, lo viene a sapere dalla sua massaggiatrice, all'entrata nel velodromo, anche abbastanza delusa perché un problema tecnico negli ultimi chilometri, le ha impedito di giocarsi il finale con il gruppo. Il pensiero è lo stesso di quel giorno in Spagna, su una strada sterrata chissà dove: «Ma tu sei folle, ragazza mia».

Alison Jackson ha passato tante squadre, anche un anno in Italia, nel 2017, con la Bepink Cogeas, l'anno in cui ha scoperto che l'Italia le piace e ha imparato diverse parole italiane, poi Sunweb, Liv Racing, fino a quest'anno in Ef Education. Nel tempo, ha elaborato una sorta di filosofia personale per certe situazioni, tanto che in squadra ce lo dicono: «Serviva coraggio per lavorare come ha lavorato, mentre le altre si risparmiavano per l'eventuale volata. Vero. Però a lei interessava portare la fuga al traguardo, una sorta di sfida con il gruppo, anche a costo di perdere. Nella sua esuberanza c'è anche questo: "Noi siamo poche e stanche, ma vi faccio vedere che arriviamo noi". Mettiamola più o meno così". Queste cose le vive e le spiega, consiglia. A Letizia Borghesi, ad esempio, ha insegnato a studiare bene i percorsi prima delle gare, nel minimo dettaglio, perché "la gara si inizia a fare da lì». Dopo la Roubaix, il suo sogno da sempre, chissà quale sarà il suo prossimo traguardo. Di certo il suo modo di correre e lo spunto veloce la aiuteranno.

Paris Roubaix Femmes 2023 - 3rd Edition - Denain - Roubaix 145,4 km - 08/04/2023 - Alison Jackson (CAN - EF Education - TIBCO - SVB) - photo Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Vederla abbracciata a quel sasso, dopo un inizio di stagione che non è andato proprio come aveva immaginato, riporta indietro, all'infanzia, ad immaginarcela bambina curiosa, nella natura. E, sorridendo, porta avanti, ai prossimi balli, in cui, a quanto pare, vorrà coinvolgere anche quella grossa pietra. Chissà cosa ne verrà fuori.

Foto: Sprint Cycling Agency


Nella mente di Silvia Persico al Fiandre

Giusto qualche giorno fa, Davide Arzeni, detto "Capo", direttore sportivo della UAE Adq, ha detto un grazie particolare a Silvia Persico e l'ha motivato così: «Grazie perché è stato bello sognare, non mollare mai». Arzeni si riferiva a domenica pomeriggio, alla Ronde van Vlaanderen e alla prova di Persico. Probabilmente, il momento in cui è stato più bello sognare è stato proprio quando Lotte Kopecky, Marlen Reusser e Lorena Wiebes, sul Koppenberg, hanno messo in riga tutte le avversarie, andandosene via di convinzione e prepotenza. Tre atlete, tutte e tre del team SD-Worx, già, ma non sono sole. Con loro c'è una ragazza dalla maglia dai colori simili, ma diversi: è Silvia Persico. L'unica atleta a tenere il passo della corazzata.

A dire il vero, Silvia Persico ci racconta che il sabato pomeriggio non si sentiva proprio bene. Si sentiva strana, ma prima delle gare succede spesso. Nel tempo si è convinta che il suo corpo metta in atto una sorta di meccanismo di "risparmio energetico", quasi automatico, prima delle prove importanti. Per questo il giorno precedente ci si sente spenti: «Il venerdì abbiamo massaggi più intensi, se c'è la corsa. Credo che dopo quelli, i miei muscoli si mettano in una sorta di standby fino alla gara». Proprio perché conosce questo meccanismo, Persico alla partenza di domenica era tranquilla, della serie: "vediamo come va". Almeno questa è la sua prima risposta, poi, però, arriva la seconda che è, forse, la più vera.

«Sai, negli ultimi tempi, ho visto molte gare da casa, dall'altura, e non è sempre facile guardare le altre che gareggiano, anche se sai che ti stai preparando pure tu. Vedevo le gare e notavo questo dominio SD-Worx, soprattutto al Nord. Non nego che ci ho pensato: "Quando torno, voglio far vedere che ci sono anche io, che ci siamo anche noi. E, se vogliono batterci, devono sudarsela». Ecco, in quel momento, nel momento in cui Arzeni (e non solo) sogna, la promessa è mantenuta, tanto più che Reusser e Wiebes lasciano il gruppetto e davanti restano solo in due: Kopecky e Persico.

Ronde van Vlaanderen - Tour des Flandres 2023 - Women 2023 - 20th Edition - Oudenaarde - Oudenaarde 156,6 km - 02/04/2023 - Lotte Kopecky (BEL - Team SD Worx) Marlen Silvia Persico (ITA - UAE Team ADQ) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Così Silvia Persico si attacca alla radiolina: «Davide, cosa devo fare? Cosa faccio?». La risposta è chiara: collabora. «Chiedo sempre come muovermi, cosa fare, per me è importante il consiglio di chi ci segue, anche perché, in corsa, capitano momenti in cui non si è lucidi». In quel momento no, Persico sta bene, Kopecky fa un buon ritmo, ma lei lo tiene con apparente facilità. Le concede anche cambi e il loro vantaggio sul gruppetto inseguitore cresce. Si stupisce anche lei: «Non correvo sulle pietre da un anno e il giorno prima avevo provato tutti i settori in pavè a ritmo gara per ritrovare la pedalata. Devo ammettere che non ho un particolare modo di pedalare sulle pietre, mi viene naturale. Però, ecco, dopo un anno, erano sensazioni perfette».

