L'arrivo

L'ammiraglia della Bahrain-Victorious, con alla guida Franco Pellizotti, che si affianca a Santiago Buitrago, mentre il colombiano già vede Derek Gee, a pochi metri, porta un messaggio ben preciso: salire del proprio passo, tenere Gee di riferimento, lasciare da parte la foga, la voglia spropositata di essere da solo, in testa, il sogno degli scalatori. Pellizotti potrebbe dirlo anche all'auricolare, probabilmente l'avrà anche fatto, ma, così, da un finestrino aperto, dalla voce che deve sforzarsi per arrivare, è diverso: basta uno sguardo e ad entrambi è chiaro quanto si creda a quello che si sta dicendo o facendo. Ci hanno sempre detto che un direttore sportivo è sincero a tutti i costi, perché il corridore sa, capisce quando le parole sono di circostanza. Quel finestrino è uno squarcio sulla realtà di entrambi, sullo sfondo le Tre Cime di Lavaredo.

Se Santiago Buitrago, su un tornante, riesce a riprendere Gee e sul tornante successivo riesce a sorpassarlo, se Santiago Buitrago riesce a vincere la sua seconda tappa al Giro, dopo quella dell'anno scorso, è per un insieme di motivi, la capacità di tenere il proprio passo, però, è uno di questi. Ma il proprio passo non è solo il proprio ritmo, quello di Buitrago, è anche la propria predisposizione, quell'idea che si infila nella mente e insiste: «Fai così!». Pensiamo allo scatto di Ben Healy, con una fuga già avviata, a circa cinque minuti, per conquistare punti per la maglia azzurra della classifica scalatori. Pensiamo a Thibaut Pinot che si riporta sotto, al gruppo che reagisce temendo l'insidia Pinot in classifica generale, a chi, come Healy viene ripreso, gli dice qualcosa, scherza, ride. Al fatto che, dopo poco, Healy ci riprovi.

Sono comprensibili le reazioni del gruppo, certamente. Come lo scatto di Healy tatticamente è difficilmente comprensibile, con queste modalità. Eppure, non vi ha appassionato? Non vi ha fatto restare lì, con curiosità, con interesse. Magari sorridevate pure voi oppure vi chiedevate cosa stesse facendo, ma, con quello scatto, Healy è arrivato. Non al Gran Premio della Montagna, ma a chi guardava. Quello è, forse, il suo passo, la sua idea.

Derek Gee, con oggi, totalizza il suo quarto secondo posto in una tappa. Quello che crediamo in molti abbiano provato, quando Buitrago lo ha superato, quel dispiacere, quell'immedesimazione, non dipende solo dall'ennesimo secondo posto, dipende da questo suo essere sempre nel vivo dell'azione, questo provare, in preda, quasi, a una visione, a qualcosa che è talmente chiaro nella sua testa da essere visibile a tutti, pur se non si è ancora realizzato. Anche Gee è arrivato, non primo, secondo, ma Gee è arrivato soprattutto a chi guardava. Come Warbasse, e ci piacerebbe leggere qualcosa scritto da lui su una giornata come questa, alle Tre Cime di Lavaredo, come Cort Nielsen, come Hepburn, come tutti coloro che hanno fatto qualcosa che la ragione, probabilmente, non avrebbe suggerito. Eppure l'hanno fatto e, quando si manifesta il proprio passo, la propria indole, qualcosa, dall'altra parte, arriva sempre. Perché quella fatica non è imitabile, perché è unica.

Mentre tutte le biciclette dei tifosi, appoggiate alle rocce, parevano altri spettatori, parevano proteggere le montagne, come una rete, qualcosa che tiene unito e vicino, Roglič, Almeida e Thomas si sono affrontati con sottigliezza, in equilibrio sull'abisso tra il guadagnare e il perdere. Forse anche con un pensiero a domani, al Lussari. Roglič guadagna tre secondi su Thomas, Almeida ne perde rispettivamente venti e ventitrè. Il loro passo, la loro indole, non può disgiungersi da quel traguardo che, giorno dopo giorno, è sempre più vicino: Roma, il Giro d'Italia. Anche per loro è questione di arrivare. Domani, lassù, sul Lussari, resteranno da soli, ognuno con le proprie forze e la propria indole. Più in alto, l'arrivo.


Quanto se la meritava

Quanto se la meritava questa vittoria Filippo Zana. Quanto se la meritava e non è una domanda, ma un'affermazione, perché lo sappiamo, perché lo sapete. L'abbiamo visto fare di tutto in questo Giro d'Italia: mettersi al servizio di Michael Matthews, andare a chiudere sugli scatti per favorire la volata di "Bling", l'abbiamo visto terzo a Fossombrone, nel giorno di quella bellissima follia di Ben Healy, andare in fuga quando la strada sale, rallentare, prendere fiato e, poi, profondersi in un ultimo sforzo, da lasciare senza parole, per Dunbar, l'abbiamo visto in fuga verso Val di Zoldo, nel primo pomeriggio, di forza, e, istintivamente, abbiamo pensato che potesse essere il suo giorno. Forse l'abbiamo sperato e, nello stesso tempo, ci siamo detti che, chissà, «forse verrà fermato per aiutare Dunbar». Non poteva essere, non doveva essere, ma non si sa mai, non è matematica, non è equazione. Non ci sarebbero delusioni, se lo fosse. Ma non ci sarebbe nemmeno la meraviglia. Converrebbe? No, per come la vediamo noi assolutamente no.

