Patagonia Alvento: in viaggio con Willy Mulonía

Alvento vi porta dove nasce il vento, in Patagonia.

Ora lo possiamo dire: il viaggio è confermato. Sono bastati poco più di cinque giorni perché il vostro entusiasmo per questa avventura ci invadesse. La conferma del viaggio è delle ultime ore: diverse persone hanno ufficializzato la propria partecipazione al viaggio #alvento con Willy Mulonía e sono rimasti davvero pochi posti disponibili, quindi se siete interessati a partecipare fatevi avanti!

Ma non si tratta di viaggio come altri, che avete affrontato nella vostra vita; ce lo spiega Willy con la sua solita contagiosa energia: «Dodici tappe, ventiquattro ore su ventiquattro. Non si tratta solo di pedalare, anzi, a tratti quella potrebbe anche essere la parte più semplice del percorso. Sei allenato e sai dove stai andando, in fondo devi solo pedalare. Qui si tratta di accamparsi, di prepararsi il proprio giaciglio, di prendersi cura di se stessi, di badare al cibo e all’acqua, di volersi bene. Forse è questa la parte più difficile, quella a cui non siamo abituati».

E la parola chiave per Willy non è impresa, ma consapevolezza. «Non lo nascondo, quando ho iniziato a fare questo tipo di viaggi anche io parlavo di epicità, di condizioni estreme e di imprese. Avevo addirittura il mio sito web che faceva riferimento al concetto di extreme. Non c’è voluto molto perché mi rendessi conto dell’errore colossale che stavo commettendo e lo cancellassi. Sai la verità? Ero talmente preso dall’agonismo che non riuscivo a custodire nemmeno un ricordo. Quando ho fatto il viaggio nelle Americhe sono arrivato a Santiago del Cile senza quasi rendermi conto di ciò che avevo visto in quei primi tremila chilometri. Dentro mi era rimasto davvero ben poco».

Ed è in quel momento che è arrivata la consapevolezza. «Sarà un viaggio di gruppo, sì, ma ognuno potrà permettersi il lusso di compiere un viaggio dentro se stesso, nel proprio io. Consapevolezza significa sapere perché sei lì in quel momento. Significa rendere lo straordinario ordinario. In fondo è straordinario solo perché non lo hai mai fatto prima. Quando lo fai per due, tre giorni, inizia a trasformarsi in un rituale, cominci ad abituarti e a capire che la routine non è poi così negativa, quando sei stato tu a sceglierla per davvero. Io vorrei portare questo fra le quattordici persone che verranno con me».


Solo ad una domanda Willy Mulonía non vi risponderà: «Non chiedetemi che tappa ci sarà il giorno seguente. Non deve interessarvi: ora state facendo la tappa di oggi e vi interessa questa. A sera, a cena, vi dirò del giorno dopo. Prima non saprete nulla. Perché? Perché dovete gustarvi quello che state facendo adesso e se iniziate a pensare al domani, una volta a casa non vi ricorderete più quel che stavate facendo ieri, ovvero oggi. Quando tornate a casa, dovete portarvi un ricordo che vi segni, che vi faccia venire voglia di tornare, qualcosa di dolce, di piacevole».

In quei giorni, Willy racconta che ciascuno potrà scoprire qualcosa di se stesso. «Si proveranno emozioni forti, diverse per ognuno. Ogni persona si porta qualcosa dentro, ciò che è, che sente o che prova. Una sorta di inquilino che le abita il corpo. Per alcuni un coinquilino, per altri un estraneo. Si dice “in vino veritas”, in realtà anche “in fatica veritas”. Quando soffri, scopri qualcosa di te. Da un viaggio del genere si torna cambiati, chi più e chi meno. Ma tutti cambiano. Alcuni cercheranno una sorta di serialità in questo tipo di avventure, altri si soffermeranno su ciò che hanno capito. Spesso non è così importante sapere cosa si vuole ma può essere oro colato capire quel che non si vuole più».

Per Willy il cambiamento è, in realtà, una delle poche costanti della vita. E qui non c’è filosofia, c’è la quotidianità di ognuno di noi. «Accettare il cambiamento è difficile. Spesso si tende a lottare contro il cambiamento o a rinnegarlo, perché cambiare fa sempre paura. Può ribaltarti la vita per come la conosci. Non tutti hanno il coraggio o la voglia di cambiare. Ma il cambiamento resta una costante ed, in un modo o nell’altro, influisce sulle nostre giornate».

Ma il viaggio più bello rimane quello che possiamo fare all’interno delle persone. «Non è un viaggio di due anni, ma anche con dodici giorni una persona può ritrovarsi con la corazza spezzata. Dodici tappe che tirano fuori tutte le tue fragilità, le tue debolezze, anche i tuoi difetti. Vale per chi fa ventimila chilometri all’anno, come per chi ne fa cinquecento. Non ci sono differenze. Una persona conosciuta anni fa in un viaggio, con famiglia e figli, uno di quelli tosti, all’undicesima tappa scoppiò a piangere pedalando accanto a me. C’ero solo io. Qualcosa si era rotto e lui volle rendermi partecipe di questo suo momento così intimo. Mi fece questo regalo. Quando ci scrivevamo prima della partenza, avevo avvertito delle tensioni. Se vuoi, una persona puoi capirla anche da come scrive, da come parla, perché c’è qualità anche nell’ascolto oltre che nel comunicare. Quel regalo, quella confidenza, mi è restata addosso talmente tanto che abbiamo continuato a scriverci e, qualche giorno fa, di fronte ad un periodo complesso lui mi ha detto: “Sono fatto proprio male, Willy”. No, non sei fatto male. Non siamo fatti male. Siamo semplicemente fatti così. Dobbiamo imparare a conoscerci, ad accettarci e a chiedere aiuto. In questi viaggi, io ho imparato anche questo: a chiedere aiuto alla gente senza timore o vergogna».

Julio Cortázar scriveva: “Nulla è perso se si ha il coraggio di dichiarare che tutto è perso ed iniziare nuovamente daccapo”. Questa è la consapevolezza di cui ci parla Willy.

Scheda tecnica del viaggio in Patagonia

Sito ufficiale

Foto: Paolo Penni Martelli


I sogni leggeri di Umberto Marengo

Umberto Marengo ricorda molto bene i giorni d’estate della sua infanzia. Nonno usciva presto con la bici, andava in edicola, comprava il giornale, faceva un giro in paese e poi tornava a casa. Dopo pranzo si sedeva con lui sul divano e aspettava la sigla d’inizio del Giro. «Vedevo quella macchia di colore sulle strade e mi immaginavo di essere lì». Marengo ricorda come le volate di Mario Cipollini riuscivano a tenerlo incollato allo schermo. «Da ragazzino avevo i suoi poster in camera. Chi avrebbe mai pensato di poterlo incontrare? Mi piacerebbe passarci una settimana assieme, solo per stare ad ascoltarlo. Avrei tante cose da farmi raccontare».

Quando invece pensa alle salite, pensa allo Stelvio e ad Alberto Contador. «Forse non dovrei nemmeno dirlo perché non sono uno scalatore puro e quando la strada sale faccio abbastanza fatica. Ma credo sia per questo che Contador mi ipnotizzava con la sua pedalata. Lui non saliva, lui danzava sui pedali. E poi aveva tanta fantasia, di quella fantasia leggera, da potersi permettere di inventare qualsiasi cosa». La famiglia di Umberto è appassionata di ciclismo, papà operaio e mamma maestra, ma, quando si tratta di scegliere uno sport, il ciclismo è la scelta più difficile. «A otto anni sono entrato nella mia prima squadra. Forse i miei avrebbero voluto facessi altri sport».

Nonno c’è sempre e, se non può seguirlo nelle trasferte più lontano da casa, appena Umberto è vicino corre a vederlo. «Mi chiamava a fine gara e riusciva a farmi star bene anche quando ero deluso. Purtroppo è mancato due anni prima che diventassi professionista. Ero il suo orgoglio, il suo nipote ciclista».

