“Bota lume”. Potremmo anche dirlo in italiano: “Accendi il fuoco!”. Ma così è più diretto, più simile a quello che si potrebbe gridare mentre il freddo stringe, immobilizza, rallenta. “Bota Lume” magari gridato da Charly Gaul, a qualcuno, in quell’8 giugno del 1956, nella bufera di neve che avvolse il Bondone, mentre gli tagliavano la maglia per togliergliela di dosso, ghiacciata, come il suo corpo. Ma Gaul era lussemburghese e “bota lume” non lo conosceva. Però scappava dal freddo, scalava per lasciarsi il freddo alle spalle, scattava per andare lontano da quella neve. Chiese un bagno caldo, il suo fuoco. João Almeida, invece, conosce bene “Bota lume”, sa il suo significato. Lo chiamano così, un soprannome che è un invito, un indole. Si legge “accendi il fuoco” anche nelle linee del volto, mentre si arrampica e porta avanti uno scatto infinito. Uno scatto che inizia ben prima del momento in cui si alza sui pedali e va. Si accende così il fuoco e presto si scopre che accendere il fuoco non è solo questione di freddo.
Il 23 maggio del 2023, tra l’altro, non c’è neve sul Bondone, ma una pioggia fine, che rende lucide le strade ed i muscoli, definendo ogni spasmo. Un flash: Filippo Zana che, dopo una giornata in fuga, ripreso dal gruppetto dei favoriti, fa il ritmo per Dunbar. Spalanca gli occhi, li chiude, apre la bocca, non sappiamo se gridi, ma un doppiatore esperto potrebbe inserire un suono, un urlo, in quel frammento di immagine e sarebbe perfetto. Le smorfie, le grida, sono un modo per “mettere a terra” la fatica. Sì, c’è anche una messa a terra della fatica, prima di lasciare. E si lascia svuotati, a zig-zag: vale per Zana, per Dennis, per McNulty, per Vine e per tutti gli uomini della Jumbo Visma che hanno fatto il ritmo per Primož Roglič. Questo intendiamo quando parliamo di scatti infiniti, scatti che iniziano prima di scattare, che litigano con ogni fibra di un muscolo, omaggio alla sofferenza. Di Bruno Armirail che prova a resistere e deve arrendersi, di tutti coloro che, in coda al gruppo, non sanno più cosa sperare: certe volte, forse, nello scatto più forte, che recide il legame e qualunque forma di fiducia nel ricucire. Perché anche credere è faticoso.
Le persone avvolte in una mantellina a bordo strada oppure sotto la pioggia, le persone che hanno già visto passare il Giro in un giorno in cui non è accaduto nulla di particolare, quelle che sono a casa e lo vedranno passare fra qualche giorno o, forse, l’anno prossimo sperano in uno scatto. «Bota lume, scatta, alzati sui pedali, accendi quel fuoco»: non a un ciclista in particolare, a tutti, perché lo scatto è un gesto universale. Quel fuoco brucia dentro anche a Formolo, che tira, impaziente: lui sa cosa c’è dietro le quinte, quello che ha in mente Almeida. Ma c’è ancora il sipario.
Scena. Strada stretta. Pioggia. In testa Almeida, veloce, più veloce, un passo indietro, una pedalata più lenta, un momento di controllo e scatta. “Bota lume”. Si accende lentamente la fiamma, ma scalda, fa metri, secondi, il fuoco è così: nei suoi colori che si intrecciano, spariscono e ritornano, nelle forme, nelle punte. Così è lo scatto di João Almeida, Kuss lo guarda, cerca di mantenere un’andatura costante, Thomas riparte, si riporta su Almeida. E qui che la verità si mostra, che l’elastico, teso, più teso che mai, si spezza: per Roglič non è la giornata buona. Venticinque secondi di ritardo per lui, da Almeida che supera Thomas. Geraint Thomas: la nuova maglia rosa. Quarto Damiano Caruso.
Non c’è neve, ma c’è un fuoco acceso sul Bondone. Un fuoco che non ha a che vedere con il freddo, con le fiamme, ma con la predisposizione, con la volontà. Con il caos in cui cercare la calma, con la calma in cui trovare il caos. Con l’idea che, a forza di fare sempre meglio, sempre il proprio meglio, verrà quel giorno. Che, a forza di aspettare, verrà quel giorno. Quel giorno che per João Almeida è anche oggi.