Acqua e sapone

Il 13 luglio, Francesco Lamon era appena tornato da Montichiari, quando si è unito alla sua squadra, Biesse Arvedi. «Quella sera era contentissimo» spiega il diesse Marco Milesi. «Da giorni facevano tempi pazzeschi, mi disse: "Possiamo fare il record del mondo"». Detto, fatto: record e medaglia d’oro nell’inseguimento a squadre. Lui, ragazzo semplice ma consapevole. «Ogni volta mi chiede cosa può fare per la squadra nelle gare in linea. C’è chi cerca di mettersi in mostra, lui è sempre a disposizione».
Una volta Lamon si è ritrovato in fuga, Milesi gli chiede sorpreso spiegazioni. Lamon lo spiazza e lo fa sorridere: «Sono capitato qui ma non voglio restarci, questi vanno fortissimo. Per favore, metti i ragazzi a tirare». Marco Milesi scherza: «Quando corrono loro, Montichiari trema». Sa bene che non è stato facile, come lo sanno i genitori di Lamon.
Hanno raccontato di aver fuso i motori di tre auto per seguirlo nelle gare. Suo padre, tecnico in ospedale, ieri mattina, ha chiesto qualche minuto di pausa per vedere la prova. Era il suo compleanno, pensate che regalo.
Francesco ha ventisette anni e dai propri compagni di squadra è visto come un esempio.
«Agli allenamenti arrivava davvero stanchissimo- prosegue Milesi- non gli si poteva chiedere altro. A primavera, poi, la tensione per le convocazioni era terribile». Il duro lavoro paga e questa ne è la dimostrazione. «Lo chiamerò per fargli i complimenti. Sono certo che questo oro gli darà molto, Lamon, però, resterà il ragazzo acqua e sapone che conosciamo tutti».


Essere donna

Se si chiede a Laura Kenny come gestire una carriera impegnativa essendo madri, lei risponde che il segreto è di non farsi mai convincere a fare ciò che non si vorrebbe fare. «Devi tornare quando vuoi tu. All'inizio non volevo lasciare Albie e se non vuoi lasciare tuo figlio, non devi sentirti obbligata dalla società» ha detto in un'intervista. Ora Albie ha quasi quattro anni e lei, stamani, a Tokyo ha fatto segnare il secondo tempo nell'inseguimento a squadre con la Gran Bretagna. Kenny alle Olimpiadi ha vinto l'oro in ogni gara a cui ha partecipato e punta a ripetersi per un record storico.

«Non penso al record - spiega a Velonews - ma a fare il mio dovere e a vincere. Ho sempre fatto così». Kenny, parlando di se stessa, parla di tutte le donne con famiglia: per fare bene in sella, o in qualunque lavoro, alle donne serva fiducia, cosa che spesso manca. Lei con quella fiducia rompe gli schemi. «L'inseguimento a squadre è la disciplina a cui come Gran Bretagna ci dedichiamo di più. Perché non facciamo lo stesso con le altre?». Il cambiamento è avvenuto grazie a Monica Greenwood, la nuova allenatrice.

Laura Kenny ha iniziato ad andare in bici con sua madre che voleva perdere peso e a suo figlio Albie non ha mai chiesto nulla del ciclismo: vuole solo che abbia ricordi felici dell'infanzia come li ha lei. Ha rischiato di non essere a Tokyo, e domani, comunque vada, farà un altro passo nella storia di questo sport.


Omar Di Felice e la Race Across France

Omar Di Felice ha compiuto quarant'anni il 21 luglio, giusto pochi giorni di partire per la Race Across France, 2500 chilometri di pedalata unsupported sulle strade transalpine. «È un compleanno particolare: molte cose cambiano, tu con loro e ti chiedi come sarà il tuo futuro. In Francia cercavo una risposta». Di Felice, l'anno scorso, è arrivato secondo in questa gara e da quel momento ha iniziato a pensare a come avrebbe potuto fare per vincerla. «Avevo corso in maniera conservativa e ho perso con un ritardo di sole due ore, nulla in una gara di ultracycling. Soprattutto, però, non conoscevo bene il mio primo avversario».

Omar ha studiato i suoi rivali e ne ha tracciato i profili: ha visto coloro che di notte hanno maggiore bisogno di recuperare, coloro che non dormono quasi mai, i ritmi gara e le medie. «Io ho bisogno di dormire almeno tre ore a notte, al chiuso, i miei avversari lo sanno. I microsonni, invece, tendo a lasciarli per la parte conclusiva di gare di questa lunghezza per non stressare il corpo. La privazione del sonno è la più antica fra le torture medievali, se non ti regoli bene, ti distruggi».

