Ernesto Colnago, un uomo alvento

Marco Pastonesi è seduto da un lato della scrivania, dall’altro, Ernesto Colnago racconta. Pastonesi lo fissa e in alcuni passaggi, quelli maggiormente tecnici, resta perplesso, con gli occhi persi, non capendo fino in fondo il significato di alcune parti del racconto. Ernesto Colnago se ne accorge. «Ha iniziato ad estrarre dei tubi da sotto la scrivania – racconta Pastonesi – e, tirandoli fuori, li accarezzava, li ruotava per aria e me li mostrava. Ad un certo punto si è alzato in piedi e ne ha fatto cadere uno, poi un altro e un altro ancora. “Senti? Senti il suono? Ogni tubo ha un suono diverso”. C’è un fuoco in quest’uomo. Qualcosa che arde e non brucia. Una passione ed è bello vedere la passione che si espande».

Ernesto Colnago. Il maestro e la bicicletta. Conversazione con Marco Pastonesi – edito da 66th and 2nd

Marco Pastonesi racconta così alcuni dei momenti della scrittura de “Il Maestro e la bicicletta”, il suo nuovo libro, edito da 66th and 2nd. «Cambiago somiglia a Cremona nel racconto di Colnago. Quei tubi somigliano a dei violini. Da una parte Stradivari, dall’altra Colnago». Marco Pastonesi racconta di aver conosciuto Ernesto Colnago passo dopo passo, dagli anni Ottanta in avanti: il primo incontro, in conferenza stampa ai tempi de “L’Unità”, Colnago non lo ricorda neppure più. Poi ancora parole su carta, da “la Repubblica” a “La Gazzetta dello Sport”, lungo un mosaico che ricostruisce tutti i pezzi del puzzle di un uomo che ha vissuto buona parte del Novecento. Si tratta di un racconto in prima persona, un racconto intimo, sentimentale. Qualcosa che avrebbe potuto benissimo svolgersi su una sedia a dondolo, davanti a un caminetto. Invece si è snodato nell’ufficio di Ernesto Colnago, in fabbrica. «Il suo ufficio è al primo piano. C’è una finestra che si affaccia sulla casa e una porta sempre aperta. Colnago è un uomo che non si ferma mai perché, come dice lui, “al ghe semper un quai cos da fa”. Spesso si alza dalla sedia e va verso la seconda finestra, quella affacciata sul magazzino, per controllare come procede il lavoro. Di notte, mi ha confidato che tiene accanto al letto un foglio e una penna: ci sono delle idee che arrivano nei sogni. Lui si sveglia, le appunta e torna a dormire».

Per Pastonesi, Ernesto Colnago è un genio come lo sono stati Leonardo, Raffaello e Michelangelo, seppur in campi diversi. Un uomo che, dopo la quinta elementare, ha frequentato le scuole serali, alla maniera dei poveri, degli umili che, però, volevano studiare. Un uomo che da ragazzo, a soli tredici anni, ha falsificato la carta di identità per poter lavorare in fabbrica: una fabbrica di biciclette collegata a una squadra di biciclette, i cui corridori venivano chiamati “garibaldini” perché sempre all’attacco. E Colnago, che in quei giorni si innamorò della bicicletta, è, nel suo settore, un uomo in fuga, davanti al gruppo, un uomo alvento, diremmo noi della redazione.

 

Ernesto Colnago, Tadej Pogačar e tanto giallo in omaggio al vincitore del Tour 2020. Foto: per gentile concessione di Marco Pastonesi

«Colnago è uomo timido, a tratti. Però è anche deciso, estremamente deciso. Accentratore. Un uomo che si fida poco, che ha bisogno di conoscere per fidarsi. Ma è anche un uomo sincero e, questo è importante, generoso, in tutti i sensi. Ti concede il suo tempo e, quando apre il rubinetto dei ricordi, non lo fermi più. Perché Ernesto Colnago è uomo di sentimenti, un tenero». Pastonesi spiega che, quando invita i ciclisti in fabbrica, Colnago vuole che arrivino accompagnati dai genitori: in fabbrica viene così portato quel senso di famiglia che è alla base dell’idea di lavoro dell’ottantottenne milanese, che considera il ciclismo come una famiglia e tutti gli atleti come figli. Saronni potrebbe essere il preferito, invece no. Questo libro è un’esplorazione che, se parte dalla bicicletta, si infila con discrezione e delicatezza in ogni piega dell’uomo Colnago: «Ernesto mi ha concesso il privilegio di dargli del tu. Mi ha anche invitato a pranzo una volta. Un pasto semplice, quasi affettuoso direi. Per me è stato un onore. Lui parla molto in milanese, nel libro alcune frasi le ho lasciate in dialetto, altre ho provato a tradurle. Come ho provato a tradurre alcuni gesti. Per esempio, al termine di quel pranzo, quando mi ha accompagnato in una cantina. Una cantina come quelle dei vini o dei salumi. Una cantina con una temperatura specifica e con accortezze varie. Mi ha mostrato tutti i tubi che tiene lì. Io gli ho detto: “Si potrebbe fare una mostra al museo della Scienza e della Tecnica con questi tubi”. E lui, in milanese. “Minga mal”. Ha detto sì e ci stiamo pensando».

La notte tra il 19 e il 20 settembre Ernesto Colnago è in azienda a controllare il gioiellino in omaggio a Tadej Pogačar. (Foto: Alvento.cc)

Ernesto Colnago è uomo che stacca poco dal suo lavoro: «Un imprenditore vero, uno di quelli che si alzano alle cinque del mattino per iniziare a lavorare. Può telefonarti alle sei del mattino, perché per lui è già pieno giorno. Progetta continuamente: la prima volta che ha incontrato Enzo Ferrari, altro genio nella semplicità, per parlare degli studi sul carbonio, era a tavola. Ad essere stati presenti li avresti visti spostare posate, forchette e cucchiai, come fossero tubi, per capirci di più. Lui dice: “L’è minga colpa mia. Suun faa inscì”. Non solo, Ernesto Colnago è anche un istintivo».

Marco Pastonesi se n’è accorto al termine della scrittura del libro, quando si trattava di scrivere la prefazione: «Ho avuto l’onore di telefonare al manager Vittorio Colao. Mi ha risposto entusiasta, ha scritto tutto in un paio di giorni. Era felice. Poi si trattava di pensare a un corridore e Colnago avrebbe potuto tranquillamente pensare a uno fra i “suoi corridori”. Ha pensato a Fabian Cancellara, ragazzo di cui ha conosciuto la famiglia ed i genitori di origini lucane. Ha pensato a lui perché ha creduto fosse giusto, perché terzo, perché estraneo rispetto alle parti. Non molti avrebbero fatto così».

Marco Pastonesi in sella a una… Colnago. (Foto: per gentile concessione di Marco Pastonesi)

Colnago è nato il 9 febbraio del 1932 ma, e Pastonesi questo lo spiega bene, è sempre al passo con i tempi. «Oggi mi ha mandato un messaggio, cose tecnologiche. Io non le capisco, lui sì. Pensate che ha una sua pagina Instagram e la gestisce da solo, anche con ottimi risultati». L’altra caratteristica dell’uomo Colnago è il perfezionismo: «Al termine della scrittura, gli ho passato il testo da leggere e rivedere. Quando si lavora con le parole serve attenzione perché anche un solo aggettivo può cambiare significato di ciò che si vuole dire. Lui è intervenuto moltissimo su questo testo. Non solo sulle parti tecniche, dove mi ha proprio segnato con una matita blu interi passaggi, è intervenuto anche su singole parole e su alcune definizioni. Mi correggeva e poi mi spiegava il motivo, spesso era per il timore di apparire superbo». Anche sul titolo Ernesto Colnago non era pienamente d’accordo. «Il titolo ha origini letterarie che partono da “Il maestro e Margherita” di Bulgakov. All’inizio non voleva proprio saperne: una bocciatura netta, senza se e senza ma. Ne abbiamo parlato tanto e alla fine l’ho convinto, spiegando che anche la casa editrice lo apprezzava. Ma non è finita qui. In una delle ultime riletture ha notato che “maestro” era scritto con la lettera maiuscola. Mi ha telefonato: “Perché maestro con la maiuscola? Si tratta di un refuso. Semmai possiamo scrivere bicicletta con la lettera maiuscola, non maestro”. Ho provato a spiegargli ma non riuscivamo a uscirne. Lo vedeva come un simbolo di superbia e non lo accettava. Alla fine gli ho solo detto: “Ernesto, fidati. Per una volta fidati di me”. Gli ho chiesto la fiducia e lui ha acconsentito. Si è fidato».

