Testa a testa: ancora Elisa Balsamo
È il giorno dopo. Il giorno dopo la tappa in cui il Giro Donne è cambiato quando nessuno se lo aspettava o, almeno, mentre nessuno se lo aspettava così. Potrebbe non succedere niente o quasi: per il caldo, per la pianura, perché manca ancora metà Giro, invece non ci sono alibi nella fatica.
Testa a testa, due parole che sono poi la stessa. Fra la fuga e il gruppo ma ancora di più fra chi, fuggito dal gruppo, fugge anche dalla fuga quando si accorge che la distanza si riduce, che il respiro del plotone si fa sentire come presagio. Giorgia Bariani ci ha provato così: prendendo la rincorsa dalla coda del gruppetto di testa e lanciandosi in avanti quasi fosse un elastico. Bisogna dirlo, perché non è già facile provarci al mattino in martedì come questi, figuriamoci nel caldo del primo pomeriggio, nei viali della pianura dritta come un fuso. Nemmeno le curve per spezzare la noia, per cambiare posizione, per nascondersi da chi, da dietro, prende la scia, un punto di riferimento e si avvicina. Non è facile ripartire, non è facile, soprattutto, trovare le forze per prendere la rincorsa. Va detto, anche se poi, dopo quattordici chilometri il gruppo è rientrato. Ai quattro dall'arrivo: un soffio o un'infinità.
Da qui inizia un altro testa a testa, quello dei treni delle velociste che su binari immaginari, ma ben presenti, si fronteggiano in testa al gruppo. Le velociste sono alle loro spalle, talvolta si sfiorano, le une accanto alle altre, però non si guardano, si ignorano, può accadere che controllino l'ombra, di nascosto, quasi fosse un caso: così vicine e così distanti. Sembra non temano nulla, sembra siano sempre così sicure, non sempre lo sono ma guardare una velocista è vedere questo. Nella loro testa c'è solo la volata: come fosse lì davanti, nella ruota che la precede.
Nella testa di Elisa Balsamo c'era quella curva, l'ultima, prima di vedere il traguardo. Quella che, a Reggio Emilia, dicono tutti che va presa davanti perché "chi la prende davanti vince". Allora tutte vogliono prenderla davanti, perché tutte vogliono vincere. Ci riesce solo una che è il bello ed il difficile. Ci riesce Elisa Balsamo.
Testa a testa, mentre curva e dopo la curva. Per gestire la bicicletta, per piegarsi leggermente, per tornare a raddrizzarla e rilanciare l'azione. I testa a testa sono così: elastici lanciati. Dietro di lei, Charlotte Kool e Marianne Vos. Provano a superarla, non ci riescono. L'avevamo detto: davanti, la curva andava presa davanti e Balsamo ci è riuscita. Non ha dubbi, nemmeno quando Kool sembra affiancarla: grida, guarda in alto e grida. Ha vinto. A una velocista non serve guardare, una velocista sa. Nella testa, di testa, testa a testa e poi anche solo un millimetro davanti alle altre.
Fuochi e violini
“Maledetto Barbotto" diceva Eddy Merckx. Marco Pantani queste strade le conosceva, ci si allenava e, a sera, si riprendeva con una fetta di cocomero. Gli bastavano, diceva lui. Benedetto Barbotto, diciamo noi. Benedetto Barbotto che accende fuochi e lascia che siano.
Marta Cavalli, Annemiek van Vleuten e Mavi Garcia vanno in fuga. Le altre dietro, troppo dietro. Potresti pensare di essere sul passo Maniva e invece sei solo alla quarta tappa, poco dopo il Barbotto e cosa non è successo. Sono i fuochi che si accendono e poi improvvisano. Niente di lineare, di prestabilito.
Guardate van Vleuten che in discesa sembra avere qualche difficoltà, poi, sulla salita di Carpineta attacca, dietro di lei Cavalli sui pedali e Garcia. Vorresti non pesare nulla quando la strada sale, muscoli forti e piume, e vuoto per non accusare la gravità che tira verso il basso. Se le guardate, vi sembra di sentirlo. Quanto costa a van Vleuten tornare ad alzarsi sui pedali per rispondere a Garcia? Sbilenca, quasi sbanda, e spinge sui pedali, stringe il manubrio, a tratti hai l’impressione che quella bicicletta si alzi qualche millimetro da terra tanta è la trazione delle braccia e delle gambe dell’olandese. Quanto costa a Cavalli resistere? Guardatele i denti che fanno pressione, gli uni sugli altri, digrignati. Come resistono? Dove si sfoga quella pressione?