Il fratello di Umberto ora è un cuoco ma, per un anno, ha corso assieme a lui. I loro caratteri sono diversi e, forse, Umberto non poteva che avere il suo carattere per diventare professionista. «Un conto è ciò che vuoi fare, un conto è quello che ti accade. Ci ho creduto solo quando ho firmato, in alcuni momenti, per quanto mi intestardissi, mi sembrava impossibile». Sono tempi difficili: Marengo resta dilettante e torna a casa alla sera deluso, amareggiato, talvolta con l’idea di rinunciare. Gli amici gli dicono che forse dovrebbe cambiare strada, lui non vuole ma capisce che così non si può andare avanti. «Ho provato ad andare a letto con l’idea di buttare tutto all’aria, certo. Ma al mattino mi alzavo più convinto di prima».

Se Marengo parla in un certo modo della fuga è anche per il suo vissuto. «È la mia chiave di lettura del ciclismo: un modo per migliorarsi e mostrare che ci sei». Certo, perché quando ci metti tanto a conquistare qualcosa e sembra sempre che ti sfugga via, poi hai più paura di chiunque altro all’idea di svegliarti di nuovo a mani vuote. L’altro sostantivo per parlare di ciclismo è la furbizia. «Sono furbo. Riesco a risparmiarmi e ad attaccare nel momento giusto. Nelle volate ristrette questa dote è fondamentale».

L’altro giorno parlava con Giovanni Visconti e si dicevano che ormai è il loro terzo anno assieme. Marengo ha fame di imparare e appena parla di un compagno più esperto questo sentimento torna forte, per Enrico Battaglin ad esempio. «La Bardiani Csf Faizanè condensa tutto ciò che potevo immaginarmi del ciclismo. Ora so come ci si sente, mi immedesimo in ogni corridore quando vedo una corsa. Ora comprendo la fatica oltre l’impresa». Sorride quando gli chiediamo di proiettarsi in avanti e di immaginarsi fra cinque o sei anni e ritornano tutti i sogni semplici di un ragazzo alla mano. «Ho sempre sognato di correre la Milano-Sanremo e l’ho già corsa più di una volta. Sì, forse vorrei far bene al Giro d’Italia, magari vincere una tappa. Ma non chiedo poi molto. A me basterebbe restare qui, in questo ambiente. Ed essere una di quelle maglie colorate in mezzo al gruppo. Chissà quanti altri bambini a casa vedono le corse con i nonni e vogliono immedesimarsi. Non voglio altro. Davvero».

Foto: Paolo Penni Martelli


Negli occhi di mio fratello: intervista ad Alessandro Donati

L’intervista con Alessandro Donati, direttore sportivo della Bardiani-Csf Faizanè, parte da una pausa. Alessandro guarda fuori dalla vetrata, abbassa un attimo lo sguardo e inizia a parlare: «Negli occhi di mio fratello vedevo tutto ciò che può dire il ciclismo».

Walter Donati è mancato a causa di una malattia nella tarda primavera del 1998, dopo aver visto vincere il suo idolo, Marco Pantani, al Giro d’Italia. Aveva solo otto anni. «Era un bambino ma lo vedevi che era fatto per il ciclismo. Era perfetto su quella bici, esile, corporatura ideale. Quando si alzava sui pedali assomigliava a quel pirata che tanto amava. Sarebbe diventato un ciclista e avrebbe vinto molto, ne sono convinto. Io avevo cinque anni in più di lui ma, quando pedalavamo assieme, mi massacrava».

Alessandro e Walter sono cresciuti nel piazzale davanti al bar della vecchia stazione di Pescara. Quel bar era gestito da papà: «A noi bastava poco: quattro pietre su un marciapiede e avevamo una porta per la nostra partita di calcio. Quando non era il calcio, era il ciclismo, il nuoto, la pallavolo, il basket. Io sono cresciuto in strada come tanti ragazzi della mia età e lì ho imparato a voler bene allo sport. Non pensavo che sarei diventato un ciclista professionista, pensavo a divertirmi, facevo tutto con una leggerezza assurda. Mi faceva bene».

Alessandro si diverte, esce con gli amici, va a ballare la sera. Alcune volte anche di nascosto dai genitori, scappando da una finestra sul retro della casa. Quando manca Walter, si rompe tutto.
«Dovevo diventare ciclista e fare quello che non aveva potuto fare lui. Non sono stato un vincente ma sono stato corridore e ho sempre amato il mio lavoro. Di più. L’ho amato ancora maggiormente conoscendolo».

Alessandro Donati alle prese con i suoi ragazzi durante il ritiro della Bardiani a Benidorm. Foto: Paolo Penni Martelli

Il papà di Alessandro è stato professionista, suo nonno ha gestito una squadra da cui sono usciti diversi professionisti abruzzesi. Lui è stato deluso dall’ambiente del ciclismo ma non lo ha mai abbandonato. «Nel 2013 ho fatto una scelta sbagliata. Sono rimasto senza lavoro e non potevo permettermi di attendere altre proposte. Mia moglie aspettava nostra figlia ed avevamo da poco investito tutti i nostri risparmi per la casa. Ho dovuto cercarmi un lavoro».

Alessandro trova un impiego in una ditta di arrosticini, prodotto tipico abruzzese. Il proprietario è appassionato di ciclismo e investe in quello amatoriale. Dapprima Alessandro partecipa a qualche gara con lui, poi gli parla e si racconta. L’ambiente lo conosce bene, i fondi ci sono e i due investono in una squadra. Si tratta del ritorno, in ammiraglia questa volta: «Io sono cresciuto col ciclismo, ho imparato quasi di più dal ciclismo che dalla scuola. L’uomo che sono è maturato qui. Un uomo tranquillo, pacato ma determinato. Poche parole e pedalare. Il nostro è un lavoro duro. Un lavoro precario, direi. Passiamo circa centocinquanta giorni fuori casa, è vero. Ma ne passiamo altri duecento a casa. Siamo dei privilegiati e dobbiamo ricordarcelo quando andiamo al lavoro».

A casa ad aspettarlo ci sono due bambine, di nove e tre anni: «Per loro vinco sempre. Mi chiamano e chiedono: Papà hai vinto? No? Fa niente, per noi hai vinto lo stesso. Sai perché? Perché a loro, alla fine, della vittoria non interessa nulla. La più grande corre, io la accompagno alle gare e faccio semplicemente il papà, lei del ciclismo ama le cose più genuine».

In fondo Donati era già direttore sportivo in corsa, lo sa bene Stefano Garzelli per cui Alessandro è come un fratello. «Lui si fidava ciecamente di me. Io sapevo dove dovevo portarlo e lavoravo per quello. Il modo dovevo sceglierlo io, carta bianca. Ma Stefano doveva arrivare nel migliore dei modi al punto designato. In corsa non c’è molto spazio per parlare di famiglia o di casa. Quando abbiamo smesso ci siamo raccontati tutto. Ci vogliamo un gran bene». Donati scherza. «Ma sai che io organizzavo le vacanze per tutta la squadra? Sceglievo i voli con le coincidenze migliori, quelli più economici e li portavo in giro per il mondo». In un certo senso è rimasto un qualcosa di quel ragazzino che scappava dalla finestra per andare a ballare.

«Quando correvo pensavo sarebbe stato meglio fare il direttore sportivo. Ora, quando vedo i ragazzi, mi dico che mi piacerebbe tornare con loro in gruppo. Credo che fino a quando non si smette non ci si renda conto del privilegio che si ha. Fuori da qui c’è tutta una vita che molti di questi ragazzi non conoscono, ma è normale. Succede a tutti».

Da quando è salito in ammiraglia Alessandro ha dovuto fare i conti con questo e con molto altro. «Io devo decidere, il direttore ha questa responsabilità. Devo dare indicazioni sul lavoro di altri. Talvolta ho timori anche io, ho dubbi, magari sono nervoso o non sto bene. Ma questo non deve filtrare. Chi dirige deve sapere mantenere l’ambiente sereno. Questo però non significa abdicare alla decisione. Io preferisco sbagliare ma devo assumermi ogni responsabilità. I ragazzi sono tutti diversi, anche psicologicamente. Può capitare di sbagliare approccio. Spiace e si modificherà ma se non decidessi sarebbe ancora più grave. Non farei il mio lavoro».

La riflessione porta Donati al ciclismo di oggi e l’analisi è decisa. «Tutti vogliono vincere, nel professionismo come nelle categorie giovanili. Bisogna capire, però, che si fanno errori colossali se non si ha chiara la situazione. Da giovani noi dobbiamo crescere dei ragazzi non dei campioni. Altrimenti li roviniamo. Di campioni ce ne sono pochi, di uomini tanti. La vita del ciclista oggi è molto esasperata. A breve non ci saranno più carriere di quindici anni, solo di sette, otto anni. Credo manchi quella spensieratezza del gioco in strada, con quattro pietre e tanta fantasia. Credo che, almeno fra i più giovani, dovrebbe tornare questa leggerezza».