Foto in evidenza: per gentile concessione di Marco Pastonesi


Giacomo Nizzolo: «Quando sei lì a giocartela»

Qualcosa, per Giacomo Nizzolo, è cambiato questo inverno, dopo quattro anni da dimenticare: «Durante l’inverno non ho avuto infortuni o problematiche fisiche, così ho potuto allenarmi meglio. Capivo che le sensazioni in allenamento erano buone. Era come se qualcosa in me si fosse ricostruito. Quella sensazione stava finalmente tornando». La sensazione di cui parla Nizzolo ha a che vedere con la possibilità, con la coscienza del possibile: «La maglia di campione italiano, il tricolore, è un simbolo molto importante. Ma in quei giorni, quelli difficili, la mancanza più forte riguardava qualcosa che nei giorni migliori sento dentro di me. Si tratta della sensazione di continuità, della percezione imminente della possibilità di essere lì davanti a giocarti la vittoria. Qualcosa che senti dentro anche quando ti alleni, anche quando riposi. Qualcosa che mi mancava da troppo tempo». Quella percezione è parte di Giacomo Nizzolo sin da quando era ancora bambino e quando resta inespressa fa male: «Sono sempre stato molto competitivo. Ho sempre provato una sorta di attrazione per la competizione. Da ragazzino, ricordo che improvvisavo gare per le vie di casa anche con ragazzi decisamente più grandi me. Parlo di un dolore e di una gioia, profondamente intrecciati nella competizione, che mi appartengono. I miei genitori mi hanno convinto a valorizzare questo aspetto così ho provato anche altri sport ma il ciclismo è la migliore valvola di sfogo per quella voglia che porto dentro. Uno sport di squadra che, però, valorizza moltissimo il singolo». Probabilmente per questo Nizzolo dice di non essere cambiato molto rispetto a quando era ragazzo. Anzi, dice di essere rimasto praticamente lo stesso.

Nato a Milano nel 1989, Nizzolo non ha mai avuto vita facile in sella: «Ci sono stati dei momenti, quando ero dilettante, in cui, a seguito di un brutto incidente, avevo messo in dubbio l’idea di tornare. La svolta sono certo sia stata la prima vittoria da dilettante. Era già fine stagione, erano le ultime gare dell’anno. Chissà, forse non ci fosse stata quella vittoria oggi non saremmo qui a parlare. Mi ero fatto male durante l’anno ed ero tornato dopo un infortunio che mi aveva tenuto fuori gioco per parecchio tempo». Cosa accade? Accade che quando le circostanze della vita ti colpiscono, ti riaggiusti come puoi. Se non ti lasci andare, sviluppi alcuni tratti caratteriali che ti consentono di restare in piedi: «Ho dovuto diventare resiliente, l’ho dovuto fare per andare avanti. E oggi è la mia forza. Vorrei solo essere capace di staccare un poco di più. Voglio dire questo: mi godo poco anche le cose belle perché appena le ottengo sento di dover ripartire per nuovi traguardi. Sia chiaro: è giusto continuare a porsi obbiettivi, ma ogni tanto bisogna anche concentrarsi su ciò che si è fatto e rilassarsi. Non significa accontentarsi, questo è sbagliato. Significa forse aver cura di se stessi». Ed è proprio questa cura del proprio essere che deve essere compresa, che deve essere capita dagli altri: «Dopo la vittoria del campionato italiano, ho detto che, senza nulla togliere a nessuna delle persone che mi amano, quella vittoria volevo dedicarla a me stesso. Credo di essere stato frainteso, quell’affermazione da alcuni è stata giudicata un atto di egoismo. Non mi hanno capito e forse non potevano capirmi perché non mi conoscono. I miei amici hanno capito. Non tolgo nulla a chi mi vuole bene e a chi mi è accanto, ma quella vittoria è anzitutto per me. Perché solo io so cosa ho passato in questi quattro anni».

Il volto più bello della schiettezza perché, questo lo diciamo noi, talvolta è anche facile rendere giustizia ai meriti degli altri. Il difficile è riconoscere i propri ed ammetterli. Che non ha nulla a che fare con l’egoismo. Ha solo a che fare con la consapevolezza. La stagione è stata difficile, per tutti, in particolare a livello mentale, Nizzolo però, proprio in questa stagione, è tornato ad essere quello che era sempre stato e ora guarda avanti al modo di chi, non solo crede a ciò che vede ma sa di avere la possibilità di plasmarlo per viverlo meglio: «A settembre sono stato in Trentino a fare la ricognizione del prossimo campionato europeo per gli organizzatori e devo che ho trovato un percorso diverso da quello che mi ero immaginato. Un percorso frizzante, direi, che apre il varco alla possibilità di diversi colpi di mano. L’arrivo in volata sarà difficile. Bisognerà guadagnarselo». Al prossimo settembre mancano poco più di nove mesi e Giacomo Nizzolo ha ben chiaro come colorarli: «Indosso una maglia importante, quella di campione europeo, e voglio godermela. Voglio divertirmi. Sì, proprio divertirmi, è la parola giusta. Voglio vivere quest’anno con la leggerezza di chi sa che non è necessario continuare ad arrampicarsi sempre più in alto. Bisogna continuare a fare il proprio lavoro con feroce determinazione, ma prendere fiato e respirare è altrettanto importante». Nizzolo ha le idee chiare: «La forza del ciclismo è il suo pubblico. Un pubblico diverso da quello di qualunque altro sport, il pubblico delle strade. Il ciclismo è l’unico sport in cui un amatore può pedalare accanto ad un campione e, per qualche attimo, sentirsi come lui. Purtroppo il ciclismo odierno è troppo settoriale, ha un forte potenziale inespresso. Spesso è giudicato come uno sport ”vecchio”. Non è così. Assolutamente. Si tratta di uno sport che potrei definire di moda. La sfida è raccontare questo».

Raccontare il ciclismo è, in fondo, raccontare qualcosa che è alla base di tutte le nostre parole: «Vedi, la verità è che il concetto a cui si torna è sempre uno: dare il massimo. Dare tutto. Se dai tutto, puoi essere sereno. In tanti, nel periodo dei continui piazzamenti, mi hanno chiesto: “Come fai a insistere così? Come fai a non abbatterti?”. La risposta è semplice. Se hai fatto tutto il possibile, cosa puoi rimproverarti? Probabilmente in quelle condizioni doveva andare così. Certo, col senno di poi, si può dire tutto. Ma tu hai dovuto fronteggiare quella situazione e lì più di così non potevi fare. Dare tutto non è sempre garanzia di risultato ma sicuramente è garanzia di serenità. Se dai tutto, non devi esaltarti per le vittorie e crederti superiore ma, allo stesso tempo, non devi lasciarti toccare dalle critiche e dai giudizi. Tu sai ciò che hai fatto. Ti basta questo».

Foto: Claudio Bergamaschi


La seconda vita delle biciclette in una bottega di Forte dei Marmi

Quando, passeggiando per le vie di Forte dei Marmi, Luca Mazzilli vedeva queste bici, legate ai pali, magari vecchie e abbandonate, si chiedeva che storia avessero dietro. «Chissà di chi era questa bici. Chissà se è stata un regalo o magari la ricompensa dopo tanti sacrifici sul lavoro. Magari il proprietario l’ha sognata per tanto tempo. Forse era il modello che avrebbe sempre voluto e chissà cosa ha provato, quando ha potuto toccare il telaio, la sella, il manubrio». Questa primavera, durante il lockdown, Luca è tornato a riflettere su questi pensieri e si è posto altre domande: «In fondo, le cose hanno una vita come le persone. Gli oggetti hanno una loro vita, che nel tempo si riempie di aneddoti e di ricordi. Purtroppo, nella società di oggi, questa vita è stimata poco. Si gettano oggetti che potrebbero ancora fare tanto, potrebbero ancora dire tanto. Ci ho pensato e mi sono detto che sarebbe stato bello provare a regalare una seconda vita a questi oggetti. Dar loro la possibilità di tornare a vivere, magari sotto altra forma, se quella originale non era più utilizzabile».

Mazzilli racconta che, da bambino, era riuscito ad aggiustare, non si sa bene come, un paio di manette giocattolo e, dopo averlo fatto, fiero del proprio lavoro, aveva appeso fuori casa un cartello: Luca, l’aggiustarobe. Glielo fece togliere mamma, spiegandogli che non era esattamente una buona idea. Quel cartello non c’è più, o forse è ancora seppellito da qualche parte e aspetta solo di essere ritrovato, ma quell’idea è rimasta. «Ho imparato tardi ad andare in bicicletta ma ho sempre pensato che sia un mezzo stupendo. Uno di quei mezzi che ti permettono di “guardare dietro la curva”. Se c’è una cosa che mi auguro di preservare sempre è quello sguardo bambino, quello sguardo curioso che la società prova a toglierti. Sono certo che in tantissimi provano questo desiderio: affacciarsi ad una curva, in mezzo alla natura, e scoprire cosa c’è dietro. E le curve non sono solo quelle della strada. In ogni esistenza ce ne sono e sarebbe bene affacciarsi e guardare attentamente. Probabilmente, lì dietro, c’è la vita che vorremmo fare».