Cede qualche metro, poi diversi metri ma non molla, insiste. Lei è di Cremona. Non sappiamo se abbia mai assistito alla lavorazione di un violino, ma certamente sa quanto sia fine la lavorazione del legno per questo strumento. Sa quanto siano delicate le corde e con quanta attenzione debbano muoversi le dita per sfiorarle. Sa che oggi non era il Maniva ma il Maniva arriverà e se sarà ancora lì davanti a giocarsela con van Vleuten chissà cosa potrebbe succedere.
Van Vleuten che, oggi, vince; Garcia lancia troppo presto la volata e viene beffata. Van Vleuten che è in rosa, alla quarta tappa e dice che non aveva proprio pensato di attaccare da queste parti (e cosa ha fatto, aggiungiamo noi). Quasi inspiegabile, come un fuoco, ma così pura espressione di talento da fermarti a guardare.
Sono i fuochi che si accendono quando meno te lo aspetti, ardono. E con questi fuochi accesi quanto sono pochi quei secondi che dividono le prime tre della generale? Van Vleuten, Garcia, Cavalli: a voi!
In vetta a Oropa: il bisogno di imparare
Scalando la salita di Oropa, il dodici giugno, Laura Marino, di Briko Girls Academy, ha ripensato al momento in cui aveva quasi deciso che avrebbe lasciato perdere la bicicletta. Le ragioni erano tante, qualcuna aveva a che fare con le persone che ti affiancano in un pezzo di vita e poi prendono altre strade, altre con tutto ciò che sentiva di dover ancora imparare senza averne la forza: «La prima volta che siamo andati a Superga con questo gruppo, ero demotivata, temevo di non farcela e, forse, non volevo nemmeno farcela. Poi ho iniziato ad accettare tutto e più lo accettavo più lo capivo». Laura, dopo questo percorso che si proponeva di insegnare a undici ragazze ad andare in bicicletta da corsa, ha imparato più di tutto ciò che riguarda i rapporti, le curve e i freni. Ha capito perché è giusto che continui ad andare in bicicletta: «Non possiamo avere tutte le persone che vorremmo nella nostra quotidianità, è un fatto. Anche chi va via, però, lascia qualcosa che ti ricorda di quel percorso assieme. La bicicletta è ciò che mi è restato e quando pedalo ho il dovere di essere felice. Anzi, ho il dovere di pedalare».
Per dire che poi succede anche quello che non ti aspetti. Gabriele, il loro coach, colui che dal Parco Dora di Torino, le ha portate ad Oropa, dopo giornate di prove, allenamenti solitari e sacrifici ce lo ha sempre detto: «Un insegnante può solo creare un clima favorevole all'apprendimento. Può solo dire ciò che pensa, che sente, che ha vissuto e aspettare che arrivi dall'altra parte. Non sai mai cosa colgono gli altri. Tu devi raccontare». Poi c'è lo sport, la pratica sociale più meritocratica che esista: «Se ti alleni vai più forte, magari non diventi un campione ma migliori. Questa è la base. Negli altri campi dell'esistenza non è sempre così: non è detto che il tuo maggiore impegno porti a un maggiore risultato. Questa nella sport deve essere una sicurezza. Qualcosa che ti spinge ad allenarti e a resistere perché sai che quello che è tuo, non può portartelo via nessuno». Qualcosa di simile lo spiega anche Celeste Di Stefano che a Oropa ha visto delle compagne tornare giù, stremate, in discesa, per aiutare chi stava ancora salendo e non ce la faceva più.
«Il segreto è competere con se stessi ed essere concentrati sull'unico miglioramento possibile: il tuo. Qualcosa di diverso rispetto a ciò che avviene nella società, dove la competizione è estremizzata. Certo, ci sono le gare professionistiche, ma la bicicletta di base è questo: tornare ad aiutare le compagne a salire anche se, anche tu, sei sfinito e non ce la fai più». Nel frattempo, sentirsi liberi come da bambini.