Allora ci siamo tenuti quel dubbio e, mentre pensavamo, dubitavamo, guardavamo quella maglia tricolore, guardavamo la brillantezza con cui Filippo Zana teneva la ruota di Thibaut Pinot, mentre gli altri accusavano il colpo, cedevano, zigzagavano. Che qui, in certe rampe, anche spostarsi da un lato all'altro è difficile, perché la strada è stretta, tutta all'insù, tocca continuare e subire, senza respiro. La certezza che sarebbe potuto succedere, ad un certo punto, è arrivata: sì, sono solo loro e Zana pedala così bene da cambiare il concetto di fatica, da far venire voglia di far fatica, di mettersi alla prova, anche se non si è al Giro d'Italia, anche sulla salita più vicina a casa. Però la mente accetta subito le paura, fatica ad accettare le cose belle, l'idea di felicità, allora altre domande, altre parole silenziose che si infilano in testa.

«Pinot non la perderà questa volta, è più veloce, ha già sbagliato una volta. Però che peccato! Che spreco non poter alzare le braccia dopo una giornata così, dopo un Giro così». Un Giro d'Italia che per Filippo Zana è una polifonia: più suoni e un'armonia. Eppure guardavamo in faccia Zana ed era sereno, convinto. "Mi ha tolto tanto la bicicletta, ma nonno diceva che quello che ti viene tolto, se insisti, in un altro modo, magari, però torna": l'abbiamo risentito mentre ci diceva così, in una serata accanto al mare di Spagna. Qui però siamo in montagna e la montagna stravolge le verità, fino a qualche minuto prima più solide che mai: il duello a distanza Roglič-Almeida insegna. Qualche giorno fa Almeida, oggi Roglič. Come rovesciare una clessidra. Avevamo già scritto qualche riga, avevamo deciso che, se non fosse andata come poi è andata, avremmo ricordato quelle parole a Zana, avremmo ricordato quella convinzione. Avremmo, forse, detto che, chissà, ciò che ti è stato tolto può tornare anche non sotto la forma di una vittoria, ma di grinta, di entusiasmo, di miglioramento, di crescita. Senza dubbio, è vero. Ma sembra una consolazione.

Invece no. Invece Zana è freddo, lucido, ha gli occhi della tigre, lo spunto del tempo che corre, le mani basse, a ruota di Pinot: quella maglia tricolore accelera e parte intorno ai centocinquanta metri, lo affianca, gli corre accanto, poi lo supera. Gioisce, vince. Ride, ma gli occhi sono lucidi, non è solo il sudore che cola, è un pianto sospeso. Nell'aria. Filippo Zana li libererà: al Giro d'Italia del 2020, pianse all'arrivo, pianse dedicando una fuga al nonno, una di quelle fughe che non era andata a buon fine. Oggi sì, oggi c'è una vittoria e Filippo Zana che, pur essendo lo stesso, è completamente diverso. Il destino degli uomini.

«Vedi? Avevamo ragione noi»: diciamo quasi per sfida alla mente e a tutti i dubbi. Lo diciamo alla mente e lo diciamo a noi stessi, un promemoria, per ricordarsi che anche l'istinto dice cose giuste, che va ascoltato. Il resto, viene da Filippo Zana che l'ha sempre saputo: le cose a cui teniamo possono succedere, ma, soprattutto, le cose a cui teniamo di più vanno fatte succedere. Non è detto che accada, non c'è sempre il lieto fine, siamo onesti, ma, se lo sappiamo, può essere. Le parole per Thibaut Pinot, stasera, non possono che essere queste.


La storia dell'acqua

Caorle, le sue case dai colori vivaci, le sue acque, il suo eco e l'eco di Venezia, è il luogo ideale per tornare a stare bene. Caorle e il colore della sua acqua è il posto ideale per essere attesi eppure sorprendere. Lo diciamo a noi stessi, lo diciamo a voi che ci leggete, lo diciamo ad Alberto Dainese e alla sua volata, a una linea del traguardo che speravamo arrivasse in fretta e allo stesso tempo avrebbe ritardato il suo arrivo solo per continuare a guardarlo lanciato a tutta, solo per gustare ancora lo spasmo dell'incertezza e lo sfogo della felicità. Dainese, Matthews e Milan, Milan, Matthews e Dainese, Matthews, Milan e Dainese: nomi girati, rimescolati, come l'emozione prima del verdetto, qualcosa che si rigira nello stomaco. Matthews al centro, la velocità di Dainese da una parte, la potenza di Milan dall'altra. Primo Alberto Dainese, dopo una bronchite, dopo un virus intestinale, dopo aver stretto i denti, sopportato le salite, i muscoli che sono leggerezza e peso se non si sta bene. Dainese che ha rischiato di perdere ed invece no. Dainese, acqua corrente, torrente scosso dal vento, marea impetuosa.