Deve essere stato dietro una di queste curve che Luca ha trovato il coraggio di iniziare a girare per la città, di andare dai rigattieri e nei vecchi negozi di biciclette per ritirare quelle biciclette inutilizzabili, quelle che ormai, come biciclette, nessuno guarda più. Così è nato ”Breakeless Club”. «Il fatto che non siano più funzionali come biciclette non significa che debbano essere gettate al macero. Lo stesso vale per quei pezzi di legno che si trovano in giro e che magari appartengono a vecchi oggetti di arredamento che nessuno vuole più. Ho iniziato a far visita a tutti questi negozi con l’idea che qualcosa si sarebbe ancora potuto fare». Nel giardino della casa della compagna di Luca c’è un vecchio capanno per gli attrezzi, lì dentro fa i suoi lavori il papà della ragazza. Un uomo di settantacinque anni che ha sempre seguito il ciclismo, come un vero appassionato. «D’estate vede il Tour de France e ha piacere che io lo guardi con lui. Sono sincero, non amo particolarmente il ciclismo agonistico. Ogni tanto me lo chiedo: gli atleti hanno il tempo per ascoltare il suono che proviene dai pedali quando girano? Non credo e penso sia un peccato perché è un suono che fa molto bene».

In quel capanno, Luca è arrivato per caso. «Non basta ritirare le biciclette per dare ai loro componenti una seconda vita. Per esempio, bisogna essere capaci di smontarle ed io, per quanto ci provassi, non ci sapevo molto fare. Questa esperienza mi ha fatto scoprire come, ad esempio, non esista più il ruolo del garzone di bottega. Ho chiesto a diversi negozianti di poter stare in negozio con loro, di vedere come lavoravano. Solo per imparare, senza alcun guadagno. Nessuno ha mai voluto. Un signore mi ha addirittura detto: “Perché devo insegnare a te? Mio figlio per imparare va a scuola ed io la scuola la pago”. Ed il senso di condivisione? Dove è finito? Questa gelosia delle proprie competenze non fa bene a nessuno. Anzi fa proprio male al lavoro stesso». Sta di fatto che il papà della sua compagna, spiega davvero bene e Luca, in quel locale degli attrezzi, inizia a creare, o meglio, a ri-creare. «Smonto una bici e guardo tutti i vari componenti. Li mescolo, li avvicino, li allontano. Alcuni mi suggeriscono subito un’idea, per altri serve tempo. Ma quando tutti i pezzi sono a terra, o sul tavolo, qualcosa salta sempre fuori. La creatività gira libera in quella stanza».

Luca lo ammette umilmente: «Non sempre nascono oggetti nuovi o mai pensati. La realtà già esistente è il mio continuo spunto. Così è nata la mia prima creazione, quel toro ispirato ai quadri di Picasso. In realtà la mia prima creazione in assoluto la tengo a casa ed è realizzata col manubrio di una Cinelli, la mia bicicletta preferita». Il destino delle cose belle è questo, chi riesce a vederle nella loro essenza ci crede subito e, spesso, non importa nemmeno che alla base ci sia qualcosa di comune. Spesso la vicinanza è data proprio dall’idea. E le idee, si sa, sono di tutti e di nessuno: «Mi stanno sostenendo anche un negozio di cornici, Corniciando, e un negozio di birre, Public House, oltre a Cicli Santini. Questo per dire che, di base, le persone si sentono vicine a un modello di lavoro come questo. Non lo dicono perché altrimenti vengono giudicate strane. Serve una forza non indifferente per restare così nel mondo di oggi».

Già, perché Luca Mazzilli non si ferma qui. C’è ben altro dietro la sua personale curva. «Vorrei aprire una bottega come quelle di una volta. Una di quelle con una saracinesca da abbassare alla sera e da alzare a mano al mattino. Sarebbe un cambio di vita radicale rispetto ad adesso. Non so se e quando potrò farlo ma io e la mia compagna lo vorremmo tanto. Una di quelle da raggiungere in bici o a piedi. Dopo colazione. E poi vorrei comprarmi una gravel e andare a pedalare in mezzo alla terra. Quante curve non conosco ancora?»

Foto: per gentile concessione di Luca Mazzilli


Vittoria Guazzini: «Quando mi sento fiera, mi guardo attorno»

Vittoria Guazzini parla volentieri del concetto di responsabilità. Già, perché la responsabilità è insita in ogni sequenza di azioni o di non azioni, per quanto qualche volta non siamo portati a pensarci. C’è una responsabilità nell’agire ed una responsabilità nel non agire ed ognuna di queste responsabilità influisce tanto sulla propria persona, quanto sulle persone che vengono a contatto con il flusso di queste assunzioni di responsabilità. Vittoria dice più o meno questo, declinandolo al mondo che meglio conosce: la pista. «Quando parti per una gara di una disciplina singola, sei agitata ed è normale. Però, quando si parla di discipline di gruppo, questa ansia aumenta. Certo, perché se sbagli da sola, le conseguenze ricadono solo su di te, se invece sbagli quando stai lavorando con altri, il tuo errore ricade anche su di loro che magari sono stati perfetti e non hanno sbagliato proprio nulla. Questa responsabilità si avverte. Anche perché, in pista, basta davvero poco per sbagliare, per rovinare il lavoro di mesi. Il lavoro di gruppo è anche questo: condividere una responsabilità. E per condividere delle responsabilità, senza che queste diventino un peso intollerabile, serve molto affiatamento. Quest’anno, per esempio, la frase ricorrente era “Dai noi!”. Che è come dire: “Dai che noi, proprio noi, ce la faremo”. Siamo così». Insomma, non è una cosa facile. Ma a Vittoria Guazzini, oltre al merito sportivo, va senza dubbio un altro merito: la capacità di ironizzare e di farlo su stessa. E questa è davvero una qualità importante: «I miei sogni? Sempre cose abbordabili» racconta facendosi una fragorosa risata. «Volevo fare la ciclista e diventare una campionessa oppure diventare una cantante o un’attrice famosa. Suono la chitarra dalla quinta elementare e quel mondo mi ha sempre attratto. A parte gli scherzi, il primo sogno sto provando a realizzarlo». Questa leggerezza la aiuta a prendere le cose sul serio ma a non prendersi troppo sul serio. Poi c’è l’umiltà di una ragazza che ha appena diciannove anni, ne compirà venti il 26 dicembre, ma ha già vinto moltissimo.

«Io dico sempre che, quando ci sentiamo importanti, o troppo importanti, dobbiamo provare a guardare gli altri. Mi spiego meglio: la particolarità dei velodromi è una forte condivisione. Tu sei lì e vedi tutte le altre persone che fanno il loro lavoro al tuo fianco. Dopo qualche tempo si crea una sorta di sintonia, nonostante tutti quei box separati, e forse anche l’ansia si ridimensiona. Ecco: quando sei al velodromo e senti di aver vinto tanto, devi guardare le tue colleghe che, molte volte, hanno vinto più di te. Devi guardarle, prendere coscienza del fatto che puoi ancora far meglio e ripartire. Non devi abbatterti perché non sei ancora come loro, però devi trovare la tua umiltà e tenerla stretta». Se pensa ai traguardi che vorrebbe raggiungere nei prossimi anni, dice che “le viene la pelle d’oca”: «Il nostro è uno sport dove si perde molto più spesso di quanto si vinca. Ma è anche uno sport dove si tifa per tutti. L’anno scorso, al Fiandre, mi scendevano le lacrime a vedere tutta quella gente, a sentire quelle grida. Stavo piangendo. Perché non è scontato che accada e questa esperienza, parlo della pandemia, ce lo ha ricordato. A noi ciclisti accadono cose rare. Una la vorrei per me il prossimo anno: partecipare alle Olimpiadi di Tokyo». Vittoria Guazzini ha iniziato a sei anni ad andare in bicicletta: «Da bambina mi arrabbiavo molto se perdevo. Successivamente ho imparato a lavorare su me stessa. Diciamo che sono abbastanza esuberante. Non so se mi spiego. Ho un carattere particolare. Meglio così, non ti pare?».

