Quando la fatica è fuori controllo: una riflessione con Mattia De Marchi

Questa volta, partire era più difficile. Mattia De Marchi inizia più o meno così il racconto di Atlas Mountain Race 2023: 1300 chilometri e 20000 metri di dislivello, da Marrakech a Essaouira, in Marocco. Era più difficile soprattutto perché la partenza era la sera, alle diciotto, e, in tutte quelle ore, dal risveglio, i pensieri hanno modo di prendere forma: «Quando ti alzi la mattina e devi correre per partire, non hai quasi il tempo per riflettere su quello che stai facendo. Sul fatto, ad esempio, che resterai solo per alcuni giorni e potrà succedere qualunque cosa. Ora di sera, invece, ci rifletti e quel pensiero un poco ti segna». Tutte cose che, almeno nel caso di Mattia De Marchi, sono andate via dopo le prime pedalate, quasi come se il vero blocco fosse l'inizio, i primi metri, perché, poi, quelle sensazioni si conoscono bene, anzi si riconoscono come qualcosa di familiare e non c'è più tempo per pensare. Così De Marchi parte bene e per un paio di giorni scorda ogni cosa. In Marocco fa freddo, non solo sulle vette, anche nei paesi in cui ognuno cerca di mettersi a disposizione, di aiutare, laddove, forse, si conosce il vero Marocco «una terra che ha poco a che vedere con l'immagine che ne abbiamo noi, con la sua parte turistica, una terra a tratti scavata dalle difficoltà e per questo vera, reale. Uguale alla disponibilità di queste persone».

In quei momenti, per De Marchi anche dormire fuori da un negozio, in un sacco a pelo, con una temperatura vicina allo zero sembra perfettamente naturale. Eppure qualcosa di strano c'è: quando si mette a dormire, il respiro di De Marchi diventa affannoso e veloce. Ci si pensa per qualche istante e poi non più. Ma quel respiro è già un segnale del limite, della fatica. La fatica è pane quotidiano in eventi come questo: il suo sintomo più classico è il collo che cede, l'impossibilità di tenerlo alto, di guardare avanti. «Ho visto persone che mettono un rotolo di carta igienica sotto il mento per proseguire, qualcuno che usa la camera d'aria per aiutarsi a stare dritto, per poter continuare. Una cosa è certa: uno sforzo simile non fa bene al fisico, bisogna saperlo. E bisogna anche sapere che potrebbe arrivare il momento in cui l'unica cosa razionale sia quella di scendere dalla sella senza farsi prendere troppo da ciò che si sta facendo, pensando solo alla propria salute». Potrebbe sembrare naturale, quasi scontato, invece non lo è. Sarà una salita a svelare il fatto che quel giorno qualcosa proprio non va.

«Non riuscivo a incamerare il respiro, ma credevo fosse qualcosa di momentaneo dovuto allo sforzo. Invece no, anche in pianura avevo la stessa sensazione. Passava per qualche istante e poi tornava». In quel momento, De Marchi è in testa all'Atlas Mountain Race, la gara che ha cambiato Enough Cycling oppure, per dirla ancora meglio, l'ha fatto diventare ciò che è adesso: «La prima volta, io e Federico Damiani eravamo pronti fisicamente, ma totalmente inconsapevoli. Forse anche quello è stato un bene, forse anche per quello siamo arrivati alla stessa conclusione: alla fine, una bicicletta è tutto quello che serve per essere felici. Quello che intendo dire è che il legame con questa corsa è come un nodo, stretto. Per questo il pensiero di vincerla è potente».
Senza respiro, De Marchi telefona a Giovanni, suo amico, medico che corre in bicicletta: «Se ti sdrai, cosa provi? La stessa sensazione?». De Marchi si sdraia e si sente soffocare, Giovanni lo ferma: «Ritirati e vai a farti visitare, può essere un edema». Non c'è altro da fare e Mattia De Marchi scende effettivamente dalla sua bicicletta, si fa venire a prendere, va in ospedale: i controlli ribadiranno che di edema si è trattato. Solo oggi, diversi giorni dopo, De Marchi ci dice che si sente come prima di partire, si sente bene. «Non ho pensato minimamente alla gara e sono tornato a casa, non lo avessi fatto non so cosa sarebbe successo. Il Marocco resta dove si trova e Atlas tornerà a corrersi, ma, forzare troppo la mano, forse, avrebbe impedito a me di tornarci e di fare molte altre cose. Lo dico con forza perché non sono l'unico a cui è capitato: avete presente la tosse da cui sono affetti gli atleti, quella che spesso si nota nei video di queste gare? Non è qualcosa di grave, ma è comunque sintomo di qualcosa che non va, di qualcosa su cui porre l'attenzione per evitare problematiche peggiori». Il concetto è sempre quello di limite, tuttavia, quando si tocca la salute, quel limite diventa particolarmente importante. Si tratta di accettarlo, ma anche di fare qualcosa per evitare che si arrivi a quel punto, allo stare così male.

«Dei segnali ci sono, per me ci sono stati e forse avrei dovuto coglierli. Bisogna aumentare la conoscenza di questi sintomi, magari raccogliendoli fra gli atleti con delle ricerche. Con Giovanni vogliamo provare a fare così, dedicandoci alla prevenzione, perché a forza di tirare la corda non si sa mai cosa può succedere. Penso che oggi il tema sia questo, più che quello del sonno che, tuttavia, si continua a studiare». Per meglio spiegare il concetto, De Marchi porta un altro esempio, un problema che ha sempre alle articolazioni, durante le gare, probabilmente legato al fatto che pratica poca attività in palestra: «Ho chiesto a chi mi segue e mi hanno detto che ci sono allenamenti particolari per eliminare o ridurre questo problema. Ecco: bisognerebbe fare una cosa simile anche con altre problematiche, comprese quelle legate alle vie respiratorie».
Poi c'è una domanda che Mattia si è fatto, che Giovanni gli ha fatto: «E se in qualche occasione, lontano da tutto e da tutti, con un pesante malessere, fosse necessario avere un medicinale a portata di mano per tutelare la salute?». La risposta è complessa, però è bene darla: «Le parole su cui far leva sono due: "necessario" e "tutela della salute". Il ciclismo purtroppo ha pagato fortemente lo scotto del doping e si rischia di fare confusione: bisogna essere netti nel respingere a priori ogni pratica di quel tipo, che serva a potenziare le prestazioni, senza se e senza ma. Bisogna anche dire che il medicinale deve essere l'ultima via, in ogni caso. Ma se quel medicinale fosse indispensabile e non averlo causasse danni gravi? Sottopongo questa riflessione, nulla di più, ben cosciente del fatto che ci sia una forte tematica di responsabilità personale. Si potrebbe anche pensare di aumentare le ore di riposo, ad esempio. L'importante è pensarci».
Proprio perché ci ha pensato e ci sta pensando, De Marchi spiega che non ha timore nel tornare in corsa, forte di quella prevenzione che sta mettendo in atto: coprendosi di più o semplicemente imparando a fermarsi al momento giusto, fossero anche ore di pausa. Poi c'è la fatica bella, quella da elogiare, per esempio quella degli ultimi perché «so bene che chi percorre una gara di questo tipo in una settimana fa molta più fatica di me, anche se fa meno chilometri al giorno. Mi piace dirlo, ripeterlo, perché è fondamentale».
In quanto alla Atlas Mountain Race, De Marchi tornerà, per divertirsi, per rivedere quel Marocco "vero" di cui ha parlato, per pedalare e anche per vincere perché, su quelle montagne, Mattia vuole vincere.


Diario dal Teide: il ritorno a casa

Appena rientrata a casa, dopo il ritiro di quindici giorni al Teide, accendendo le luci, Elisa Longo Borghini rivolge l'attenzione al calendario: siamo agli inizi di febbraio, ma la pagina esposta è ancora quella di dicembre. Sì, tra una cosa e l'altra, l'ultima volta che è stata a casa era proprio il 27 dicembre. Accanto alla porta, c'è un pupazzo raffigurante un alpaca, ancora addobbato con un cappello di Natale: «L'ho subito tolto e ho girato le pagine del calendario, quasi per aggiornare la casa al periodo, a me. Per una ciclista è la normalità, eppure fa strano appena rientri. Questa casa e questo paese, Ornavasso, restano la mia boccata d'ossigeno, un posto a cui appartengo. Quando sono in viaggio e mi trovo in luoghi molto belli, spesso, provo a chiedermi se mi piacerebbe cambiare città, appartenere ad un altro paese, magari, in astratto, migliore. Sarà che qui sono nata, ma ogni volta la risposta è negativa». E anche quando, scherzando, le dicono che sembra abitare fuori dal mondo, lei, ridendo, risponde: «È la mia città».