A Caorle, in questo borgo marinaro, in questa "piccola Venezia", ci siamo resi conto che, alla fine, i ciclisti hanno molto in comune con l'acqua che oggi è l'elemento della tappa, un sottofondo, una scia. Perché i ciclisti scendono dalle discese, come le sorgenti dai monti, risalgono le montagne come fontanili. Partono e ritornano, anche se vanno lontano, molto lontano: il ciclo dell'acqua che evapora con il caldo e torna con la pioggia. Le visite a parenti di Marco Frigo e Andrea Pasqualon paiono un fiume che torna nell'alveo, che viene accolto dalle sponde, che si sente a casa e ha sul volto quel "sorriso da italiano in gita" di cui parlava Paolo Conte, raccontando di Bartali. Ci sono le gocce, ribelli, anarchiche, le fughe, quella di oggi, di Champion, Leysen, Quarterman e Sevilla, i rivoli, coloro che non tengono il passo e si staccano ma continuano a correre, cercano un'altra terra. I ciclisti hanno un loro suono, una loro musicalità che, in fondo, somiglia a un sibilo, a uno sciabordio. Le maree risentono della luna, i ciclisti del cielo e qualcosa in comune c'è: del sole che segna sulla pelle il contorno degli occhiali, della pioggia che inzuppa maglie e pantaloncini.

Un velocista potrebbe essere una risorgiva, un fontanile, uno zampillo d'acqua che trova un varco e risale, fruscia e guizza. Guardate Dainese e Milan lanciati in questo sforzo, diteci se non è così. E se un velocista è una risorgiva, la volata è un'onda, in un mare mosso, dove la spuma delle acque è il movimento frenetico di uno sprint: ogni spostamento, ogni danza impazzita sui pedali, ogni volta in cui il velocista pare quasi prendere a sberle la bicicletta, ogni urlo per dire all'ultimo uomo di aspettare, ogni gesto dell'ultimo uomo, con la mano o con la testa per indicare dove passare.

La felicità di Alberto Dainese è la felicità dell'acqua: trasparente, semplice, incredula, genuina. Dell'acqua di una terra che conosce bene, dell'acqua di casa, di quella che disseta, rinfresca, talvolta riscalda. Cara, fresca e dolce, direbbe Petrarca. Orgoglioso, fiero, perché c'è fierezza. "Com'è triste Venezia se nella barca c'è soltanto un gondoliere", risuona Aznavour. Un velocista è sempre un gondoliere solo in barca, anche se ha un treno, importantissimo, anche se vince per pochi centimetri, anche se vive nel caos e lo domina, lo interiorizza. È sempre solo, perché l'ultimo passo, l'ultima onda deve metterla in solitudine. Un velocista è solo, come Dainese, primo su quel podio. Nella piccola Venezia che oggi non è per nulla triste.


Bota Lume

“Bota lume”. Potremmo anche dirlo in italiano: "Accendi il fuoco!". Ma così è più diretto, più simile a quello che si potrebbe gridare mentre il freddo stringe, immobilizza, rallenta. "Bota Lume” magari gridato da Charly Gaul, a qualcuno, in quell'8 giugno del 1956, nella bufera di neve che avvolse il Bondone, mentre gli tagliavano la maglia per togliergliela di dosso, ghiacciata, come il suo corpo. Ma Gaul era lussemburghese e "bota lume" non lo conosceva. Però scappava dal freddo, scalava per lasciarsi il freddo alle spalle, scattava per andare lontano da quella neve. Chiese un bagno caldo, il suo fuoco. João Almeida, invece, conosce bene "Bota lume”, sa il suo significato. Lo chiamano così, un soprannome che è un invito, un indole. Si legge "accendi il fuoco" anche nelle linee del volto, mentre si arrampica e porta avanti uno scatto infinito. Uno scatto che inizia ben prima del momento in cui si alza sui pedali e va. Si accende così il fuoco e presto si scopre che accendere il fuoco non è solo questione di freddo.

Il 23 maggio del 2023, tra l'altro, non c'è neve sul Bondone, ma una pioggia fine, che rende lucide le strade ed i muscoli, definendo ogni spasmo. Un flash: Filippo Zana che, dopo una giornata in fuga, ripreso dal gruppetto dei favoriti, fa il ritmo per Dunbar. Spalanca gli occhi, li chiude, apre la bocca, non sappiamo se gridi, ma un doppiatore esperto potrebbe inserire un suono, un urlo, in quel frammento di immagine e sarebbe perfetto. Le smorfie, le grida, sono un modo per "mettere a terra" la fatica. Sì, c'è anche una messa a terra della fatica, prima di lasciare. E si lascia svuotati, a zig-zag: vale per Zana, per Dennis, per McNulty, per Vine e per tutti gli uomini della Jumbo Visma che hanno fatto il ritmo per Primož Roglič. Questo intendiamo quando parliamo di scatti infiniti, scatti che iniziano prima di scattare, che litigano con ogni fibra di un muscolo, omaggio alla sofferenza. Di Bruno Armirail che prova a resistere e deve arrendersi, di tutti coloro che, in coda al gruppo, non sanno più cosa sperare: certe volte, forse, nello scatto più forte, che recide il legame e qualunque forma di fiducia nel ricucire. Perché anche credere è faticoso.
Le persone avvolte in una mantellina a bordo strada oppure sotto la pioggia, le persone che hanno già visto passare il Giro in un giorno in cui non è accaduto nulla di particolare, quelle che sono a casa e lo vedranno passare fra qualche giorno o, forse, l'anno prossimo sperano in uno scatto. «Bota lume, scatta, alzati sui pedali, accendi quel fuoco»: non a un ciclista in particolare, a tutti, perché lo scatto è un gesto universale. Quel fuoco brucia dentro anche a Formolo, che tira, impaziente: lui sa cosa c'è dietro le quinte, quello che ha in mente Almeida. Ma c'è ancora il sipario.