Sarà per quel carattere che Vittoria riesce a sorridere anche di una stagione che non era partita nel migliore dei modi: «La stagione la salvo, ma solo nella parte finale sia chiaro. Me ne sono capitate di tutti i colori: prima dei mondiali su pista, prima della pandemia, ero ammalata. Poi sono tornata ma mi sono infortunata cadendo dalle scale, proprio al velodromo. A quel punto è arrivato il Covid-19 ed è stato tutto bloccato. Poteva succedere altro? Quest’anno più che mai voglio ringraziare le mie compagne. Se ho concluso la stagione alla grande è grazie a loro». Il carattere aiuta ma ancor di più sono le esperienze a fortificarti: «Quando vinci è tutto più facile. Come fai a non essere felice quando al tuo primo mondiale stabilisci il record del mondo (a livello juniores N.d.A.) col quartetto? Il problema è quando perdi, quando le cose non vanno. O meglio: quando immagini qualcosa che poi non si verifica, sto pensando alla prova contro il tempo al mondiale di Innsbruck. Arrivai sesta, fu una brutta botta. Quello credo sia stato il momento più difficile della mia carriera. La delusione più cocente». In quelle occasioni, l’ha aiutata l’idea di quello che voleva fare, di quello che avrebbe sempre voluto fare: «Ricordo quando a Firenze, al mondiale, vidi per la prima volta Marianne Vos. Ricordo Alberto Contador, un mio modello da sempre. Un attaccante, uno coraggioso in sella. Potrei parlarti di Marta Bastianelli, di Elisa Longo Borghini. Per provare a fare qualcosa di simile a quello che hanno fatto loro, c’è una sola possibilità: il perfezionismo. Devi badare ad ogni dettaglio, anche a quello che sembra così piccolo da apparire ininfluente. Non lo è. Puoi star certo che non lo è. Devi essere attenta e lavorare su ogni aspetto per quanto possa essere complesso. Questa caratteristica mi appartiene ed è quella che mi ha fatto raggiungere i traguardi di cui parliamo».

C’è anche una vena ottimista nelle parole di Vittoria. In fondo, è vero: è giusto continuare a cercare il miglioramento, doveroso diremmo, però è anche giusto notare ciò che già è migliorato e sottolinearlo. Altrimenti trascorreremmo il tempo inseguendo sempre qualcosa di nuovo o di migliore, senza accorgerci di quello che già c’è: «Il ciclismo femminile non ha una condizione paragonabile al ciclismo maschile. Questo vale per tutti gli sport. Io credo che sia necessario proseguire con il lavoro che si sta facendo, avendo la consapevolezza dei grossi passi avanti compiuti dal nostro mondo negli ultimi anni». La stessa consapevolezza risiede nella graduale crescita di Vittoria Guazzini, come ciclista e come donna: «Davide Arzeni è certamente un punto di riferimento per il modo in cui lavora e per la tranquillità che riesce a darmi. Alcuni giorni proprio non vanno ed avere vicino una persona che riesce a capirti ed affiancarti è davvero importantissimo. Il resto, fra le cose che mi lascia il ciclismo, sono piccoli gesti, piccoli insegnamenti. Sarebbe davvero difficile farne un elenco o raccontarle tutte. Però sono tante cose preziose, di quelle che ti fanno amare ancor di più ciò che fai».

Foto: per gentile concessione di Vittoria Guazzini


Sonny Colbrelli: «Di ritorno dal lavoro, a tavola con papà»

A Sonny Colbrelli non è mai piaciuto studiare. Lo ammette candidamente, sorridendo e ripensando ai momenti fra i banchi. Non gli piaceva studiare, sì, ma la determinazione e la voglia di fare non gli sono mai mancate, sin da ragazzo: «I miei genitori mi hanno sempre detto che avrei dovuto darmi da fare: non potevo stare a far nulla o a rigirarmi i pollici. Se non volevo proseguire la scuola, dovevo iniziare a lavorare. Probabilmente questa cosa ha sempre fatto parte di me, l’ho assimilata: in estate, da ragazzino, andavo ad aiutare mio papà al lavoro. Al mattino stavo con lui, mi piaceva. Difficilmente mi avresti visto a perdere tempo». La bicicletta arriva per caso e, questa volta, parliamo proprio del mezzo meccanico, non del ciclismo come sport: «Era una bicicletta comprata con la raccolta punti della spesa. Non immaginarti chissà cosa. Del resto, sino a quel momento, avevo giocato a calcio e sciato: sciare mi piaceva ed ero anche abbastanza bravo. Nel tempo libero andavo a pesca». Succede che in provincia di Brescia c’è una gara di mountain bike, una gara di paese, nulla di che, e Colbrelli partecipa. Nessuno se lo aspetta e forse nessuno attribuisce un gran significato alla cosa, ma Colbrelli vince. Il primo incredulo, a ripensarci, è proprio lui: «Era una boutade. Un gioco nato per caso e che pensavo finisse nel giro di qualche domenica. Da ragazzino ero davvero goloso, avevo diversi chili di troppo, ero ”tozzo” a livello di corporatura. Non si era mai visto un ciclista così». La domenica dopo torna e fa bene in una gara dalle condizioni atmosferiche decisamente avverse: «Pensa che stavano per sospenderla per brutto tempo». In televisione guarda le imprese di Marco Pantani e qualcosa gli frulla per la testa: «Perché non provare a correre su strada?». La prima gara su strada è una cronoscalata, con la maglia della squadra della famiglia Frapporti: «Sì, tecnicamente era una cronoscalata. In realtà si trattava di un tracciato di un chilometro, tutto all’insù. Niente di particolare ma, tra il serio e il faceto, ho vinto anche lì».


Il ragazzo cresce, il ciclismo gli piace, ma la famiglia Colbrelli è una famiglia dai principi sani e radicati. Così lo sport è un divertimento però bisogna andare a lavorare: «Ho iniziato a lavorare in fabbrica. Facevo la mattina, dalle sei a mezzogiorno. Portavo a casa qualche soldino ed ero anche contento». Certo ma quella bicicletta prende sempre un poco di spazio in più e Sonny continua a pensarci. Fino a quando, un mezzogiorno, torna a casa dal lavoro e si siede a tavola con papà: «Avevo in mano entrambe le divise: quella del lavoro e quella della squadra di ciclismo. Guardai mio padre e gli dissi: “Quale scegli? Se scegli questa, vado a lavorare, altrimenti provo a fare lo sportivo“». Vedendo come sono andate le cose, la scelta di papà Colbrelli è abbastanza chiara: «Ma sai, tutti i genitori desiderano il bene dei loro figli ed io ero felice di correre in bicicletta. Poi papà e mammà sognano sempre in grande e ti immaginano campione. Certe volte restano sogni, non siamo tutti campioni. Il problema non è quello. Il fatto importante è mantenere i piedi ben saldi a terra. Restare quello che si è e valutarsi realisticamente». In fondo, è questo il consiglio di Colbrelli per i giovani, per chi inizia oggi: «Ho il timore che in certi casi si esageri. Tanto con le pressioni, quanto con le aspettative. I conti, però, nella vita si fanno sempre alla fine e se ti “bruci” troppo da giovane, rischi di buttare tutto all’aria». La storia di Sonny Colbrelli, invece, è una di quelle storie in cui nessun filo della trama manca. Una storia cresciuta con la pazienza del domani: «Sono contento di essere passato professionista con la famiglia Bardiani. Forse avrei anche potuto approdare un anno prima nel World-Tour, ma va bene così. Loro mi hanno dato il tempo di crescere serenamente. Mi hanno lasciato andare quando hanno capito che ero pronto per prendere la mia strada. Non tutte le squadre World-Tour hanno questo approccio con i giovani, per questo credo sia un bene che i giovani inizino dai nostri team Professional. In Bahrain mi sono trovato bene sin dall’inizio e, ora che sono quasi cinque anni che sono qui, devo dire che c’è una condivisione totale. Loro hanno capito qual è il mio spazio ed io, per contro, sono contento del programma che la squadra ha. Vivo con entusiasmo i nostri traguardi». La maturità di Colbrelli risulta ancor più evidente quando il discorso prende una piega personale: «Non è che ci siano momenti difficili particolari, localizzabili in questo o in un altro anno. Ogni anno ha dei momenti difficili, questo vale per tutti. Non è importante che i momenti difficili non ci siano, è importante capire come fare per superarli. Capire come affrontarli per continuare la tua strada. Per ripartire. Le difficoltà sono naturali».