A casa non è restata molto, in realtà, perché, proprio lunedì, è ripartita per gli Emirati Arabi, per la prima gara della stagione che sarà anche la prima edizione dell'UAE Tour femminile. Le valigie, mentre parliamo, sono già pronte, le ha preparate appena a casa. Da queste prime gare non si aspetta molto, vuole solo capire come sta e come stanno le avversarie. Dice che è lo sguardo il modo migliore per capirlo: «Al netto della pedalata, quando non stai bene, sei anche più impacciata nel muoverti in gruppo, nel fare cose semplici. Perdi la lucidità che rende tutto normale. Puoi cercare di nasconderti e nasconderlo, ma le avversarie sanno cosa guardare». A Longo Borghini, poi, muoversi in gruppo piace e l'anno scorso confessa di essersi divertita a tirare le volate a Elisa Balsamo. Sì, usa proprio questa parola: la diverte trovare il varco giusto, limare, guadagnare posizioni, intuire le mosse dei treni rivali: «Non ho l'abilità di una velocista, ma mi caricava questo ruolo. Solo la prima volta ho avuto paura di sbagliare tutto, poi Balsamo ha vinto e io ho pensato che avrei voluto un'altra volta per riprovarci». Nel 2023 ci sarà Ilaria Sanguineti a ricoprire questo incarico, ma è stata un'esperienza. Restano le sensazioni.
Come quelle particolari che ha provato quando ha visto Anna van der Breggen all'ultima gara e quando la vede in ammiraglia. Dice che il suo percorso e quello di van der Breggen sono stati abbastanza paralleli e sapere che lei è ancora in gruppo e l'olandese non più l'ha fatta pensare. Estremamente fredda in corsa, quanto genuina fuori: «È una di quelle persone da guardare quando si ha la tendenza a sollevarsi troppo da terra, perché non è mai cambiata, anche se per tutti è un simbolo del ciclismo. La sera prima della tappa di San Marco la Catola, al Giro d'Italia 2020, ci siamo scritte: "Domani bisogna fare corsa dura". Io ho vinto la tappa e lei quel Giro». Sorride, anzi, ride di gusto parlando di numeri: «Ho un legame particolare con il terzo posto. Se non vinco e sono in forma, sono puntualmente terza. Va bene, non mi lamento, ma confesso che, qualche volta, accorgendomi di essere terza, ho pensato che sarebbe bello variare. Ogni tanto, almeno. Non so, un secondo posto se proprio non riesco a vincere».

In quel gruppo che si trova spesso a scrutare attentamente, c'è anche Gaia Realini, sua compagna di squadra. Se dovesse scommettere su qualcuno, scommetterebbe su di lei e «non lo dico perché è in Trek, è una forte scalatrice e non ha molte pressioni. Non fosse stata in squadra con me, l'avrei segnata fra le atlete da attenzionare». Qualche attimo di silenzio e, poi, una parentesi colloquiale, un inciso, senza apparenti motivi, quasi una necessità: «Sai che della bicicletta mi piace proprio tutto. Quando vado veloce, poi, provo una sensazione incredibile. Sarà l'adrenalina, però non ho mai provato qualcosa di simile. Penso che, fuori da questo mondo, non ci sia nemmeno qualcosa di simile».
In un armadio, a casa dei genitori, ha ancora custodita la prima maglia azzurra, quella di un ritiro, quando aveva quindici anni: «Era solo una maglietta, ma io non la vedevo come una maglietta. Fra tutte le ragazze che avevano provato ad essere lì, io c'ero. Rappresentavo l'Italia. Quell'Italia nei cui confronti sono molto critica, perché non è come la vorrei, come potrebbe essere. Però sono profondamente italiana, anche nelle piccole cose e lo rivendico. Racconto l'Italia quando parlo con colleghe di altri paesi». Già, a quell'azzurro, però, è legata anche una delusione, probabilmente la più grossa: la mancata convocazione all'Olimpiade del 2012. Quella che «non dimenticherò mai».
«Sia chiaro: le scelte tecniche avevano tutta la loro coerenza, io, però, quel posto lo meritavo. Non era un capriccio. I risultati parlavano per me. L'ho saputo al Giro d'Italia, ho faticato a guardare quei Giochi Olimpici. Su quel divano, mi dicevo: “Nel 2016 non darò a nessuno la possibilità di non convocarmi. Farò talmente bene che mi dovranno portare per forza"». Ci sono stati mesi in cui non ha pensato a quei quattro anni che mancavano alla prossima Olimpiade e questo l'ha aiutata ad aspettare. Fino al giorno in cui la convocazione è arrivata: «Cos'ho provato? Sì, ero felice per quell'Olimpiade, ma il 2012 non riesco a dimenticarlo. Quando ti tolgono qualcosa che senti di meritare, non puoi sostituirlo con altro come nulla fosse. Non te lo restituisce nessuno».
In quei giorni a casa ha pedalato, è andata in posti a cui è legata, ma, purtroppo, ha provato per l'ennesima volta una sensazione brutta, che le nostre strade restituiscono spesso: «Parlo degli autoveicoli che sfiorano la bicicletta e sembra ti tocchino. Parlo di quando ti senti in pericolo mentre fai il tuo lavoro. Sono bastati due giorni perché capitasse di nuovo». Longo Borghini si chiede quando qualcosa cambierà e, purtroppo, si trova a constatare che servirà molto tempo, forse troppo tempo. Spiega che l'unico modo è quello di parlare ai bambini perché in futuro le strade saranno loro e spetterà a loro il compito di renderle diverse.
«Alessandro De Marchi ha dichiarato che chi guida non si rende spesso conto di avere fra le mani un mezzo che è simile a una pistola carica. Di più: non si rende conto che la strada è un luogo di convivenza, di condivisione. Questo è un qualcosa su cui dobbiamo riflettere tutti, perché anche noi ciclisti dobbiamo incrementare l'attenzione, non voglio nascondermi. Il fatto è che un pedone o un ciclista restano comunque parte debole, fragile. Parte da tutelare». Parlarne, sensibilizzare, può aiutare, poi c'è la responsabilità individuale.
Anche nel ciclismo qualcosa andrebbe cambiato, ci dice Longo Borghini. Pensa a un fatto in particolare, a quella dizione: "ciclismo femminile": «Siamo cicliste, siamo sportive. Siamo persone che lavorano con quella bicicletta, che fanno sacrifici su quella bicicletta. Perché continuiamo a parlare di "ciclismo femminile" come fosse qualcosa a parte? Le parole fanno parte della realtà e i nomi che diamo al circostante spesso rispecchiano i nostri atteggiamenti. Adesso le cose sono cambiate, ma, quando è nata la squadra femminile di Trek Segafredo, ricordo come capitava che ci guardassero i professionisti. Sembravamo quasi un mondo a parte, qualcosa con cui capire come relazionarsi. Credo il lessico abbia avuto un ruolo in questo. Nello sci, ci sono solo sciatori e sciatrici. Perché non impariamo?».
Imparare, ovvero chiudere il diario, e ripartire. Ci sarà modo di tornare ad ascoltare e a scrivere.
Buon viaggio, Elisa!


Luci al velodromo

Sembrava avere gambe ovunque. Potrebbe iniziare in questo modo un racconto della corsa a punti di Simone Consonni, all'Europeo di Grenchen. E, sotto i baffi, i denti stretti per la fatica. Questa sarebbe, poi, la degna continuazione. Così iniziamo, così continuiamo perché Simone Consonni stasera sembrava davvero avere gambe ovunque, almeno da quando ha scatenato la sua rincorsa nello sparpaglio che turba, affascina, disorienta e confonde di questa specialità della pista. Un caos che meraviglia.