Scena. Strada stretta. Pioggia. In testa Almeida, veloce, più veloce, un passo indietro, una pedalata più lenta, un momento di controllo e scatta. "Bota lume”. Si accende lentamente la fiamma, ma scalda, fa metri, secondi, il fuoco è così: nei suoi colori che si intrecciano, spariscono e ritornano, nelle forme, nelle punte. Così è lo scatto di João Almeida, Kuss lo guarda, cerca di mantenere un'andatura costante, Thomas riparte, si riporta su Almeida. E qui che la verità si mostra, che l'elastico, teso, più teso che mai, si spezza: per Roglič non è la giornata buona. Venticinque secondi di ritardo per lui, da Almeida che supera Thomas. Geraint Thomas: la nuova maglia rosa. Quarto Damiano Caruso.
Non c'è neve, ma c'è un fuoco acceso sul Bondone. Un fuoco che non ha a che vedere con il freddo, con le fiamme, ma con la predisposizione, con la volontà. Con il caos in cui cercare la calma, con la calma in cui trovare il caos. Con l'idea che, a forza di fare sempre meglio, sempre il proprio meglio, verrà quel giorno. Che, a forza di aspettare, verrà quel giorno. Quel giorno che per João Almeida è anche oggi.


Una bella giornata

A Brandon McNulty non sono mai piaciute le cose semplici. Ai rifugi sicuri ha sempre preferito le possibilità e, quando quelle possibilità lo hanno deluso, ha lasciato da parte ogni alibi, così i momenti di felicità li ha trovati nell'affrontare le situazioni. Nel sapere di poterle affrontare. Di potere farci i conti. Tempo fa ha raccontato che, da junior, vinceva le gare imponendosi nella cronometro e poi difendendosi, ma, crescendo, ha capito che voleva cambiare, che voleva diventare forte anche in salita, sviluppare altre abilità, il talento contro il tempo sarebbe restato, però da ciclista sentiva di non poter fare i conti solo su quello, anche qualora fosse bastato per vincere.
Se Brandon McNulty è rientrato su uno scatenato Ben Healy, al termine della Roncola, in discesa, si deve a questa capacità. Quella di vedere chiaramente il proprio limite e sentire che non può bastare a descriversi. Ma di vedere altrettanto chiaramente la propria capacità e avere la certezza che nemmeno quella basta per realizzarsi. Talvolta bisogna staccarsi e rientrare, resistere a uno scatto, aspettare e poi buttarsi in volata. Magari vincere, come ha fatto oggi. I conti McNulty li fa quotidianamente, con quel che gli riesce meglio e con quello che deve ancora migliorare. Pure con quello in cui non si sente portato, in cui forse non migliorerà mai, tuttavia, anche lì, si diverte: le partite a pickleball con gli amici, una sorta di tennis, ad esempio. Sì, è possibile fare con piacere anche qualcosa in cui non si eccelle e lasciarsi descrivere anche da quella fragilità. Lasciarsi completare da quella debolezza.

Fare i conti è un dovere di ciascuno. Anche con il talento si fanno i conti. Ben Healy li ha fatti in tutti i chilometri di fuga: li ha fatti perché sembrava "avere la gamba che scappava", che in gergo ciclistico significa avere una gamba così buona che potrebbe andarsene da sola e lasciarti lì. Si è sfogato, sui Gran Premi della Montagna, si è trattenuto quando altri hanno preso vantaggio in salita. Ma non ce la faceva più: è rientrato a gran velocità ed è scattato, in quel modo scoordinato che, se si usasse solo l'oggettività, potrebbe non piacere, invece scuote. Sturm und Drang, sconvolgimento ed impeto, sentimento e irrazionalità, in chi agisce e in chi guarda. Chi ha talento deve vincere, sorprendere, divertire, emozionare. Chi ha talento ne è segnato. «Se la gente sa, e la gente lo sa, che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita, e ti piace lasciarti ascoltare»: lo diceva De André. Fare i conti con il talento è questa cosa qui. È Healy, secondo a Bergamo, che riprende a suonare.

Marco Frigo ha fatto i conti con molte cose oggi: con McNulty e Healy, con la distanza, in testa ed in coda ad una fuga, con la salita e la discesa. Ha fatto i conti con il restare indietro ed il ripartire davanti, a tutta. Fino all'ultimo, fino alla volata, lanciata senza riprendere fiato, senza poterlo fare. Soprattutto ha fatto i conti con una caduta, di due anni fa, con un ricordo che si può raccontare, ma non si può provare. Perché è passato e perché appartiene ad altri. Frigo è un altro dei "senza alibi", di quelli che pensano che ogni scusa spenga un poco l'essere umano, e corrono come pensano.

Tutto questo in una domenica in cui, dopo giorni e giorni, sul Giro torna il sole e pare nuovo, quasi una sensazione scordata: l'ombra di una bicicletta e dell'uomo che stringe una borraccia, l'acqua che gratifica, il sudore che ritorna e si posa sulla pelle, una maglietta e dei pantaloncini corti, urla e grida, tante persone, rincorse estive, strappi, saliscendi. Mentre, là davanti, McNulty, Healy e Frigo si giocano la quindicesima tappa del Giro. A conti fatti, una gran bella giornata.