Cristina Bertola, così, libera è riuscita a trovare la fiducia in se stessa per sconfiggere quel non sentirsi all'altezza che, ogni tanto, colpisce tutti. L'ha aiutata anche quel signore sulla sessantina che, al termine della scalata ad Oropa, le si è affiancato dicendole che, all'inizio, temeva non ce l'avrebbe fatta con la vecchia bicicletta che stava usando, e invece: «Complimenti perché ci è riuscita. Io ci ho provato e non sono stato così bravo». Così, oggi, quando esce a pedalare, si sente sicura, non ha paura della fatica della salita e nemmeno del brivido della discesa. E, quando nel suo studio medico, si confronta con i pazienti può davvero consigliare di andare in bicicletta perché sa cosa si prova. «Loro sono fieri. Dicono a tutti che la loro dottoressa è una ciclista».
Tutto questo e tanto altro: i genitori ad applaudire alla scalata, le persone che si sono appassionate a questa squadra e chiedono, si informano. Ed anche Gabriele Mazzetta, il coach, che pensa a questi mesi e: «Ho messo gentilezza e disponibilità, l'hanno fatto tutti perché lo consideriamo un dovere. Il senso di gratitudine che è tornato, però, è stato di molto superiore a tutto questo. Mi fa pensare che abbiamo davvero bisogno di queste cose, che ci mancano e le cerchiamo sempre più. Mi fa riflettere». Forse, perché, tutti abbiamo bisogno di imparare.
Fabio Jakobsen e i giganti
Era come essere sulle spalle dei giganti, al Tour de France, sul Grande Belt, in Danimarca. I giganti sono così: li vedi da lontano, arrivano da lontano. Hanno tutto ciò che serve per essere forti, per questo li vedi da lontano, e in certi dettagli sembrano anche deboli perché ti chiedi come facciano a resistere, a stare così in alto, a sorreggersi. Per questo sulle loro spalle spira vento, perché sono esposti, perché non possono nascondersi.
Assomigliano ai giganti i corridori del gruppo in una tappa come quella di oggi. Giganti forti e talvolta dai piedi d’argilla che vanno contro vento. Sì, perché il vento è contrario, ti spinge indietro, anche in parte laterale, ma non abbastanza per aprire ventagli, per disegnare linee diverse intorno al gruppo.
I giganti forti e fragili, dall’equilibrio instabile, che si vedono da lontano come le loro radici e il loro colore ipnotico, il giallo dell’ossessione: Lampaert che, in maglia gialla, va a prendere la borraccia, che cade e torna in gruppo proprio su quel ponte di diciotto chilometri. Le radici, quelle contadine: gigante perché formi la terra su cui cammini e nello stesso tempo dipendi da lei, dipendi da tutto. Essere giganti è anche questo, è una libertà precaria e ricercatissima. Vuol dire gioire con poco, come Magnus Cort Nielsen ad un traguardo volante. Lo sanno gli uomini di classifica caduti sul finale che non pagano conseguenze sul tempo ma le pagano sul proprio corpo.
Giganti come i velocisti. Una volata fra giganti per i nomi e per la forza che serve a sprintare. Prendete la forza di van Aert, che rassicura, che piace perché è equilibrata, perché è algida, armonica. Si sente il suono di quella forza nel vento, ma non basta anche se, stasera, sarà maglia gialla. La stessa forza di Fabio Jakobsen è, almeno oggi, più forte: basta poco, basta passare davanti di qualche centimetro. Jakobsen vince, da gigante, sulle spalle dei giganti.
Vorremmo parlare di giganti con Jakobsen, vorremmo parlare dei ponti tanto alti che si vedono da lontano e del sorreggersi con poco. Vorremmo sentire cosa ne pensa lui che per tornare a essere un ciclista è dovuto ripartire da zero, dalla base, dopo l’incidente di due anni fa. Vorremmo sapere cosa gli ha detto Lampaert dopo l’arrivo, all’orecchio. Fanno anche questo i giganti. Perché è grande ciò che si vede nei giganti, ma per restare lì, per tornare lì, tanto più grande deve essere quello che non si vede e ti tiene in piedi. Le fondamenta o, più semplicemente, l’animo.