Scatta, insegue, conquista e riparte, già a poco meno di cento giri dal termine. I giri, sì, quelli che si guadagnano o si perdono, il paradosso è che anche chi li perde li ha lo stesso nelle gambe ed è una beffa, per l'acido lattico che brucia. Sotto quei baffi e quei denti stretti per la fatica, Simone Consonni, però, non perde nulla, anzi, guadagna in continuazione, sprint dopo sprint, giro dopo giro. La fatica brucia anche lui, ma sappiamo tutti di cos'è capace, di quanta tenacia, quasi una sfida a colpi di fioretto al dolore fisico. Alla fine restano in tre a giocarsi l'oro: con lui, lo spagnolo Torres Barcelo e il francese Grondin. Li mette letteralmente in fila: oro per Consonni, argento per Torres, bronzo per Grondin. Poi scherza, ride, finiscono appaiati, con le mani sulle spalle, dopo la sfida. Chissà cosa si dicono. Chissà se anche per loro, stasera, Consonni aveva gambe ovunque.

C'è l'amaro in bocca per Rachele Barbieri, sorpresa all'interno della pista nella prova dell'eliminazione. Uscita di scena troppo presto rispetto a ciò che ci si attendeva. C'è l'amaro in bocca dopo l'esultanza, dopo la gioia. Ma è ancora presto e si può aspettare altro. Quello che arriverà da lì ad un'ora.
Luci al velodromo e, poco dopo le venti e trenta, ci sono le finali dell'inseguimento a squadre. Sembra il loro destino quello dell'attesa lenta e inesorabile, è sempre così, è spesso così. E noi ci siamo anche questa volta. Puntuali, quasi un omaggio alla Svizzera, ai suoi orologi, quelli citati in un noto detto.
Italia-Gran Bretagna e ancora Italia-Gran Bretagna. Non è un errore, perché la finale femminile e quella maschile propongono esattamente la stessa sfida. Un diverso finale. Sarà argento per Vittoria Guazzini, Martina Fidanza, Elisa Balsamo e Martina Alzini: partono guadagnando, con addosso la maglia iridata, poi qualcosa accusano, la Gran Bretagna macina forte, anche quando si disunisce, anche quando, dal punto di vista tattico, qualcosa non va. Ci disuniamo anche noi verso la fine, non riusciamo a recuperare e siamo secondi. Ma va bene così, è un bel podio. Soprattutto c'è il percorso che, negli anni, ci riporta ancora lì ed è il percorso ad essere anche più bello.

Francesco Lamon, Jonathan Milan, Manlio Moro e Filippo Ganna: la formazione. Le biciclette dorate: il ricordo di un'estate olimpica. Via! La velocità è il loro talento, il loro sacrificio. Marco Villa indica i tempi, il gesto della mano è eloquente: va bene così, è perfetto. Ognuno con le proprie caratteristiche, le proprie sensazioni: il lancio di Lamon, il volto da bambino e la voglia smisurata di qualcosa di speciale di Milan, la commozione di Moro e la potenza di Ganna. Sì, lui che questo velodromo lo conosce alla perfezione, per averci girato un'ora, per aver stabilito qui il record dell'ora. Vorremmo indagarne i pensieri, invece ci fermiamo alla medaglia d'oro nella specialità. All'inno e ai pensieri che porta.
Luci al velodromo e buio fuori. Gli orologi dei velodromi di qualunque parte del mondo custodiscono il tempo ed il tempo questa sera ha lasciato qualcosa per cui essere contenti.


Le azzurre a Grenchen: al via gli europei su pista

Ci siamo! Oggi iniziano gli Europei su pista di Grenchen, in Svizzera. «Una pista che conosciamo bene- ci dice subito Diego Bragato- preparatore dell'Italpista- perché qui, pochi mesi fa, è avvenuto il record dell'ora di Filippo Ganna: 56,792. Non te li scordi più certi luoghi».
Sì, il velodromo è proprio quello, esattamente un anno dopo l'inizio del lavoro di Marco Villa con la nazionale femminile su pista. È stato «tutto nuovo», ci spiegano, il modo di rapportarsi con le atlete e anche l'organizzazione del lavoro. La mattina dell'Europeo, è appunto questa una delle prime osservazioni di Bragato: «L'aumento delle gare femminili su strada, con l'equiparazione dei calendari uomini e donne, ha senza dubbio rappresentato qualcosa di positivo per le squadre e per le stesse atlete. Devo anche dire che è diventata più difficile l'organizzazione del nostro lavoro, in vista di appuntamenti come l'Europeo. Le squadre femminili non hanno, spesso, un organico ampio quanto quelle maschili e indubbiamente la sottrazione di atlete di rilievo per gli appuntamenti della nazionale ha un peso rilevante. Un esempio: Vittoria Guazzini è arrivata qui da un ritiro, proprio in questi giorni. Abbiamo spesso lavorato singolarmente con le ragazze che, ancora una volta, hanno mostrato la loro professionalità. La situazione si gestisce per priorità, in vista dell'Olimpiade, probabilmente, chiederemo una ancor maggior collaborazione alle squadre».
Il progetto di Marco Villa è sempre lo stesso ed è focalizzato sulla continua crescita della squadra e la verifica di come le atlete reagiscono alle diverse situazioni, per questo motivo le atlete schierate varieranno e ognuna delle convocate avrà modo di mettersi alla prova. Bragato approfondisce il tema: «Se guardassimo solo alle medaglie, alla vittoria, potremmo schierare una ragazza particolarmente forte in tutte e cinque le gare. Sono cicliste di livello e agendo così avremmo quasi sicuro il risultato. Facendo in questo modo, però, non cureremmo la crescita del gruppo. Noi vogliamo che tutte le atlete siano pronte e sappiamo gestire le varie situazioni».
A Montichiari sono state effettuate le prove quasi definitive di ogni specialità, ma la decisione finale su chi verrà schierato in alcune discipline sarà presa solamente in mattinata. Una variante importante è quella della temperatura: mediamente a Grenchen, nel velodromo, è intorno ai 26 gradi, ma ieri, nelle prove, era inferiore, tra i 20 e i 22 gradi, «certamente è una pista molto veloce, ma una differenza di questo tipo permette di togliere circa mezzo secondo a giro, non è da poco. Per questo, stamani capiremo arrivati in pista come sarà la situazione e da lì torneremo a riflettere anche sui rapporti».
A Grenchen convocate: Paternoster, Zanardi, Balsamo, Barbieri, Guazzini, Fidanza, Alzini, Capobianchi e Vece. Di certo l'attenzione maggiore è puntata sul quartetto perché «abbiamo la nazionale Campione del Mondo, anche se non sarà con noi Chiara Consonni», un monito è tuttavia necessario: «Dobbiamo fare bene, le aspettative sono alte, ma ricordiamoci che siamo a febbraio e i mondiali sono stati a ottobre: le condizioni di forma sono per forza diverse». Fare bene significa anche racimolare i punti preziosi con uno sguardo su Parigi.
Per il quartetto, aggiunge Bragato, le avversarie da controllare sono indubbiamente la Gran Bretagna e la Germania: «Vanno davvero forte» è l'osservazione lapidaria. «Villa vorrebbe provare Elisa Balsamo e Vittoria Guazzini in coppia nella Madison, Rachele Barbieri, invece, nelle discipline di gruppo». A queste idee, dovrebbero aggiungersi: Letizia Paternoster nell'eliminazione e Martina Fidanza nello scratch.
Diego Bragato ci sottolinea un aspetto che sta sempre più cogliendo in questi giorni con le azzurre: «Si parla molto di mentalità vincente, di atlete vincenti. Ci sono molti modi per identificare cosa sia la mentalità vincente e cosa significhi averla. Io parto da un esempio banale: basta sedersi a tavola con queste ragazze per capire che non ragionano come si ragiona normalmente. Hanno qualcosa in più, una visione diversa. Lo capisci anche a pranzo. Credo questo racconti molto».
Ieri ancora una simulazione di una parte di gara. Stamani sveglia, colazione e richiami sui rulli, che verranno ripetuti anche in pista. Intanto si definiranno gli ultimi dettagli. Poi iniziano gli Europei di Grenchen, in Svizzera, dove Ganna ha stabilito il record dell'ora.