Foto: Paolo Penni Martelli


Il tempo non torna più: intervista a Filippo Fiorelli

«Non mi ha mai detto bravo. Se arrivavo in volata e vincevo mi diceva che avrei potuto partire prima, se partivo troppo presto mi spiegava che sarebbe stato meglio aspettare la volata. Non lo faceva per cattiveria, lo faceva per insegnarmi a non sedermi mai, a fare la vita del corridore. Mi diceva sempre: “Se vai in gara, devi correre. Altrimenti ti alleni e basta. Non si va in corsa per giocare”. Tutti i miei errori li ho capiti grazie a lui». Filippo Fiorelli parla così di Marcello Massini, il suo preparatore, lo definisce «un tipo strano ma in senso buono, uno di quelli che devi conoscere per capire».

Dopo le prime vittorie in Beltrami, Fracor e la convocazione in nazionale, è stato proprio l’incontro con Massini nel 2017, un anno difficile dopo la mononucleosi, a far scattare qualcosa in questo ragazzo di Palermo dai capelli rossi e dalle tante lentiggini. «Ha visto in me qualcosa che nessuno aveva mai visto e me lo ha tirato fuori. Lui e Paolo Alberati sono stati i miei appoggi: tanta sincerità e poche illusioni».

Il papà di Filippo era un amatore nel settore mountain bike e avrebbe voluto vedere suo figlio correre da subito in bici anche lontano dalla Sicilia. «Mia mamma era abbastanza preoccupata: sarei dovuto andare lontano da casa e avrei dovuto lasciare gli studi. Purtroppo in quei giorni papà ebbe un grave incidente ed io alla bicicletta non pensai più per diverso tempo». Sotto casa, però, ci sono dei locali di proprietà dei nonni e un anno il nonno affitta il negozio a un venditore di biciclette; lì accade qualcosa, lì la bicicletta torna nella vita di Filippo.

Questa volta è qualcosa di più serio, qualcosa che impone una decisione. Filippo decide di partire per andare in Toscana, c’è una squadra ad aspettarlo. «Ho passato una settimana a non dormire per l’entusiasmo prima della partenza. Sono partito con un amico: in treno abbiamo parlato tutto il tempo. Ci chiedevamo che vita ci aspettasse, è normale no? Ti chiedi sempre cosa ti aspetti. Le difficoltà le capisci dopo, quando sei solo e devi crescere prima, devi diventare grande più in fretta. All’inizio ero abbastanza scosso da questo tipo di vita ma la accettavo in quanto tale. Mi dicevo che se per fare il dilettante era necessaria, non potevo fare altro».

Filippo Fiorelli è un tutt’uno con la sua terra. «Non si parla solo di famiglia o parenti. Quando mi allontano, della Sicilia mi manca qualcosa che non si può nemmeno raccontare. Mi manca l’aria, mi mancano le sue strade, le sue estati e il gelato sul muretto con gli amici. Fatico a immaginarmi lontano dalla mia terra». Due settimane fa, Fiorelli era a Palermo con Giovanni Visconti. «Per noi è un esempio, un modello. Per molti ragazzini è la ragione stessa per cui iniziano a correre, perché vogliono essere come Giovanni. Ricordo benissimo cosa ho pensato la prima volta che l’ho incontrato in nazionale. Qualcosa che riprovo ogni volta che penso ora che siamo compagni di squadra».

Visconti racconta di parlare poco il dialetto siciliano ma quando è con Fiorelli, sì. «Dice che gli tiro fuori un lato caratteriale che manco lui sa di avere». Così giù a ridere e scherzare, la mattina a colazione o su un divanetto, la sera prima di tornare in camera.
L’altro giorno Fiorelli lo diceva ai suoi compagni: «Dai, sono stato anche fortunato». La fortuna di cui parla Filippo è quella che insieme alla determinazione lo ha portato a diventare ciclista, pur iniziando a pedalare tardi. Determinazione, perché a Fiorelli non piace proprio lamentarsi. «Quando sei in mezzo ad un problema, qualunque problema, devi cercare una soluzione. Non lo risolvi piangendoti addosso e tanto meno lamentandoti con te stesso o con gli altri». Poi una riflessione. «Quando inizi a pedalare seriamente a diciannove anni, non è come quando lo fai dai dodici anni o anche prima. Non è facile arrivare al professionismo. Però non mi pento di nulla. Sono felice delle scelte che ho fatto e credo anche siano state le scelte giuste».

Già perché Fiorelli del tempo ha capito la cosa più importante. «Diciotto anni li hai solo quando sei realmente diciottenne, non prima e non dopo. Non puoi riaverli a sessant’anni. Per cui è giusto che vivi in pieno i tuoi anni e fai tutto ciò che puoi fare. A costo di provare e sbagliare. Certe cose devi viverle perché, si sa, il tempo non torna più».

Foto: Paolo Penni Martelli


La schiettezza e l'orgoglio: intervista a Roberto Reverberi

Poco dopo la metà della Vuelta 1996, Bruno Reverberi ha fatto le valigie ed è tornato a casa. In ammiraglia è restato il figlio, Roberto. È il 19 settembre. Il giorno seguente, nel tardo pomeriggio, Roberto telefona a casa, risponde papà: «Papà, abbiamo vinto. Abbiamo vinto con Biagio Conte». Bruno Reverberi non ci crede. «Sai, più di vent’anni fa non c’era tutta l’informazione che c’è oggi e papà non sapeva nulla. Probabilmente pensava fosse uno scherzo, ci ho messo diversi minuti per convincerlo che era effettivamente andata così. Suo figlio aveva vinto la prima corsa in cui si era trovato in ammiraglia da solo». In realtà il ciclismo era di casa dai Reverberi, almeno dai tempi in cui, con Roberto ancora piccolo, Bruno aveva corso qualche periodo nei dilettanti. Successivamente il passaggio come direttore sportivo nelle categorie minori e qualche anno dopo nel professionismo. Parliamo di circa 39 anni fa. Roberto si era subito appassionato al ciclismo guardando papà. Aveva anche provato a correre, per circa sei anni, ma ben presto si era reso conto che non sarebbe mai diventato un corridore di livello. «Inizialmente seguivo papà e facevo il meccanico. Mi piaceva, e per sette, otto anni ho continuato. Poi mi sono sposato e ho deciso di aprire e gestire un negozio. Il fatto è che a me la vita del direttore sportivo è sempre piaciuta, soprattutto per il fatto organizzativo. Mi piace pianificare, organizzare, studiare tutto nei minimi dettagli. Forse, in cuor mio, ho sempre saputo che, alla fine, sarei ritornato». Bruno sa che la passione di Roberto è il ciclismo e vede in lui alcune delle doti fondamentali per fare bene questo lavoro. Passa qualche tempo e Roberto torna. Questa volta in ammiraglia accanto a papà.

«Io e papà siamo molto diversi. Il mio carattere somiglia a quello di mia mamma. Papà è uno molto forte, duro, autoritario direi. In famiglia come con i corridori. Lui ci va giù dritto. Ha ben chiare poche e semplici regole e quelle devono essere rispettate. Io cerco di mediare maggiormente, dico ciò che c’è da dire ma lo pondero bene prima. Il punto è che poi, quando mi rendo conto di non essere ascoltato, sbotto e quando sbotto non ce n’è per nessuno. Non so se sia un bene, forse sarebbe meglio essere più lineari». Con papà si parla molto di ciclismo ma Roberto avverte: «Certi argomenti è meglio evitare proprio di toccarli. Ogni tanto ho provato a impuntarmi ma con lui è una battaglia persa. Non ti dirà mai che hai ragione. Magari lo pensa ed agisce di conseguenza ma non lo ammette nemmeno per scherzo. Una cosa però devo dirla: mi ha sempre lasciato fare la mia strada liberamente, non si è mai intromesso, non mi ha mai condizionato nelle decisioni».

