La verità di van Aert, gli inganni del Nord

La Gand-Wevelgem è una corsa che tesse inganni. Sono poco più di ventotto i chilometri da Ypres a Wevelgem, il percorso, invece, si snoda in un budello attorcigliato che somiglia a una litania dolente. Scherpenberg, Vidaigneberg, Baneberg, Monteberg, Kemmelberg e si torna a ripetere ogni muro, senza logica e senza ordine.

Il vento oggi è un dinamitardo impazzito che imperversa da destra a sinistra, da sinistra a destra. I ventagli sono l'unica possibilità per non esserne respinti, assecondare la rabbia dell'aria, le sue sberle, per restare attaccato alla ruota che hai davanti e che sembra sempre più distante. Chi perde un metro non lo recupera più. Così il gruppo si disperde in tanti rivoli, ferito irrimediabilmente, smembrato.

Mancano ancora cento chilometri all'arrivo e davanti sono solo venti uomini a giocarsela senza ritegno. Tra di loro Wout van Aert, Matteo Trentin, Michael Matthews, Stephan Küng, Sam Bennett, Sonny Colbrelli e Giacomo Nizzolo. Procedono veloci, appaiati, quasi raggruppati, si scrutano, si controllano mentre la sabbia alzata dal vento sembra risucchiata dal cielo e le pietre stortano le bici e le bocche che in certi istanti sembrano deformarsi, il ghigno della fatica. Dietro gli inseguitori cadono nella ragnatela della menzogna del tempo, di quel minuto di distacco che sembra poco e invece è troppo: così Štybar prova a rientrare con Ballerini, così Van Avermaet e Arnaud Démare sgasano a vuoto, illudendosi ed illudendo.

Wout van Aert è un attore alla prova generale al secondo passaggio sul Kemmelberg. Chissà cosa avranno pensato quelli che gli erano a ruota, mentre il respiro faticava a salire. Chissà cosa avrà pensato Bennett ad ogni curva, ad ogni discesa, ad ogni strappo, mentre il suo stomaco sembrava ribaltarsi per gettare fuori qualcosa di indigesto. In certi momenti la verità non è ammessa, bisogna fingere e far credere agli altri che è meglio che ti temano perché in volata sei più veloce. Anche la paura può spezzare le gambe, in questo spera Sam Bennett.

Sarà un nuovo attacco di van Aert sul Kemmelberg a lacerare ogni finzione. Bennett resta in coda, perde dieci, quindici metri. La nausea si trasforma in conato di vomito, sembra una liberazione, nonostante il tremore e la debolezza. È questa la forza che gli permette di tornare in testa a tirare, come se niente fosse successo. Sta mentendo l'atleta Quick Step ma il corpo non lo inganni, le viscere sentono tutto. Sembra una Pietà quando si sfila, testa bassa, poi alta, poi di lato, sudore freddo e gambe ferme. A raccattare ossigeno chissà dove per non fermarsi e buttarsi a terra.

Ci si avvicina sempre più a Wevelgem. Van Aert parla con il compagno Van Hooydonck: a tutta, andatura alta per scongiurare attacchi. Chi prova, rimbalza. Lo sa bene Küng che è l'enigma dell'impotenza quando prova ad allungare all'ultimo chilometro come quando parte lungo, troppo lungo, ai quattrocentocinquanta metri dalla linea bianca del traguardo.

Non c'è più tempo per aspettare, le gambe scalpitano nervose. Van Aert lancia la volata a centro strada e non c'è più storia che tenga. Sembra tutto facile anche se facile non è, dopo duecentocinquanta chilometri. Nizzolo e Trentin partono dal fondo, quasi sollevano la bicicletta dai colpi che danno sui pedali, rimontano tutti, non lui che fa corsa a parte. Lui che ringrazierà il compagno di squadra, che dirà che è stata dura, durissima, perché, quando si è solo venti in gruppo, quel vento contrario devi affrontarlo a viso aperto a costo di sembrare incosciente. E poi quel «sono felice», che spesso non si ammette, che si ritiene scontato, ed invece oggi sì, come una liberazione dalla fatica. Perché la fatica rende tutto tremendamente vero, nel senso di onesto, spietato, anche crudele, se volete. Come una bicicletta, come un uomo.Foto: Vincent Kalut/PN/BettiniPhoto©2021


Asgreen trova le risposte giuste

Che cos'è una corsa ciclistica se non un tentativo gagliardo a volte, masochista spesso, di cercare se stessi e poi trovarsi? Un limite spinto più in là, un elogio della bellezza, un'elegia della fatica. Bellezza, limiti, fatica: tre parole che spiegano bene la giornata di Asgreen. Partito gagliardamente a poco più di sessanta chilometri dall'arrivo, ripreso nel dolore (suo e nostro che a un certo punto imploravamo pietà) quando ne mancavano dodici e dopo che gli inseguitori lo hanno avuto a tiro per un'ora, un'ora e mezza.
Ripartito per ritrovarsi quando ne mancavano quattro e poi rivisto e ritrovato all'arrivo, in quella maglia rossa di campione di Danimarca, indubbiamente tra le più belle in gruppo.