Già, perché il corpo e la mente sono sempre in un intreccio stretto. «Sono partito a tutta per imporre il ritmo e far capire che avrebbero dovuto temermi. Il punto era uscire dalle Alpi in testa: sono i cambi di tempo in quelle circostanze a definire le posizioni. Gli ultimi giorni sono stati i più importanti e i più difficili: ho logorato mentalmente uno dei principali rivali, fino al suo ritiro, ma quando ero in testa da solo faticavo a trovare le motivazioni per continuare a faticare. Il rilassamento ti frega». Ogni sera un rifornimento in una boulangerie per le ore notturne in cui la crisi è in agguato. «Restare senza cibo è terribile, perdi ore su ore. Anche l'idratazione è fondamentale di notte perché il nostro fisico la richiede anche in questa circostanza». Omar ha vinto: cinque giorni, otto ore e quarantanove minuti e il gradino più alto del podio. Una liberazione.

«Ho capito che la mente può supplire a qualunque limite del corpo. Nel ciclismo moderno, se smetti di vincere, tutti credono tu non valga più nulla. Non è così. La realtà è che, iniziando sempre più presto, si rischia di essere considerati finiti già in giovane età. È un rischio soprattutto per chi non regge queste pressioni e queste tensioni».

Se oggi Omar Di Felice pensa agli anni che passeranno non ha timore. «Verrà il giorno in cui le cose cambieranno e non sarà certo il mio non volerlo accettare a modificare la realtà dei fatti. Credo che sia la predisposizione l'importante. Ho sempre pedalato per scoprire, per imparare e conoscere. Continuerò a farlo a qualunque età, cambieranno i modi, non la sostanza».


Fragili titani

Nella notte in cui, in Italia, arrivano le parole di Simone Biles, ginnasta ritiratasi dalla gara a squadre dopo un volteggio sbagliato per «demoni che tormentano la mente e fanno smettere di amare il proprio lavoro», a Tokyo è il giorno dei titani dalle spalle larghe e dalle posizioni plastiche che sfidano il tempo. Giganti che sopportano il fardello del vento che divora: per qualche istante sembrano illusionisti in un'altra dimensione.

Illusione, appunto. Roglič non dimentica che, circa un anno fa, ha perso un Tour de France all'ultima giornata, il mondo gli è crollato addosso e lì anche le spalle da titano hanno ceduto, sbriciolate. Ricorda una sera a Pontivy e l'amarezza di una domenica mattina in cui ha detto basta. Qualche giorno dopo era su una sedia, fuori da un camper, con una birra in mano. Perché il coraggio di fermarsi si misura nella serenità con cui sai che ripartirai e che c'è qualcosa che conta di più. Roglič ora ha una medaglia d'oro al collo al termine di una prova mostruosa, e a chi gli dirà che è nell'Olimpo dei migliori potrà raccontare che anche i titani un giorno si sono fermati.

Annemiek van Vleuten ha la stessa medaglia al collo. Lei che ha vinto l'impossibile ma non ha mai voluto essere un'eroina. Quando, l'anno scorso, si è presentata al mondiale di Imola con un tutore dopo la frattura al polso al Giro Rosa, ha parlato chiaro. «Correre così è una merda. Non sono un esempio per nessuno. Non tutte le fratture al polso sono uguali e non per tutte sarebbe possibile. I medici mi hanno detto che non rischio perché il mio polso è più forte di prima. Per questo sono partita». Inutile aggiungere altro.

Tom Dumoulin, solo poco tempo fa, ha avuto la stessa forza di Simone Biles perché la pressione era troppa e lui, che ha vinto molto sin da giovane, solo un uomo. Dal ciclismo è tornato a bordo strada e poi, con i propri tempi, degli uomini non dei titani, è tornato in sella. Oggi è argento a Tokyo. Rohan Dennis qualche tempo fa disse che, per quanto sia bello vincere, fra quarant'anni non penserà alle vittorie come a una delle dieci cose migliori della propria vita. Crediamo lo direbbe anche oggi, forse anche a Simone Biles.