Diario dal Teide: quel giorno a Roubaix

«Sentivo il fuoco dentro, non mi era mai successo. Non così, almeno. Quando mancavano trentadue chilometri all'arrivo, sono scattata e per la prima volta in tante gare, ho pensato: "Io vado, ci rivediamo a Roubaix. Ci rivediamo al velodromo". Non so cosa mi sia accaduto». Durante l'ultima sera sulle pendici del Teide, si finisce a parlare di Parigi-Roubaix ed Elisa Longo Borghini è davvero una delle persone più adatte per parlarne, lei che, l'anno scorso, ha vinto la seconda edizione nella storia della Roubaix femminile. Il sole, intanto, sta calando fuori dall'albergo e Longo Borghini confessa che, a casa, dei cieli di queste sere in alta montagna sentirà la mancanza. Ci dice che non crede molto a quella cosa della malinconia della sera, non ci ha mai creduto e, anzi, di fronte alla sera, ha sempre pensato al giorno dopo, alla possibilità di progettare. Ma quella volta, a Roubaix, non c'erano progetti nell'aria. Anzi, a Roubaix, Elisa Longo Borghini non avrebbe neppure voluto andarci.

Dopo l'inverno, era ormai diverso tempo che la tormentava una sinusite che rendeva tutto più difficile: in gara e fuori gara. Ad un certo punto, stanca, aveva detto a tutti che avrebbe staccato per un periodo dalle corse, che sarebbe tornata in primavera inoltrata, guardando all'estate, intanto avrebbe pensato a curarsi e a risolvere definitivamente il problema: «Dico spesso che, in quei momenti, ho fatto "la matta", ma proprio non volevo correre». Sono trascorsi molti giorni e la convinzione è sempre stata la stessa: non era il momento giusto per partecipare alle gare. Fino a una telefonata di Luca Guercilena, direttore generale di Trek-Segafredo. Una telefonata che la spiazza.

«Elisa, il tuo programma lo stabilisco io. Sarà una stagione intensa: a settembre c'è il mondiale, a luglio il Tour de France e, poco prima, il Giro d'Italia. Non possiamo permetterci di farci trovare impreparati. All'Amstel Gold Race non partecipi, alla Parigi Roubaix, invece, devi andare. Senza pressioni, ma il numero sulla schiena, quel giorno, dovrai attaccarlo». Immaginate un telefono: da una parte queste parole, dall'altra Longo Borghini che non dice no, ma resta dubbiosa. Di lì a poco telefona al suo compagno, a Jacopo Mosca, racconta la telefonata avuta con Guercilena e aggiunge «dovrò fare la Roubaix, ma non mi sento pronta. Non so come andrà». Mosca l'ascolta e risponde con poche parole: «Segui l'istinto e, se ne hai voglia, fai “la matta” verso Roubaix». Ancora silenzio.

Tutto riprende proprio il giorno della Parigi Roubaix, il 16 aprile 2022. Per spiegare quanto tutto fosse inaspettato, Longo Borghini parla della pressione prima delle gare e del modo in cui, grazie a Elisabetta Borgia, psicologa clinica e dello sport, abbia imparato a gestirla in vari modi: dalle tecniche di respirazione alla visualizzazione del luogo sicuro. La sera prima della Roubaix, però, c'è tranquillità. Ciò che accadrà non è nemmeno nei pensieri.
Poi lo scatto e l'arrivederci a Roubaix. «Sentivo le persone gridare, sentivo tutti scandire il mio nome e, se da un lato mi faceva piacere, dall'altro mi imbarazzava. Sì, stavo vincendo la Parigi Roubaix, ma ero sempre Elisa da Ornavasso. Lo sono ancora. Ho pedalato e ho vinto, ho pedalato più forte delle altre, però non sono e non sarò mai abituata a quell'attenzione. Forse non la merito neppure». Giro di pedali dopo giro di pedali, il velodromo si avvicina e lei vorrebbe fosse sempre più vicino, vorrebbe che la Roubaix fosse già finita, vorrebbe essere sdraiata a terra, a piangere, a ridere. Lo vorrebbe soprattutto per incontrare lo staff della squadra: «Penso, ad esempio, alle nostre massaggiatrici. Loro i massaggi ce li fanno ogni giorno. La Roubaix c'è una volta all'anno, quante volte può capitarti di vincerla? Loro ci sono anche se non la vinci, anche quando sei così delusa che fatichi a parlare. In quelle occasioni penso che dovremmo dirci più spesso che, alla fine, si tratta solo di una gara di biciclette, che, comunque vada, non stiamo salvando il mondo».

Torna proprio in quel velodromo un telefono, un cellulare. È Paolo Barbieri, addetto stampa di Trek Segafredo, a fare il numero di Jacopo Mosca e a passare il cellulare ad Elisa: «Hai visto? Hai fatto la matta e ce l'hai fatta. Ce l'abbiamo fatta un'altra volta». Sebbene Longo Borghini non riveda spesso le gare a cui partecipa, la Roubaix l'ha rivista e le è sembrato strano: «Ho notato che si ha più paura quando ci si riguarda, anche una sbandata sembra più difficile da gestire. In parte mi sono anche vergognata. Sì, avevo terra ovunque e questo potevo anche immaginarlo. Non pensavo, tuttavia, di averla anche fra i denti. Avevo anche i denti pieni di terra». Tra le telefonate, anche quella con i suoi genitori: «Così porti a casa un altro bel pezzo di marmo. Non ti pare che ne abbiamo già abbastanza?». E giù a ridere perché i suoi genitori sono marmisti.
In realtà, quella pietra di Roubaix è ancora a casa dei genitori, custodita attentamente. Ad un certo punto, racconta Elisa, quel trofeo è entrato anche a far parte del presepe: «Sono le stranezze di casa Longo Borghini, rappresentava una piccola montagna». In tutto questo c'è la fatica, della Roubaix e del ciclismo in generale. C'è il dolore ai muscoli che la fatica porta, una sensazione «che accetti il giorno in cui decidi di diventare ciclista. Sai che, da quel momento, non ti lascerà più. Diventa parte di te, qualcosa che conosci alla perfezione. Diverso è il dolore delle cadute, quello fa paura. Una paura che è necessario continuare ad affiancare al coraggio per fare il mestiere del ciclista».

La caduta più brutta per Longo Borghini risale al 2013, al campionato nazionale, in discesa, contro un guard rail, con una ferita molto profonda all'addome, a sfiorare il peritoneo. Da quel giorno ha una certezza: «Dicono che il dolore si dimentichi, che la mente lo cancelli, in qualche modo. Non è così, per me, almeno, non è certamente così. Ho ben chiaro quel dolore lancinante del guard rail sull'addome e, solo a ripensarci, mi sembra di risentirlo. Non a caso, anche quando sono arrivata al Teide, ho guardato i guard rail da queste parti. Mi capita spesso. Si va oltre il dolore causato dalle cadute. Non si dimentica quasi mai».

Poche altre parole e si torna in camera a preparare i bagagli. Oggi si riparte, verso casa.


Diario dal Teide: "E io chi sono?"

Erano i primi anni 2000, il periodo dei mondiali di ciclismo, l'inizio dell'autunno: Elisa Longo Borghini ricorda i cortili, le telecronache in televisione e un gruppo di amici che giocavano a fare i ciclisti professionisti, ispirandosi alla gara vera di cui arrivava la voce dal televisore. Ricorda tutti quegli "io sono Freire", "io sono Valverde" che i bambini improvvisavano prima di dare il via alla contesa. Ricorda soprattutto il suo spaesamento perché il ciclismo femminile si vedeva poco in televisione, del ciclismo femminile si sapeva poco e lei, mentre tutti avevano un campione da interpretare, restava a chiedersi: «E io chi sono?». Si è domandata e continua a domandarsi quante ragazzine abbiano provato la stessa cosa. Un sospiro di sollievo lo ha tirato qualche tempo fa, quando Marta, sua nipote, di nove anni, le ha detto: «Da grande, voglio scattare come Katarzyna Niewiadoma». Ha pensato che lei avrà qualcuno in cui rispecchiarsi, che non resterà a farsi quella domanda. Parte proprio da qui il racconto di una nuova pagina di diario.