Sulla strada

Sulla strada diventano difficili anche i gesti più semplici. Due numeri: 77 e 152. Rispettivamente il dorsale di Alberto Bettiol e di William Barta, squadre diverse, stessa fuga, stessa galleria, prima della discesa dal Passo del Sempione. Piove, fa freddo, siamo a più di duemila metri, Bettiol prende la mantellina dall'ammiraglia e cerca di indossarla. C'è vento, una manica è già infilata, la parte posteriore, invece, sfugge. È Barta, che si sta alternando nella rotazione per tirare, a tenergliela ferma, a permettergli di vestirla. Sulla strada si parte per inseguire una fuga che ha già più di due minuti di vantaggio e si è solamente in due: Mirco Maestri e Mattia Bais. E ci si riesce. Perché sulla strada si fa quel che, ripensandoci, non si farebbe mai. Si pedala con la bronchite, come Alberto Dainese, si pedala faticando a respirare, sotto una pioggia che è castigo, febbre.

Sulla strada c'è un ragazzino da solo, i genitori devono essere vicini, ma il passaggio del Giro lo vede da solo. Da solo nel luogo in cui ha scelto di vederlo. Saranno pochi metri di distanza, ma non conta, è una delle prime decisioni, fuori da casa. Sulla strada c'è un treno che passa in mezzo alle montagne e la gente che si ferma a guardarlo. Sulla strada si scopre che una tettoia strettissima può proteggere da tanta di quella pioggia che non ci si può pensare e che gli usi delle cose sono una convenzione, perché sulla strada usi e forme si adeguano: si può usare un giornale per proteggersi dall'acqua o dal freddo, si può usare un muretto per guardare meglio, una pozzanghera per vedere il riflesso delle cose e saltarci dentro come se l'acqua non bastasse.
Sulla strada si è in balia di quel che c'è sulla strada, sole, vento, acqua, nebbia, ma non solo. Sulla strada si è in balia di quel che si è e che spesso si scopre proprio sulla strada, quando non si può fare altrimenti. Di Bruno Armirail avevamo parlato qualche giorno fa, per quel suo tentativo di inseguire una fuga ormai andata. Di Bruno Armirail parliamo oggi che in fuga è riuscito ad andarci e, a fine tappa, più di diciotto minuti guadagnati, gli sono valsi la maglia rosa. Quanto si sarà sentito sconfitto quella sera, quanto si sentirà felice, incredulo, orgoglioso di essere un ciclista, stasera.

Sulla strada si cresce, cresce la condizione. Basta guardare Alberto Bettiol, leone delle Fiandre, anche se Cassano Magnago è da tutt'altra parte. Fiero, maestoso. Ci prova e ci riprova, insegue, rientra, ha la gamba, buona, ottima, muscoli ribelli, quelli che servono a un ciclista. «Quando si ha questa gamba, bisogna vincere»: dice a fine tappa. Perché sulla strada si capisce che la strada non perdona. Sulla strada si possono ampliare orizzonti o restringere possibilità. Nel giro di pochi secondi, di alcuni metri.

Sulla strada ci sono ciclisti in ogni dove, perché la strada decide insieme agli uomini che la percorrono, anche quando sembra non possa sorprendere, stupire. C'è la volata lunghissima di Oldani, istinto puro, volontà sproporzionata. Ci sono Davide Ballerini e Toms Skujiņš che ripartono, con un'altra volata, anche quando non ci si può più credere. Sulla strada c'è Derek Gee che della fuga ha fatto casa, che fa su una strada ciò che gli uccelli fanno in cielo, lui che li osserva: migra, trasmigra, scopre, conosce, stagioni e persone. Sulla strada c'è Nico Denz: un urlo di gioia l'altro giorno, mani che ballano, a smuovere l'aria e l'acqua, oggi. La seconda volta fa lo stesso effetto della prima, non è vero che ci si abitua.
Sulla strada ci sono bagagli e rotelle che scorrono, verso una nuova città e un nuovo albergo. Verso un cielo in cui si vuole ritrovare l'azzurro e un letto vagabondo, da due settimane a questa parte. E allora? Prendiamo in prestito le parole di Kerouac, sulla strada.

«Dobbiamo andare e non fermarci mai finchè non arriviamo»
«Per andare dove, amico?»
«Non lo so, ma dobbiamo andare».

E noi andiamo.


Il richiamo delle cime

C’è stato un momento, sulla Croix de Coeur, in cui il nostro sguardo ha incrociato quello di Thibaut Pinot. Anzi, per la precisione, noi fissavamo gli occhi, nascosti dagli occhiali, di Pinot, mentre Pinot guardava altrove. Proprio questo altrove è il punto: nel mezzo dello sforzo, il francese è riuscito a guardare il paesaggio. Non quello verso l’alto, quello che si fissa per capire quanto manca al Gran Premio della Montagna, quello verso il basso e non verso il gruppo che insegue, verso il vuoto, verso la valle. Pochi istanti, certo, ma importanti. Abbiamo pensato a una sorta di richiamo della montagna. Che, se volete, può anche essere naturale per un ciclista con le caratteristiche di Pinot. Ma questo richiamo della montagna non finisce lì, non si esaurisce nel gesto atletico.

Il richiamo delle vette è in quella sorta di attrazione che si sviluppa tra un essere umano e la montagna. Un’attrazione che si potrebbe assimilare a una calamita, perché c’è qualcosa di magnetico e irrazionale in un ciclista che scala: la sua posizione in sella, la sua continua proiezione verso l’alto, certamente pure gli occhi che vanno oltre, che sono sempre un metro avanti rispetto alla pedalata che si sta compiendo. Ma di richiami ce ne sono molti, almeno in astratto, quelli che contano sono quelli che sentiamo e che assecondiamo. In quello sguardo di Pinot verso la valle c’è il suo ascolto di questo richiamo.