Vale per Wout van Aert che, da favorito, ha dovuto accontentarsi di un piazzamento. Chi era più titano di lui che al Tour aveva spianato il Ventoux, dominato il tempo per poi ubriacarsi di velocità come un proiettile lanciato? Eppure. Come per Filippo Ganna che fra pochi giorni è atteso dalla pista e a quella deve pensare. Vale per Simone Biles a cui oggi pensano tutti, mentre è chiamata a «scrollarsi dalle spalle il peso del mondo». Perché, sì, gli sportivi e i ciclisti sono titani, ma fragili.


Come osate toglierci l'utopia

Un giorno, Gianfranco Mascia, giornalista e scrittore, ha chiesto ad alcuni ragazzi cosa significasse secondo loro il titolo del suo libro, quel “Come osate” pronunciato da Greta Thunberg. Qualcuno ha detto: «Vuol dire: Come osate toglierci l'utopia? Come osate non provarci nemmeno e dirci che il mondo che immaginiamo non è possibile?». In quel momento Mascia ha avuto la consapevolezza di aver fatto bene ad allenarsi un mese e poi partire in bicicletta per il Clima Tour: ventitré città e quindici giorni in giro per l'Italia a incontrare persone, per parlare di quel libro, di clima, di ecologia e di futuro. «Servono le piazze, serve l'incontro e lo scambio di idee per conoscersi e capire. La bicicletta non è solo un mezzo di trasporto, è un mezzo di comunicazione».
Gianfranco ha conosciuto quel giardiniere di ottant'anni, figlio di un innestatore, che vent'anni fa ha deciso di smettere di irrorare pesticidi alle piante e si è convertito al biologico «perché parte di un ecosistema che non lo avrebbe più sopportato».
Ha visto mariti che aspettavano mogli e fidanzate che aspettavano fidanzati affaticati in salita e sulla sua bicicletta a pedalata assistita ha fatto posto a nuove consapevolezze. «Sono cresciuto in Romagna, ma da tempo non percorrevo più la riva di un fiume, non guardavo più la natura con quello sguardo. Quando mi chiedono perché è necessario cambiare direzione, racconto anche questo e poi chiedo: perché no? Che c'è di male?» Perché Mascia può spiegarlo bene. «Se andiamo verso l'ecologia non perdiamo nulla. Nessuno ci perde, tutti guadagniamo qualcosa. Stiamo meglio e sta meglio il pianeta. È così illogico non provare. Avevano ragione quei ragazzi».
Non ci si prova perché manca un'intelligenza collettiva che agisca di conseguenza e ognuno va per la sua via. Così non si prova nemmeno a immedesimarsi nelle scelte degli altri. «I camionisti che mi sfioravano lungo il percorso non pensavano minimamente a come potessi sentirmi, protetti da quel gigantesco involucro che rende forti. Un esempio fra i tanti. Questo vale anche per il clima e per lo scontro generazionale che il dibattito scatena. I giovani che si battono per l'ambiente lo fanno perché hanno ascoltato gli scienziati, perché sanno che è necessario. Fra sei anni e mezzo non finirà il mondo, ma, se il surriscaldamento globale si alzerà più di un grado e mezzo, ci sarà un punto di non ritorno e bisognerà limitarsi ad azioni di mitigazione. I ragazzi ci rimproverano di non avere ascoltato prima la scienza. I risultati si vedono tutti i giorni: i disastri e gli allagamenti ne sono una triste testimonianza».
Mascia lo dice forte e chiaro: «Siamo solo fortunati a non essere noi i diretti interessati di questi fatti, un giorno, però, potrebbe capitarci. Poteva capitare a me, mentre pedalavo per qualche città». A Gianfranco Mascia piace raccontare il linguaggio della bicicletta: «Quel linguaggio fatto di conoscenze spontanee, fra persone che non si conoscono, non si sono mai viste e forse non si rivedranno più, ma si fermano per strada a parlare come fossero amici di infanzia. Tutto è nel modo in cui leggiamo la realtà. Non ci si priva della macchina, si ha in regalo la bicicletta con tutte le sue infinite possibilità».