Metro dopo metro, pietra dopo pietra, muro dopo muro e chilometro dopo chilometro, la fatica inizia a consumare e Persico se ne accorge. Non può farsi capire da Lotte Kopecky, ma il suo corpo non la inganna: le energie stanno iniziando a mancare. Non siamo ancora sul Kwaremont: «Non puoi farci molto quando succede così. Ho preso un gel, mi sono aggrappata a lui. Tavolta la lampadina si spegne in un colpo solo, un vuoto totale dal nulla, talvolta invece lancia dei segnali. Questa volta i segnali c'erano tutti». Per giunta nel momento peggiore, perché sul Kwaremont ci si aspetta l'attacco di Kopecky.

Così avviene: Lotte Kopecky forza l'andatura, aziona il turbo e Persico perde contatto. In molti hanno notato uno scivolamento della sua ruota sul bagnato, lei lo ammette, ma precisa: «Vero, c'erano tratti bagnati abbastanza infidi. La ruota è scivolata, però non mi sono staccata per quello. Mentirei se lo dicessi. Quel gel non è stato abbastanza e appena il ritmo è aumentato le mie gambe mi hanno lasciato». Spiega che non sarebbe servito molto, parla di "tre minuti di autonomia in più" sufficienti, forse, per vedere un altro finale. Proprio lì, la lucidità se ne va. Per la stanchezza, per la fatica, forse anche per la sensazione di aver buttato via una possibilità.

Ronde van Vlaanderen - Tour des Flandres 2023 - Women 2023 - 20th Edition - Oudenaarde - Oudenaarde 156,6 km - 02/04/2023 - Lotte Kopecky (BEL - Team SD Worx) Silvia Persico (ITA - UAE Team ADQ) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

«Non so nemmeno esattamente cosa mi dicessero dall'ammiraglia. Ricordo che ripetevano di stare tranquilla, di provare per il podio, ma che sarebbe stata una grande giornata a prescindere, ma non ricordo molto. Ero in confusione». Persico prova ad andare del proprio passo, sperando di tornare su Kopecky, invece è il gruppetto di Reusser, Vollering, Longo Borghini, Niewiadoma e Labous, a rientrare su di lei: «Mi chiedevano cambi e io li saltavo. Non perché non volessi, ma perché non riuscivo. Avevo timore nell'affrontare i tratti in discesa, le curve. Non mi sentivo sicura. Ero svuotata».

Ronde van Vlaanderen - Tour des Flandres 2023 - Women 2023 - 20th Edition - Oudenaarde - Oudenaarde 156,6 km - 02/04/2023 - Silvia Persico (ITA - UAE Team ADQ) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Sebbene, per sua stessa confessione, Silvia Persico non sia solita rivedersi, non le piace nemmeno, questo Fiandre lo ha rivisto con attenzione e con l'occhio di chi sa che il passato serve al futuro. Quando lo ha rivisto, ha avuto la consapevolezza di aver impostato in maniera errata la volata che poi le ha consegnato il quarto posto, a un passo dal podio: «Curavo Reusser, poi la volata l'ha fatta Vollering e anche Longo Borghini mi ha superato. Ero di una posizione indietro, forse anche essendo più avanti di mezza bicicletta, sarebbe andata meglio». Felice sì, ma di quella felicità agrodolce, Persico aggiunge che la sua famiglia è soddisfatta ma, in fondo, sa che anche per loro un pizzico di delusione c'è, dopo una corsa così. Suo fratello le ha scritto: «Ti rendi conto che stavi correndo il Fiandre? Ti rendi conto di cosa sei riuscita a fare al Fiandre?». Anche mentre chiacchiera con noi, Silvia ci pensa, forse se ne convincerà.

La testa ora è alle Ardenne: non ha mai corso queste gare. Una volta è partita, ma, poi, si è ritirata causa infortunio ad una mano. Insomma, nel mirino Amstel, Liegi e Freccia? «Sì, più Amstel e Liegi, probabilmente. Anche se, tra le due, sono più da Amstel. Ora so cosa mi è mancato qui. All'Amstel avrò qualcosa in più, una nuova esperienza. Ci rivediamo lì». Sì, ci rivediamo proprio lì.


Eroica al Parlamento europeo: della giusta nostalgia

Nonostante la sua voce ci giunga da Bruxelles, Giancarlo Brocci inizia a parlarci raccontando di tutte le volte in cui si reca al bar, a Gaiole in Chianti o nei dintorni. Giancarlo entra e molti vorrebbero offrirgli un caffè: «Propongo di giocare a briscola, il caffè lo bevo volentieri, ma vorrei vincerlo. Attenzione, non è tanto per il caffè, sia chiaro, ma per la passione con cui si può giocare. Io gioco divertendomi, gioco sentendo il gioco e me lo gusto». Brocci parte da qui e da una constatazione amara: «Forse, negli ultimi anni, ci hanno tolto molti giocattoli, molte cose che ci portano altrove. La mente umana, però, è rimasta collegata al senso del "giocare" e lo ricerca ancora. Si tratta di una radice che non si toglie così facilmente». Sarà per questo che, l'altro giorno, in hotel, un ragazzo, vedendo una maglietta con la scritta "Eroica", si è fermato a parlare, a dire che conosce Siena, la Toscana, che le pensa spesso.