Tra le vittorie che ricorda con maggior piacere, c’è il primo successo da professionista perché «lì ho capito chi ero e che qualcosa di buono potevo fare», e ci sono le vittorie alla Parigi-Nizza e al Giro di Svizzera. «Ogni successo è un passo in più verso la consapevolezza. Per esempio, capisci che tipo di atleta sei. Io non sono un velocista puro, se faccio una volata con velocisti puri, arrivo sesto, settimo, quarto, se va bene. L’ho capito gareggiando, provando e riprovando. Che poi è l’unico modo per capire». Il suo sogno è la vittoria di una classica, l’ideale sarebbe il Giro delle Fiandre. Forse proprio per questo ha sempre avuto ammirazione per Tom Boonen. Adesso che ha due figli piccoli, vede il ciclismo in maniera diversa e ammette che partire gli spiace: «La mia compagna mi sostiene molto e questa è una grossa fortuna. Noi ciclisti facciamo una vita nomade e tante cose sono più difficili. I miei figli sono ancora piccoli ma iniziano a capire. Chiedono: “Dove vai papà? Dov’è papà?”. Spiace. Io gli dico di guardare la televisione che papà possono vederlo lì. E spero la guardino quando sono in testa al gruppo. Tra l’altro, sono abbastanza paranoico e mi preoccupo molto, anche per piccole cose. Quando sento più la nostalgia di casa, mi ripeto che, in fondo, lo sto facendo anche per loro. Per il nostro futuro che in realtà è il loro futuro».
Tra tutti i fatti che la memoria conserva, uno Sonny Colbrelli non riesce proprio dimenticarlo e, forse, è un bene: «Quando da allievo sono passato juniores, a casa mia sono venuti i rappresentanti di tante squadre. Come era giusto che fosse: è sempre un bene ascoltare tutti. Erano interessati a me. Ci hanno offerto cifre davvero significative, cifre che certe volte fatichi a mettere insieme anche nei primi anni da professionista. Da giovane l’idea di guadagnare qualcosa ti attrae anche, fai tanti progetti e quei soldi potrebbero servirti. I miei genitori, invece, mi hanno sempre tenuto con i piedi per terra: l’importante era crescere, migliorare, e nessun ambiente sarebbe stato meglio della squadra in cui correvo, con la famiglia Frapporti. Ho continuato la mia strada, a zero euro, e oggi devo ringraziarli perché, in quello che sono, quella scelta ha pesato molto. In positivo. Tanti altri ragazzi, sicuramente più bravi di me, hanno fatto considerazioni diverse all’epoca ma oggi, purtroppo, non sono più ciclisti». Perché Sonny Colbrelli è questo: un padre, un uomo, un ciclista ma, prima di tutto, un ragazzo con i piedi per terra. E questa sarà sempre la sua salvezza.

Crediti foto: Claudio Bergamaschi


Omar El Gouzi: essere professionista per sempre

Omar El Gouzi ricorda molto bene un pomeriggio di quando era bambino: «C’erano i miei amici fuori in cortile a giocare e io sarei dovuto andare ad allenarmi. Non volevo andarci, mia mamma mi guardò e mi disse: “Omar, hai fatto tu questa scelta. Se vuoi portarla avanti devi allenarti, altrimenti puoi anche smettere di andare in bicicletta”. Mi misi a piangere ma quella lezione mi servì». La sua passione per il ciclismo, in fondo, nacque proprio lì, nel cortile di quel condominio dove Omar abita. «Qui abitavano anche un allenatore di ciclismo e un ragazzo che stava iniziando a praticare ciclismo. Vedendoli ho pensato che avrei voluto fare la stessa cosa. Sono andato da papà e: “Papà, voglio correre in bicicletta”». Un anno dopo, sono proprio mamma e papà ad accompagnarlo da quell’allenatore che gli consegna la sua prima bicicletta, gialla. Omar, oggi, guarda il vialetto di quel condominio e torna indietro di diversi anni con la mente. «Facevo avanti e indietro in quel vialetto con la bicicletta ma non riuscivo a fare la manovra per girarmi comodamente, così piangevo». Lì con lui c’era papà ed è proprio ai suoi genitori che Omar El Gouzi sente di dover dire qualcosa. «Non so cosa ci sarà nel mio futuro ciclistico. Certo, sogno di firmare un contratto per una squadra professionistica e di fare un bel percorso. Sì, non voglio passare fra i professionisti solo per il gusto di potermi chiamare “professionista”. Voglio diventare professionista e restarci per molti anni per rendere onore al fatto di essere diventato professionista. Una cosa però la desidero più di tutte le altre: ricambiare ciò che i miei genitori hanno fatto per me. Ci sono sempre stati e ci sono sempre, nonostante tutto».

Foto per gentile concessione di Omar El Gouzi

Il suo soprannome in gruppo è Cacaito come Cacaito Rodriguez, il ciclista colombiano in attività negli anni novanta: «Mi chiamano così perché tanto vado forte in salita quanto fatico in discesa. Ad essere sincero adesso meno, la discesa è questione di allenamento come tutte le pratiche del ciclismo, ma quel soprannome viene da qualche anno fa. Eravamo a Trento ed in discesa continuavo a tirare i freni per paura di cadere». Omar è italo-marocchino, entrambi i suoi genitori sono nativi marocchini, lui è nato a Peschiera ed in Marocco non torna dal 2013: «Voglio molto bene all’Italia. In Marocco, però, c’è qualcosa di diverso: parlo di accoglienza, di calore umano. C’è tanta gente per le strade, c’è tanta felicità. Noi probabilmente siamo un po’ più freddi di carattere». C’è una fierezza particolare nella sua prima maglia azzurra, ottenuta con Rino De Candido dopo il Giro del Friuli di qualche anno fa, e le sue origini fanno parte di questo orgoglio. «Arrivavamo sullo Zoncolan, pensa che a inizio salita ero caduto. Sono riuscito a recuperare e ad arrivare quarto. De Candido mi ha notato e mi ha chiamato. Con la maglia azzurra addosso ho corso la mia prima gara fuori dall’Italia, un trofeo in Germania. Un italo-marocchino in maglia azzurra: non è una cosa che succede tutti i giorni e forse per questo è stato ancora più bello». Le sue giornate più belle hanno sempre un legame con una terra, con delle persone o con qualcosa di inaspettato che si è provato a fare. «Ricordo ancora quando vinsi a Montecchio il campionato provinciale con la maglia dell’Ausonia. Io non attacco molto spesso, quel giorno però sentivo che fosse giusto scattare. Recuperai il terzetto in testa e vinsi. Magnifico. Una cosa molto bella, secondo me, è che nel ciclismo non è detto si debba vincere per avere un bel ricordo, per essere felici. Guarda il Palio del Recioto, per esempio. Sono arrivato tredicesimo ma me lo ricordo come fosse adesso. Tutta la gente che ti guarda, che ti applaude, che grida il tuo nome. Tutti che ti conoscono. La tua famiglia. La tua terra. Correre a casa propria ha un sapore diverso, c’è poco da fare».

Foto per gentile concessione di Omar El Gouzi

Quest’anno, Omar El Gouzi ha corso per la Iseo, un ambiente che lo completa: «Ho due direttori sportivi, Mario Chiesa e Daniele Calosso. Hanno due caratteri diversi: il primo è più tranquillo, più pacato se vuoi. Mario è un uomo di grande esperienza: ha corso fra i professionisti e successivamente è stato team manager di realtà molto importanti. Daniele, invece, lavora di grinta, di rabbia, la rabbia buona che ti spinge a fare bene, a fare meglio. Alla base dei miei risultati ci sono questi due modi di insegnare che si combinano e mi danno tanta tranquillità ma anche tanta voglia di fare». Il suo mentore, in realtà, non è un ciclista ma un ex calciatore del Chievo Verona. «Si tratta di Federico Cossato. Ci siamo incontrati per caso mentre facevo delle ripetute su una salita. Mi ha guardato ammirato, stupito. Abbiamo iniziato a parlare e ci sentiamo molto spesso. Il nostro è un dialogo costruttivo: parliamo di lavoro e di traguardi. Federico mi ha sempre detto che senza duro lavoro, senza sacrifici, non esistono sogni realizzabili. Ed è vero. Se non si lavora duramente, la situazione è veramente difficile».

Crediti foto: Claudio Bergamaschi

Omar El Gouzi è un ragazzo alla mano, lo dice lui stesso. «Mi piacciono le cose semplici e mi piace conoscere le persone, parlarci, capirle, ascoltarle. Ho solo bisogno di tempo per conoscere e per aprirmi a mia volta. Tendo ad essere abbastanza riservato. Tempo fa ero meno sicuro di me e magari rinunciavo più facilmente a ciò che volevo. Adesso no, col ciclismo ho imparato e se voglio una cosa la ottengo». Quel ciclismo che per Omar è ben più di uno sport. «Di fatto è uno stile di vita. Devi semplicemente abituarti al fatto che se vuoi ottenere qualcosa devi darti da fare. Che ci saranno giorni in cui non avrai voglia ma dovrai insistere lo stesso. Che ci saranno giorni che ti faranno male e sarà proprio lì la prova del nove. Se resisterai lì saprai che nessuno potrà più fermarti. Quando lo capisci, lo accetti. Anzi, lo vivi proprio con serenità. Sai che è una realtà che riguarda tutti. Sai che devi assumerti la responsabilità di ciò che hai scelto e lottare per tenerlo stretto. Come mi disse mia mamma quel giorno: “Se non ti alleni, forse, ti conviene smettere”».

Mamma e papà, stasera, Omar li vuole immaginare nel giorno in cui passerà professionista. Li vuole immaginare nell’esatto momento in cui comunicherà loro questa notizia: «Li vedo lì, mentre mi guardano. Con gli occhi lucidi, commossi. Mi stringeranno forte, sarò felicissimo. Saremo felicissimi. E so già che mi commuoverò anche io. Anzi. Sono già commosso, a dirti la verità».