La disobbedienza di Anna Kiesenhofer

Quando Anna Kiesenhofer è partita insieme ad un'altra manciata di atlete subito dopo il via, nessuno le avrebbe dato una possibilità. Forse in quel momento era anche giusto, perché la storia della fuga impossibile è copione tanto seducente quanto conosciuto e in parte scontato.
Quando Anna Kiesenhofer è partita insieme ad Anna Plichta e Omer Shapira e poi da sola, sapeva che fuggire nel ciclismo ha un significato diverso da quello che ha in ogni altra circostanza di vita. Chi fugge ha coraggio, forse anche incoscienza. Lo sapeva da quel giorno del 2016 sul Mont Ventoux, quando vinse mentre tutti dicevano che l'avrebbero ripresa. Lei che praticava duathlon e triathlon e nel ciclismo non sarebbe mai arrivata, non fosse stato per un infortunio.
Quando, poi, è andata via da sola, tutti abbiamo iniziato a pensare che forse aveva fatto bene a dedicarsi al ciclismo, in parte a discapito della matematica e della fisica. Lei ci ha pensato prima. Lo testimonia quel pianto a singhiozzi a terra, dopo il traguardo, quel pianto senza fiato perché di fiato Anna non ne aveva davvero più quando è diventata campionessa olimpica.
Qualche giorno fa ha ringraziato tutti coloro che hanno sempre creduto in lei, ma soprattutto coloro che in lei non hanno mai creduto «perché- ha detto Kiesenhofer, che nel nome riecheggia una sciatrice più che una ciclista- se sono arrivata a Tokyo è anche per dimostrare a costoro che si sbagliavano».
Dietro Annemiek van Vleuten è argento e Elisa Longo Borghini bronzo. L'olandese che da quella caduta di Rio ha imparato la relatività del ciclismo, concetto di fisica, forse non a caso, e l'italiana che nel finale ha fatto quello per cui corre, sorprendere, stupire, non lasciare spazio allo scontato. Si fossero mosse prima cosa sarebbe successo? Chissà cosa sarebbe accaduto se il gruppo avesse capito prima che la troppa sicurezza di se stessi è il più grosso rischio.
Invece c'è la storia di Kiesenhofer che è tempo, numeri e relatività. Che è matematica e fisica, quella dei distacchi e della bicicletta, ma anche istinto e irrazionalità. Che somiglia a quella che vi abbiamo raccontato della prima donna che scalò il Monte Fuji senza permesso e ci riuscì. Anna Kiesenhofer ha disobbedito a ogni sorta di pregiudizio o legge non scritta e ha dimostrato di aver ragione, come sanno fare tutti coloro che devono lottare per ciò che vogliono, come sa fare una ciclista in fuga, come spesso deve fare una donna.


L'istinto di un'azzurra a Tokyo

Giorgia Bronzini, direttore sportivo della Trek-Segafredo, è certa che, per spuntarla domani, la carta vincente sia anticipare i tempi: «Non so cosa hanno preparato le azzurre, ma se fossi in ammiraglia inizierei a muovere le pedine in anticipo, in modo da essere nel centro della corsa quando la situazione esploderà». Il tracciato della prova olimpica femminile in linea è ingannevole. I 137 chilometri previsti hanno più il sapore di una classica, magari delle Ardenne, e l'altimetria non rende giustizia alla reale durezza del percorso. «Parliamo di 2700 metri di dislivello. All'inizio c'è una valle, logorante, e alla fine arrivano gli strappi, ripidi». Bisogna aver studiato bene il tracciato per evitare di sottovalutarne alcune parti che possono apparire più semplici. Le ascese saranno Doushi Road e Kagosaka Pass, nel mezzo il tracciato fiancheggia il lago di Yamanaka, poi la lunga discesa verso il Fuji International Speedway.
L'ostacolo principale dovrebbe essere il caldo che in questa parte del Giappone somiglia a colla che imprigiona. «Alcune atlete vengono da zone in cui queste temperature non si raggiungono quasi mai, altre semplicemente soffrono il caldo». Importanti saranno i punti di ristoro perché l'acqua non va solo bevuta ma gettarsela addosso è un consiglio prezioso in queste circostanze. «Considerando più o meno quattro ore di gara, penso che con queste temperature si berranno circa tre borracce all'ora. Più di dieci borracce svuotate entro fine gara con differenze fisiologiche personali». Idratarsi bene anche nei giorni precedenti, sottolinea Bronzini, non è meno importante. La possibilità di pioggia, invece, sarà un elemento cruciale soprattutto in vista della discesa sul finale.
Senza dubbio, anche per Bronzini, le favorite sono le olandesi, Van der Breggen in primis. «Delle quattro atlete schierate al via, Vos, Vollering, van Vleuten e van der Breggen, tutte possono ambire a vincere il titolo. Alcune anche stravincere. Noi siamo subito a ruota e dobbiamo essere la loro ombra». Altri nomi da tenere d'occhio li aggiungiamo noi: Niewiadoma, la polacca sempre sugli scudi, Brown e Cromwell, coppia palpitante in casa australiana, Rivera, che proprio al Fiandre 2017 incorniciò una prestazione superlativa e Cecilie Uttrup Ludwig, che quest'anno ha vinto la prima gara World Tour, affiancata dalla pericolosa Emma Norsgaard che, se resisterà alle ascese, sarà un cagnaccio di cui diffidare.
In casa Italia, Bronzini ha parlato in questi giorni con Elisa Longo Borghini. «Le ho detto che è una gara come tutte le altre e così deve gestirla. Le atlete avvertono da sole la pressione degli appuntamenti importanti, non serve qualcuno che la rimarchi. Spero che corra d'istinto, seguendo la regola d'oro. Se fai qualcosa e sbagli, puoi rimediare all'errore. Se non fai nulla, al rimorso non c'è rimedio».