Brocci è a Bruxelles perché, al Parlamento Europeo, nei giorni scorsi, si è tenuta una mostra dedicata proprio ad Eroica. «La radice comune di cui parlavo si vede dal fatto che ciascuno si è riconosciuto in questa mostra, che le varie differenze di idee si sono messe da parte. Sapete perché? Perché tutti hanno in mente la vecchia bicicletta del nonno, un'immagine in cui si vedono le strade sterrate, il piacere della natura, il legame con quello che è trascorso». Per questo motivo, fa sempre piacere vedere molti giovani che si fermano ad osservare biciclette del 1920, del 1932 o del 1957: biciclette che non hanno vissuto sulla propria pelle, ma che, comunque, suscitano una curiosità, talvolta anche felicità.

Giancarlo Brocci parla molto di felicità, di gioia: un tentativo di restituzione di queste emozioni che Eroica prova a mettere in atto, anche in periodi in cui pensare alla felicità è complicato: «Credo nelle persone e sono solo le persone a poter costruire la felicità. Si fa stando assieme e avendo una comune lettura della realtà. Su duecento chilometri percorsi da chi si riconosce nell'idea eroica di ciclismo, non troverai mezza carta gettata a terra, perché non potrebbero stare con noi. Non starebbero bene noi. Felicità significa stare assieme per tanto tempo, scambiarsi punti di vista, discutere di tutto e ritrovarsi». Come quando si va in biblioteca e tutti stanno in silenzio, aggiunge, oppure parlano a voce bassa: accade perché hanno un'ideale comune e sanno che, per godere di quel posto, bisogna fare così. Essere eroici significa riconoscere di essere immersi nel territorio e avere uno sguardo particolare su quel che ci circonda. Scherza Brocci: «Ti diranno che sono le favole queste. Io dico che è realtà, io dico che si può costruire questo modo di vivere la bicicletta».

Gli chiediamo come si senta, lui tentenna un attimo, poi dice: «Trionfante? Non so se rende l'idea, ma, in un certo senso, è proprio così». Questo ha a che vedere con la comprensione, con l'avere la sensazione che gli altri abbiano capito. Ha a che vedere, poi, soprattutto con una parola: recupero. Si è parlato anche di "recupero" al Parlamento Europeo ed anche questa parola è stata calata nella comprensione. Per esempio a proposito delle ciclabili: «Si può costruire una ciclabile nuova, oppure si possono recuperare le strade sterrate, i tratturi, quei pezzi di realtà dimenticati che possono fare del bene a tutti, oltre alla loro bellezza. Costerebbe anche meno, tra l'altro, oltre alla sicurezza del luogo in cui si pedala».

Tra l'altro, la parola recupero ha radici profonde, come il gioco, il giocare, almeno per Brocci. Il recupero significa conservare, ritrovare: «C'è una forma di bellezza anche in tutto quello che si ricicla, che si torna ad usare dopo che era già stato usato. Nei pantaloni condivisi da più fratelli o anche nelle biciclette passate di generazione in generazione». Non solo: riguarda tutti quei paesaggi che vengono salvaguardati e curati, magari paesaggi in cui fare un giro in bicicletta e recuperare quella che, per Brocci, è la "giusta nostalgia”.

«Un sorta di affetto, di amore per quel che è stato e per quello da cui vieni. Non è un caso se rivediamo le imprese di Marco Pantani, se studiamo Coppi e Bartali, se guardiamo in un certo modo a quel che è stato. Sì, perché da lì veniamo, siamo anche quella cosa lì». Allora il vero significato di quella mostra a Bruxelles, al Parlamento Europeo, è proprio nell'appassionarsi a questa idea di recupero di una strada per una nuova generazione, per una vecchia bicicletta, al recupero di una vecchia bicicletta per i ricordi e le radici che custodisce, al futuro che può venire anche dal passato, a un valore condiviso che permette a tutti di stare meglio e di dirsi: «Andiamo a fare un giro in bicicletta, sugli sterrati». Senza troppi pensieri, creando gioia anche in chi, per caso, transitando, li vede.

Foto: Paolo Penni Martelli


Quante cose fa una bicicletta?

«Negli Stati Uniti cambia la dimensione del viaggio. Te ne accorgi da come le persone ti accolgono e da come, senza alcuna malinconia, senza il desiderio di trattenere, di ritardare la partenza, ti lasciano andare. Non perché non vogliano restarti accanto, ma perché per loro la strada è un luogo dove tutto scorre, dove ci si incontra, si condivide un tratto di viaggio e poi ci si lascia, separandosi, per ritrovarsi più tardi o forse mai. Non importa». A raccontarcelo è Pietro Franzese che, da qualche giorno, è tornato a casa, dopo aver percorso in bicicletta, con Emiliano Fava, ben 6000 chilometri, proprio in America, da San Francisco (Golden Gate) a Miami (Key West) e la bicicletta che, giorno dopo giorno, in due mesi, dall'inverno alla primavera, diventa casa, in un paese di viandanti, «perché c'è tutto quel serve, perché, anche se fai fatica, sai che su quelle due ruote hai tutto il necessario per farla, puoi non temere nulla, e, in più, è una casa che ha radici, le tue radici, ma, allo stesso tempo, ti porta e la porti dove vuoi andare, assieme a quelle radici».