Roberto Reverberi è di poche parole con i suoi corridori, questione di chiarezza e schiettezza. «Io lo dico sempre: i treni passano una volta sola nella vita. Posso dirti una volta che per fare la vita da ciclista devi impegnarti, altrimenti è meglio se vai a lavorare. Non te lo dirò una seconda volta. A me fa sorridere chi continua a criticare le squadre per i corridori lasciati a piedi. Sia chiaro e cerchiamo di ricordarcelo: non siamo un ente assistenziale. Un conto è dare una possibilità, un conto è approfittarsene. Alcuni ragazzi se ne approfittano e a questo gioco non ci sto».

Negli anni Roberto Reverberi ne ha viste davvero di tutti i colori e con cortesia estrema, ma anche fermezza, ci tiene a non lasciare dubbi. «Molti ragazzi che sono venuti in Bardiani hanno corso subito il Giro d’Italia, la Milano-Sanremo o altre gare importanti. Da noi funziona così: se sei forte, se hai le caratteristiche adatte per una gara, hai tutta la squadra a disposizione anche se sei giovane. A queste condizioni devi metterci tutto l’impegno possibile. Non puoi permetterti di fare il turista, di trovare scuse ogni volta che c’è da andare in fuga, di pensare a vivacchiare. Nel ciclismo non si può vivacchiare. Alcuni non lo hanno ancora capito: ci sono atleti con un fisico e delle potenzialità incredibili che si buttano via perché non hanno la testa giusta. Non sai quanto mi fa arrabbiare questa cosa».

Bardiani è sempre stata una squadra di formazione, in cui molti giovani hanno spiccato il volo e Reverberi ne è orgoglioso. «La cosa più bella che possa succedere a un direttore sportivo è veder vincere un neo professionista. Valgono anche i piazzamenti, i tentativi. È inutile girarci intorno: o sei un campione, o ci provi da lontano, o ti metti a disposizione. Si tratta dei ruoli, chi non rispetta i ruoli fa un danno tremendo a tutta la squadra. Pensano di fare di testa loro per un piazzamento che salvi il contratto, in realtà fanno peggio. Noi vediamo tutto, vediamo chi si impegna, chi è solo sfortunato, chi ha qualità, chi si mette a disposizione e chi fa il furbo. Negli anni i furbi ho imparato a riconoscerli a chilometri di distanza».

Quando parla di ricordi ed emozioni, Reverberi pensa alla maglia gialla di Ciccone al Tour de France, quella che lo ha commosso perché «Giulio era stato fermo un anno e mezzo per un’ablazione e noi abbiamo continuato a crederci. Fosse stato in una squadra World Tour, chissà…». Alla mente poi affiora il piazzamento di Sacha Modolo alla Sanremo: «Alla Tirreno-Adriatico lo vedevo che era fresco come una rosa. Al ritorno, in auto, c’erano lui e Pozzovivo, e ho detto al Pozzo: “Hai da fare nel fine settimana? No? Porta Sacha a provare il percorso. Questo arriva nei cinque”. Alla fine è arrivato quarto. Ma ci credevamo solo io e Domenico, gli altri quasi mi prendevano in giro. Bisogna guardarli i corridori, c’è poco da fare». Quest’anno Bardiani ha in parte cambiato politica, inserendo in squadra due atleti di esperienza del calibro di Enrico Battaglin e Giovanni Visconti. Per stare vicino ai giovani e aiutarli a crescere nel migliore dei modi. «Giovanni ha proprio l’indole del capitano, è un atleta modello. Lo vedi che li consiglia in ogni cosa, dal pranzo alle frenate brusche in corsa. Lavorare con uomini così è un piacere».

Questo cambio di politica è dato anche da un cambio abbastanza radicale nel modo di orientarsi del ciclismo. «I giovani si fanno ingolosire sempre più dalle squadre World-Tour perché credono di avere più opportunità lì. Così per sperare di inserire qualche buon corridore dobbiamo cercare sempre ragazzi più giovani. Faccio notare una cosa: le corse non vengono disputate da trenta ragazzi per squadra. Non è detto che tu correrai perché sei in quel team. Lì ci sono i capitani che hanno sempre la precedenza, non puoi inventare molto, non puoi inventare fughe o azioni particolari. Ti vengono a riprendere e ti mettono a lavorare. Preferisci fare panchina in una squadra di grande livello o provare a crescere in una buona squadra? Noi abbiamo vinto trenta tappe al Giro d’Italia, non so se rendo l’idea. La domanda è semplice, basta rispondersi».

La colpa però non è solo dei ragazzi. «Quante litigate ho fatto e faccio quotidianamente con i procuratori? Molti pensano solo a inserire i ragazzi nelle squadre per la soddisfazione di dire di averli inseriti. Sai quanti ne hanno bruciati facendo così? Il loro compito dovrebbe essere quello di fare il bene dei ragazzi, così fanno tutto tranne che il loro bene». Il tempo ha cambiato anche Roberto e la constatazione per quanto amara è molto significativa. «All’inizio mi fidavo ciecamente di tutto ciò che mi dicevano i corridori, li giustificavo sempre, non mettevo mai in dubbio una parola. Così qualcuno cercava di fare il furbo, di schivare le fatiche e magari consigliava male i compagni. Non tutti gli atleti esperti si mettono a disposizione del gruppo. Rimanendo deluso ho capito che certe volte bisogna aspettare a fidarsi, bisogna essere lungimiranti. Purtroppo il mondo non è sempre come ci piacerebbe che fosse. Basta saperlo e provare a prenderne le misure».

Foto: Paolo Penni Martelli


Di lezioni e umiltà: intervista a Giovanni Visconti

 

Era il 2007 e Giovanni Visconti era a Stoccarda con la nazionale italiana di Franco Ballerini. In quel gruppo, che pochi giorni dopo avrebbe vinto il Mondiale, Giovanni era riserva assieme a Vincenzo Nibali. Ad un certo punto Danilo Di Luca lascia il ritiro. Nella testa del siciliano scatta qualcosa: «Volevo correre ed in quel momento ero veramente convinto che il “Ballero” mi avrebbe chiesto di entrare in squadra». Franco Ballerini la pensa diversamente e quella sera telefonò a Matteo Tosatto. Il “Toso” sta guidando verso l’Oktoberfest ma al richiamo della Nazionale non può che rispondere presente. Visconti e Nibali non se l’aspettano. «Sono abbastanza permaloso, “musone” direi. Negli anni ho migliorato questo aspetto ma questo continuo rimuginare mi ha molto condizionato durante la mia carriera. Quella sera ho reagito male ed il giorno dopo, in allenamento, non andavo proprio. Stavo in fondo al gruppetto dei miei compagni, con la testa bassa. Come un cane bastonato. Non parlavo più con nessuno, non salutavo nemmeno Franco. Pensa che io e Franco eravamo come fratelli: da bambino, a casa sua, mi aveva regalato il casco e gli occhiali della Roubaix. Quello, però, per me era un affronto. Non riuscivo a digerirlo».

Franco Ballerini si accorge di questo stato d’animo di Giovanni e gli si affianca in allenamento. «Visco, stai rompendo. Ora basta. Levati sto muso e vai davanti a menare. Vuoi la verità? Se non avesse corso Tosatto, avrei fatto correre Nibali. Quindi evita queste scene». La lezione è pesante, Giovanni Visconti racconta di avere i brividi ancora adesso a pensarci, ma allo stesso tempo in quel giorno c’è un bagaglio da custodire. «L’umiltà. Le batoste servono per questo, ti fanno tornare con i piedi per terra. Quando sei giovane devi dimostrare e devi farlo con umiltà. Il tuo tempo arriverà. Prima però c’è bisogno di pazienza e voglia di imparare: la fame di apprendere. Ho vissuto tre generazioni del ciclismo e quando vedevo correre Boonen, quando gli correvo accanto, ero felice per il solo fatto di essere al suo fianco».

Ora, forse, il ciclismo, corrisponde un poco meno a Visconti sebbene Visconti corrisponda perfettamente al ciclismo. Sono cambiate tante cose, forse troppe. «Qui, in Bardiani, non manca nulla e non è assolutamente scontato. Scherzando dico sempre che il primo che si lamenta prende due schiaffi. Voglio essere sincero: sento di poter ancora far bene, sento di poter ancora vincere. Non sarei qui altrimenti. L’altra missione è quella di stare accanto ai giovani, di aiutarli. Ci sono tanti giovani molto promettenti in Bardiani. Credo che la mia esperienza potrà aiutarli. Certo, dovranno ascoltarmi e con i giovani di oggi non è sempre facile».