La Maglia Rosa e il duello Vos-Balsamo
Dicono che il primo giorno in cui indossi la maglia rosa è il giorno in cui te ne rendi conto. Anche se la sera prima l'hai tenuta distesa sul tuo letto. Sì, perché te la vedi addosso e gli altri ti vedono con quella maglia. Del giorno in cui la conquisti non hai una foto di gara con quella maglia e per sentirla vera devi poterti vedere in gruppo con quel colore, devi essere cercata fra le altre e individuata perché tu, proprio tu, sei la maglia rosa. Per Elisa Balsamo quel giorno è stato oggi. Aveva anche il casco e gli occhiali rosa, un richiamo. Si richiama ciò che vuoi ricordare, che vuoi far ricordare: l'orgoglio.
Dicono che, quando sei all'attacco e ti avvisano di essere maglia rosa virtuale, ovvero la maglia rosa del futuro, senza foto e senza colore, almeno per ora, trovi forze che non avresti mai trovato. Alessia Vigilia è stata quel futuro sospeso per diversi chilometri. Dicono che i genitori, a casa, provino ansia sin dal mattino quando sanno che sei in fuga perché in quella fuga rivedono ciò che solo loro sanno, ciò che solo loro hanno visto. E sono tutte cose vere, più che mai vere: gli sfoghi, le delusioni, i timori. E poi anche la felicità: loro, la tua felicità, la conoscono bene. La chiamano in tanti modi. A sera, a fine tappa, al telefono, la chiamano orgoglio. Quando ti hanno visto scattare e tornare a scattare col gruppo dietro, fiera.
Dicono che i fuoriclasse abbiano un'idea in più per ogni volta in cui non funziona. Anzi, dicono proprio che le idee arrivino più decise quando le cose non sono andate come avresti voluto. L'idea di tornare a fare esattamente la stessa cosa perché vuoi vincere e vuoi vincere così. Come gli ultimi ragazzini che lasciano il campo dopo aver provato a fare e rifare lo stesso tiro, fino a che non è riuscito. I fuoriclasse sono come quei ragazzini. Marianne Vos è come loro quando parte e cerca di anticipare Elisa Balsamo, come ieri. Elisa Balsamo è come quei ragazzini quando la vede con la coda dell'occhio e cerca di prenderle la ruota. Anche i genitori a casa assomigliano a quei ragazzini: la mamma di Charlotte Kool, oggi seconda, ad esempio, che l’ha messa in bicicletta per permetterle di andare a pattinare.
Marianne Vos tiene, Marianne Vos vince a Olbia. A Leuven aveva detto a Balsamo che era quasi arrabbiata, dalla tanta delusione e non avrebbe avuto voglia di parlare con nessuno, eppure era andata a dirle che era stata brava perché i campioni fanno così. Elisa Balsamo, sul traguardo, aveva lo sguardo fisso, pensieroso, quasi a chiedersi dove fosse il problema, perché quelle gambe oggi non siano state come ieri. È un piccolo dolore.
Eppure le idee arrivano così. In quel pensiero si intravedono tante idee. Domani al Giro Donne ci sarà riposo, quella stessa maglia rosa sarà distesa sul letto di Balsamo come ieri sera, mentre Vos in testa avrà la maglia rosa futura, quella che non c'è ancora da nessuna parte, se non in una fuga immaginata, in un abbuono, in un varco spazio temporale. Le idee, plasmate dall'orgoglio, verranno da lì. Lunedì, a Cesena, vedremo il resto.