Crediti foto in evidenza: Claudio Bergamaschi


Una lezione di cross da Daniele Fiorin

Se vi capitasse di osservare Daniele Fiorin al lavoro, durante qualche gara di ciclocross, siamo sicuri che anche voi, come noi, rimarreste colpiti dal senso di ”cura” messo in campo da quest’uomo nei confronti dei suoi ragazzi. Daniele Fiorin è una guida, questo è importante sottolinearlo: «Cerco di trasmettere la mia esperienza in tema di interpretazione del percorso. Nel giusto o nell’errore, ci mancherebbe, non ho la presunzione di non sbagliare mai. Anzi, lo dico sinceramente: alcuni fra i miei ragazzi sono anche più bravi di me e possono permettersi di adottare soluzioni diverse da quelle che suggerisco. Io ho il dovere di indicare una o più chiavi di lettura del percorso. Può capitare che la traiettoria migliore sia adottata da qualcun altro, allora il ragazzo deve avere l’alternativa: il mio dovere è indicare le possibilità e le alternative». Daniele Fiorin monta in sella a una bici, si sposta da un lato all’altro del tracciato e con le mani indica ogni singolo ostacolo, suggerisce la strada da prendere, quando stare in sella e quando scendere e prendere la bicicletta in spalla. «I miei ragazzi hanno diverse età: l’impostazione cambia ma neanche troppo. Da giovanissimi è un gioco, successivamente subentra qualcosa di più tecnico. A me è sempre piaciuto lavorare sulle abilità motorie, mi sono focalizzato sul ciclocross e sulla multidisciplina quando ho visto che con il passaggio agli esordienti questi aspetti mancavano. Pensare che da ragazzo davo del ”pazzo” a chi praticava ciclocross d’inverno, li consideravo stacanovisti che non riposavano mai. In realtà, fatto nei dovuti modi e con i dovuti tempi di recupero, è un grosso aiuto sia dal punto di vista tecnico che condizionale».

(Crediti: Fabiano Ghilardi)

La parola chiave Fiorin l’ha già usata, è “gioco”: «L’ho capito studiando all’ISEF. La vecchia concezione prevedeva che il ciclista potesse fare solo ciclismo: io, per esempio, ho imparato a nuotare a diciotto anni, non avevo quasi mai toccato una palla, ho imparato le basi del salto in alto e del salto in lungo. Tutto in un’estate, per l’esame di ammissione. Mi sono sempre detto che i miei ragazzi non avrebbero mai dovuto arrivare a quel punto: va bene l’impegno nel ciclismo ma deve essere affiancato dal divertimento e da altre esperienze sportive». Il cambiamento di approccio che Fiorin ha adottato in questi anni, coincide con un personale cambiamento: i primi allenamenti dei ragazzi venivano svolti durante la fase di defaticamento dei propri allenamenti. Parliamo infatti del periodo in cui anche lo stesso Fiorin correva. Successivamente una sorta di squarcio del cielo pirandelliano: lo studio lo porta a capire ciò che veramente è essenziale dare a questi ragazzi e a queste ragazze: «Come nelle gare si indicano le alternative alla traiettoria designata, così nel percorso di crescita bisogna fare in modo che sia sempre presente la possibilità di scelta. Proprio provando e scegliendo, sono nate atlete come Alice Maria Arzuffi e Maria Giulia Confalonieri. L’una specializzatasi nel cross, l’altra nella pista. Entrambe discipline che da noi vengono considerate assolutamente in subordine rispetto alla strada». Qui si tocca la radice del problema: «Si tratta di un fattore storico e di mentalità. Il primo dipende dal fatto che la nostra nazione ha sempre privilegiato il ciclismo su strada. Gli anglosassoni, pur arrivati dopo, ci hanno surclassato in quanto in grado di sperimentare ed innovare. A noi manca questa capacità. Il secondo è anche un problema dei tecnici: è più semplice insegnare quello che già sai. Per insegnare qualcosa di nuovo è necessario mettersi in gioco e magari imparare i fondamentali della pista già in età adulta. Io, ad esempio, non avevo esperienze nel ciclocross. Tutto quello che ho imparato, l’ho appreso da autodidatta, cercando di osservare con senso critico ciò che facevano gli altri e di ”rubare” ciò che credevo fosse giusto. Senza alcuna paura di chiedere spiegazioni».

(Crediti: Fabiano Ghilardi)

Sara e Matteo sono i figli di Daniele e anche loro praticano ciclismo a trecentosessanta gradi, dal cross, alla pista, alla strada, alla cronometro: «Sono molto felice della loro passione ma devo ammettere che non è sempre così facile conciliare il ruolo di tecnico con quello di padre. Mi spiego meglio: come tecnico sono un punto di riferimento per i miei ragazzi. Tante volte i genitori mi chiedono di parlare con i loro figli per spiegare determinate cose. L’impatto che ha un tecnico è certamente diverso da quello che ha un genitore. Con i miei figli manca questo passaggio intermedio. Nell’ambito della squadra si sono dovuti abituare a non avere tutte le attenzioni che magari vorrebbero. Sai, talvolta per non agevolarli si finisce per penalizzarli. Questo mi spiace, davvero, ma forse potrebbe anche essere un bene. Se avranno la fortuna ed il desiderio che il ciclismo diventi il loro lavoro e passeranno in squadre importanti, dovranno abituarsi a essere trattati come ”uno fra tanti”: le troppe attenzioni genitoriali, in questo senso, sarebbero deleterie». Daniele Fiorin è franco. Sia nella chiacchierata con noi che con i suoi ragazzi: «La realizzazione personale dei miei ragazzi è la cosa che più mi interessa. Per questo ripeto sempre: la scuola e il lavoro vengono prima. Quando lavoravo con gli juniores, lo dicevo: “Se vi capita un lavoro che può sistemarvi, pensateci bene. Un conto è divertirsi con la bicicletta, l’altro conto è lavorare con la bici. A potersi mantenere grazie al ciclismo sono ben pochi”».

(Crediti: Fabiano Ghilardi)

Alla base di tutto cosa c’è? «L’importante non deve essere il risultato in termini assoluti. Quello può essere condizionato da vari fattori: un infortunio o una circostanza sfortunata, ad esempio. Bisogna lavorare sulla prestazione e provare a migliorare se stessi, non il risultato. Come? Come si faceva a scuola quando si lavorava sulla resistenza, nella corsa ad esempio. Devi pensare ai cento metri davanti a te, certe volte anche meno, raggiungerli e poi ripartire da lì. Così riesci a mantenerti positivo, così riesci ad arrivare al traguardo. La stessa cosa accade quando scali una salita: devi pensare al tornante successivo, non al Gran Premio della Montagna in vetta. Altrimenti rischi di scendere dalla sella e ritirarti. Se ti focalizzi solo sul risultato, sarai molto più portato a smettere non appena questo risultato dovesse non arrivare o non arrivare più». Sarà per le sue capacità tecniche, sarà per la sua capacità di far leva sui giusti stimoli, sarà per come riesce ad entrare nella testa dei suoi ragazzi o per quella cura, scevra da giudizi, che mostra ad ogni gara, ma di Daniele Fiorin parlano tutti bene: «Un allenatore, un tecnico, soprattutto con i giovani, deve essere un educatore. Non riesco a immaginare un modo diverso per interpretare questo ruolo. Quando si entra nei meccanismi psicologici, è utile ribadirlo: non sono uno psicologo e, sicuramente, avrò sbagliato diverse volte e diverse volte ancora sbaglierò. Però provo a prendermi cura del benessere psico-fisico dei miei ragazzi. La mente, spesso, è molto più importante delle caratteristiche fisiche. Se si inceppa qualcosa a livello mentale, si inceppa tutto. Serve molta attenzione».