L’analisi va in profondità e Visconti tocca due punti importanti: la mentalità dei giovani e quella del mondo che li circonda. «Non è solo colpa loro, ci mancherebbe. Secondo me negli ultimi anni sono saltati alcuni passaggi. Tanti ragazzi quando arrivano al professionismo si sentono già ciclisti navigati. Credono di non avere nulla da imparare, non ti ascoltano. Sanno che io metto a disposizione tutto quello che so, l’esperienza serve a questo, altrimenti sarebbe inutile. Però devono avere la curiosità di venirmelo a chiedere e l’umiltà per provare ad ascoltare. In parte sono io a dovermi adattare a certe cose che sono cambiate nel tempo, in parte loro a dover capire che il ciclismo non è tutto qui. C’è una storia del ciclismo, c’è un passato. Perché non vogliamo riconoscerlo?». La storia di cui parla Giovanni è una storia radicata nella pelle, una storia di vento, decisioni ed anche errori. Una storia di sensazioni. «Il tuo corpo comunica. Ci sarà un motivo per cui ti senti stanco piuttosto che carico. Non dico di ascoltare solo le sensazioni, bandendo la tecnologia. Dico di abbinare le due cose. Se un giorno non stai bene, è meglio che non ti alleni. Che fai qualche chilometro in meno, altrimenti è controproducente. Non muore nessuno, non cambia nulla. Sai cosa accade in realtà?».

Il nostro sguardo incrocia quello di Giovanni e lui ricomincia a parlare. «I ragazzi hanno paura di non seguire alla lettera ogni minimo consiglio dei preparatori. Devono avere tutto scritto, in ogni dettaglio. Non è più ciclismo questo, sono telecomandati. Io lo dico sempre: “Ma il preparatore vi restituisce i soldi se non raggiungete i risultati che volete?”. Discorso analogo vale per i procuratori. Siamo noi a pagarli e loro sono “al nostro servizio”. Possono indicarci una via, ma quello che è meglio per il nostro fisico dobbiamo iniziare a saperlo noi. Un domani vorrei fare il preparatore per provare a cambiare questa realtà. Sia chiaro, non tutti i preparatori ragionano così ma alcuni sì. E i ragazzi di conseguenza hanno timore a fare un giro più tranquillo e a fermarsi a prendere un cappuccino prima di tornare a casa. Se saltano un passaggio sulla tabella, vanno in panico. I ritiri dovrebbero servire anche per fare bagarre, per fare gruppo, per stare con i compagni. Alcuni preparatori assegnano il loro lavoro da fare durante i ritiri. Non esiste. Sai cosa è accaduto? Nel ciclismo, con il World Tour che era un bene all’inizio, ora forse meno, è arrivata tanta gente che lavora esclusivamente per lo stipendio. Senza passione».

Giovanni Visconti in azione durante il ritiro con la sua squadra a Benidorm (Foto: Paolo Penni Martelli)

Senza peli sulla lingua, argomento dopo argomento. Giovanni Visconti lo dice chiaramente: «Io sono fatto così. Magari risulto antipatico, ma mi sento libero. Forse alcuni preferiscono i mezzi discorsi. Io credo che la chiarezza sia un valore». Certi discorsi non sono casuali, provengono da ciò che hai dentro, dalle difficoltà che hai vissuto, dai mostri che hai vissuto.

Marco Pastonesi, quando Giovanni Visconti vinse sul Galibier al Giro d’Italia 2013, scrisse che Giovanni aveva vinto sul mostro perché il mostro lo aveva dentro. Ora Giovanni può parlare di quel mostro. «Ho sofferto di attacchi di panico. Un’esperienza bruttissima da cui non riuscivo a liberarmi. Era quello il mostro che avevo dentro. L’anno prima mi ritirai ed in ambulanza mi dovettero tenere l’ossigeno perché non riuscivo più a respirare. Anche nel giorno in cui ho vinto ho avuto un attacco di panico. Quando il tuo malessere viene da qualcosa di mentale, di psicologico è tutto più complesso. Fai fatica anche a spiegarlo e in pochi lo capiscono. Però, vedi come funziona la testa? Dopo quella vittoria mi sono sbloccato. Due giorni dopo sono tornato a vincere a Vicenza, forse la vittoria più bella di tutta la carriera. Non sai quanti affrontano periodi simili. Quando ci sei dentro è bruttissimo».

Sono quegli stessi mostri a restituirti empatia, capacità di comprensione e di unione. A Giovanni Visconti è da tutti riconosciuta la capacità di fare gruppo e quella capacità è annodata a doppio filo con queste vicende. «Ti rendi conto di tante cose. Del rispetto dovuto ai collaboratori, allo staff, di quanto ogni piccolo gesto li renda orgogliosi, cementi il rapporto e permetta a tutti di stare meglio. Basta un semplice grazie per ciò che fanno per noi. Basta un vassoio con quattro pasticcini ed un caffè. Certe volte una birra ad un meccanico mentre sistema le biciclette. La differenza passa per questi gesti».

Qui si entra in un altro campo e Giovanni Visconti è deciso. «Ad alcuni campioni manca la riconoscenza. C’è troppo egoismo in certe situazioni. Tu come campione hai gloria, soldi, fama. Agli altri cosa resta? Se tu arrivi dove arrivi è anche merito della squadra. Nella vita, prima che nel ciclismo, bisogna riconoscere chi ci aiuta e ringraziarlo. A me forse sono mancate altre cose ma le squadre le ho sempre unite. Forse per le mie origini. Io vengo dal basso, in tutti i sensi. Dalla Sicilia, da Palermo. I viaggi nascosto in macchina li ho fatti davvero, ho conosciuto il nulla e ci ho combattuto per provare ad essere quello che vedi oggi».

Giovanni Visconti in carriera ha vinto tre volte il campionato italiano (Foto: Paolo Penni Martelli)

Cos’è Palermo per Giovanni Visconti in un pomeriggio di gennaio a Benidorm? «Sono io, è tutto quello che vedi in me. Nel mio modo di parlare, di fare. C’è sempre quella fame che mi monta dentro, quel desiderio di andare a lottare per prendermi qualcosa che ancora non mi sono preso. Questa cosa la conosci se cresci a Palermo, se provi ad emergere da Palermo. Per me Palermo è luogo di allenamento, di sacrifici, di rinunce. Per me Palermo è salita, è quella pasta che mi portavo a scuola, quella che mangiavo a ricreazione mentre i miei compagni uscivano a mangiare le pizzette. Lo facevo per uscire in bicicletta prima che facesse buio. Non conosco nient’altro di Palermo. Oggi per me la casa è in Toscana. Quando vado in Sicilia, dopo due, tre settimane, sento desiderio di tornare a casa. La Sicilia è stupenda, meriterebbe molto di più. Dalla Sicilia viene tutta la forza che ho avuto per costruirmi quello che mi sono costruito. La mia casa in Toscana ha fondamenta in Sicilia. Io sono un siculo-toscano. Palermo è stato il mio sacrificio».

Casa vuol dire famiglia e famiglia per Giovanni Visconti vuol dire figli. Quando pensa a casa, pensa a suo figlio. «Forse perché mi vedeva correre, da piccolo, ha iniziato a praticare ciclismo. Vedevo che non gli piaceva e quando ha smesso, ti dico la verità, sono stato contento. Quando ci sentiamo al telefono parliamo poco di ciclismo, parliamo di altro. Credo che lui vorrebbe smettessi. Ma è anche giusto, ha undici anni e desidera avere il papà vicino. Non me lo ha mai chiesto e credo non me lo chiederà mai ma non smetterei nemmeno se me lo chiedesse. Non per un capriccio. Non smetterei per il suo bene, per il suo futuro. La mia è stata una carriera da onesto lavoratore ma non ho avuto guadagni che mi consentano di mantenermi senza lavorare. Io continuerò fino a quando sarò in grado di fare bene, fino a quando mi sentirò bene».

Ancora Giovanni Visconti in azione insieme ai suoi giovani compagni di squadra (Foto: Paolo Penni Martelli)

Qui il discorso ritorna su una vena più intima e Visconti racconta delle sue chiacchierate col figlio. «Cerco di educarlo al valore del denaro. Gli dico sempre che per guadagnare si fa fatica, tanta, e molte persone lavorano tutto il giorno per guadagnare ben poco. Qualche anno fa, quando tutti si trasferivano a Montecarlo, sono andato lì con moglie e figli a fare un giro anche io. Come sono arrivato e ho visto la situazione in cui avrei dovuto vivere ho guardato mia moglie e le ho detto: “Via, andiamo subito via da qui”. Avrei dovuto vivere in un appartamento di cinquanta metri quadri, pagando fior di affitto, in mezzo alla finzione più totale. Non fa per me. Ho fatto i bagagli e me ne sono tornato a casa».