Ormai sono diverse le ore di allenamento che Longo Borghini ha messo nelle gambe sulle pendici del Teide e questo la porta sempre più vicina alla stagione che sta per iniziare. Nel mezzo di una pioggia fitta, per contrasto, è tornata con la mente a Cesena, al Giro dello scorso anno, ad una crisi dovuta al caldo, al troppo caldo, e, alla fine, si è detta che, per quanto sia stato difficile arrivare al traguardo in quelle condizioni, quello dell'anno scorso è stato un Giro importante. Capiamo presto che il concetto di bellezza del ciclismo per Longo Borghini non è strettamente legato a un risultato personale: dice che una delle tappe più belle della storia del Giro d'Italia femminile è stata in Liguria, nel 2016, «ho accumulato un sacco di minuti di ritardo, ma sentivo che davanti il gruppo era scatenato».
Quando non deve fare classifica, riesce a fare cose che vorrebbe fare sempre, come parlare a inizio gara con le più giovani del gruppo, le cicliste meno conosciute: «Alcune corrono in bici pur avendo un altro lavoro e vanno ad allenarsi a sera, concluso il turno. Hanno una voglia intatta e attaccano. Non interessa se poi vengono riprese, interessa il fatto che abbiano ancora il desiderio di provarci. Non è facile a certe condizioni. Mi chiedo: cosa potrebbero fare se avessero le possibilità ideali per essere cicliste? Credo dovremmo chiedercelo tutti».

Sono proprio le diverse condizioni di partenza a far pensare Elisa Longo Borghini, quando, ad esempio, parla di quelle realtà in cui alcune ragazze hanno solo una bicicletta e quella di scorta è condivisa, perché l'allenamento fa molto, ma, se non si parte dallo stesso punto, il confronto è falsato.
«Non mi vergogno a dirlo: da junior c'è stato un periodo in cui non andavo avanti. Ho provato a ritirarmi dopo trenta chilometri di una corsa perché non ne avevo più e, quando non riesci a finire le gare, è dura. Spero di essere un modello per loro, perché mi rivedo in loro. Non sono un fenomeno, non lo sono mai stata, non pensavo di arrivare dove sono arrivata, per nulla. Quel che sono oggi deriva solo dall'allenamento, fatto di tanta fatica e sacrifici. Vorrei che a queste ragazze fosse permesso di fare lo stesso perché possono farlo, ma per permetterglielo bisogna cambiare qualcosa». Così è un bene che ci siano più gare World Tour affiancate alle gare maschili, però bisogna salvaguardare le corse minori, incrementarle, se possibile, come è necessario tutelare le squadre più piccole, anche perché «senza il loro futuro, anche le squadre più grandi non ci sarebbero. Non bisogna scordarlo, quando si arriva».

Forse, proprio pensando al suo periodo più difficile, dice che, sin da ragazza, ha imparato che, quando si va a vedere una gara di ciclismo, è giusto aspettare fino al passaggio degli ultimi, non correre via dopo il transito della maglia rosa o della maglia gialla. Quel periodo è stato quello in cui si allenava con il fratello Paolo e una salita di nove chilometri, vicino a casa, sembrava non finire mai: «In quei giorni, le mie barrette erano le merende kinder, Paolo continuava a spingermi, a dirmi che mancava poco, sempre meno. Doveva aspettarmi perché, se fosse andato più veloce, mi sarei fermata. Mi aspettava come si sedeva accanto a me in quei sabato sera a casa, con me influenzata e i miei genitori lontano per lavoro. E non si può credere a quanta fatica faccia ancora oggi Elisa Longo Borghini, per questo la parola gregario è fra più belle che conosca e, se non fosse andata com'è andata, mi sarei messa a disposizione e essere un buon gregario non mi avrebbe reso meno orgogliosa di me. Anzi». Qui torna il concetto di lavoro e di quanto, visto che il ciclismo è uno sport di squadra, fare bene il proprio compito, qualunque esso sia, permetta di tornare in camera d'albergo la sera ed esserne fiere: «Il nome che resta è uno, ma nelle mie vittorie c'è chiunque abbia fatto qualcosa per me in quel giorno o nei giorni prima. Si dice che i compagni di squadra tengono coperto il capitano e questo "tener coperto" non è gratuito. Costa acqua, vento, ritmi elevati, acido lattico. Le mie compagne si prendono carico di tutto questo».

Elisa Borghini ritiene sia essenziale permettere la conoscenza di tali aspetti perché serviranno a tutte quelle ragazze che, magari senza che nessuno lo sappia, stanno sognando di essere cicliste. L'anno scorso, al Tour de France, ha acceso la televisione e su France2 ha visto una pubblicità del Tour femminile: «Come me, l'avranno vista in molte e avranno avuto la certezza che, oggi, non bisogna più aspettare una replica a tarda sera per vedere una corsa femminile». Il Tour, spiega Elisa, fa bene al movimento, perché è un'idea cresciuta nel tempo, perché l'organizzazione è andata a casa delle ragazze che si contendono la generale e le ha intervistate, poi, ha diffuso quei contributi in televisione, chiunque ha potuto conoscerle. «Certo non bisogna scordarsi delle corse più piccole che hanno sempre scommesso su di noi, ma questo innalzamento dell'attenzione porterà anche loro a continuare a crescere, a migliorarsi».
L'alba ha dei colori stupendi al Teide e vale anche la pena anticipare la sveglia per godersela. Accade pure alle cicliste che poi salgono in sella e scattano. Forse accadrà così pure a una bambina di oggi che un domani, ricordandosi uno di quegli scatti, potrà dire: «Mamma, voglio scattare come Elisa Longo Borghini».


Diario dal Teide: la fuga impossibile

Qualche volta, in ritiro, nei giorni di riposo, Elisa Longo Borghini permette alla fantasia di spaziare. Ultimamente le capita spesso di immaginare una fuga, una fuga impossibile, una di quelle fughe che, come dice lei, si possono solo pensare e mai mettere in pratica, soprattutto quando si è Longo Borghini. Lei le chiama "fughe ignoranti", dove l'aggettivo si richiama alla follia e, quindi, alla bellezza: «Penso ad uno scatto dopo dieci chilometri di una tappa del Tour de France, su uno strappo su cui nessuno farebbe mai nulla. Quelle fughe che fanno esplodere il gruppo, con atlete da ogni parte. Se facessi qualcosa di simile, giustamente, dalla radio mi chiederebbero spiegazioni. Non accadrà, ma, qualche volta, vorrei essere nei panni delle atlete più giovani che queste cose possono permettersele». Un pensiero di questo tipo e dall'altra parte il mare, come ieri.

Solo un pensiero perché nei giorni di riposo, Longo Borghini, negli anni, ha imparato a non toccare proprio la bicicletta, ma non è stato facile, a causa di quel senso del dovere che, tempo fa, le faceva pensare che non si potesse, che non fosse giusto. «Facevo troppo» ci dice e la frase riassume molti momenti. Per esempio, il 2017, il mondiale di Bergen, l'overtraining, le cose che non vanno e un pensiero che si affaccia: «E se fosse finita qui? Se fosse il momento di smettere?». Ha sempre saputo che la vita di una sportiva ha un termine e, in fondo, si è sempre ripetuta di essere pronta ad accettarlo, semmai spera di capirlo prima, che non sia uno stop forzato, ma una consapevolezza che arriva, una scelta, non un'imposizione «perché se non sei tu a scegliere, è molto più difficile farsene una ragione, ma, comunque, ci sono altri capitoli, altre pagine». Così, a quella domanda, nel 2018, ha provato a rispondersi sinceramente e sarebbe stata pronta a scendere di sella, se avesse sentito che al ciclismo non poteva più dare il 100%: «Preferisco non iniziare nemmeno se so che non posso essere totalmente in quello che sto facendo. È una questione di rispetto: per me stessa e per ciò che faccio».

Fino a una telefonata, quella di Luca Guercilena che le proponeva un progetto in Trek Segafredo. Elisa ascoltava le parole di Guercilena, rispondeva e, intanto, pensava: «Perché mi vogliono? Perché vogliono proprio me? Non è la mia stagione, non è il mio momento».

Ha risposto subito di "sì", ha firmato quel contratto, quanto ha vinto lo sapete, lo sappiamo, ma, a distanza di anni, in un pomeriggio di gennaio, Longo Borghini pensa soprattutto a quanto, nella sua carriera, l'aiuti la consapevolezza che qualcuno ci crede, che qualcuno ti crede, come Luca Guercilena in quel momento. Tornando indietro nei ricordi, pensa che una delle prime volte in cui questo fatto ha avuto importanza è stato nel 2013, quando ha vinto il Trofeo Binda, la prima volta, l'ultima, invece, è di due anni fa. C'erano già dei risultati importanti, ma lei voleva la certezza che il ciclismo potesse essere il suo lavoro, così ha parlato ai genitori: «Datemi due anni, tre anni al massimo. Provo a diventare una ciclista e, se non riesco, mi rimetto sui libri». C'era un corso per interpreti in Università Bicocca, Elisa Longo Borghini ricorda di aver cercato informazioni a proposito, per essere pronta. In ogni evenienza. Non è servito perché, poi, il Trofeo Binda l'ha vinto.