(Crediti foto in evidenza: Fabiano Ghilardi)


Alessandro Fancellu: «In cima al Mortirolo…»

Alessandro Fancellu, quel giorno, stava andando in vacanza con i suoi genitori ad Aprica, dal nonno: «Ho visto la scritta indicante la salita del Mortirolo. Mi ha incuriosito. Avevo una mountain bike e ho voluto provare a scalarlo. Non ho nemmeno idea di quanto tempo ci abbia messo ma ci sono riuscito, sono arrivato in cima». Quella sera, Alessandro ha parlato con papà: «Mi ha detto: “Hai mai visto qualche scalata di Marco Pantani? Dovresti vederlo. Cerchiamo qualche tappa e guardiamola assieme”». Fancellu aveva smesso da poco di giocare a calcio e i genitori erano stati chiari: «Non mi piaceva. Forse anche perché, non essendo molto bravo, stavo spesso in panchina. Non mi divertivo. I miei me lo avevano detto subito: “Non ti piace il calcio? Va bene, ma sei giovane. Non vorrai stare tutto il giorno a far nulla al parco. Pensa a qualcosa per occupare il tuo tempo libero”. Fino a quei giorni, Alessandro, che ha studiato agraria, nel tempo libero si dilettava di meccanica: «La verità è che vorrei fare troppe cose. L’ho detto giusto l’altra sera a mia mamma: “Una vita non mi basterà mai per realizzare tutti i progetti che ho in mente. Me ne servirebbero almeno un paio”». Quell’omino di sessanta chili che “venuto dal mare sconquassava le montagne”, come scrisse qualcuno, lo incantò subito: «Marco Pantani era un uomo coraggioso. Quando ha attaccato, al Tour de France del 1998, aveva circa nove minuti di ritardo. Chi lo avrebbe fatto? Molti si sarebbero rassegnati, avrebbero puntato a una tappa. Lui ci ha provato e non è facile come dirlo. Ha passato molti periodi difficili e ha resistito tanto nella sua vita. A me piacciono atleti di questo tipo. Non a caso, oggi, ammiro molto Vincenzo Nibali e Julian Alaphilippe: sai che, se attaccano il numero alla schiena, vogliono inventarsi qualcosa. Anche se i pronostici sono contrari. Pensiamo a Nibali alla Milano-Sanremo o ad Alaphilippe al Tour de France».

Il carattere di Alessandro Fancellu emerge chiaro da quanto detto e non servirebbero neanche troppe descrizioni. Lui si definisce estroverso e “tranquillo” ma neanche troppo: «Diciamo che, soprattutto in corsa, posso essere abbastanza impulsivo. Fa parte del mio essere, come la testardaggine». Della necessità di essere testardo si rende sempre più conto. In particolare le volte in cui le cose non vanno come vorrebbe: «Credo che la tappa del Montespluga, al Giro d’Italia Under23 di quest’anno, sia stata la mia peggiore giornata da quando corro. Ero debilitato e ogni giorno andavo più piano. Lo dico: è stata una bella batosta». Fancellu, però, al traguardo è arrivato anche quel giorno e, ai pullman, ad aspettarlo ha trovato Ivan Basso, alla guida del Team Eolo-Kometa: «Con Ivan ci sentiamo al telefono quasi ogni settimana. Mi chiede come sto e mi consiglia. Quel giorno mi attese e mi aiutò molto a livello morale. Mi disse: “Ale, capita a tutti. Non sai quante volte ho lavorato bene per un appuntamento, l’ho preparato nei minimi dettagli e poi è crollato tutto. Succede. Devi reagire, è l’unico modo per andare avanti”. Aveva ragione». La grinta deriva dalla motivazione e la motivazione cresce anche grazie alle giuste parole di chi ti guida: «Rino De Candido è unico da questo punto di vista. Ricorderò sempre la sera prima della prova di Innsbruck: “Avete paura di Evenepoel? Certo, è forte. Ma è un ragazzo come voi. Ha due braccia e due gambe come voi. Allora, come la mettiamo?”. Giuro che, quando sono andato a letto, mordevo il cuscino dalla foga». Poi arrivò il grande giorno: «Fino a quando ero con il corridore svizzero e davanti a noi c’era solo Evenepoel, ho collaborato. Il podio, per me, valeva tanto a prescindere dalla piazza. Il punto è che presto mi sono accorto che davanti a noi c’era anche un altro atleta. Mi sono detto: “Terzo sì, ma quarto no”. Sai, quando guardi i pantaloncini e vedi quella scritta, “Italia”, dai l’impossibile». È così che Fancellu si è portato a casa il bronzo iridato.

Gli inizi, con la maglia azzurra, hanno il suono di una telefonata di Arnaboldi, il direttore sportivo del Team Canturino, prima squadra di Fancellu: «Mi disse che De Candido voleva vedermi a Montichiari: mi venne un colpo. Avevo preso qualche chilo di troppo rispetto al peso forma e andavo anche abbastanza piano. Avevo il timore di fare una figuraccia. Ci pensi? Per fortuna è andata bene ed il ritiro di Riccione è una delle più belle esperienze che possa raccontare». Ci spiega che si “sente scalatore” ma la sua umiltà gli impone una precisazione: «Posso dirti cosa mi piacerebbe essere. Che vorrei mi si ricordasse come un buon corridore e uno scalatore ma non so quello che effettivamente diventerò. Tutti vorrebbero diventare dei campioni, ma è ciò che fai a definirti. Sono giovane, devo ancora conoscermi». Di sicuro, quando si parla di strade, Alessandro Fancellu parla di salite: del Brinzio, “montagna simbolo della zona di Varese”, e del Monte Generoso, in particolare. «Quando questa situazione si sistemerà, potrò tornare su quei tornanti. Inizia a essere più difficile vivere queste limitazioni: si sente la mancanza, ci si sente spogliati della normalità». Qualche anno fa, al Premio Torriani, dopo “Il Lombardia”, Fancellu incontrò personalmente Alberto Contador: «Mi presentarono a lui come futuro componente della squadra che stava nascendo. Quell’incontro mi rimase impresso: ho proprio visto un campione che, piano piano, si è aperto e mi ha accolto umanamente. Qualcosa di raro. Ma alla Eolo-Kometa si lavora così. Non è solo una squadra forte, è una bella squadra. All’inizio era un problema perché molti ragazzi sono spagnoli e io non parlavo spagnolo. Ora che l’ho studiato, siamo amici prima che compagni di squadra».

Davanti ad Alessandro Fancellu c’è la realtà del professionismo, “parliamo di una passione che diventa lavoro, quanti possono dirsi così fortunati?”, e un traguardo personale che, questa volta, non è una linea d’arrivo: «Un domani, fra dieci, dodici anni, mi piacerebbe che qualcuno, dopo avermi ascoltato, potesse dire: “Davvero interessante questa cosa. Quasi quasi la imparo”. Sì, mi piacerebbe poter lasciare un insegnamento ai più giovani».

Foto: Vuelta a León


Lucia Bramati: «Gladiatori del fango»

Ci siamo chiesti più volte come si possa raccontare la sensazione che si prova nelle domeniche impastate di brina e fango dell’inverno del ciclocross. In una serata a Nalles, in mezzo a una bufera di neve, Lucia Bramati ci ha dato la risposta: «Il cross è una sorta di arena. Noi siamo i gladiatori della terra, tra due ali di gente che grida con tutta la voce che ha, nel fumo del loro respiro che si mescola alla nebbiolina che si deposita a terra. Il percorso è tutto lì, lo conosci a memoria. In estate faccio mountain-bike, ma non c’è paragone. Qualche tratto di quelle strade percorse in mountain-bike mi spaventa. Qualche discesa scoscesa o qualche irta salita. Le strade della mountain-bike si disperdono in tanti rivoli. Quelle del cross sono raggruppate in un fazzoletto di terra con cui familiarizzi». C’è una semantica di ogni intervista. Un circolo di parole che ritornano perché parte dell’intervistato e del suo approccio a ciò che fa. Certe volte si tratta di sensazioni primordiali: «Papà e mamma mi hanno sempre detto di fare sport, qualunque sport. Papà è stato un ciclista ad alti livelli. Ho giocato a tennis, fatto saggi di danza, atletica e anche pallavolo. Nel ciclismo però ho trovato qualcosa che altrove non riuscivo a rintracciare: un senso di casa. Ricordo quando ho vinto la prima gara da G3, a Bergamo: ho sentito di appartenere a qualcosa, di essere simile a qualcosa. Non mi era mai accaduto». E pensare che gli inizi col ciclismo non erano stati proprio idilliaci: «Non me ne andava bene una da piccolina. Ero molto timida, chiusa. Forse non tiravo fuori nemmeno tutto il carattere che serviva».

Lucia Bramati ha diciassette anni e guardandosi indietro focalizza chiaramente alcuni cambiamenti che le hanno fatto bene: «Se sono cambiata è anche, se non soprattutto, grazie al ciclismo. Alla fine, il mondo che frequenti ti plasma un poco. Il mio carattere si è aperto qui. Ho messo da parte quella timidezza, pur custodendola, e mi sono buttata in quello che volevo fare. Certe volte, la troppa timidezza ti frena anche e non è giusto. Ho imparato a divertirmi correndo in bici. Ho imparato a dare il massimo, a fare sacrifici, con serenità». Già, serenità perché l’ansia divora: «Papà me lo ha sempre detto: “Stai tranquilla perché l’ansia ti divora l’energia”. Ed è vero. Prima delle gare mi metto tranquilla sul letto della mia camera e ascolto musica indie o guardo film. So quello che devo fare ma faccio attenzione a non farlo diventare ossessione».