Storia di Elisa
La storia, in fondo, è nell'attimo in cui Elisa Balsamo vede con la coda dell'occhio Marianne Vos partita lungo le transenne. La storia è così, ci sei dentro ma per accorgertene davvero devi guardarla di sbieco, quasi da fuori e poi pensare a cosa fare. Partire, andare, sviluppare velocità, pura velocità, dimenticarti che i tuoi polmoni più di tanta aria non tengono. Davanti hai Marianne Vos, sai che l'hai già superata, giusto qualche mese fa, e ti sei messa addosso la maglia di Campionessa del Mondo, sai che superare Marianne Vos è sempre difficile e, anche se è già successo, in fondo, potresti non farcela. Serve coraggio per quella fatica, per quel vento, per quella storia, per partire e per partire serve sempre coraggio perché in volata non puoi tornare ed è sapere di poter tornare ciò che rassicura quando parti. Serve anche paura perché, se non avessi anche quella, non partiresti proprio.
Elisa Balsamo, di paura e di coraggio, è partita con la maglia verde addosso, per la prima volta in una volata al Giro d'Italia Donne. La prima volta eppure quante volate le abbiamo già visto fare? Ma in bicicletta si riparte e sono le prime volte a tenerti a terra. Elisa Balsamo di prime volte parla molto perché da lì passa la sua umiltà, quel sentirsi sempre uguale anche se le cose attorno cambiano. Quel sedersi davanti a un bar, da sola, ad aspettare di sapere chi ha vinto. Dopo quella rincorsa, dopo quel colpo di reni, quei secondi veloci che non finiscono più: per chi corre e per chi guarda. Perché le volate che sono tanto veloci, se ci pensate, sono molto più lunghe nella sensazione di chi osserva, di chi aspetta.
Lì, sul gradino, dopo aver fatto un altro testa a testa con Vos. Lì, su quel gradino soli, come si è soli quando ci si volta e ci si accorge che, per cambiare la tua storia, piccola o grande, devi partire. Anche se puoi avere tante persone accanto. Poi vinci, ti alzi gridando e abbracci chi arriva. Il ritorno, in una volata, è questa cosa qui. La prima volta è questa cosa qui.
La prima volta di una ciclista italiana che vince una tappa del Giro in maglia iridata e conquista la maglia rosa. Che è poi anche la storia. Tortolì, in fondo, sembra una parola da bambini, quelle parole dal suono quasi profetico, magico. Quelle parole che fanno accadere tutto in un attimo, solo perché lo vuoi.
A ventiquattro anni, sai che non funziona così e per la tua storia devi avere tutta la paura e il coraggio che servono. Lo sai, ti volti, guardi, parti e torni. Comunque sia andata; oggi è andata bene, oggi è storia.
"Cykel": a Copenaghen
Anche in questo momento, a Copenaghen, qualcuno, passando dalla Piazza del Comune, si sarà fermato davanti allo schermo che conta i giorni mancanti al primo luglio, il giorno della partenza del Tour de France. Per loro è "vente", l'attesa. Davanti a quello schermo si ferma la bicicletta e si fa passare qualche minuto: solo così manca meno, solo così quel giorno è più vicino. Basta "cykel", la bicicletta in danese, e qualche pedalata per andare a vedere. Per almeno cento giorni, perché il tempo lì ha iniziato a scorrere ai meno cento giorni dal Tour.
Le biciclette corrono ai lati delle strade e sono l'elemento in movimento della città. Sono il mezzo in grado di scuotere gli abitanti dalla forte timidezza che li connota, perché aiutarsi, fra le strade, in bicicletta, è naturale. «Spesso le biciclette usate per andare al lavoro o a scuola sono le più vecchie, segnate dal tempo e dall'uso- ci raccontano i ragazzi di Copenaghen Bike Community che stanno lavorando all'allestimento degli eventi collaterali al Tour- ciascuno ha più di una bicicletta e la più bella resta a casa per le occasioni importanti». Non c'è nulla di male nell'avere una bici vecchia, non c'è nulla di male nell'usare una bicicletta rovinata.