La Colombia è lontana

Le gambe di Sergio Higuita sono cavalli pazzi, nervi scoperti. Quasi nessuno si è sorpreso vedendolo all'attacco ieri in una tappa, tra Carcassonne e Quillan, che del nervosismo ha fatto il piatto principale, nell'avvicinamento ai Pirenei di oggi. Non molto tempo fa, Jonathan Vaughters, dirigente della Education First ha raccontato a Cyclingtips che in Higuita c'è un qualcosa di irrefrenabile. «Nelle corse in Cina non ci sono grossi strappi, anzi spesso sono dei tracciati piatti. Lui, però, partiva ad ogni cavalcavia. Faceva quasi sorridere perché vedevi questo scalatore minuto fare azioni impensabili su terreni improbabili».
Medellín è sempre stata troppo lontana per un ragazzo che voleva fare il mestiere del ciclista. Troppo lontana per conoscere l'Europa e anche per farsi conoscere. Non è un caso se Rigoberto Urán, quando gli chiesero un parere su questo ragazzino, disse: «Non l'ho mai sentito nominare. Non so chi sia». Per chi viene da quella terra, la bicicletta, all'inizio, può essere un'idea, forse un mezzo di spostamento. Higuita probabilmente non poteva neppure immaginare che, per fare il ciclista, avrebbe dovuto misurare i millimetri della sella o del manubrio.

Il suo era istinto puro. Quando disputò la sua prima gara in Europa arrivò con più di venti minuti di ritardo dal vincitore. Non un esordio facile, insomma. Lui non ci pensò molto. «Volevo fare il ciclista, ma volere non basta. Devi combattere per quello che vuoi». Tra l'altro, quella volontà Higuita la maturò per puro caso, dopo che un insegnante lo iscrisse a una gara del paese e da lì, quasi per evitargli altre strade, qualcuno gli consigliò di andare al velodromo per incontrare Efraín Domínguez. In fondo, è grazie a lui se Higuita è il ciclista che è oggi, se attacca, un po’ alla maniera dei barodeur, un po’ a quella degli scalatori, per non lasciare che la corsa passi nella noia. Perché Higuita attacca anche quando potrebbe aspettare, quando forse gli converrebbe. Soprattutto è grazie a Domínguez se Higuita non ha paura delle discese e scende che è un piacere, dote rara per i colombiani.

Solido, sicuro, convinto di ogni decisione. Con lui le apparenze ingannano. Ne sono testimoni i compagni che lo hanno accolto all'arrivo in Europa. Alla prima riunione, arrivó con vecchie scarpe al limite dell’inutilizzabilità e con vestiti non proprio da ciclista. Qualcuno chiese. Higuita, consapevole del materiale di pregio che avrebbe trovato in Europa, aveva lasciato le cose più belle che aveva ai ragazzi di Domínguez. Sembra che quella non sia stata l’unica volta, sembra che Sergio Higuita continui a mandare del materiale a quei ragazzi. Perché la Colombia è lontana, ma scordarsela è impossibile.


Tra il pubblico

Ogni volta che la nostra macchina passa fra le roventi strade del percorso del Tour de France, qualcuno, guardando la targa, esclama ad alta voce: «L'Italie, l'Italie». Sembra che Alfredo Martini dicesse che il ciclismo è amicizia. Forse, di sicuro è conoscenza.