Poi Thibaut Pinot fa il ciclista di mestiere e quell’ascolto lo declina su una bicicletta. In ogni scatto che oggi ha fatto Pinot, forse troppi, forse anche sbagliati, visto poi il risultato di tappa, c’era quel richiamo. In ogni volta in cui si è alzato sui pedali ed ha cercato di allontanare Cepeda e Rubio, c’era quel richiamo. Pure quando sbuffava, innervosito dall’atteggiamento di Cepeda, Pinot avvertiva quel richiamo. In ogni movimento, nel dinamismo di uno scalatore e, nella fattispecie di Pinot, si risentiva quella voce delle vette che, probabilmente, richiama così perché assomiglia agli esseri umani e tutti, anche chi in montagna non ci va, anche chi parla della malinconia delle montagne, la sentono.

Cime innevate, a riposo, come gli uomini che ne hanno passate tante e hanno bisogno di un inverno in solitudine per tornare. Thibaut Pinot è stato questo. Cime in piena luce, più vicine al sole, in cui il caldo è più caldo ed fresco è più fresco. Anche questo è stato Pinot. Cime tempestose, tormentate, che attraggono e respingono, che si amano e si odiano. Queste sono le cime che non si lasciano mai, a cui si appartiene sempre, perché è l’essere vetta, è l’essere montagna, è l’essere uomini a esporre a queste tormente. Pure in giorni in cui si fa come ha fatto Pinot oggi, in cui il desiderio ed il talento sono più che mai la chiave per salvarsi e salvare, ma non basta.

In quei giorni in cui, poi, capita che manchi la forza all’ultimo, che si sia secondi con una smorfia, dietro ad Einer Rubio, che oggi sembra l’unico ad aver davvero fatto tutto giusto, tutto perfetto. Capita poi che si vesta la maglia azzurra, che tanto si desiderava, con negli occhi una nostalgia primitiva, una cima tempestosa, anche se c’è luce sopra Crans Montana, perché quel richiamo non si è colmato, perché qualcosa è sfuggito. Probabilmente è proprio quel qualcosa che manca sempre a un essere umano, a far venire voglia di guardare la valle, per qualche istante. Pure nella fatica di uno scatto appena partiti, in una tappa accorciata, che inizia già arrampicandosi sulle strade strette delle vette, col respiro a tratti più stretto di quelle vie. Dall’alto si cerca la completezza.

Nel gruppo non è accaduto molto, Damiano Caruso ha acceso una fiamma, all’ultimo. Si è parlato tanto della tappa accorciata, questo sì e ognuno avrà la propria idea. Ma c’è stato un momento, sulla Croix de Coeur, in cui il nostro sguardo ha incrociato quello di Thibaut Pinot, intento a guardare la valle, per una frazione di secondo, nel pieno dello sforzo. E questo è molto, molto di più.


Alzarsi e partire

Noi che maneggiamo parole parliamo spesso di sogni ed è giusto così, perché i sogni sono necessari per un Giro d'Italia, per qualunque viaggio ed anche solo per una giornata, dal mattino alla sera. Ma per un Giro d'Italia, per qualunque viaggio ed anche per una giornata, spesso, prima dei sogni è necessario alzarsi e partire. Sì, perché, per quanto ci si possa sforzare, quasi nessuno è capace di tenere lo sguardo sempre e solo sul sogno, anche fosse il più grande di tutti, perché la realtà si mette di mezzo. Bene, proprio quando la realtà si fa troppo ingombrante, persino invadente, bisogna ricordarselo: alzarsi e partire.

Alzarsi e partire come si sono alzati e sono partiti stamani i corridori del gruppo. Alzarsi e partire dopo giorni di pioggia e con un cielo ancora nuvoloso. Alzarsi e partire anche se è una di quelle giornate in cui non si può chiedere nulla, anche se, dentro, si è convinti di essere troppo stanchi per chiedere qualcosa a questa o ad altre giornate. Alzarsi e partire anche quando ci si sente piccoli, minuscoli, e tutti gli altri sono grandi, enormi. Anche quando sembra di essere gli unici a fare fatica a pedalare, mentre i pedali degli altri girano così bene. Alzarsi e partire perché, forse, alzandosi e partendo qualcosa succederà.

Non sappiamo in quanti, fra i trenta corridori all'attacco, stamani lo abbiano pensato: alzarsi e partire. Però a tutti e trenta qualcosa è accaduto: una fuga strana, andata via da una rotonda, in un modo strano. Samuele Battistella probabilmente lo ha pensato, lui che, pur non stando bene, pur andando spesso alla macchina del medico, era in quella fuga, in cui forse è capitato ma in cui ha fatto di tutto per restare. Pensate che era con Berwick, Denz, Skujiņš, Tonelli quando, ancora una volta in maniera quasi casuale, questi quattro hanno staccato tutti gli altri fuggitivi. Poi ha dovuto lasciare, certo, ma si è alzato, è partito e, così facendo, ha anche trovato delle forze che, probabilmente, in albergo, nemmeno pensava di avere. Succede, più spesso di quanto si creda. Per questo lo ripetiamo: alzarsi e partire.