E bisognerebbe poi fermarsi un attimo e lanciarsi in un atto di esaltazione del collettivo (Deceuninck) Quick Step, oggi ai massimi termini. Perfetti in ogni frangente di corsa, straripanti. Visione di gioco totale dello schema di gara: mosse semplici quanto efficaci. Ho il collettivo migliore? Tutti muovono nella stessa direzione? Non ci sono van der Poel e van Aert che tengano, allora. Almeno non oggi, quando l'olandese è, a tratti, apparso incerto sul da farsi e in soggezione per la spietata superiorità numerica in blu e quando il belga, invece, dopo aver affrontato la fase finale di corsa tutta in testa, all'improvviso si è spento. Sono (splendidi) umani pure loro: questa è una delle storie più interessanti di oggi. Il ciclismo è anche uno sport di squadra, una lezione importante.

Ma vediamo la migliore formazione in campo oggi. Deceuninck Quick Step era il soggetto: se Asgreen è una splendida punta (e una superba locomotiva), Štybar e Senechal – e a tratti Lampaert – sono stopper d'altri tempi, di quelli che si attaccano alle caviglie e non ti mollano. Mentre Ballerini è specchio per le allodole – e fa gola ai bookmakers – e da Van Lerberghe e dal solito amabile Declercq parte la costruzione dal basso.

E che cosa è stata la corsa di oggi? Ci siamo fermati un po' a riflettere: le ultime due ore da farsi venire un colpo. Duecento chilometri in Belgio e al via (quasi) tutti "i meglio fichi del bigoncio mondiale".  O almeno in questo modo li chiamerebbe uno che una volta definì così Van Steenbergen, Coppi, Koblet e Bobet all'inseguimento di Forestier e Scodellier nella Roubaix del 1955. Ma non divaghiamo.

Che cos'è l'E3 Harelbeke, quindi? Così giovane rispetto ad altre corse del Nord ma ormai ambita pietra miliare. Aizza polemiche con locandine il più delle volte da velo pietoso. Cambia nome ad ogni cambio di sponsor come una franchigia del basket. Prima Harelbeke-Anversa-Harelbeke, poi E3 Prijs Vlaanderen, E3 Harelbeke (come ci piace chiamarla ormai: E3 come l'autostrada che si incrocia ai -9 dall'arrivo), poi E3 BinckBank Classic, e poi, infine oggi, E3 Saxo Bank Classic. Qui dove un certo Boonen ha vinto cinque volte e un certo Merckx mai. Dove i belgi, di casa, negli ultimi anni si sono sentiti fuor d'acqua: se è vero che, a scorrere l'albo d'oro, negli ultimi dodici anni hanno messo la bandierina solo due volte.

Qui si danno appuntamento per la prima volta sulle pietre nel 2021 van der Poel e van Aert – mancava Alaphilippe – costretti dalle vicissitudini di corsa persino a fare squadra. E vederli cercarsi con lo sguardo nel finale è stato quasi tenero, lo ammettiamo.
Una corsa dove alla vigilia i corridori della Vini Zabù (unica squadra italiana alla partenza – nessun corridore della squadra di Scinto classificato all'arrivo) si dilettano in un simpatico siparietto, che vi consigliamo di cercare in rete, sulla loro conoscenza dei muri che avrebbero affrontato in gara - spunta persino uno Scintoberg.

Quei muri, così difficili da mandare a memoria che ti serve una guida alla corsa sempre sotto gli occhi per identificare il Taienberg, il Kanarieberg o il tratto chiamato Karnemelkbeekstraat, che vuol dire semplicemente “la strada del burro fuso“. Muri così difficili non solo da memorizzare per noi e da scalare per loro, ma anche da ripetere ad alta voce con il rischio che ti allappi la lingua e ti si secchi la gola.
Che cosa sono dunque tutti quei muri sparsi mica regolarmente per i duecento chilometri di corsa, ma infilati come il ritmo improvviso di una canzone freak-noise? E così via a farci domande su domande.

E le risposte non si fanno attendere. Arrivano da prima del via: fuori la Bora e con loro Politt, qualche chance la nutriva pure lui: Walls è positivo, la squadra resta al palo. Le risposte le troviamo subito alla partenza: vento forte e nuvole minacciose (che rimarranno tali – un velato monito) tra corridori che sbadigliano dalla tensione e un van der Poel che si maschera dietro una bieca indifferenza.