La bicicletta, per un danese, è il mezzo che unisce due punti di un tragitto, la sola sua chiave di lettura è il viaggio. Il Tour de France in città per gli abitanti di Copenaghen è, in primis, un'opportunità di avvicinamento fra il loro mondo, quello che alla bicicletta lega la parola "necessità", e quello dello sport in bicicletta: «Per un ragazzo che va in bicicletta a scuola o un operaio che usa la bicicletta per andare in fabbrica, chi fa il mestiere del ciclista sembra molto distante, come in un altro universo. Quelle biciclette sembrano, e in parte sono, altre biciclette. In realtà scorrono sulle stesse strade, per questo, da oltre un anno, per l'arrivo del Tour si stanno rifacendo le strade». In questo modo si accomunano due realtà diverse, cercando di suscitare negli uni la curiosità per il mondo degli altri: «Nella concezione danese, la bicicletta è una, unica, il resto sono differenziazioni fatte dalle persone e dagli usi. Ospitare il Tour de France significa avere altre biciclette in città e altri usi delle biciclette». Forse significa anche avere ancora più voglia di fermarsi a scattare una fotografia.
Già, perché a Copenaghen accade anche questo: «Se il mezzo bicicletta ti incuriosisce, ad ogni pedalata ti fermi decine di volte a fissare una nuova bicicletta: cargo bike, bici per famiglie, biciclette colorate che vanno a formare disegni o vetrine». E, nel centro di Copenaghen, le vetrine a tema bici sono davvero tante, compreso un negozio dedicato al Tour de France. Qualcosa che richiama l’idea di una festa. “Festivelo”, ad esempio, che proprio nei giorni del Tour de France racconterà le diverse forme del ciclismo e lo farà cercando di divertire, di mostrare cosa può essere una bicicletta.
Qui, a Copenaghen, è la costante su ogni sfondo, ad ogni variazione di cielo e di luce, la scia in movimento che porta altrove.
Quando Dumoulin si ritira
Tre carte
Nel ciclismo, si potrebbe scrivere molto sulle partenze. Non solo di un viaggio o di una tappa. Si potrebbe scrivere molto sulla partenza dei ciclisti quando, come in ascolto di un richiamo ancestrale, aumentano la velocità e cercano di segnare un varco su chi li segue. Ci si potrebbe chiedere, e in un certo senso ce lo chiediamo, quale sia l'esatto momento in cui l'istinto faccia scattare il desiderio e quanti millesimi di secondo ci vogliano perché dal pensiero si passi all'azione.
Pensiamo a Elisa Longo Borghini allo Women's Tour in questi giorni. Quell'istinto, tramutato in desiderio e poi in levata sui pedali e scatto, partenza, lo ha ben messo in mostra e guardandola viene da chiedersi quanto prima parta nella mente lo scatto che tutti poi vediamo. Certe volte è bello provare ad indovinarlo prima che si manifesti nella realtà. Quasi a dire "Adesso parte" e vedere che, sì, parte proprio adesso.
Non diciamo indovinare a caso, lo diciamo perché l'ordine d'arrivo di oggi alla Black Mountain e di ieri a Welshpool assomiglia a quel gioco delle tre carte, in cui bisogna indovinare dove si trovi una precisa carta scelta: al centro, a destra o a sinistra. E per indovinarlo devi affidarti a ciò che vedi, oppure, quando la mano è troppo veloce, a ciò che pensi. Quelle mani che muovono le carte, somigliano alle gambe dei ciclisti, al loro rimescolarsi in gruppo, all'abilità, all'equilibrismo e persino alla fortuna. Quelle mani sono l'istinto delle gambe che fanno girare i pedali e delle braccia che dirigono il manubrio.
Ieri Elisa Longo Borghini aveva mosso quelle carte, in una tappa che non avrebbe dovuto muovere la classifica generale. Aveva svegliato la corsa, era poi partita decisa con Grace Bown e Kasia Niewiadoma. Troppo presto, forse. Brown, Niewiadoma, Longo Borghini aveva detto l'ordine d'arrivo. Oggi, nel verde della Black Mountain, lo ha rifatto, partendo convinta, sui pedali, come ieri, e con una strada che tira all'insù. Come quella mano: destra, centro, sinistra e poi ancora sinistra, centro e destra. Dritta fino in fondo, fino al traguardo, poi braccia in alto, velocemente e ancora giù: Longo Borghini, Niewiadoma e Brown.
Quanto tempo prima è partita quella partenza, nella sua testa? Ora, riguardando il video, sembra quasi possibile intuirlo, per un movimento, una sensazione. Ci proveremo ancora nei prossimi giorni, nelle prossime gare. Quel che conta è che oggi tutto è stato perfetto, come le mani di chi getta le carte o, fuor di metafora, il ciclista che parte. Elisa Longo Borghini ha vinto.