Poi può pure capitare che, dopo essersi alzati ed essere partiti, dopo essere entrati nella fuga di giornata, gli equilibri si rompano, il nervosismo della stanchezza e delle incomprensioni prenda il sopravvento, e per ventisei di quei trenta sembri un'occasione sprecata. Probabilmente lo è. Non è facile per Davide Formolo, per Alberto Bettiol, per Christian Scaroni, per Alex Baudin, per molti altri, che, erano nel posto sbagliato nel momento giusto, che, pur in fuga, non erano sulla fuga di testa, su quella che si è giocata la vittoria. Non sarà facile perché più le occasioni sono vicine, più fa male perderle. Eppure anche loro, domani mattina, poche ore prima di una tappa che promette pioggia, freddo, salite e acido lattico, lo ripeteranno: alzarsi e partire. Il resto si vedrà.

Alzarsi e partire che è quello che si fa in volata. Quello che Nico Denz, a Rivoli, ha fatto dalla testa del terzetto, la posizione peggiore per una volata, eppure ha vinto. Ma Denz si era alzato ed era partito già stamani e ancora in salita, quando sembrava dovesse staccarsi da un momento all'altro, quando era tutto unghie e denti. Stretti. Alzarsi e partire, magari sui pedali. Sarà per questo che alzarsi sui pedali, in bicicletta, evoca tanta di quella libertà che non sta nemmeno negli orizzonti più vasti e nelle praterie sconfinate. Sì, perché ci si alza sui pedali e si parte. Non per vincere, per continuare.

A questo volevamo arrivare: i sogni restano, si custodiscono, ma spesso basta essere secondi, per vederli lontani, troppo lontani, essere scorati, quasi fosse rimasto un pezzo di cuore in meno per crederci ancora. I sogni sono un atto d'amore, ma anche continuare è un atto d'amore. Uno di quegli atti d'amore silenziosi, che, senza troppo rumore, fa la storia. Non del mondo, la nostra. A patto di alzarsi e partire. Ancora una volta.


Via dei mancati rimpianti

Forse, proprio in giornate come questa, è importante passare da "Via dei mancati rimpianti". Una via a cui abbiamo pensato oggi, che è un non luogo, in cui, però, ci si può ritrovare. Forse proprio in "Via dei mancati rimpianti" si possono capire tante cose, quando la malinconia delle cadute, quelle di Tao Geoghegan Hart e Oscar Rodriguez, su tutte, costringe al ritiro. Mentre vedere un ciclista che non si rialza spaventa, perché il tornare in piedi e riprendere la bicicletta è un gesto automatico e, se non accade, quanto deve essere il dolore?

In "Via dei mancati rimpianti" si spiega ogni scatto, ogni fuga, si spiega quella fatica portata all'esasperazione, anche quando vorresti solo dire "respira, non fa nulla, anche se non va". Perché in quel momento, quando si deve andare via, su una barella, quando si ha male e non ci si riesce a muovere, non avere alcun rimpianto, o per quanto averne il meno possibile, è l'unica consolazione. In "Via dei mancati rimpianti" c'è la sofferenza di Alessandro Covi che, con addosso le ferite e la paura di quella caduta, è arrivato a Tortona. C'è Pavel Sivakov che, dolorante, aspetta che Tao Geoghegan Hart venga caricato in ambulanza prima di ripartire. Lì, da qualche parte, c'è anche chi, rialzatosi, sposta con delicatezza ogni bicicletta e chiede a Geoghegan Hart come stia.

In "Via dei mancati rimpianti" c'è, probabilmente, anche il motivo per cui Fernando Gaviria, talvolta, lancia la volata troppo lunga: perché può capitare di cadere come oggi, di non poterla lanciare, quella può essere voglia, desiderio. Umano. Da dietro un angolo, al ritrovo in quella via, spunterà anche Laurenz Rex: inventore della fuga di oggi, ultimo a cedere, con il gruppo che da chilometri lo braccava. Perché? Perché se si cede e, poi, si scopre che con un secondo in più, un metro in più, si sarebbe potuti arrivare, cosa si fa? Come ci si sente? Ne parleremo con lui, che certamente sa l'indirizzo di "Via dei mancati rimpianti", come ben lo conosce Stojnic, il penultimo a mollare. Tutti gli uomini delle fughe lo sanno, loro che di rimpianti proprio non vogliono averne.

Magari scopriremo che ad aspettarci c'è già Andrea Vendrame, che, dopo giorni e giorni, dopo quella brutta caduta sull'asfalto bagnato e tanto dolore, ha dovuto ritirarsi. Rimpianto è ciò che si sarebbe potuto fare e non si è fatto: chi ha corso come lui, non può averne oggi, anche se non essere più al Giro spiace. I mancati rimpianti sono quelli di Thomas Champion che sta contando i chilometri all'attacco, per totalizzarne più degli altri, per percorrere più strada, da solo o con pochi, cercando la luce di un ideale, di un sogno. Sono quelli di Pedersen e Milan che si sfidano da giorni per i punti della maglia ciclamino, anche se l'arrivo è lontano, la volata un miraggio, eppure quei punti proprio non vogliono perderli, nemmeno se sono pochi, nemmeno se è uno soltanto.