Le risposte le dà subito il gruppetto in fuga, vecchie glorie (Terpstra e Greipel) giovani rampanti con la scorza dura tra cui Jonathan Milan: se qualcuno non se lo fosse ancora segnato il suo nome, si appresti a farlo, in una giornata magrissima di gioie per i colori italiani (un periodo per la verità che dura da diverse settimane), lui splende (l'è un gran Milan verrebbe da dire, scusate non abbiamo resistito) e in futuro (magari già a Tokyo su pista) splenderà. E poi Haller, fra i meno timorosi davanti, che nonostante la fuga da lontano sarà protagonista con un decimo posto finale, eccetera.

E poi ci sarebbe ancora da dire molto, ma la facciamo breve: Simmons che attacca da solo a ottantaquattro chilometri dall'arrivo perché anche lui ha coraggio da vendere e fa sorridere pensare che quando doveva ancora compiere cinque anni, Greipel, oggi in fuga, correva la sua prima E3. Ci sarebbe da dire dell'attacco concertato dai Quick Step sul Taaienberg, detto Boonenberg un tempo, come ci fosse ancora il campione belga. E poi l'attacco di Asgreen a sessantasei dall'arrivo, van der Poel e van Aert che vanno d'amore e d'accordo, ma non serve a nulla, Van Avermaet che fa ostruzionismo e non si capisce ancora dopo tanti anni come voglia correre, e poi gli italiani che scompaiono, Van Baarle che appare, la Quick Step che spaia e vince. Domande tante e le risposte giuste le trova Asgreen, mentre il suo compagno di squadra Sénéchal è secondo a completare la giornata perfetta, van der Poel terzo e van Aert, cotto a puntino nel finale, undicesimo.

Foto: Nico Vereecken/PN/BettiniPhoto©2021


Se a Cittiglio non fa primavera...

Nei giorni scorsi, qualcuno aveva detto che, tutto sommato, non era dispiaciuto per la nevicata caduta su Varese venerdì. «Se fa freddo, stare in casa può anche essere un piacere. E poi non ti ricordi che sta ripartendo il ciclismo e che non puoi andare a vederlo». Alla fine, si può fingere anche di dimenticare, per non soffrire troppo o semplicemente per non ammettere che si sta soffrendo. Pensando a questo, quelle strade deserte, tra Cocquio Trevisago e Cittiglio, nel giorno del Trofeo Alfredo Binda fanno meno male, perché puoi dirti che quando tornerà primavera sarà tutto come prima e che questa volta non sei salito ad Orino solo perché fa troppo freddo.

Lì dove i bordi dei campi sono pezzati dalla neve e la luce filtra dagli alberi come nelle albe che, se sei abbastanza avventuriero, puoi gustarti scostando i margini di una tenda che hai piazzato il giorno prima. Lì dove Katarzyna Niewiadoma ritrova coraggio e attacca, quasi per dire basta a tutti gli scatti e i controscatti e ritrovare la propria andatura, il proprio respiro.

Elisa Longo Borghini non ha tempo per pensare, solo per sentire. L'attacco giusto lo percepisci, spiegano le atlete, non è ragione, è istinto. L'ossolana ritrova la ruota della polacca, la affianca, la supera e continua in progressione.
La progressione è pazienza, attesa. Può essere frustrazione perché quando sei al massimo vorresti creare subito il varco, non vorresti sentire il rumore dei pedali e delle catene delle inseguitrici, il loro ansimare e la loro voce mentre discutono la posizione da tenere per venirti a riprendere. Da dieci i secondi diventano quindici e tu vorresti essere oltre il minuto perché hai paura che la luce si spenga e quella generosità finisca per punirti come già ti è accaduto altre volte.

Ma la progressione è anche logorio, lento sfinimento e quei secondi, così pochi per Longo Borghini, diventano immensi per Marianne Vos, Soraya Paladin, Katarzyna Niewiadoma e Cecilie Uttrup Ludwig. E percorrono strade che le atlete faticano a riconoscere pur conoscendole da anni. Sì, perché la gente sui marciapiedi, cambia anche la fisionomia dei luoghi, l'asfalto. Per questo quando si ritorna sul traguardo, qualche ora dopo l'arrivo del gruppo, sembra di non riconoscerlo più. Perché è vuoto, peggio, è svuotato.

Longo Borghini pedala che è un piacere, guadagna tempo in salita e sembra quasi sorridere. Il coraggio di voltarsi non lo ha ancora, nemmeno sul rettilineo, nemmeno quando la sua solitudine è inafferrabile. C'è un gusto particolare nell'essere soli, qualcosa di sconosciuto ai più, qualcosa che solo gli scalatori possono raccontare. Qualcosa che provi solo in sella, perché nella vita è tutto diverso, nella vita perdersi è molto più facile. Questo ha capito Elisa Longo Borghini quando ha detto grazie a tutti coloro che erano con lei, domenica, sulla strada o no. Perché la presenza è come lo scatto, è sensazione.