«Quando dicono che il primo a credere in quel che vuoi fare devi essere tu, è vero. Ma da soli non ce la fanno neppure i campioni. Anche i campioni hanno bisogno di sapere che per i propri genitori possono riuscirci, che per la propria famiglia possono riuscirci. Restare soli a vedere un sogno è davvero troppo». Anche perché la crepa dei dubbi, del timore di non essere all'altezza, può arrivare anche in corsa e basta poco. Bastano quelle voci confuse dei tifosi che sembrano solo un insieme di suoni che nessuno distinguerà mai, invece, si colgono nettamente: «Quando sei al massimo dello sforzo, tutti i sensi si acuiscono, qualunque sensazione si esaspera. Vale anche per l'udito. Soprattutto quando ti stacchi, quando sei in fondo al gruppo e le altre se ne vanno. Certe parole sono come sberle involontarie: "Guarda, Longo Borghini è staccata" oppure "Longo Borghini è in crisi". Le senti e ti dici che non è possibile, che non puoi non farcela, che non puoi non essere all'altezza. Voglio dire: ha importanza ciò che senti a bordo strada e io alcune volte ho reagito proprio per qualche voce sentita lì. Dietro tutta l'epica, alla fine, ci sono solo esseri umani e gli esseri umani cercano anche queste cose». Intanto i vestiti per l'allenamento del giorno dopo sono pronti sul letto e la bicicletta è in garage.

Proprio in quel momento, a Longo Borghini viene in mente che non l'ha ancora lavata e, quando non c'è gara, la lava sempre. Spiega che è una pratica che l’aiuta anche a pensare, a riflettere. Si tratta di un'abitudine che risale ai tempi del team Top girls Fassa Bortolo. Lucio Rigato, il suo direttore sportivo, aveva un assioma: bici pulita, atleta pulito, maglie pulite, atleta pulito. Longo Borghini spiega meglio questo concetto: «Non è cosa da poco dire: questa è la mia bici. La maggior parte del tempo lo passo su questa bici, le devo rispetto come si deve rispetto al proprio lavoro. Faccio attenzione a non rigare il telaio e, per quanto sembri assurdo, mi infastidisce anche quando i meccanici la toccano troppo. Inizialmente non volevo la toccasse nemmeno Jacopo Mosca, il mio compagno. Poi ho capito che lui ha lo stesso approccio che ho io con la bicicletta e oggi può prendersene cura anche lui. Ma c’è voluto tempo. La bicicletta è una parte di me e con ciò che sento appartenermi sono molto riservata. Lo difendo».

Una bicicletta con cui gareggia, perché è il suo lavoro, una bicicletta che, in realtà, identifica come stile di vita, come modo per divertirsi, per farsi del bene. Dice che è questo l’importante e lo sintetizza con una frase di disarmante semplicità: «Se non ti diverti, cosa lo fai a fare? Talvolta bisogna divertirsi seriamente, tutto qui». Oggi, al Teide, riprendono gli allenamenti e il mare è più lontano.


Diario dal Teide: "Io non sono capace di farti tanto male"

In cima al Teide, il passaggio delle nuvole è particolare ed Elisa Longo Borghini lo ha notato proprio lunedì, quando si è trovata a pedalare fra quelle nuvole basse che avvolgono pietre e terra. Dopo qualche metro, la mantellina era bagnata, piena di minuscole gocce, come se piovesse, in realtà il cielo era limpido, ma, «sarà l'altitudine del Vulcano, sarà che quelle nuvole erano davvero radenti il terreno, si ha la sensazione di sfiorarle». Non le era mai capitato e, anche mentre ce lo racconta, fatica a spiegarselo. Le montagne, in fondo, possono sorprendere anche chi le scala da sempre. In realtà, però, oggi Longo Borghini ha in mente un'altra cosa, una frase che torna da molti anni fa. Una frase che dice così: «Io non sono capace di farti tanto male».

Sarà perché martedì è stata giornata di test e al Teide è arrivato Paolo Slongo, il suo preparatore, da molti anni, non da sempre, però, perché, nei primi tempi, Elisa era preparata dal padre.
Ferdinando Longo Borghini allenava i fondisti, si occupava dello sci di fondo, e, quando la portava a fare le salite, diceva più o meno così: «Negli ultimi cinquecento metri, fai il medio, la soglia e poi lanci la volata». Elisa ricorda ancora le volte in cui lo guardava e: «Ho i battiti alti, papà». Lui rispondeva con naturalezza: «Tira su un dente». Longo Borghini aveva la sensazione che per suo padre la fatica fosse qualcosa di inevitabile, non solo nel ciclismo, nella quotidianità, per questo l'accettava: bisognava sopportare e continuare a spingere. Anzi, abituarsi a farne di più. È cresciuta così, almeno fino a quando il padre le ha detto che ormai era tempo che percorresse la sua strada affiancata da un preparatore professionista.

«Non volevo, perché mi trovavo bene con lui, perché significava ripartire da capo e chissà come sarebbe andata. Ho chiesto molti perché: mi ha detto che era il momento per lui di farsi da parte, che le cose diventavano più importanti e che bisogna lasciare che un figlio percorra da solo la propria strada. Ad un certo punto, ha riso. Mi ha fissato, lo ricordo come fosse adesso: "Poi, se vuoi sapere la verità, io non sono capace di farti tanto male". Quella frase l'ho capita tempo dopo, ho capito il bene che c'era dentro: quando ci si prepara, ci si allena, si soffre e non tutti riescono a vederti così». Prendete, ad esempio, la giornata di ieri: cinque ore di allenamento e il test del lattato.
Funziona in questo modo: un tratto di salita, un chilometro e mezzo, un piccolo esame del sangue per verificare il valore del lattato prima di iniziare a pedalare e si torna a ripetere continuamente lo stesso tratto. Ogni volta che si arriva in "vetta" si ricalcola il valore, fino a che si raggiunge un parametro standard, denominato soglia, quattro millimoli. Da quel momento, si ripete ancora il test, da fermi, per due volte, dopo tre e sei minuti. Ciò che emerge fotografa la condizione attuale dell'atleta: «Non sarò in piena forma per le prime gare, ma da marzo penso di sì, lì potrò dire la mia». A noi, allora, viene naturale parlare di scatti, di quando si lascia il gruppo o il gruppetto sul posto e si va via, si va a vincere. Cosa c'è di più naturale della tentazione o della voglia di scattare per una ciclista?
«Ti confesso che, all'inizio, scattare mi faceva paura. C'è un gruppo di cento atlete e tu, da sola, parti, attacchi. Nei primi tempi, sembra quasi una lesa maestà al plotone. Mi vergognavo ad attaccare. Pensa che il primo attacco, che ricordo come tale, avvenne al trofeo Binda 2011. Non per andare a vincere, ma per riportarsi sul primo gruppo. Mi dicevo "adesso parto", mi rispondevo "ma no, che figura ci fai se non riesci a staccarle?" e argomentavo "tanto non ti conosce nessuno, anche se ti riprendono, non si ricordano chi sei". Dopo questa frase, ho attaccato davvero». A Plouay, sempre nel 2011 il primo scatto dalla testa del gruppo, per provare a vincere. Un poco di margine e il plotone che torna ad inglobarla: «Non potevo andare da nessuna parte, mi sono spenta da sola. Sono rientrate senza nemmeno aumentare il ritmo. In quel momento, però, avevo la percezione di essere davvero una ciclista».