Poi c'è la casa vera, quella in cui, quando si torna, qualcuno prepara le lasagne per festeggiare, cambiano i ritmi, e, fuori dalla finestra, c'è quello che hai sempre visto, quello da cui ogni tanto fuggi, che, però, resta ancora un sospiro di sollievo: «Hai bisogno di tornare, soprattutto dopo un viaggio lungo, dopo aver raggiunto un traguardo importante. Hai bisogno di tornare e di vedere il modo in cui le persone a cui vuoi bene ti guardano, sentire quello che ti dicono, capire quello che pensano del tuo viaggio, se ne sono fieri». E vedere anche tutto il tempo che serve per quelle lasagne, un tempo che, dall'altra parte del mondo, correva così veloce, mentre il progetto di Pietro ed Emiliano si costruiva.

Un progetto che si chiama "2 Italians Across the US" e che vuole sensibilizzare sull'impatto ambientale della plastica monouso, anche attraverso un documentario con le immagini acquisite. Toccare con mano, questa è l'idea, e, come sempre, quando si tocca con mano, si eliminano pregiudizi, preconcetti, che, magari, si hanno. «Sono rimasto positivamente colpito dal fatto che non ci siano quasi mai mozziconi di sigaretta per strada: il primo lo abbiamo trovato in Arizona e l'abbiamo notato proprio perché sembrava strano vederne uno. In Italia, purtroppo, si trovano ovunque». Non solo: in California, ad esempio, c'è molta attenzione al tema della plastica, ma, in generale, i rifiuti a bordo strada non sono così tanti come si potrebbe pensare. Il problema più grosso viene dai contenitori usa e getta dei fast food e dal packaging in linea generale. Anche qui, però, si stanno adottando soluzioni: dalle multe severe per chi viene sorpreso a gettare rifiuti per strada, a progetti come "Adopt a road".

«È come se, davvero, adottassi una strada. Lo fanno le associazioni e, poi, se ne prendono cura. Si tratta di una forma di responsabilizzazione che lega la strada alle persone». Come le legano poche parole: "Be safe", ad ogni saluto, fra le altre. Oppure gli inviti: quando in California, in "The Middle of Nowhere", nome ben suggestivo per un luogo, dei signori offrono a Emiliano e Pietro del pollo e un tratto di viaggio nel loro RV. Si chiamano così e sono delle vere e proprie case, di solito connesse ad un Pick-Up, con cui si attraversa il paese.

Ma la bicicletta ha un privilegio, in ogni attraversamento: qualcosa connesso al supplemento di tempo che serve per percorrere lo spazio. Così Franzese ha notato quanto il territorio degli Stati Uniti sia uguale per chilometri e chilometri, magari anche trecento o quattrocento chilometri: «In macchina non te ne accorgi perché corre veloce accanto al finestrino, in bicicletta invece lo vedi e ti chiedi quando cambierà. Pensavo all'Italia, al fatto che, da noi, bastano cinque chilometri per vedere cambiare tutto». Ed è proprio il paesaggio sempre uguale a suscitare dubbi in Pietro Franzese, mentre pedala pensando al documentario che dovrà costruire e i dubbi, quando si è assieme a un'altra persona, sono materia delicata da trattare.

«Temevo ci ritrovassimo con immagini sempre simili, mi sono anche chiesto se avesse senso continuare. Non ho detto niente, ho solo continuato a far giare i pedali». Talvolta, Pietro ed Emiliano pedalano affiancati, ma non serve parlare, anzi, talvolta è meglio non farlo: si sa quello che si sta provando e viaggiare assieme vuole anche dire lasciare spazio ai pensieri dell'altro, che devono potersi formare e sviluppare, senza essere soffocati da troppe parole. Qualche volta si riesce a ridere delle sfortune e dei problemi che in viaggio accadono. Si tratta dell'importanza della libertà in viaggio: «Abbiamo provato a separarci per qualche giorno, uno da una parte e uno dall'altra. Certe volte, anche solo uno avanti qualche chilometro rispetto all'altro. Penso che, anche grazie a questa libertà che ci siamo imposti, non abbiamo mai litigato, pur condividendo tutto».

Nel frattempo, la stagione avanza: avere prima mezz'ora, poi un'ora, poi, grazie al cambio dell'ora, due ore in più alla sera, sembra incredibile. Aumentano i messaggi e le telefonate a casa. Ci sono sempre tante macchine sulle strade che percorrono, ma rispettose, attente, e giorno dopo giorno, appare più chiara una sorta di filosofia americana: «Non si sottraggono a ciò che è necessario. Si tratta di un parere personale, però l'ho notato: se sanno che, per risolvere un determinato problema, devono affrontare un sacrificio, anche chiesto dalle autorità, lo affrontano. È uno dei tanti aspetti che non conoscevo e ho notato».
Ora che quella bicicletta non deve più percorrere dai 140 ai 160 chilometri al giorno, sembra ancora più evidente la sua importanza: «Magari non sembra o, forse, pare scontato, ma con la bicicletta si può attraversare un continente, perché questo abbiamo fatto. Capisci cosa può fare una bicicletta? È un qualcosa che, solo a dirlo, mi fa felice».