In "Via dei mancanti rimpianti" è possibile parlare con Milan di questa volata, a velocità incredibile, potente, energia e fiato. Ha ammesso di aver sbagliato posizione per partire e a questo rimedierà, ma in "Via dei mancati rimpianti" verrà volentieri, perché ha spremuto ogni goccia di aria su quel rettilineo, senza remore, anche se era difficile visto come si erano messe le cose. Davanti a lui, solo Ackermann, dietro di lui Cavendish, che erano giorni che annusava la volata e, oggi, in salita si è aggrappato ai compagni, l'unica fiducia possibile, per restare col gruppo e, nonostante, la difficoltà, disputarla quella volata.

In "Via mancati rimpianti" c'è anche un bambino: quello che, qualche giorno fa, si è fatto autografare un tappo di spumante dalla maglia rosa. Non c'era altro e ha scelto quello, ma l'autografo lo ha, non ha sprecato l'occasione, il momento. In "Via dei mancati rimpianti" ci siamo tutti, per ogni volta in cui sentivamo di dover dire o fare qualcosa e l'abbiamo detto o fatto, anche se avevamo paura, anche se non è stato capito o guardato come avremmo voluto. E, diciamo di più, lo rifaremmo. Perché crediamo a "Via dei mancati rimpianti", come ci credono i ciclisti, anche se non sappiamo bene dove sia. Per questo continuiamo a cercarla e a pedalare.


Maschere

Maschere. Perché Viareggio ed il suo Carnevale sono maschere. Perché sotto la pioggia battente ed il freddo, ogni volto è maschera: la pelle è modellata dal freddo e scolpita dalla pioggia. Gli occhi sono più occhi, gli zigomi diventano appigli, le sopracciglia scolpite, persino i baffi appaiono immobilizzati e gonfi. Ogni linea del volto è tratteggiata: così appare il viso di Magnus Cort Nielsen, che vince nel giorno della fuga, del Passo delle Radici, della nebbia, di un presagio di novembre. Maschere perché anche essere ciclista è una maschera, come ogni lavoro, dentro e dietro a quella maschera, desideri umani: quelli di Nielsen che vorrebbe scalare il Kilimangiaro e vedere un film sotto le stelle, accanto a una tenda.

Dietro a quella maschera, un bicchiere di buon vino a Natale ed i bambini che giocano su un tappeto: è Alessandro De Marchi, che, a trentasei anni, riesce ancora a cogliere alcune prime volte nelle fughe- lo ha fatto alla Strade Bianche ed a Napoli- seppure le sue fughe siano innumerevoli, il fatto però che, ogni volta, vi trovi qualcosa di nuovo, racconta la sua capacità di viverle quelle fughe, di guardarle e di coglierne un significato altro dalla vittoria a fine corsa. Così ha attaccato anche oggi, ha portato via la fuga, ha fatto le discese in testa, stanco, così stanco, dopo più di 190 chilometri, da perdere per un attimo le ruote di Gee e Cort Nielsen sul rettilineo d'arrivo e, poi, da ritrovare energie chissà dove e sprintare. Terzo. Chissà dove? Nella strada che ancora c'è, rifugio della paura e del coraggio. De Marchi, da tempo, ha scelto il coraggio.

Maschere come una maschera è la fuga: quasi una catarsi, una purificazione, per chi la compie e per chi la guarda. Nella società, per gli uomini e le donne fuggire, lontani da tutto e tutti, può essere un desiderio di qualche tempo, poi diventa terrore, perché degli altri si sente necessità, anche solo della possibilità degli altri, di cercarli, di sentirli, di guardarli. Vedere un uomo in fuga è come vedere un cinema, affrontare quel brivido attraverso un gesto che è realtà e metafora. Una particolare forma di teatro.

Maschere di dolore, con un braccio alzato e i denti stretti: Warren Barguil, che non riusciva neppure ad appoggiare la mano al manubrio eppure è ripartito. È arrivato centotrentanovesimo, dopo più di 23 minuti. Ovvero 23 minuti in più di pioggia e dolore. Quel tempo in più che vorrebbe chi è felice, lo ha chi patisce. Una volata vincente dura pochissimo, una caduta dura da lì a chissà quando. Le maschere più difficili da togliersi, perché non si possono levare, devono andarsene da sole. Non c'è trucco. Non è un carnevale.

Maschere di fatica: quella di Milan e di quella linguaccia a dire "sono a tutta", in salita e poi in volata. Mentre sta dando tutto e dopo averlo dato. Questo dare tutto è qualcosa che riappacifica con chi si è, con quello in cui si crede. Potrebbe scrivere molto sul tema Pasqualon, che, in una maschera sempre più disegnata dalla pioggia, è tornato in testa al gruppo per aiutare Milan. Credono in questo i ciclisti, crede in questo chiunque si sforzi di andare avanti anche quando fermarsi sembra semplice, persino ovvio, anche quando la maschera è di delusione, di freddo che ha fatto il nido nelle ossa: chiedetelo a Dainese, a Groves, a Gaviria, a Matthews e a tanti altri.
Maschere per provare a partire anche se non si è stati bene: così ha fatto Aleksandr Vlasov, maschere per tranquillizzare chi chiama da casa dopo un infortunio, una madre, un padre, una moglie, un figlio, ancora maschere di scalatori come Davide Bais che, a sera, in camera, pensa alla baita di montagna che sta ristrutturando.

Proprio in quelle camere, in un momento di solitudine, le maschere cadono: resta tutto quello che non si dice, che non si mostra, ma che si ha dentro. La delusione più profonda, il timore di sentire male, di arrendersi, di deludere. Perché, alla fine, solo di uomini si tratta. Ed è proprio questo quel che più vale.