Fuori ormai è buio pesto, nonostante siano appena le otto. Giovanni Visconti sorride, sistema la felpa e riprende a parlare. «Ho trentotto anni e sono ancora qui. Sto facendo ancora il lavoro che ho scelto da ragazzino e lo sto facendo mettendoci tutto quello che ho. Ho fatto una vita sana, integra, consapevole. Le persone mi dicono che sembro più giovane, che in corsa sembro ancora un ragazzino e questo mi riempie di orgoglio. Certo, sono stato deluso. Ognuno di noi si fa male con la vita. Capita a tutti. Anche da questo versante, però, posso dirmi fortunato. Non erano delusioni troppo forti, troppo importanti, troppo pesanti. Visco è in sella, è questo che conta».
Foto: Paolo Penni Martelli


In fuga per nonno: intervista a Filippo Zana

Probabilmente Filippo Zana in quei giorni avrà chiamato più volte a casa. Chiamava e chiedeva: «Come sta nonno?». Succede quando qualcuno a casa sta male, tu sei lontano e non puoi vederlo. Non puoi sapere nulla, devi sperare che ti dicano la verità, che non ti mentano per «paura di farti star male» o «di farti preoccupare». A Filippo quella verità la dicono e Zana vuole tornare a casa. Allora dall’altra parte della cornetta aggiungono qualcosa: «Nonno vuole che resti lì».

Filippo Zana resta in corsa anche quando le parole sono macigni, anche quando gli dicono che nonno non c’è più. Per ricordarlo deve fare qualcosa, così alla partenza della sesta tappa parte. No, non per tornare a casa, per andare in fuga. «Se sono diventato un ciclista lo devo a mio nonno come lo devo ai miei genitori. Da piccoli abbiamo tantissimi sogni ma non possiamo portarli tutti sulle nostre spalle, così i grandi ci aiutano. Mio nonno è sempre stato il mio più grande tifoso. Lui seguiva il ciclismo e si illuminava alla sola idea che io potessi correre in bicicletta». Così Filippo Zana arriva al traguardo della tappa e scoppia a piangere; la fuga è stata ripresa ma oggi non importa, lì dentro c’era tutto ciò che quel giorno lui avrebbe voluto dire a nonno a parole. C’è riconoscenza nelle parole di questo ragazzo nativo di Thiene, agli albori della primavera del 1999: «Senza tutti i sacrifici dei miei genitori non sarei qui. se io sono quello che sono lo devo a loro. Pedalo da quando avevo sei anni, quanto mi hanno aiutato in tutto questo periodo?».

Filippo Zana ha iniziato a pedalare quasi per caso e per una volta non c’entrano le coincidenze familiari: a casa sono tutti appassionati di calcio, lui si definisce “una pecora nera” da questo punto di vista. «I miei genitori avevano un ristorante ed io giravo in bicicletta in quel cortile. Probabilmente quei metri li conoscevo a memoria. Li ripercorrevo continuamente e non mi stancavo mai. Un signore, vedendomi così tenace, così insistente su quei pedali, mi ha chiesto perché non provassi a iscrivermi alla squadra cittadina. Così è iniziato tutto». L’idolo di Zana è Marco Pantani, per ragioni anagrafiche non lo ha praticamente mai visto correre ma, negli anni ha recuperato molti suoi filmati perché aveva voglia di “conoscere” il Pirata. Quando gli chiediamo quale sia la cosa più importante che gli ha dato il ciclismo, Filippo risponde senza esitazioni: «Penso che mi abbia tolto molto. Correre in bicicletta vuol dire fare sacrifici, tanti sacrifici. Significa rinunciare a tante cose che magari vorresti. Attenzione, però, voglio essere sincero. Il ciclismo mi ha tolto tanto ma, come tutte le cose che vuoi, se prosegui senza arrenderti, ti restituisce tutto quello che si è preso. Sono felice di ogni sacrificio. Ogni sacrificio che faccio, lo faccio per la mia passione. anzi, per il mio lavoro».

E sorride, come a dire: “Ci sono riuscito. Sono un ciclista”. Quel crederci senza volerci credere, tipico di quando si è molto giovani o solo molto innocenti. L’innocenza bella, quella di chi non è ancora stato deluso o di chi sa come reagire alle delusioni. Forse nel caso di Zana si tratta della seconda opzione.

«Sono tre i punti fondamentali della mia carriera fino ad ora: le sconfitte, per un niente, al mondiale e all’europeo da junior e poi la vittoria a Capodarco. Lì è scattato qualcosa». Se pensa alla pianura, Filippo pensa al momento in cui recupera, in cui si lascia andare. Subito dopo alla sua mente affiora la noia. «La pianura sarà bella ma a lungo andare diventa noiosa. In salita fai più fatica ma c’è un’altra soddisfazione. Della discesa, invece, credo si abbia un’idea sbagliata: le problematiche non finiscono in vetta ai passi alpini. La discesa è un esercizio molto particolare, serve attenzione estrema e anche un poco di pazzia. Un minimo spericolati bisogna esserlo, altrimenti non vai. A me piacciono le tappe mosse, movimentate. Detesto il vento, quello sì. Che tormento quando soffia sulla strada. credo sia molto difficilmente immaginabile la fatica di quando corri controvento».

Quando si avvicina a Enrico Battaglin e Giovanni Visconti, Zana ha un poco di timore reverenziale ma anche tanta voglia di imparare. «Succede sempre quando sei accanto a qualcuno che ha più esperienza di te. Da chi vince puoi imparare a vincere ed io vorrei tanto vincere una tappa al Giro d’Italia. Quando si è giovani bisogna prestare attenzione a tutti, così si diventa grandi».

La passione di Filippo Zana per il ciclismo è tale che lui stesso ammette che, sin da ragazzo, non aveva un vero e proprio piano b. «Sono cresciuto sulla sella, non potevo immaginarmi altro di così bello. Nel tempo ti affezioni a tanti piccoli dettagli, tanti particolari. Io, per esempio, ricorderò sempre la prima vestizione della Bardiani. Quando prendi in mano la casacca e sai che sarà la tua. Mi spiego?».

Quella di Zana è una domanda ma anche una risposta. Come quando ci dice: «In inverno devo pur fare qualcosa, no? Mai fermarsi. Così vado a far legna nei boschi o cavalco. A casa, oltre ai cani, ho un cavallo e mi piace molto stare in mezzo alla natura con lui. Sarà per questo che ho studiato agraria. Sarà per questo che ho scelto il ciclismo».

Ad ogni parola un senso ed un peso. In bicicletta ci sono molte regole, nella quotidianità di Zana una vale più di tutte le altre: «Non sono un ragazzo che parla molto. Piuttosto mi piace ascoltare. se c’è da ridere e scherzare non mi faccio problemi, sia chiaro. Però non mi dispiace nemmeno stare da solo. La solitudine non mi spaventa. Soprattutto non mi piace parlare delle cose che non so, quando non so qualcosa mi metto tranquillo e ascolto. Credo sia l’unico modo per capire e conoscere. Sbaglio?».

Foto: Paolo Penni Martelli


Voler bene alla bicicletta: intervista ad Antonio Tarducci

Antonio Tarducci ricorda benissimo le mani di suo papà. Quasi tutti le ricordiamo in ogni dettaglio le mani di nostro padre, il ricordo di Antonio, però, è particolare. «Se ripenso alle mani di papà mentre aggiustava le biciclette mi sembra di rivederle. Non riparava biciclette di professionisti, erano normalissime biciclette della vita di ogni giorno». Quelle mani erano sporche di olio e segnate dalla fatica, come le sue, mentre ci parla. Ma, e Tarducci lo spiega bene, il senso del suo lavoro è proprio qui, nell’artigianalità. «Un grande costruttore qualche tempo fa me lo disse prendendomi da parte: “Antonio, ricordalo sempre, noi siamo dei biciclettai”. Ecco, essere biciclettaio, è questo che mi rende orgoglioso. Qualcuno che lavora plasticamente con le biciclette, che le plasma. La bicicletta è un mezzo che viene dalla povertà, un mezzo che ha visto la povertà, che l’ha affrontata e l’ha riscattata. Su quella sella puoi viaggiare, spostarti, vedere ogni angolo di mondo, anche quelli più nascosti, più intimi, senza spendere una lira. Fatico a vedere un difetto nelle biciclette. Guardiamole assieme: che difetto gli vedi?».