Il sogno è nelle Fiandre

Ilaria "Yaya" Sanguineti ha un rapporto complicato con i sogni. Dice che a sognare è bravissima, precisa che custodisce sogni bellissimi, ma, allo stesso tempo, racconta di una sorta di pudore nei sogni: «Qualche volta penso di aver paura di sognare fino in fondo, perché ho paura di restare delusa. È brutto accorgersi che, in certi momenti, ti sforzi di rimpicciolire ciò che desideri per questo motivo, ma so che mi accade». Il sogno principale, quello di essere una ciclista, è nato per caso il giorno in cui da bambina ha visto tornare a casa suo fratello con una divisa da ciclista piena di colori. Lei voleva una divisa simile più che una bicicletta, fu suo padre a dirle: «Se vuoi la maglia, devi correre in bicicletta». Provocazione accettata, prima gara vinta e una crescita costante e graduale.

«A diciotto anni, magari, riesci a guadagnare duecento euro al mese e ti sembrano tantissimi, sebbene cosa puoi fare con quella cifra? Adesso, se sei brava, a quell'età puoi già avere uno stipendio che ti permetta di vivere da sola, dieci anni fa era diverso. Però, quando parlavo con gli amici, dicevo che avevo trovato un lavoro, che lavoravo e avevo uno stipendio, mi sembrava di essere cresciuta». Non è facile, prosegue Yaya, perché per la maggior parte delle persone il ciclismo non è un mestiere, non riescono a concepirlo come tale e per farlo capire è spesso necessario aggiungere spiegazioni: «La frase più comune è: "Ah sì, vai a divertirti”. No, è un lavoro, può anche divertire, ma resta un lavoro e certe mattine ripartire è proprio difficile». Ilaria Sanguineti per carattere è estroversa: la si vede spesso ridere e scherzare, così molti racchiudono in quelle risate il suo mondo. In realtà, c'è qualcosa che la fa spesso pensare: «Si tratta della consapevolezza in me stessa. Non sono molto capace di credere alle mie capacità, di riconoscermele. Probabilmente l'unica certezza che ho è che, quando sono l'ultimo vagone del treno, nelle volate, sono nel posto giusto. Però sono serviti anni per credere di "essere abbastanza" almeno in quel ruolo».

Volta Comunitat Valenciana Femines 2023 - 7th Edition - 4th stage Tavernes de la Valldigna- Gandia 113km - 19/02/2023 - Ilaria Sanguineti (ITA - Trek - Segafredo) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Dopo anni in Valcar, «una famiglia, in cui ho appreso che avrei potuto lanciare le volate», è tornata a rivestire quel ruolo in Trek. Il giorno in cui il suo procuratore le ha detto che Trek-Segafredo la cercava, ha ammesso candidamente: «Vado anche a portare le borracce, se mi vogliono». Ultima donna, come dice lei, della stessa velocista: Elisa Balsamo. Pensare che, quando avvenne il passaggio di Balsamo in Trek, fu proprio Elisa a dirle in una chiacchierata: «Chissà, magari, un giorno, ci ritroveremo». Si sono ritrovate, loro che hanno molti ricordi assieme e Sanguineti a questo tiene molto: a costruire ricordi condivisi anche fuori dal ciclismo. Per l'addio a Valcar, ad esempio, è partita per Santo Domingo con Chiara Consonni, Vittoria Guazzini, Dalia Muccioli ed Eleonora Gasparrini: «Credo sia uno dei ricordi più belli, perché quando pensi a quelle persone sai che non hanno fatto parte solo del tuo lavoro, ma hanno creduto in te anche per i giorni di vacanza».

Con Elisa Balsamo, poi, il rapporto è particolare: «Dopo la prima vittoria alla Volta a la Comunitat Valenciana, in camera, scherzando, mi ha detto: "Mi tratti sempre male". Quel giorno, in effetti, avevo davvero perso la pazienza, bonariamente ma l'avevo persa. Non mancavano ancora dieci chilometri al traguardo, quando ha iniziato a dirmi che eravamo troppo indietro. Me lo ha ripetuto qualche volta, fino a che: “Elisa, stai tranquilla e pensa solo a seguirmi". Beh, mi ha seguito e, devo dire la verità, quando l'ho vista partire come sa fare lei, ho avuto la certezza che avrebbe vinto. Lei non lo sapeva, io sì». Tra l'altro, a poco dal traguardo, Balsamo aveva affiancato Sanguineti e le aveva detto di stare male: «Bisogna preoccuparsi quando non lo dice. Se lo dice, è bene aspettarsi grandi cose». Un ruolo delicato quello di Sanguineti perché ha anche a che vedere con il saper instillare fiducia.

Volta Comunitat Valenciana Femines 2023 - 7th Edition - 2nd stage Borriana - Vila-Real 116km - 17/02/2023 - Elisa Balsamo (ITA - Trek - Segafredo) - Ilaria Sanguineti (ITA - Trek - Segafredo) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

«Magari pensiamo di passare a sinistra, sul rettilineo d'arrivo. All'ultimo momento, può capitare che io scelga di andare a destra. Se è così, faccio un cenno della testa verso destra e Balsamo deve seguirmi. Non è facile e, se non hai la certezza che la ruota davanti alla tua ti sta portando nella posizione giusta, puoi tentennare». Di certo c'è che l'ultima donna deve pensare per due, sia in termini di velocità che di spazi, e ogni scelta presa deve essere quella migliore per due cicliste, non per una. Poi ci sono i dubbi: tranquillizzare la propria velocista, ma anche gestire i propri timori.