Questo hanno capito i suoi nipoti che, al ritorno a casa, le hanno appeso al collo una gigantesca medaglia di plastica. Sì, perché le dimensioni nei disegni dei più piccoli non seguono la realtà dello spazio che ci circonda, seguono la verità dell'importanza che loro danno alle cose. Così gli occhi che ti guardano possono essere più grandi di tutto il viso, o le mani che carezzano più lunghe del braccio. Così una medaglia più essere più grande di Elisa, che dopo otto anni è tornata a vincere a Cittiglio.

Foto: Roberto Bettini/BettiniPhoto©2021


Jasper Stuyven lo sa molto bene

A pochi passi dal Castello Sforzesco, un anziano signore si sistema il borsalino sul capo e rivolgendosi ad una donna che lo osserva commenta: «Non avrei nemmeno voluto metterlo, ma mia moglie ha insistito tanto. “Copriti bene che fa freddo!”. Sarà perché divento vecchio».

L'alba sorprende Milano spolverata da un leggero velo di brina e l'aria frizzante del primo mattino consiglia prudenza. Ai bus delle squadre si riempiono le borracce con del tè caldo. Dopo la partenza della gara, su una borraccia abbandonata si fionderà un distinto cinquantenne ma non la raccoglierà, intenerito dallo sguardo di un ragazzo ad osservarlo. Ci dirà: «Era bella, peccato. Non potevo portargliela via, non me la sentivo. Del resto, sai quante ne ho a casa di quando venivo a vedere la partenza della Milano-Sanremo da scolaro?».

Pochi metri più in là, Mathieu van der Poel sostiene che la gara oggi si deciderà sulla Cipressa, Wout van Aert, invece, parla del Poggio. Più cauto è Julian Alaphilippe che invita tutti alla tranquillità: «Abbiamo davanti trecento chilometri, non facciamoci prendere dalla frenesia. La fretta è cattiva consigliera». Ognuno racconta una storia diversa, qualcuno mente sapendo di mentire, altri non sanno davvero cosa aspettarsi, perché una corsa come la Sanremo è davvero imprevedibile.

Vincenzo Nibali allarga le braccia e sorride quando gli chiedono quanto senta la pressione. «Si sente, certo. Ma d'altra parte è così: alla Sanremo non vai per godertela, vai per fare la corsa».
Non serve raccontarlo agli otto uomini che, per citare Gianni Mura, vanno “alla ventura”, che è avventura e sventura, spesso entrambe le cose, legate da un filo sottilissimo. Tra di loro Charles Planet e Andrea Peron, del Team Novo Nordisk, hanno una motivazione particolare per fare fatica e un passato da conoscere. La maglia della squadra ricorda i cent'anni dalla scoperta dell'insulina per la cura del diabete, Andrea Peron sa qualcosa in più: «Ho scoperto di essere diabetico a sedici anni, l'ultimo anno da dilettante ho vinto diverse corse, alcuni mi hanno comunque sbattuto la porta in faccia. Si tratta di ignoranza e pregiudizio. Il ciclismo mi ha fatto bene, mi ha tenuto fuori dai guai che, volente o nolente, da ragazzo puoi ritrovarti addosso».

Arrivando all'Aurelia sembra di precipitare in un varco temporale. Tutto è più veloce, cambia il paesaggio, si intravede il mare, variano le intenzioni. Alessandro Tonelli prova a dare nuova linfa a una fuga senza più respiro. I tre capi e l'imbocco della Cipressa saranno una campana a morto per ogni speranza in via Roma. L'attesa è un battito che cresce. Le pedalate della Jumbo Visma e della Ineos sulla Cipressa sono aghi conficcati nei muscoli già rigonfi di acido lattico di chi annaspa in coda al gruppo. Un elastico che si allunga, si accorcia e poi si strappa. Mathieu van der Poel è nel punto di rottura dell'elastico, oltre la metà del Poggio, quando lo coglie la coda dell'occhio di Julian Alaphilippe. Scatta così l'iridato, denti digrignati e massimo sforzo spingendo sui pedali, Wout van Aert è la sua ombra. Van der Poel scatta dalla pancia del gruppetto di testa, teso, deciso, convinto, quasi a voler cancellare un ricordo, quello di pochi giorni fa, quando, in Toscana, proprio Alaphilippe lo sorprese e lo beffò mentre era troppo indietro per lanciare la volata.

Davanti accelerano, si guardano, notano che Caleb Ewan è ancora lì. Qualcuno pensava che il malessere alla Tirreno-Adriatico potesse essergli restato sulle gambe e, a vederlo, inizia ad interrogarsi: in una situazione simile è il favorito. I grandi attesi della mattinata di Milano iniziano a pesare ogni mossa, non si è riusciti a fare la differenza prima, azzardare adesso è troppo rischioso. C'è troppo da perdere.