Di Rafael, ad esempio. Un signore incontrato a Saint-Paul-Trois-Châteaux che ci ha raccontato di conoscere Azzurro, la canzone di Adriano Celentano che l'altra mattina era trasmessa al villaggio di partenza e, quando ha capito che eravamo italiani, si è avvicinato a noi provando a canticchiarla. In realtà, inizialmente, voleva solo sapere se la sua pronuncia fosse corretta, successivamente, però, ha ammesso di essere da sempre un appassionato di musica e di avere sentito quella canzone per la prima volta a Roma nell'estate del 1971.

Jacques, invece, intento a bagnare i suoi fiori, su un balcone di una vecchia casa di Carcassonne, ci dice che se pensa all'Italia gli vengono in mente i Trulli di Alberobello. Spiega che gliene hanno sempre parlato tutti, ma lui non è mai riuscito ad andarci. In Puglia è stato solo una volta, era su un pullman turistico che si è guastato in mezzo ad una strada di campagna. «La strada non era male, ho pensato fosse una fermata».

Conoscenza perché ti incontri per caso, ma raramente vai via senza aver detto qualcosa. Una famiglia in albergo a Beziers vuole che raccontiamo qualcosa del Giro d''Italia. Loro del Tour ci dicono che, un anno, hanno seguito tutta un'edizione in camper. «Il momento più difficile è stato quando siamo rimasti senza energia elettrica. Lì ci siamo davvero chiesti come facessero tanto tempo fa e abbiamo capito quante cose non sappiamo più fare».

Qualcuno si chiede se l'Italia vincerà l'Europeo e scherza: «Dopo il blu francese, il vostro azzurro è il mio colore preferito». Qualcuno non chiede nulla, non dice nulla, se non “benvenuto” quando capisce che non sei di qui, che è poi un linguaggio universale. Perché c'è un senso di appartenenza particolare al Tour. «Sulle strade del Tour c'è tanta gente a cui del ciclismo non interessa nulla» dice Monique. «Scende in strada perché può fare festa e stare insieme. Pensare che qualcuno venga da un altro paese alla tua festa è più bello, no? Sì, perché non si trova lì per caso, ci arriva apposta e lo fa solo per vedere la tua festa».


Alaphilippe non è cambiato

È possibile andare in fuga senza avere un obiettivo, un traguardo preciso? È possibile farlo addirittura nella tappa della doppia ascesa al Mont Ventoux? Ha senso una scelta di questo tipo? Julian Alaphilippe lo ha fatto e non ha rimpianti.

Difficile da spiegare, soprattutto usando la ragione che ha come prerogativa l'associazione di causa ed effetto. Per trovare una risposta bisogna andare oltre. A tutti i ciclisti interessa la vittoria, Pinot se l'è addirittura tatuato quel significato, “solo la vittoria è bella”. Ci può però essere un piacere particolare che con la vittoria non ha nulla a che vedere. Qualcosa di tanto più importante, quanto più sei arrivato in alto.

Alaphilippe veste la maglia di campione del mondo e apparentemente non può chiedere altro. In realtà quell'arrivo al traguardo di Malaucène e le successive dichiarazioni sono una richiesta e insieme un messaggio. «Volevo attaccare e l'ho fatto da subito. Per me oggi c'era un Ventoux di troppo. Perché ho attaccato? Perché ne avevo voglia, non basta? Non punto alla maglia a pois, vesto già una maglia molto bella ed è sufficiente. Però raramente mi sono sentito bene come mentre attaccavo, anche se sapevo che difficilmente saremmo arrivati al traguardo. Mi sentivo libero, qualcosa di speciale».

C'è la contentezza per essere passato per primo sul Ventoux alla prima ascesa, ma non solo. Soprattutto c'è un avvertimento: forse, a forza di vincere, di diventare importanti, si perde quell'istinto che, in fondo, è stato il primo a farti salire su una bici, quello che ti faceva fare gli errori più grossi nelle categorie giovanili perché sembravi uno scriteriato e probabilmente lo eri. Quello stesso che preservava la tua voglia di svegliarti alle sei la domenica mattina e di andare a letto alle nove il sabato. Quello che ti faceva pensare che, con una bici in mano, avresti potuto fare di tutto. Buttare via tutto questo solo perché sei “diventato”? Forse è così che si spengono i migliori talenti, sotto il peso di ciò che devono fare perché lo chiedono gli staff, gli sponsor o il pubblico e non di ciò che vorrebbero fare. No, non si può.

Molte cose sono cambiate attorno ad Alaphilippe da quei giorni. Lui no, non si è fatto cambiare e ogni attacco ne è la prova tangibile. Questa è la storia da raccontare, questa la bella notizia.