Spiega Longo Borghini che quella sensazione non cambia mai: appena si affaccia alla mente l'idea di scattare, quel misto di adrenalina torna e scompiglia come le prime volte. Basta solo pensare: «Adesso le seguo, poi attacco e le stacco». Si insegue di grinta o di intelligenza, dipende dalle salite.
C'è Elisa e c'è Longo Borghini. A fare tutto questo, sul Teide, è Longo Borghini, Elisa, invece, è altro. «Per chi mi vuole bene voglio essere solo Elisa. Devo essere solo Elisa. Longo Borghini resta da una parte, resta agli incoraggiamenti delle persone, dei tifosi, tutte cose che fanno piacere, ma non posso fermarmi lì. Elisa, invece, racconta il ciclismo come un qualunque altro lavoro perché per Elisa è così. Per Elisa c’è la strada in cui è cresciuta, la scuola che ha frequentato, le amicizie di quel tempo, le parole con mia madre che vedo sempre meno e che, per stare con me, è arrivata fin quassù».
E ancora ci sono tutti quei fogli su cui, anche in una camera, affacciata sul Teide, anche mentre fuori ci sono solo le poche luci dell’alba, segna ciò che le viene in mente. Il foglio, poi, lo butta via, ma ha bisogno di vedere scritte le idee che le frullano in testa. C’è un libro di Carlos Ruiz Zafón, “L’ombra del vento”, che è il suo preferito da sempre e la musica che porta ovunque. “Qui vicino, ho percorso una salita che si chiama “Jama”. Questo è anche il titolo di una canzone che mi ha fatto ascoltare una persona molto importante per me. Ho iniziato a scalare e, nel frattempo, in mente avevo solo le parole di quella canzone”. Forse il senso della musica, come delle parole, per chi pedala è questo: legare cose lontane.
Tutte cose apparentemente normali, come un passaggio di nuvole basse in alta montagna o uno scatto per una ciclista. Tutte cose che, in realtà, normali non lo diventano mai. Per fortuna, aggiungiamo noi. Elisa Longo Borghini, intanto, là fuori, ha ripreso i lavori sulla soglia e sui cambi di ritmo: il menù di questi giorni.


Diario dal Teide: la prima volta di Elisa Longo Borghini

Mentre il dialogo con Elisa Longo Borghini si infittisce, sulle pendici del Teide, dove si trova da sola, in altura, da giovedì, sono le cinque del pomeriggio, in Italia, invece, a qualche migliaio di chilometri di distanza, l'orologio segna già le sei della sera. È una delle prime cose che Longo Borghini ci fa notare: «Alle diciotto, qui, calerà il silenzio. Un silenzio totale, assoluto. Non so cosa accada alla giornata, quando scocca quell'ora, ma ogni volta è così. I rumori scompaiono, sembra non esserci più nulla». Sarà questa l'ora delle parole, dei ricordi, dello scambio di opinioni, fino a che Elisa Longo Borghini sarà lassù. Basterà un telefono e questo sarà il nostro "Diario dal Teide".

Il Teide, già, la vetta più alta della Spagna, un vulcano, sull'isola di Tenerife, che raggiunge i 3715 metri sul livello del mare, con ancora un lato avvolto nel mistero, almeno nell'immaginazione, come tutte le vette. È la prima volta che Elisa Longo Borghini, Trek Segafredo, viene in altura qui, lei che il primo ritiro in altura l'ha fatto nel 2011, a Livigno. Certo, del Teide ha sentito più volte parlare, perché sul Teide vanno molti ciclisti a costruire il lavoro della stagione che verrà, ma arrivarci è tutta un'altra cosa: «Lo scorgi da lontano sull'ampia strada che percorri. Pensi che, lassù, sia il luogo della solitudine, invece no, invece, qui, durante la giornata, non ci si sente soli. Ci sono navette che accompagnano i turisti, c'è, soprattutto, la funivia che arriva in vetta e che continua a percorrere il suo tragitto, a scandire il tempo che passa». Longo Borghini ripensa alla montagna, a quello che per lei ha sempre significato, al fatto che, ci dice, forse, è necessario esserci cresciuti per conoscerla meglio.

«Potrei dire che sono sempre andata a pedalare in montagna: pedalavo ore e ore, da sola, strada dopo strada, passi e valichi in successione, cambiava la vegetazione, cambiava l'aria, mi stancavo, mi sfinivo in montagna. Però, per qualche ragione, ho sempre avuto la spinta per tornarci». Del resto, Elisa Longo Borghini, fra le montagne, è cresciuta, quelle del Verbano Cusio Ossola che non hanno l'aspetto lunare che si nota affacciandosi adesso alla sua camera d'albergo, ma sono sempre montagne e la spiegazione del suo carattere, del suo modo di essere, la trova proprio vicino a casa.
«La nostra è una vallata, le vette sono tutte attorno, da qualunque parte guardi. Non è detto che chi ci arrivi si trovi subito a proprio agio perché spesso piove e, quando fa freddo, l'aria punge. Ma chi resta, chi ha pazienza e inizia a camminare scopre cosa c'è nei meandri della vallata: certi scorci, quel verde che resta in memoria. Ora che ci penso, io assomiglio a quella vallata. All'inizio posso sembrare sulle mie, "musona", in realtà non lo sono. Mi piace ridere, rido di gusto, ma ho bisogno di tempo. Perché, per iniziare a ridere, devo iniziare a fidarmi, a conoscere. La vera Longo Borghini è questa». Intanto c'è il Teide e anche "lui" è da conoscere, da studiare. Non a caso, Elisa cerca informazioni, ovunque, legge, studia, fotografa oltre a pedalare e, poi, riflette e si preoccupa di ciò che resterà di tutto questo, quando sarà passato molto tempo: «Posso dire di vedere i luoghi da una prospettiva privilegiata, quella di atleta. Una prospettiva che, però, non prevede un tempo per il turismo, perché i luoghi ci scorrono accanto e non si visitano quasi mai. Però la cultura ci è concessa, possiamo informarci e tornare a casa sapendo qualcosa in più. Viaggiare consapevolmente. Altrimenti cosa resta? Solo valigie e zaini che si riempiono e svuotano di continuo. Ora sto cercando di capire qualcosa in più a livello geologico di quel gigante, del Teide».

I primi giorni di un ritiro in altura vanno affrontati con tranquillità, con calma, altrimenti "ti finisci", precisa Elisa in modo deciso. Fra poche ore, con lei ci sarà anche Paolo Slongo, il suo preparatore. Intanto si pedala dai 1980 metri fino ai 2300 e quando si arriva intorno ai 2100 il respiro inizia a essere più difficoltoso. «La sensazione è quella del cuore in gola, qualcosa che si avverte spesso all'inizio. Il corpo deve ambientarsi e serve qualche giorno. Questo processo avverrà anche quando tornerò a casa e dovrò abituarmi nuovamente a un'altra aria. Quello è il momento in cui "smaltisci il ritiro", la migliore forma fisica arriverà dopo poco». C'è anche il fatto che, in ritiro, si è lontani dalle gare e ci si resta per molti giorni. Ovviamente è una percezione soggettiva, tuttavia, per molti, il ritorno in corsa è difficile. Così, almeno, è successo spesso a Longo Borghini.
Lassù ci si prepara per un traguardo distante settimane, a volte mesi. Un traguardo che, inutile nasconderselo, quest'anno sarà il Tour de France. Anzi, ancora meglio, come aggiunge lei stessa: il mese di luglio, arrivare pronti in quei giorni e «quando si è pronti, ce la si gioca ovunque». La differenza non è sottile e Elisa l'ha compresa in un momento di apparente rammarico: l'anno scorso, dopo il Tour de France. «Ricordate come avevo vinto lo Women's Tour? Bene, avevo provato sensazioni buone e avevo anche vinto divertendomi e facendo divertire. Eppure, dopo il dolce amaro lasciato dal Tour, sembrava cancellato. Mi sono resa conto che sono bastate le prestazioni della Grande Boucle e delle Ardenne perché mettessi tutto in discussione». Il tutto per diversi giorni, fino a che, a fine stagione, si fa il punto di ciò che si è fatto e la prospettiva cambia: «Avevo vinto una Parigi Roubaix a cui non pensavo nemmeno di partecipare, non potevo dimenticarlo. Forse, in quel momento, si è fatta ancor più strada la consapevolezza che fosse giusto lavorare in vista di un periodo più che di una singola gara».