«La volata, dall'interno, non fa paura, se la guardi da fuori, invece, sì. Vero che non sono abituata a credere in me, ma una certa autostima serve, anche solo per pensare di fare uno sprint. Di fatto, io faccio uno sprint potente, ma anticipato di circa trecento metri: il mio traguardo è lì. Ci sono giorni in cui le gambe non vanno, allora bisogna essere sinceri e parlarne. Si può lavorare prima, ci si può rendere utili nelle fasi preparatorie alla volata, ma è necessario dirlo. La tua velocista deve saperlo». Ilaria Sanguineti si muove nel gruppo e Elisa Balsamo la segue: se perde la ruota, se ha un qualunque problema, grida solo "Yaya" e entrambe sanno cosa fare. Sanguineti è "meno pignola" di Balsamo, questo fa bene ad entrambe, tuttavia si definisce "troppo testarda": «La testardaggine va bene, io, però, sono esagerata».
Fra le certezze, il fatto che lavorare per Elisa Balsamo la rende felice e che aiutare a vincere le restituisce qualcosa che altrove non trova: «Per la prima vittoria di Elisa Balsamo in Trek Segafredo, in questa stagione, ho pianto io, non lei. E se ci ripenso ancora mi sembra irreale: ritrovarsi e confezionare subito qualcosa di così perfetto».

Miron Ronde van Drenthe 2023 Women - Emmen - Hoogeveen 94km - 11/03/2023 - Ilaria Sanguineti (ITA - Trek - Segafredo) - Snow - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Con le domande, continuiamo a cercare quei sogni grandi e rimpiccioliti, quelli che non dice per paura di non esserne all'altezza, allora ci dice che vorrebbe partecipare all'Olimpiade, poi, però, cambia subito discorso, quasi per non pensarci troppo. «Tornando alla consapevolezza, credo che un passo importante sia stata la vittoria dell'anno scorso alla Dwars door het Hageland. Non tanto per la vittoria in quanto tale, quanto per quella frase detta dal mio direttore sportivo nella riunione del mattino: "Oggi facciamo la corsa per te, oggi vinci tu”. Essere riuscita a sostenere quella responsabilità ed essere riuscita ad ottenere il successo mi ha fatto bene».
Si torna un'ultima volta nei paraggi dei sogni e questa volta le parole raccontano tutto: «Vorrei portare Elisa Balsamo a vincere il Fiandre». Un gran bel sogno, non c'è che dire, un sogno che noi stiamo già sognando: al vento, a tutta verso il traguardo.


Diario dall'Alaska: il rispetto del freddo, la comprensione della paura

C'è un essere vivente impietoso che stringe, come in una morsa, chiunque stia percorrendo l’Iditarod Trail, in Alaska. Pesa sulla schiena, mentre, in ginocchio, si tornano a gonfiare gli pneumatici che hanno perso pressione proprio sotto l'agguato di questo animale: è il freddo. Willy Mulonia ricorda il suo professore universitario, si chiama Chechu (Ceciu), e quella volta in cui gli chiese se il freddo potesse essere un'emozione: fu proprio Chechu a dirgli di sì, mentre i suoi colleghi gli spiegavano che, al massimo, poteva essere una sensazione.

«Il freddo è un'emozione - ci spiega Willy- perché diventa l'elaborazione di tutte le cose che senti e che, così trasformate, riconoscerai al prossimo incontro e saprai come affrontarle». Il freddo che non è da temere, ma da rispettare, anche quando si presenta col buio, nel buio, ed è davvero spaventoso: fatichi a vedere a causa del ghiaccio che penzola dalle ciglia, però distingui nettamente le impronte dei lupi sulla strada e il cervello rischia di andare in tilt. Perché il freddo induce al delirio, prima, ed al congelamento, poi.

Ti fa fare cose che non faresti mai, così ti blocca, inibisce ogni possibilità di reazione. «Quando senti freddo è troppo tardi, come quando senti fame in una tappa dolomitica. Col freddo si mangia come lupi, gli stessi di cui vedi le orme. Devi fare attenzione a non rompere niente, perché le basse temperature rendono tutto più fragile, sottoposto alla rottura. Tranne la neve che si ammassa, si fa più dura e apparentemente sembra più facile da percorrere, se non fosse per la pressione delle gomme che, proprio il freddo abbassa di colpo». L'unica possibilità è prevenire, in questo sta il rispetto.