È in quell’istante che alla mente di Jasper Stuyven si affaccia un pensiero: «Tutto o niente». Stuyven che era un bel nome, ma non certo uno dei favoriti. Stuyven che non era marcato perché “ci sono van Aert e van der Poel”. Stuyven che è scattato e non lo hanno più rivisto sin dopo il traguardo. Anzi, ancora peggio. Lo hanno visto sino all'ultimo, a ruota di Kragh Andersen, sempre troppo lontano per richiudere.

Il belga è una sorta di illusione, uno specchio pronto ad andare in frantumi. Anche quando il gruppo di biciclette dietro di lui si imbizzarisce, proprio sulla spinta di Caleb Ewan che ha lanciato la volata degli sconfitti.

Alla fine non ci sarà nemmeno un secondo di distacco tra Stuyven , Ewan e van Aert. Avrebbe potuto essere una volata di gruppo, non lo è stata. Caleb Ewan dirà che non avrebbe potuto fare diversamente, che solo quello era l'attimo perfetto per sprintare.

La sconfitta brucia, come la gola in cui si getta acqua spremendo la borraccia quasi a spegnere un fuoco. Puoi raccontarti qualunque storia, ma c'è sempre quella voce a sussurrarti ciò che avrebbe potuto essere, ciò che avresti potuto fare e quella non riesci mai a zittirla. Van der Poel lo ammetterà: «Siamo partiti troppo tardi per controllarci». Controllarsi, in fondo, vuol dire soppesare il “tutto” ed il “niente” e vedere l'abisso che c'è tra l'uno e l'altro. Per questo non scatti, perché il niente ti spaventa. Così si resta a mani vuote, perché quando aspetti, in fondo, sei sempre a mani vuote, il resto è speranza. Jasper Stuyven lo sa molto bene, molto meglio di altri, per questo è scattato. Per questo ha vinto.

Foto: Tommaso Pelagalli/BettiniPhoto©2021


Viaggio al termine della notte

Dai Due Mari ci si sposta a Milano per poi tornare di nuovo verso il mare. Sembra un gioco, ma non lo è: la Milano-Sanremo è affare più che serio. Si cerca tra le righe un canovaccio differente, si discute come al bar, ci si piglia oppure si è totalmente in disaccordo, ma gli unici a poter far quadrare i conti sono sempre gli stessi.

Certezze, almeno, in un'epoca di incertezze: Alaphilippe, van Aert e van der Poel, favoriti anche qui, come alla Strade Bianche. Forse persino un po' di più dopo la luce emanata alla Tirreno.

Nel 2019 Alaphilippe fu primo sugli sterrati e poi alla Sanremo; nel 2020 è toccata una sorta simile a van Aert e dunque il 2021 può sembrare già scritto. Per cambiare quell'idea che tutti abbiamo fissi in mente serviranno diversi ingredienti. Ma quale idea? Van der Poel che scatta come un forsennato sul Poggio («Non penso al record di scalata, ma solo a tagliare il traguardo per primo» ha detto ieri) e poi vince, dopo che un gruppo di fuggitivi si sgancia in mattinata e viene ripreso strada facendo, col futuro segnato nelle stelle e con il coraggio ben descritto dentro di ognuno di loro.

Servirà un incrocio di destini discrepanti volti a cucinare una corsa dall'esito - solitamente - così incerto da far figurare una rosa di quaranta nomi tra i favoriti, ma che fa dello svolgimento lineare il suo marchio. Si sonnecchia per sei, sette ore e si sobbalza all'improvviso come un interminabile jumpscare di una pellicola horror. Ma domani potrebbe essere tutto diverso.

Se ci mettiamo un pizzico di freddo, come previsto, anzi tanto freddo, e forse magari un po' di pioggia chi lo sa (nelle ultime ore diminuiscono le possibilità), e il vento che potrebbe essere persino gelido, allora qualcosa potrebbe cambiare. Carte lanciate alla rinfusa in mezzo a una sala, margini tra potenti e abbietti che si fanno ancora più ampi o viceversa, valori che emergono a sorpresa.

Certo non si dovrebbe andare incontro a una Sanremo come quella del 1910 vinta da Christophe, altrimenti invitiamo chi ha una casa lungo il percorso di tenere acceso il caminetto per dare una mano ai corridori dispersi – anche se eventualmente ci sono i bus delle squadre; non si dovrebbe prospettare nemmeno qualcosa di simile al 2013. Gara sospesa, trasferimento in bus e poi parte finale come da tradizione in bicicletta.

Belletti rischiò di rimetterci le dita per il freddo, Haussler, per contro, corse senza guanti, ma lui è fatto così. Vinse Ciolek in una di quelle vittorie a sorpresa che appaiono di tanto in tanto negli albi d'oro delle grandi corse. Un suo compagno di squadra, Songezo Jim, raccontò di come per la neve a un certo punto si ritrovò a guidare la bici con gli occhi chiusi e di come, una volta arrivati, non riusciva nemmeno a cambiarsi gli indumenti per il freddo. No, in teoria non dovremmo ridurci a quello. Nonostante un inverno che tarda ad abbandonarci.