L'ubicazione della camera di Longo Borghini fa sì che dalle finestre si senta il rumore del vento, una brezza che, a tratti, risuona. Non c'è solo l'allenamento in un ritiro in altura, c'è anche il tempo della riflessione e Longo Borghini dedica molto spazio all'introspezione. «Anche la solitudine, che si prova quando tutto tace, non è negativa. Anzi, credo sia una solitudine che fa bene perché consente di fare chiarezza. Talvolta non ci si pensa, ma abbiamo bisogno di momenti da dedicare alla riflessione, per avere un quadro più chiaro delle cose. È un tempo importante quello che le dedichiamo, non meno importante di quello sui pedali. Tutto è strettamente collegato: quello che hai già fatto, quello che stai facendo e quello che farai. Penso non esista futuro, senza quello che hai già lasciato alle spalle. Di più: serve oggettività nel vedere quello che è già passato. Serve la volontà di vedere gli errori, perché imparerai, ma anche quella di vedere il buono che c'è stato perché ti renderà forte, ti restituirà consapevolezza»
In quei momenti di solitudine, di riflessione, il vento sembra portare odore di zolfo, un odore che Longo Borghini non è nemmeno certa appartenga a queste zone: «Penso sia un ricordo di quando, da bambina, andavo in vacanza alle isole Eolie. Sull’Isola di Vulcano c’è quel profumo. Qui non credo, gli altri non lo sentono. A me, però, piace pensare che sia reale, così non indago oltre. Mi fa felice percepirlo».
Adesso fuori c’è solo silenzio. Martedì sarà giorno di test e noi torneremo lassù, seppur a molti chilometri di distanza. Il “Diario dal Teide” è solo all’inizio.


Finire non mi spaventa: intervista a Martia Bastianelli

Ora che Marta Bastianelli ha annunciato che il Giro d'Italia femminile del 2023 sarà la sua ultima corsa, capita che le si chieda se di smettere avesse già pensato altre volte: «Sì, devo essere sincera, ci ho pensato e ci ho pensato più volte. Credo ogni atleta, in certi momenti, ci pensi. Poi, sai come siamo fatti, andiamo avanti, ma il pensiero viene, per momenti difficili o circostanze. Quando sono rimasta incinta, per esempio, ero quasi sicura che non avrei più corso. Ho continuato soprattutto grazie al mio compagno, anche lui ciclista. Ricordo il giorno in cui mi disse: "Visti i risultati che ottieni, non è giusto che sia tu a smettere. Smetto io, tu continua. Tu devi continuare". Anche in quel caso ho fatto bene a non smettere». Oggi, però, no. Non ci sono ripensamenti su questa scelta, di nessun tipo. Lo si capisce quando, dal nulla, ci dice: «Sono felice». Si lega a tutto, si lega in particolare a una situazione che Marta Bastianelli vive con la sua squadra, il Team UAE Adq.

«Sono una professionista e so che non è scontato sentirsi dire: "Stai tranquilla, fai ciò che ti senti di fare". Non capita spesso, anzi capita raramente. Loro me lo hanno detto e, anche se sono al diciassettesimo anno fra le élite, questo mi colpisce ancora. È vero che ho annunciato il mio ritiro, ma non ho ancora appeso la bicicletta al chiodo: fino all'ultimo chilometro dell'ultima gara voglio restare la professionista che ho imparato a essere. Voglio dare tutto. Questa è la sfida». Sì, Marta Bastianelli smetterà, questo è certo. Anzi, era certo ancora prima che lo dicesse, come spiega lei. «Se prendiamo con entusiasmo l'inizio delle cose, non capisco perché abbiamo spesso questo problema con il finale. Questa malinconia, questa nostalgia. Mi mancherà questo lavoro, certo che mi mancherà. Molto, non poco. È un lavoro così totalizzante che diventa la tua vita, in realtà, però, non bisogna dimenticare che la vita è altro. Il punto è saper scegliere, quando hai scelto e sei convinto, poi, la fine è un dato naturale». Così, in estate, Bastianelli uscirà da questa "bolla", come la chiama lei, che è l'attività professionistica e inizierà un altro percorso, anche se ancora non sa quale. Il sogno sarebbe restare all'interno del mondo del ciclismo.
Un sogno che è, poi, anche un modo di agire. Per esempio, in questo ritiro di inizio stagione in Toscana. Nuove compagne, molte giovani, e anche atlete di esperienza come Alena Amaliusik. Marta Bastianelli, trentacinque anni e sicuramente molte cose che potrebbe insegnare, tuttavia usa molto più volentieri il verbo imparare. «Ha a che vedere molto anche con il domani. Più cose imparerò da queste ragazze, meglio potrò provare a essere un direttore sportivo, ad esempio. Dei sogni ci si prende cura in questo modo: studiando, imparando. Essere state campionesse nella nuova vita non conta nulla, proprio nulla, in ogni settore. Sarà, invece, importante conoscere ogni sfumatura di una atleta, compresi aspetti legati alla sua cultura, alla sua terra d'origine, ai problemi che incontra quotidianamente». E Bastianelli di cose ne ha imparate anche ultimamente, molte rispetto all'alimentazione di un'atleta.

Poco prima di partire per questo ritiro, Clarissa, sua figlia, le si è avvicinata e le ha detto: «Mi raccomando, goditi il ritiro perché sarà uno degli ultimi». Lei ci ha pensato molto: «Per lei sono stata spesso una "mamma volante" e da piccola avrebbe voluto avermi più spesso al suo fianco per fare le cose che tutte le mamme e le figlie fanno assieme. Ora mi segue in televisione, segue le gare e conosce le mie compagne. So che rinunciare a questa parte della sua realtà mancherà anche a lei, so che quella "mamma volante" mancherà anche a lei. Quel giorno non stavo pensando a questa ultima volta e, sono sincera, sentirmelo dire mi ha fatto effetto». La figlia di Marta Bastianelli è competitiva, pratica tennis e nuoto, e a Bastianelli piacerebbe anche vederla in sella, ma c'è un punto interrogativo. «Credo non ci siano ancora le strutture adatte, almeno nelle nostre zone, per permettere a questi bambini di andare in bicicletta in sicurezza. Quello che succede sulle nostre strade lo vediamo tutti i giorni e abbiamo anche finito le parole per parlarne. Servono i fatti. Il ciclismo è parte della nostra famiglia ma per mia figlia, con queste condizioni, avrei dubbi, un genitore non può non averne. Nonostante mi piacerebbe».

Ci sarebbero altri tasselli da aggiungere alla carriera di Bastianelli, in fondo, c'è sempre qualcosa in più che si vorrebbe o si potrebbe fare, però, la prospettiva, con gli anni, cambia: «Pensi che a casa hai una bambina, pensi che ti piacerebbe diventare mamma ancora una volta ed in volata inizi ad evitare di lanciarti in spazi in cui prima ti buttavi. Una ciclista vuole vincere e anche io voglio farlo ancora, però, a trentacinque anni, se possibile, sono più contenta quando insegno qualcosa agli altri, quando permetto a qualcuno di non fare errori che io ho fatto». Qui si ritorna al tema alimentazione: «Bisogna sbagliare, fuggire dall'errore è un male. La via principale di apprendimento è quella. Anche io, da giovanissima, ho provato a preoccuparmi perché avevo mangiato un panino in più rispetto a quello previsto nel mio piano nutrizionale. Sai perché? Perché non mi conoscevo ancora abbastanza. Oggi l'attenzione è aumentata ed è giusto così, però, una atleta deve anche sapersi gestire e questo arriva con l'esperienza. Se mangi qualche grammo in più di un alimento, puoi diminuire l'altro. Se sei stanca e fai mezz'ora in meno di allenamento non succede nulla, se insisti stai peggio. Essere atleti significa anche conoscere il proprio corpo che è il nostro tutto. Le sensazioni vanno ascoltate». Perché accade questo? «Il mondo social non aiuta. Espone a un confronto continuo. Il senso di colpa appartiene a tutti e, se ogni sera sei sollecitata al confronto con le colleghe che pubblicano l'allenamento del giorno, le conseguenze non sono buone. Tempo fa non si sapeva ciò che facevano le altre. Non è, per forza, sbagliato conoscerlo, è sbagliato non concentrarsi su ciò che chiede il tuo corpo». In ogni caso, il ciclismo è cresciuto e cambiato a 360 gradi, a partire dai trasferimenti: «Sembra scontato che tutto lo staff pensi a noi, non lo è. Tempo fa, anche un trasferimento lungo, uno spostamento, era un problema».

L'anno scorso sette vittorie, la più bella nel giorno del compleanno, perché era da tanto che non succedeva e perché serviva alla squadra. Quest'anno parte dal freddo della Toscana e da quelle parole a Erica Magnaldi in allenamento, proprio ieri: «Vorrei poter aprire la finestra al mattino e non preoccuparmi del tempo che fa lì fuori. Questa fatica non mi mancherà, non più». Anche se il sogno va ancora nella direzione della fatica: «Mi piacerebbe trovare tanti tifosi ad aspettarmi a Roubaix. Io li vorrei aspettare lì».