Sul manubrio di Willy, Tiziano e Roberto c'è un termometro analogico, acquistato da Willy in Finlandia. Gli altri concorrenti non capiscono a cosa serva, perché sia lì. Willy Mulonia lo ha ben chiaro: basta abbassare lo sguardo per prendere coscienza della temperatura e coprirsi prima che sia troppo tardi. Sì, coprirsi ma non troppo perché, se si inizia a sudare, è la fine. Un altro nemico, ostico, fra i tanti dell'Alaska. Ogni tanto lo sguardo va verso il cielo: «Giove e Venere sono vicinissimi. Me lo ha detto Roberto, giusto qualche giorno fa, così, quando lo noto, penso che lui è davanti a me, rifletto su quanto davanti e, poi, continuo a pedalare». In diciassette ore, Willy, Tiziano e Roberto hanno fatto un tratto che normalmente si fa in due giorni, “un'impresa eroica nell'impresa stessa" come direbbe Giancarlo Brocci, e Nikolaj è sempre più vicina. Ci sono le impronte del fratello Tiziano davanti a Willy e lui prova a capire di che impronte si tratti: «Se è la camminata di qualcuno che è stanco, sfinito, oppure affamato o se sta camminando perché vuole scaldarsi i piedi. Il problema è che quando fa così freddo non ci si può permettere di pensare agli altri. E ora, proprio ora, il termometro segna meno quaranta». Di rispetto e di non paura è il rapporto col freddo, ma la paura è parte di ogni viaggio, soprattutto da queste parti.

Nei primi tempi, Willy Mulonia temeva l'acqua, poi ha capito come affrontarla, come difendersi dai suoi pericoli e questo non è scontato perché la paura allerta il cervello e rischia di causare una reazione che non serve, spropositata, che è un inganno della nostra mente. Si tratta di un'emozione primaria che, certamente, ha anche dei lati positivi: «Serviva per stare all'erta, per fronteggiare la bestia selvaggia, fuori dalla grotta. Un eredità che trasciniamo ancora oggi nel nostro quotidiano da allora. Il nostro cervello è portato a focalizzarsi sul negativo». La paura è umana, non può esisterne l'assenza, esiste piuttosto la convivenza con questa emozione. Quando si parla di essere valorosi, significa riuscire a fare questo, evitare il "sequestro amigdalino", come lo chiamano le neuroscienze: «Confondi un uomo con una tigre, tutto diventa più grande, smisurato, impossibile da affrontare. Noi esseri umani, tra l'altro, siamo abituati a giudicarci di continuo. Non valutiamo gli errori, li giudichiamo e, con quelli, giudichiamo noi stessi».

Il valore sta nel riuscire ad aprire lo stesso quella porta e a muovere il primo passo verso ciò che ci spaventa, perché, solo dopo quell'esperienza, si riesce a conoscere un'altra parte di noi, più completa o, sicuramente, mai incontrata prima. «Si può farlo in Alaska od ovunque nel mondo ed in qualsiasi ambito, a patto di lavorare sulla fede in noi stessi. Sulla fiducia che abbiamo delle nostre capacità. Non si raggiunge solo ciò che si vuole, si raggiunge ciò che si necessita, di cui si ha bisogno». Qui Willy torna a San Tommaso e Sant'Agostino: il primo con il suo "se non vedo, non credo" e l'altro con un capovolto "se non credo, non vedo".

«Concordo con Sant'Agostino. Penso sia indispensabile credere fortemente al proprio obbiettivo a ciò che si vuole raggiungere per poi vederlo effettivamente». Prima di tutto, però, c'è la conoscenza della propria persona che è la base, la regola incisa su una pietra all’ingresso del Tempio di Apollo: "Conosci te stesso". Soprattutto perché questa conoscenza permette di ridimensionare la paura del resto: «Si tratta comunque di qualcosa di occulto, ma, in questo modo, è possibile aprire la porta ed affrontarlo, scoprirlo e, quindi conoscerlo». C'è l'essere, ovvero il conosci te stesso, il saper essere, quindi la capacità di relazionarsi con gli altri, e, infine, il saper fare che è il virtuosismo di ciascuno, qualcosa che si fa per noi stessi e per gli altri. «La paura si affronta come l'Alaska, essendo umili, non arroganti, ma coraggiosi. C'è un libro intitolato "Il cammino dell'eroe": da quelle righe capisci che l'eroe è una persona semplice, genuina, che ha sofferto, che ha imparato. E quando sei solo, a spingere la tua bici, ci pensi e ti fai coraggio».

Willy sorride, pensa alla strada che ha fatto, a quanto l'Alaska, ancora una volta, l'ha cambiato, poi torna a parlare: «Platone diceva: “Ognuno può essere eroe per amore". Siamo chiamati a questo».
Proprio così, nulla da aggiungere.


I motivi che muovono il Binda

Sul lago, a Maccagno, nel primo mattino, alla partenza del Trofeo Binda, ci si rende proprio conto di come ciascuno sia qui per un motivo diverso. Sì, ognuno, perché questa considerazione non riguarda solo le atlete, ma proprio ogni persona arrivata qui. Pensate che qualcuno non conosce nemmeno questa corsa, ma il traffico bloccato non gli ha dato altro scampo che fermarsi e allora: «Ho fatto di necessità virtù. Invece che lamentarmi, ho deciso di guardare a quello che c'è. Per ora, non ci capisco molto, ma chissà, dicono che le gare di ciclismo siano molto lunghe, forse ora della fine...». E, se il ragazzo che ci dice questo è capitato qui per caso, anche chi è venuto appositamente per la gara di motivi ne ha a bizzeffe e tutti diversi. C'è chi sa gustarsi l'attesa e chi, invece, non vede l'ora che la corsa parta, o meglio, che arrivi, perché vuole vedere il finale, vuole sapere come andrà. Lo si capisce dalla postura; c'è chi è appoggiato comodamente alle transenne e chi non sta fermo un attimo, dallo sguardo alle mani, alle gambe. Lo si capisce da come corre alla macchina chi non vede l'ora dello scatenarsi della bagarre: telefono alla mano, mappa, per capire dove andare a vedere il passaggio. In questi casi, la parola d'ordine è "schiscetta", ovvero merenda o pranzo, portato in un contenitore: «Prendetevi la schiscetta» dice una madre. Poi via, si va.