Lo scenario più plausibile diviene così l'attacco devastante - è il caso di dirlo - sul Poggio: van der Poel che parte, Alaphilippe e van Aert lo tengono a tiro leggermente sgranati l'uno dall'altro, e poi giù tutti e tre verso Sanremo, e gli altri a inseguire, ma occhio: la discesa del Poggio può far male.

Si sogna e si spera imprese da lontano: a costo di essere smentiti ci crediamo poco. La Rai ci crede di più e per la prima volta attaccheranno con la diretta dal chilometro zero. Manna dal cielo per i tanti fissati che si collegheranno sin dalla colazione (ore 9.15 circa), non vorremmo essere nei panni di chi quella trasmissione dovrà gestirla, né di qualcuno meno appassionato e capitato per caso a vedere le prime quattro, cinque ore di corsa.

Attacchi da lontano, si diceva. Beh, da lontano, s'intende qualche fiamma negli ultimi cinquanta chilometri, ma è più facile a quel punto vedere l'andatura che aumenta progressivamente: i tre Capi presi a tutta, una Cipressa che invoglia un gruppetto di corridori - andare via in solitaria con l'Aurelia tra Cipressa e Poggio sappiamo bene che rasenta la follia - ad anticipare una fine altrimenti già nota.
E poi? Una Quick Step che gioca con Alaphilippe, ma magari in realtà punta su Ballerini e Bennett (forse unica squadra davvero dotata di piano A, piano B e piano C), Trek e Bora che giocano di fantasia per i loro fantasisti: uno che qui vinse a sorpresa tre anni fa, un altro che qui è sempre stato respinto. Entrambi però con poche speranze, francamente.

Magari spunterà qualcuno con una bella pedalata - peccato non ci sia Pogačar - che sconvolge lo status quo e anticipa: un bel gruppetto composto da corridori come Ganna, Küng, Schachmann e simili. Ci si spera, ma ci si crede poco. E magari dietro tutti si guardano perché nessuno vuole portare l'olandese in carrozza fino al Poggio per vedergli sfondare i pedali a quel modo, nessuno vuole accompagnare il belga in volata, ed ecco che l'azione vincente è servita.

Spunti ce ne sono tanti, potremmo stare ore a discutere di scenari diversi (magari qualche idea datecela voi) e outsider: la rosa di nomi dietro i tre è ricca di petali, ma anche di spine che riempiono di dubbi e tagli i pronostici. Godiamoci solo il lungo viaggio al termine della notte.

IL PERCORSO

Più noto e lineare che non si può. 299 chilometri, circa, città di partenza e arrivo conosciute. In mezzo niente Turchino per via di una frana ma Colle Del Giovo: nulla di che. Poi tutta pianura fino agli ultimi 50 chilometri: i tre Capi, la Cipressa, l'Aurelia col suo vento infido fino al Poggio per gli ultimi 20 minuti più folli che il ciclismo può offrire: Poggio sia in salita che in discesa e poi Sanremo, via Roma, traguardo di una corsa, la Classicissima, che sempre divide, ma che spesso risulta soddisfacente.

I FAVORITI DI ALVENTO

⭐⭐⭐⭐⭐ van der Poel
⭐⭐⭐⭐ van Aert, Alaphilippe
⭐⭐⭐ Vendrame, Laporte, Ballerini, Matthews
⭐⭐ Bennett S., Trentin, Kristoff, Cort Nielsen, Hofstetter, Démare, Nizzolo, Bouhanni, Aranburu, Schachmann
⭐ Viviani, Stuyven, Pasqualon, Sagan P., Bettiol, Colbrelli, Wellens, Degenkolb, Gilbert, Mohorič, Kwiatkowski, Ganna, Kung, Van Avermaet, Felline, Pidcock, Ewan, Garcia Cortina, Mezgec, Kragh Andersen, Bonifazio

Foto: Tommaso Pelagalli/BettiniPhoto©2020


La tempesta perfetta

Piomba il gelo d’improvviso sulla Tirreno-Adriatico e piombano corridori che già da tempo segnano la storia. Piomba van der Poel: un po’ matto per come è scriteriato tatticamente, per come infiamma, per come non ha il minimo timore di far vedere quello che è. Attacca da lontanissimo: nei suoi geni scorre l’idea di un ciclismo che rifiuta tatticismi e preferisce lo scontro faccia a faccia.

Piomba Pogačar che ha ventidue anni, ma corre come se ne avesse il doppio. Gestisce squadra e corsa come se non avesse fatto altro in vita sua. Come se già quando era in culla gli avessero detto: vai, gestisci, comanda e domina. Attacca quando c’è da attaccare – esattamente come ieri – sempre in piedi sui pedali, sempre saldo sui dorsali, forte col freddo, col caldo, col sole, con la pioggia. Forte e basta: un fuoriclasse.