Il papà di Antonio, Ugo, ha iniziato questo mestiere nel 1960 a Viareggio e da quei giorni non ha mai smesso di ricordare al figlio la cosa che più conta in ogni mestiere: osservare. Così gli occhi di un padre e di un figlio sono cresciuti assieme: «Qui si impara sempre ed ogni giorno devi alzarti dal letto sapendo che imparerai, altrimenti parti col piede sbagliato. Bisogna porsi accanto a chi questo lavoro lo sa fare meglio di te e guardare. Se stai lì e guardi, cresci. L’ho sempre fatto: in un angolo, in silenzio, quasi timidamente per la paura di disturbare. Servono uomini esperti che non abbiano timore di condividere ciò che sanno, in particolare per quanto concerne i giorni di corsa, la loro organizzazione, e giovani curiosi che abbiamo fame di sguardi».

I due maestri di Tarducci sono indubbiamente stati Luciano Galleschi ed il mitico “Falcone”. «Avevo vent’anni e per fare il mio lavoro cercavo sempre un posto accanto a Falcone. C’era grande rispetto, divoravo tutto con gli occhi». L’indole di Antonio è quella sanguigna, tipicamente toscana; gli anni però, Tarducci ne ha cinquantacinque, hanno smorzato quell’anima da “toscanaccio” che oggi resta lì, sotto pelle. «Se ho un rammarico è quello di non aver visto crescere mio figlio che ora ha ventiquattro anni. Lui è cresciuto con mamma. Gli mancano due esami alla laurea e i suoi anni più belli me li sono persi. Ricordo come anni fa facevo queste code chilometriche alle cabine telefoniche di ogni città per riuscire a parlarci qualche minuto. La lontananza è una brutta bestia, non ti fa stare tranquillo, ti immalinconisce e così fatichi anche a lavorare. per lavorare bene devi essere sereno. La vita è così, non ci si può fare molto. Però col tempo ti fai un esame di coscienza e capisci che, alla fine, non sei così male. Ti senti soddisfatto di te e sei felice al solo pensiero della famigliola che hai a casa».

Avere a casa un figlio così giovane è anche la molla per capire tutti i “suoi” ragazzi, quelli che Antonio definisce “come figlioli”. «Essere meccanico significa essere a disposizione. Io sono un uomo a disposizione di altri uomini. Non c’è nulla di male, sai? Questa consapevolezza mi ha portato a superare tutte le difficoltà che normalmente si incontrano. Se tu sai che devi reagire per aiutare gli altri, lo fai. Il rapporto umano con questi ragazzi è fondamentali, per capirli, per aiutarli e soprattutto per rispettarli. Cerco sempre di sdrammatizzare. Il punto è che bisogna capire quando si può sdrammatizzare, quando serve e quando invece bisogna stare in silenzio e dare spazio allo sfogo o ai pensieri. Non si può sempre scherzare. C’è un’interiorità da rispettare». Così Tarducci ci racconta dei viaggi in auto in assoluto silenzio dopo una sconfitta o dopo una delusione. Così ci parla della responsabilità che avverte forte. «Non sono mai stato un campione ma ho corso anche io in bicicletta. La verità? Ho sempre avuto paura delle volate. Ne ho anche oggi per i ragazzi. Il nostro è un lavoro di responsabilità, basta un nostro piccolo errore e si può compromettere tutto. Tu devi fare il massimo, non devi poterti rimproverare nulla perché più di così non potevi fare. È l’unico modo per essere sereni. A questo penso spesso».

Dei vecchi tempi, quelli che ora il Covid fatica persino a permettere di immaginare, Antonio ricorda sale di alberghi piene di gente, le chiacchierate nei cortili e quei tavoli con una birra e qualche risata. «Quando arrivi alle partenze e vedi questi piazzali vuoti, ti prende un morso allo stomaco. Quanto è cambiato il nostro caro vecchio ciclismo in questi tempi?». La sua indole sanguigna torna quando parla della gara che ha organizzato per dieci anni, il Trofeo città di Viareggio. «In questo periodo non si sta facendo più nulla per i giovani, questo è un dramma. I ciclisti professionisti di domani sono i ragazzini di oggi. Vorrei tornare a organizzare qualcosa, spero di poterlo fare un domani. Con gli amici di sempre, con Emanuele, con Marietto, tutte persone che vogliono bene a quelle biciclette lì».

Anche Antonio Tarducci vuole bene alla bicicletta, a queste come a quelle che ha a casa, fra le biciclette d’epoca, la sua grande passione, ereditata da papà. La voglia di ritornare a Viareggio è una voglia particolare, qualcosa che riappacifica con sé stessi e con ciò che c’è attorno. «Basta poco, basta tornare a casa, alzarsi la mattina e camminare in Piazza Mazzini, fermarsi al caffè Margherita e dare una sbirciata al lungomare». Sì, perché, alla fine, anche qui a Benidorm c’è il mare ed è bellissimo ma ognuno ha il suo mare. E quello è inconfondibile.


Duecento metri

Per quanti metri la corsa continua a pulsare dopo aver fermato la sua spinta? Saranno duecento, trecento metri dopo il traguardo, il luogo della comprensione. Luogo non luogo perché insieme del tutto e del niente. Ma è lì che l’umanità si tocca a grappoli, come sempre del resto, perché è tutto ciò che non si vede e non si sente a vedersi e sentirsi di più. Perché la regola è sempre quella: non è il rumore a permettere l’ascolto. In quei duecento metri dopo la linea di arrivo c’è un mondo parallelo che apparentemente ha poco a che vedere con la corsa, in realtà per raccontare la corsa quei metri bisognerebbe conoscerli a memoria. Soprattutto di quei metri bisognerebbe fare propria la consapevolezza, che altro non è se non attenzione e conoscenza. Bisognerebbe farla propria perché quando si lasciano quei metri, se ci si è stati come bisognerebbe stare in qualunque situazione che ci tocca, forse si sa qualcosa in più di tutto ciò che serve e di tutto ciò che basta.
Dopo quella linea c’è l’abbandono. No, non solo quello di tante persone per cui la tua esistenza è strettamente connessa al vorticare dei pedali. Come se ci fosse un cono d’ombra dentro al quale puoi perderti senza che a nessuno interessi. Soprattutto se perdi, soprattutto se nessuno ti aspetta al podio, se “il tuo nome non è sui giornali e non si fa ricordare”. Qualche volta ti sei anche sentito parte di un circo più grande di te, ingranaggio di quel gruppo che risveglia voci e applausi. E se a casa hai tua figlia con trentanove di febbre? Se ti hanno detto che l’anno prossimo non correrai più per quella squadra? Se tua moglie ha perso il lavoro e non riesce più a dormire la notte? Che ne sanno quelli lì? Non immaginano neppure che in certi momenti vorresti solo tagliare quella linea per tornare a prenderti cura di quelli a cui vuoi bene. Non pensano che in altri istanti quella linea non vorresti mai tagliarla perché tu che non sei nessuno grazie a quel circo che ti inghiotte puoi sperare e dimenticarti tutto quello che non va, che non è mai andato.
In quei metri l’abbandono maggiore è il tuo. Abbandoni il tuo corpo, sparpagliato là dove solo la forza di gravità lo blocca, per terra. E non importa che ci sia asfalto, ghiaia, erba, sassi, non importa che ci siano quaranta gradi al suolo, che l’acqua ti inzuppi pure l’anima o il gelo rovente ti bruci la pelle. Lì c’è il male e tu sei stanco. Ti butti da qualche parte e ti lasci andare. La comprensione arriva in quel frangente. Quando vengono a raccattarti da dove non ti si riconosce quasi più. E ri-prendere è molto più difficile che prendere. Lo sappiamo tutti se abbiamo provato a intrecciare almeno una volta le mani con quelle di una persona che stava andando altrove. Per ri-prendere devi capire cosa serve e quanto basta. Julio Velasco lo raccontava: «Osservate una qualunque nonna mentre fa il suo piatto preferito. Guardatela mentre aggiunge il sale: una presa, un altro poco, sta per chiudere il barattolo del sale, si guarda attorno e ne aggiunge ancora un poco». Ecco, il “quanto basta” è lì, racchiuso in quel ripensamento senza nemmeno assaggiare la pietanza. Per aiutare qualcuno, anche solo per poterci provare, il “quanto basta” è essenziale. Lo sanno i massaggiatori che in quei metri sono l’anima di scorta di ogni atleta. Lo sanno perché sanno il momento in cui porgere la mano. I momenti sono la questione fondamentale. Per aiutare qualcuno devi avere cura dei suoi momenti, tralasciando parzialmente i tuoi. Vuol dire lasciare che non parli, perché non c’è più fiato, lasciare che non ti guardi nemmeno negli occhi perché arrabbiato o deluso, e restare incollato alla sua ruota anche se non smette di pedalare e fugge via, significa farlo perché sai che di te lui ha bisogno. Che se non sei dove ti vuole il bisogno, per lui sarà tutto più difficile e anche per te perché tu, in quel momento, potevi. Lui no, tu sì.
Comprendere vuol dire questo. Vuol dire che certe cose non sono sempre possibili o almeno non lo sono per tutti. Non significa pesare su una bilancia ma raccogliere da un mestolo. La bilancia segna una quantità, il mestolo raccoglie tutto ciò che può e anche di più. A rischio di traboccare. Ma ecco il segreto: ci sono occasioni in cui il nostro traboccare è un rischio percorribile. Il traboccare di altri un azzardo. Per stare in quei metri, questo devi saperlo. Devi sapere che è tutta adrenalina e che le emozioni incontrollate non guardano in faccia a chi prova a curarle. Non importa, tu ci sei per quello. Tu fai la tua valigia per quello. Per passare la borraccia giusta nel giusto istante. Giusta perché né troppo piena, né troppo vuota, giusta perché con zuccheri o sali minerali, giusta perché né troppo fredda, né troppo calda. Soprattutto giusta perché al servizio della necessità e del ”tuo bene”. Già, perché talvolta la necessità è il tuo bene e talvolta il tuo bene è la necessità. Non è la stessa cosa, no. Pensateci.
Lì dove slacciare un caschetto è un inno alla delicatezza, lì dove appoggiare un borsone a terra per far distendere un ragazzo sfinito è questione di attenzione, lì dove sai che, certe volte, non serve parlare, che non serve toccare, basta esserci. Perché il bisogno non ha per forza la necessità di essere spiegato ma ha la necessità di essere capito. Perché il bisogno non ha bisogno di parole ma di attenzione. E non hanno senso i “potevi dirmelo” ma solo i “potevi capirlo”.