Unbound Gravel: tornare cambiati
Emporia è subito sembrato un universo parallelo all'interno degli Stati Uniti d'America. In realtà, appena toccato il suolo, Mattia De Marchi ci ha pensato: «Sono in America» e gli è sembrato strano, eppure bello. Certamente contrastante con quella sensazione di normalità che può affliggerti quando ti abitui a ciò che fai. Ad Emporia, l'abitudine non si è mai fermata: come avrebbe potuto fra tutti quelle persone che lasciano le proprie case per far spazio ai concorrenti dell'Unbound Gravel? Come avrebbe potuto scossa da quei clacson che per strada suonano ai ciclisti solo per salutarli, per dare il benvenuto?
Mattia De Marchi li ha sentiti e sono stati esattamente come la sua indole, qualcosa che bussa alla porta e ti ricorda perché lo stai facendo. «Inseguire Ten Dam probabilmente non è stata la scelta giusta e dovrei dirti che non lo rifarei. Invece no, lo rifarei perché facendo diversamente non sarei io. Avrei potuto piazzarmi meglio ma attendere non fa per me. E poi cosa avrebbero guardato tutte quelle persone che seguivano sulla grafica il puntino blu che mi rappresentava e speravano ce la facessi? Proviamo a pensarci». Ten Dam, quando lo ha visto, incollato alla sua ruota gli ha subito chiesto chi fosse e, sentendo il suo nome: «Mi ricordo di te a "The Traka", sei in gamba. Dai che facciamo all in».
Mattia, in quel momento, ha potuto solo sentire quelle parole, non vedeva quasi più nulla perché, la pioggia, faceva rimbalzare quella sabbia collosa sugli occhiali, rendendo impossibile tenerli: «Ad un certo punto, li ho tolti e quei granelli mi entravano negli occhi, facevano male, io, però, ero solo innervosito perché iniziavo a perdere le ruote, mi superavano. Al traguardo non vedevo quasi più nulla e lì ci ho pensato: "Mattia, ragiona: non vedi più e hai in mente solo la gara?". Per fortuna non era niente di grave e la vista è tornata, ma mi ha fatto riflettere». Certo, fa riflettere perché spiega cosa accade in quei chilometri in sella, il misto di sensazioni che ti estranea da tutto ma, alla fine, ti lascia lì, lucido e a contatto con gli altri, su quelle strade che cambiano repentinamente forma e direzione.
Boswell e Stetina non vanno all'attacco con lui e quando viene ripreso lo affiancano: «Bel numero». De Marchi non ce la fa più, è al gancio, ringrazia e stringe i denti. «Dai 320 chilometri dell'Unbound Gravel torni comunque cambiato, è questo il punto. L'esperienza resta e va oltre il risultato. Ciò che succede ad Emporia te lo ricordi appena pensi a questo sport». La conseguenza è un pensiero al mondiale gravel su cui sta riflettendo l'Uci: «Chiedo di pensarci bene, perché le gare che stanno organizzando sono solo gare, non c'è nulla di tutto questo. Ci si pensi, si studi ciò che accade negli altri paesi e ci si prenda tutto il tempo prima di organizzare un mondiale. Altrimenti, per sfruttare le opportunità che il gravel offre, rischiamo di snaturare quello che è. Non spetta a me decidere e ho pieno rispetto di chi lo farà, ad oggi, però, spero proprio che questo mondiale non ci sia».
Nel frattempo c'è un viaggio in Africa fra pochi giorni e diverse gare proprio lì. A Mattia hanno già detto che all'arrivo in aeroporto le persone affiancheranno i ciclisti e chiederanno cosa facciano con tutte quelle biciclette, perché in Africa questa abitudine manca. Lui sta pensando alla risposta da dare, a come spiegare ciò che accadrà: «Ho scelto di non aspettarmi nulla e di vivere questa avventura per quello che sarà. Ogni tanto, però, mi immagino i bambini che ci cercheranno e ci rincoreranno. Mi dico che sono fortunato e quel volo vorrei prenderlo il prima possibile. Anche adesso».