Piomba van Aert che in una giornata dura, da gente dura, con gente dura lì davanti, si difende perché è un duro, perché va forte ovunque pure lui, ed è comunque terzo.

Piomba Felline: ce lo eravamo un po’ dimenticati eppure è lì davanti. Primo degli umani si dovrebbe dire. Piombano Fabbro, piccolo ma sempre più a suo agio in mezzo ai grandi, lui che grande vorrebbe diventarlo, e De Marchi, suo conterraneo e non sarà un caso. È il più vecchio tra i primi dieci ed è un piacere rivederlo e riscoprirlo, perfettamente disinvolto in un ordine d’arrivo da grande classica che mette assieme corridori di ogni tipo.

Dal cielo smette di scendere la pioggia, la strada è infida, il vento ti sposta, corridori bagnati fradici e infreddoliti, crisi improvvise, gerarchie ribaltate, il nuovo che rifiuta il vecchio, un modo di interpretare le corse che fa a cazzotti con quello del recente passato. Il disegno della tappa è quello che tutti bramiamo per passare una domenica pomeriggio chiusi in casa e godere di uno spettacolo difficilmente ripetibile, ma che forse, a pensarci bene, con questa generazione potrebbe diventare una meravigliosa abitudine.

Quando van der Poel parte mancano circa due ore di corsa e in pochi minuti si costruisce un margine che fa pensare a una “facile vittoria”. Forse una giacca, qualcosa, avrebbe dovuto metterla: è infreddolito e bagnato fradicio. Passaggio dopo passaggio sotto il traguardo la sua faccia si trasforma come una maschera di plastilina in mano a un bimbo: prima impassibile, poi sotto sforzo, poi corrucciato, alla fine distrutto. Un uomo lo insegue a piedi per qualche decina di metri come fosse quel ciclismo che ci siamo lasciati alle spalle due anni fa, quello della gente per strada e dell’entusiasmo che ti fa spingere ancora più forte.

Quando Pogačar parte invece è perfetto, non ha bisogno della spinta del pubblico, delle urla nelle orecchie, né di bandiere slovene. È perfetto nel tempo e nello stile, nel modo e nell’idea: quella di prendere più distacco possibile da van Aert e non lasciargli speranze per la cronometro di martedì.

Quando van Aert si getta sul passo, col suo passo, limita i danni, mentre davanti Pogačar quasi piomba su van der Poel – come Yates ieri su di lui. Ma non basta. Vince van der Poel, che non riesce a esultare e allora esultiamo noi per lui, secondo Pogačar, terzo van Aert, insomma sempre loro.

Insomma uno spettacolo, come ci sta abituando questa generazione di corridori che all’improvviso piomba sul ciclismo e fa la storia. Il punto sapete qual è? Che siamo solo all’inizio.

Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto


Su, verso Prati di Tivo, si arriva e si vive

Mentre passa una parte del gruppo c'è un signore che esclama: «Io qui a Prati di Tivo ci vivo, mica ci arrivo!» e i corridori sfilano alla spicciolata sotto la sua finestra. Mattia Bais, invece, vive la fuga: ogni volta ricomincia da capo come fosse il Giorno della marmotta in bicicletta. In mattinata spiegava: «Oggi non scappo, ci proverà un mio compagno di squadra». Accendi la televisione e per contro te lo ritrovi davanti con nove minuti di vantaggio e quattro matti come lui che su a Prati di Tivo ci vogliono arrivare il prima possibile, prima o dopo il gruppo dei migliori non importa, ciò che conta come sempre non è la caduta, ma l'atterraggio.

Bernal e Pogačar sono i più attesi. Hanno rispetto, sentono rispetto, trasmettono orgoglio e talento. Pozzovivo, uno che corre in bici da quando i due non erano ancora nati, afferma: «Battere Pogačar e Bernal? Ma per me già stare alla loro ruota è un successo» e su verso Prati di Tivo proviamo a scrutare la sua sagoma, che ben presto si dissolverà.

Su, verso Prati di Tivo, pensiamo di affidarci al profilo inconfondibile di Nibali, nemmeno lui qui vive, ma vinse: era il 2012, un tiro di schioppo a guardarsi indietro, un'epoca fa a vedere giovani ragazzi che cambiano le gerarchie del ciclismo. Come Fabbro, settimo al traguardo, migliore degli italiani (con l'intenzione di esserlo sempre più spesso quando la strada sale) e proveniente dalla stessa squadra che ha lanciato Bais - il Cycling Team Friuli. «Ieri sono stato fortunato a non cadere. Cosa significa? Che la ruota magari gira per il verso giusto». E oggi la ruota ha girato.