Trofeo Alfredo Binda - Comune di Cittiglio 2023 - 24th Edition - Maccagno - Cittiglio 139 km - 19/03/2023 - Marta Cavalli (ITA - FDJ - SUEZ) - photo Alessandro Perrone/SprintCyclingAgency©2023

E se questo vale per il pubblico, a maggior ragione vale per le atlete. Prendete Sofia Barbieri che corre questa gara con una mascherina per le allergie che si sviluppano in questa stagione, suscitando la curiosità di chi la vede transitare: «I medicinali non sempre bastano, però, con la fatica, ogni tanto tocca abbassarla, scegliere il male minore. Se l'abbasso, vuol dire che la lucina rossa sta per accendersi». Quale può essere il motivo, quando sei certo che, comunque vada, soffrirai? Esserci, in molti casi, solo esserci, provare. Anche Marta Cavalli è a Maccagno, con un'idea diversa dal solito: non è ancora il momento del ritorno in corsa, le serve una pausa, ma correrà. Perché è in Italia e molti la aspettano e perché, in fondo, la voglia di mettersi alla prova c'è sempre, la voglia di ricercare la stessa sensazione e di vedere come cambia di giorno in giorno. Arriva, si ferma in macchina, parla con il proprio direttore sportivo, poi scende e va incontro al padre. Già, per molti oggi il motivo è anche questo: vedere le figlie correre o vedere i genitori dopo settimane lontani da casa. Anche i genitori delle atlete hanno una mappa: quella delle trasferte fattibili e dei giorni in cui possono stare lontano dal lavoro per seguire le figlie, anche in camper, anche con andata e ritorno in giornata e chilometri e chilometri.

Trofeo Alfredo Binda - Comune di Cittiglio 2023 - 24th Edition - Maccagno - Cittiglio 139 km - 19/03/2023 - Scenery - photo Alessandro Perrone/SprintCyclingAgency©2023

Poi ci sono le motivazioni attinenti alla gara: si legge la tensione negli occhi di chi la gara proverà a farla, a dominarla, a vincerla. Si legge negli occhi appena si scende dal pullman, poi, come si incrocia lo sguardo dei tifosi, lascia spazio a qualche parola, al sorriso: quasi una maschera per comunicare la spensieratezza che i tifosi si aspettano, quasi fosse un gioco di teatro. Vale per Niewiadoma, Arlenis Sierra, Mavi Garcia, ma vale in generale per chi vuole fare bene. Elisa Balsamo e Soraya Paladin scendono prima dal pulmann: lì fuori c'è la loro famiglia. «Oggi sono qui per mia sorella» ci dice Asja Paladin mentre, con i genitori, va al pullman a salutare Soraya. Non «per vedere mia sorella correre» ma proprio per lei: quasi il tifo di una sorella possa essere un sostegno fisico, un appoggio vero e proprio, non solo di voce e mani che battono.

Trofeo Alfredo Binda - Comune di Cittiglio 2023 - 24th Edition - Maccagno - Cittiglio 139 km - 19/03/2023 - Shirin Van Anrooij (NED - Trek - Segafredo) - photo Roberto Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Tra i motivi c'è anche il sostegno alla squadra, l'essere utili, in ogni modo. Shirin van Anrooij ha ed ha sempre avuto questo motivo. L’ha detto nel dopo gara: «Volevo lavorare per Elisa Balsamo, poi ho sentito di avere le gambe e ho tirato dritto». Sì, “aveva proprio le gambe” a giudicare dal numero che ha fatto. Una ciclista che ieri non ha partecipato alla gara, vedendola, ci ha detto: «Non mi è mai capitato di essere davanti a una corsa e di giocarmela così. Però la sensazione che si prova, quando il gruppo ti insegue a pochi secondi, la conosco. La simulo in allenamento: fingo di essere al Giro d'Italia, all'attacco. Conosco quell'acido lattico che monta». Ed anche questo è un motivo, è cercare un motivo, per fare fatica, per andare alle corse. Lo pensano spesso le atlete che vanno i fuga in corse in cui si sa che la fuga non arriverà. Per sprintare per un secondo posto, come ha fatto Elisa Balsamo, e gioire come fosse il primo, perché c'è una compagna che ha vinto, ma adesso sai che quella volata avresti potuto vincerla anche tu e questo è motivo di fiducia.

Trofeo Alfredo Binda - Comune di Cittiglio 2023 - 24th Edition - Maccagno - Cittiglio 139 km - 19/03/2023 - Elisa Balsamo (ITA - Trek - Segafredo) - photo Roberto Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Vogliamo dire che i motivi, le motivazioni, alla fine, in questa domenica, sono state tutto quello che contava: per esserci, per non esserci, per vincere o per arrivare al traguardo. Per il modo in cui permettono di leggere ciò che accade e di venire sul lago per una gara dura, anche se si sa o si teme di non essere pronte per quel che si vorrebbe. I motivi muovono, come le biciclette. Per questo era giusto parlarne.