Foto: Eloise Mavian


Di Adriano Malori o del giorno in cui ti portano via

«Durante la mia riabilitazione ho visto bambini lottare per alzare un braccio e lo facevano da quando erano nati. Ecco, cose di questo tipo ti aprono gli occhi». Era passato poco più di un anno dal 22 gennaio 2016, quando Adriano Malori raccontò così a “La Gazzetta dello Sport”. Era passato poco più di un anno da quel messaggio: «La caduta è grave, Adriano Malori è grave».

Uno dei tanti messaggi scambiati in una serata di lavoro mentre qui era ancora inverno e, a dodicimila chilometri di distanza, in Argentina, al Tour de San Juan, c’era un sole che spaccava le pietre. Ma questo non importa. Non sarebbe cambiato nulla, del resto cosa importano le stagioni quando ti portano via? È sempre un brutto giorno per andare via. È sempre inverno quando ti portano via. Ancora peggio quando quel giorno d’estate era proprio quello in cui volevi partire, volevi andare lontano, molto lontano e avevi già preparato tutto. Eri andato a parlare con Francisco Ventoso e glielo avevi detto. Gli avevi detto che quel finale ti piaceva, che avresti provato a sparigliare le carte. Chissà, magari, presagisci lo strappo, qualche volta. Forse ti senti solo più strano, più triste o più felice, eppure dovrebbe essere un giorno qualunque. Forse, quella voglia di fuggire è desiderio di restare. Di essere qualche metro più in là. Spasmo inquieto come è inquieto il giorno in cui ti portano via.

Adriano Malori era in testa al gruppo quel giorno, quell’ora, quel minuto, quel secondo. Lui che forse in qualche modo crede nel destino ma non lo sopporta: «Non ho mai accettato l’idea che sia il destino a sorprenderci e a decidere per noi. No, non è possibile». Era in testa al gruppo e tirava come sa tirare il gruppo uno specialista contro il tempo. Chiedetelo a uno scalatore che per tenergli la ruota deve masticare vento e acido lattico. Ve lo racconterà lui come ci si sente lì dietro. Cade, Malori. Cade e cade dalla testa del gruppo, quando la velocità è vettore innescato, moto di reazione che trascina tutto ciò che prima spingeva. Cade Malori e cade buona parte del gruppo. Le biciclette si agganciano e si abbattono come pedine del domino. Qualcuno scriveva che un ciclista sa bene che la morte può capitare ma non ci pensa. Corre come se quel rischio non ci fosse. Sono degli illusionisti i ciclisti, degli illusionisti che si illudono di credere alla loro illusione. Per questo si rialzano subito tutti e sembrano dare per scontato che così debba sempre accadere. Quel giorno no, quel giorno Malori non si rialza, è immobile, non reagisce agli stimoli. È il giorno in cui ti portano via.

L’afa di Buenos Aires è soffocante quanto la sensazione di non avere via d’uscita. Malori è in uno stato di coma indotto, per salvaguardarne le funzioni vitali, si sa poco delle sue condizioni di salute. Il danno neurologico sembra grave ma non c’è nulla di certo. Alla famiglia si parla di prognosi in queste situazioni: un modo come un altro per dire che tutto, persino la migliore scienza, è al servizio del tempo e non si ammettono deroghe. Poi c’è il risveglio, c’è il momento in cui sai di essere ancora tu, in cui capisci di esserci ancora. Adriano Malori fatica a trovare la coordinazione per parlare ma qualcosa riesce a dire. Per gli altri è un sospiro di sollievo, per gli altri è la consapevolezza che non sei andato via del tutto e il resto lo si può affrontare. Lo sconforto arriva dopo, quando il sollievo lascia spazio alle parole dei medici, alla realtà, ed essere qui non basta più. C’è il classico odore di disinfettanti degli ospedali, a Pamplona. C’è quando Malori si arrabbia con quel diavolo di destino e gli dice che non c’è, che non esiste, che lui tornerà in sella alla sua bici. Ci sono i camici bianchi dei medici, costretti a rimangiarsi tante parole. Se non vai troppo via, se non ti portano troppo lontano, puoi tornare. Puoi tornare a decidere tu dove andare.

Adriano Malori sorprende tutti per la velocità con cui torna in corsa. Non va piano, tutt’altro. Ma ognuno è abituato ad una propria velocità, ognuno ha inciso nelle proprie viscere il ricordo di ciò che gli è stato consegnato e di ciò che si è preso anche quando faceva talmente male che avrebbe voluto lasciare. Adriano Malori se ne accorge. Non è più lo stesso, non è più la stessa cosa. La sua rivincita è stata tornare, non accettare nulla di tutto ciò che gli veniva detto. Ora è diverso, ora deve dirsi la verità. I giorni in cui ci portano via ma restiamo qui, sono i giorni in cui cambia tutto. I giorni in cui non ti arrabbi più per un meccanico che ti ha messo la sella quei cinque millimetri troppo in alto.

Sono i giorni in cui immagini come avrebbe potuto essere non poter più cogliere una rosa e regalarla a qualcuno, salire in bicicletta e stupirti perché quella casa aveva un colore diverso una settimana prima. Malori lo annuncia in una conferenza stampa affollata il 10 luglio del 2017: non sarà più un ciclista, intraprenderà una nuova carriera come preparatore atletico e pedalerà per guardare quanto può essere bella la strada davanti agli occhi. Ha smascherato il destino, lo ha sorpreso, ha deciso che solo lui avrebbe potuto scegliere dove andare e come farlo. Perché poi non è importante nemmeno stabilire se il destino esista oppure no. Per essere uomini o donne non c’è altra possibilità che avere coraggio. Ed essere umani è, prima di tutto, una scelta di coraggio. Anche nel giorno in cui ti portano via.

Foto: KT/BettiniPhoto©2017