Quando vedeva le gare di ciclocross in televisione, Lucia Bramati si diceva che, da grande, avrebbe voluto assomigliare a Eva Lechner e a Pauline Ferrand Prevot: «Poi le ho conosciute, le ho incontrate, ci ho parlato. Fa strano vedere a pochi metri da te ragazze che prima vedevi solo in televisione. Ricordo che guardavo le immagini e mi dicevo: “Quanto vorrei provare anche io”. Quando durante il riscaldamento mi passano accanto van der Poel o van Aert mi volto sempre sorpresa e li fisso. Quando provo il percorso, ricordo le immagini della tv e mi dico: “Hai visto Lucia? Ci sei tu qui. Proprio tu”. Ti dici che stai crescendo. Che stai diventando grande».

Lucia studia, è al quarto anno delle superiori, e si allena duramente con una consapevolezza rara: «I sacrifici pagano sempre. Tu fai sacrifici e vedrai che qualcosa di bello succederà. Prendi il terzo posto in Coppa del Mondo lo scorso fine settimana. Non me lo aspettavo. Sai perché? Perché nelle prove di inizio stagione almeno cinque o sei ragazze andavano più forte di me. Invece stavo proprio bene. Siamo andate via subito in tre e per un buon tratto mi sono giocata anche il primo posto. Cosa significa? Che lavorando cresci, che lavorando migliori sempre. E quando te ne rendi conto ti viene una grinta che non si può nemmeno lontanamente immaginare». E dopo? «Dopo è ancora più bello. Non so quante volte ho chiesto: “Ma è vero? Ditemi che è vero. Sto sognando? Non svegliatemi se non è vero. Per favore”». Tra l’altro, a Tabor, c’erano proprio le condizioni climatiche che piacciono a lei: «Era freddo. Ma un freddo assurdo. Io con il freddo, con la pioggia, con il fango mi galvanizzo. Il percorso diventa più tecnico e vado meglio. A me piacciono percorsi come Brugherio: è uno spettacolo quel tracciato. Il cross deve essere così: movimentato, imprevedibile, caotico. Se c’è tutta pianura, che gusto c’è?».

Lucia Bramati ha vinto tante volte ma solo una volta ha pianto di un pianto forte, vero. Di quel pianto che prende la bocca dello stomaco, di quelle lacrime grosse come noci a scorrere sulle guance: «Parlo del campionato italiano da allieva secondo anno. Venivo da una stagione disastrosa: prima un infortunio, poi il citomegalovirus e, alla fine, persino la mononucleosi. Ero stata ferma due, forse tre mesi. Mi sono presentata in corsa solo per provare, per tornare a fare ciò che amavo: andare in bicicletta. Ho vinto. Non mi sembrava possibile. Ero disperata di felicità. Ho pianto». Lucia Bramati, alle partenze, ama ascoltare: «Sono fortunata. Nella mia squadra ci sono diverse fra le migliori atlete nella specialità al mondo. A me piace stare ad ascoltarle. Mi danno consigli ma soprattutto mi raccontano le loro esperienze: questo è molto importante perché anche dalle esperienze altrui si può imparare. Vorrei fare bene al mondiale per la categoria junior ma soprattutto vorrei confermarmi al passaggio fra le élite. Credo lì sia in un’altra dimensione, una dimensione che impone una ripartenza e una conferma. Solo lì puoi davvero sentirti arrivata dove volevi arrivare».

Le parole corrono veloci come gli appunti sul nostro taccuino. Di certe cose ti accorgi solo rileggendo: «Sono una ragazza semplice. una ragazza che ama uscire con gli amici per andarsi a mangiare una pizza e stare in compagnia a tavola. Una ragazza che è contenta ogni volta in cui gli amici le dicono: “Vogliamo venire a vederti alle gare. Vogliamo esserci anche noi a fare il tifo per te”. Magari non posso partecipare a qualche gita scolastica. Magari devo rinunciare a qualche uscita serale, ma sono contenta. Quello che sto facendo, lo sto facendo per me. Per il mio domani. E il domani te lo costruisci giorno per giorno. Rinuncia per rinuncia. Essere liberi significa proprio questo. E a me la libertà piace da morire».

Foto: Lucia Bramati, Instagram


Guarda, c'è l'ammiraglia di Moser

Aldo e Francesco. Come tutti i loro fratelli, ben dodici, e come tanti altri ragazzi. Almeno fino ad un certo punto, ma forse anche dopo. Insieme a Palù di Giovo, anche negli inverni in cui c’era più neve che anime in città. Oggi sono poco più cinquecento gli abitanti di questa frazione in provincia di Trento e, non fosse che per il silenzio di certi giorni, Palù di Giovo è come tante altre città. Non sappiamo quanti abitanti ci fossero negli anni sessanta del novecento, ma non abbiamo difficoltà a immaginarci le strade di Palù in quegli anni. Non abbiamo difficoltà a figurarci lo stupore raccontato da Francesco Moser in questi giorni, quando Aldo, il fratello maggiore, tornava a casa in ammiraglia: «Non eravamo abituati. In queste vie passavano solo i carri trainati dai buoi o dai cavalli». Si vedevano poche macchine, l’ammiraglia era quasi un mezzo futuristico. Non solo per i fratelli minori in casa Moser ma per tutti coloro che affacciandosi alle finestre vedevano quest’auto così diversa parcheggiare in città. Qualcosa che assomigliava alle speranze di un futuro diverso anche per i più poveri. Qualcosa che somigliava a un domani in una grande città e a un lavoro che potesse riscattare un passato difficile. Per i più giovani ma anche per i più anziani che in quel domani ci avevano creduto ed erano stati delusi sin troppe volte.

Francesco e Aldo come tutti quei fratelli che si divertivano assieme nei cortili e per le strade e poi si fermavano a mangiare un panino appoggiati a un muretto, magari con i pantaloncini corti e le ginocchia sbucciate. A fianco un piccolo podere di famiglia, il primo, e il cimitero del paese. Aldo che è del 1934, Francesco del 1951. Aldo che diventa uno sportivo importante mentre Francesco sta ancora crescendo. Francesco che sente ciò che tutti dicono di suo fratello ed è certo di essere fortunato ad avere un fratello così. E si parla a voce e a testa alta di un fratello maggiore così e quell’aggettivo possessivo si acuisce di tutto quello che, ora più che mai, appartiene ai Moser: grinta, dignità, orgoglio. Gente di poche parole e di tanta concretezza perché in quegli anni non potevi che essere in questo modo per poter sperare di farcela. Quando Aldo torna dal Giro d’Italia del 1969, guarda Francesco e glielo dice. Gli dice: «Ma perché non provi anche tu? Dai, prova anche tu». In quelle tre settimane in giro per l’Italia era andato tutto bene e Aldo aveva capito che il ciclismo poteva avere lo stesso volto di quello sperare e credere in quel paesino che gli aveva dato i natali. Dovevi fare fatica, certo. Ma non l’avresti fatta fra quella terra? La terra è sincera, ti restituisce crudamente ciò che dai. In questo assomiglia alla bicicletta. Entrambe non possono mentire.

Francesco che quel giorno si sentì scelto e probabilmente pensò quello che pensiamo tutti quando qualcuno ci sceglie: «Davvero credi io possa farcela? Pensi davvero io sia come te?». Fiero perché Aldo era, ed è, il suo modello e pensare che, in fondo, quel fratello maggiore lo immaginava così simile a lui non poteva che farlo felice. E Aldo faceva lo stesso che fino a qualche anno prima aveva fatto Francesco: ne parlava con gli amici e con i colleghi. Li portava a vederlo correre e diceva: «Certo che il mio fratellino corre davvero forte. Guardalo». Lui che aveva scalato il Bondone sotto una nevicata degna di questi giorni, ma era giugno. Era l’8 giugno del 1956 e, per oltrepassare i massi di neve, la bicicletta la si prendeva pure in spalla. Mentre qualche direttore sportivo faceva ritirare i suoi atleti perché “non aveva più senso”. Forse molti gli avrebbero semplicemente detto: «Non gasarti troppo. Dovrai vederne di cose». Lui si stupì e lo disse a tanti. E noi siamo certi sia stato meglio così.

Non sappiamo cosa Aldo abbia detto a Francesco, quando lo vide tornare a casa in maglia rosa dal Giro d’Italia del 1984, quel Giro che Francesco Moser vinse. Non sappiamo, ma ci piace immaginarlo, come Aldo Moser vivesse la rivalità Saronni-Moser. Come si gustasse le corse in televisione e cosa dicesse, al telefono con Francesco, di “quello là”. Chissà come lo chiamava. Chissà cosa si sono detti in quell’ultima passeggiata assieme. Chissà che aria c’è oggi a Palù di Giovo. Forse qualcuno guarderà fuori dalle finestre, poi cercherà con lo sguardo un bambino e gli dirà: «Vedi quel parcheggio? Lì, tanti anni fa, c’era l’ammiraglia di Aldo Moser…».

Foto: Aldo Moser al Trofeo Baracchi 1956