Su verso Prati di Tivo non vive nemmeno Ciccone, seppure abruzzese, teatino, corridore regionale; Adriano De Zan avrebbe cadenzato magnificamente "en-fant-du-pa-ys" e così lo avrebbe definito.
Parte ai -10,8 chilometri dal traguardo, ma un Ganna dal cuore di ghiaccio e dalle gambe di acciaio, lo riprende - sfuma subito Ciccone. Sul cuore di ghiaccio si scherza, sia chiaro, questioni di squadre, di tattiche, di normali svolgimenti di corsa, ma se parliamo di anime glaciali riguardatevi il finale di oggi della Parigi-Nizza: Roglič che bracca Mäder, in fuga tutto il giorno, a meno di cinquanta metri dall'arrivo, lo supera e vince. Mäder di stizza lo manda a quel paese.

Si sale e ci si affatica - sapeste che novità - fa caldo, quel bel caldo primaverile, ma su, ancora più su, verso i 1450 metri di Prati di Tivo tira vento e intorno si vede la neve. Parte Bernal con Pogačar: un fuoco di paglia. Parte da solo Pogačar qualche chilometro dopo: un incendio che accende la corsa. Dietro si arrabattano, gli avversari si agganciano ad ogni granello di energia per salvare il salvabile. Saltano Thomas e Bernal, Nibali era già saltato prima, ma van Aert no, con quella maglia blu come il mare, si difende e sarà nono e ancora in piena lotta per vincere la Tirreno-Adriatico. Landa è sempre lì, ma non basta, fa sempre un po' rabbia e un po' tenerezza - arriva quarto battuto allo sprint da Higuita.
Simon Yates rinviene talmente all'improvviso (avrà pensato sicuramente Pogačar: "eh questo da dove arriva?") che ancora qualche centinaia di metri e magari riprende il giovane sloveno. Ma la regola è chiara, quello è il traguardo. Lì, sotto lo striscione, termina la sfida.

E mentre Pogačar esulta, con quelle gambe possenti, e un ciuffo di capelli che gli esce dal casco, il signore che vive su a Prati di Tivo è soddisfatto: sono arrivati tutti. Chiude la finestra sulla corsa e sa che anche oggi è stato un bel giorno, perché una bella corsa gli è passata sotto casa.

Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021


Il mestiere di correre veloci

Cosa vuol dire essere il più veloce del mondo? Che mestiere è quello del velocista? Trovarsi in mezzo a tutta un’agitazione di bici che si sfiorano e gomiti che si toccano; teste che si arrovellano, urla e spintoni, mani che troppo spesso si levano dal manubrio. Un “occhio!” gridato e buttato lì, e di nuovo sgomitate, i soliti freni che sfrigolano e catene che vibrano a una velocità tale che risulta impercettibile alla vista.

L’adrenalina è aria pesante: mai avere paura, perché in quei frangenti significherebbe tirarsi indietro senza infilarsi negli spazi che si vengono a creare, significherebbe non sfruttare l’occasione.
Essere il più veloce su due ruote non è come esserlo su una moto. Lì è diverso: la puzza di benzina, le ruote larghe. Qui le ruote sono finissime, si corre su linee sottili, l’odore è quello del sudore, il dolciastro è il liquido delle borracce che schizza dappertutto. E poi di nuovo urla e strepiti come prima. Gambe, leve e pedivelle. Fiducia e pelo sullo stomaco. Transenne vicinissime, copertoni e sellini a un palmo dal naso. Progressione o esplosività, colpo d’occhio e intuito.

Scartano, velocisti e passisti, sbattono la porta in faccia all’avversario, rischiano, azzardano, manipolano, creano varchi e cercano spazi. A vederli dall’alto mettono paura, a starci in mezzo nemmeno potremmo immaginarlo.

Essere velocisti non vuol dire solo sprigionare watt, ora si dice così, ma insistere, insistere, insistere, sempre più veloci e senza timore, trovando consistenza per vincere l’attrito. Abbassarsi per diventare simile a una palla di cannone come fa Ewan o come faceva Cavendish, oppure preferire la progressione da dietro, avere panterina scaltrezza, essere letali nel colpo di reni. Ci sono volate che arrivano all’improvviso come folate e velocisti che sognano i Campi Elisi. Ci sono sprint indecifrabili come quelli del Festival della Velocità di Sanremo, dove per sei o sette ore sembra non succedere nulla, poi per venti minuti hai il cuore in gola.

Si vuole avere strada libera davanti, e allora essere il più veloce del mondo vuol dire anche scegliere la ruota giusta al momento giusto e oggi la migliore in assoluto è quella di Mørkøv: fortunato chi la può battezzare. Pesci-pilota li chiamiamo noi, specialisti del lead-out per dirla all’inglese. Mørkøv studia finali e avversari e diventa la scheda madre dei suoi compagni di squadra, una sorta di appendice del loro furore in volata. Kristoff, Viviani, Bennett, con il danese sono diventati (tra) i più forti al mondo. I due (Mørkøv-Bennett) oggi non sono a dare spettacolo alla “Tirreno”, ma qualche chilometro più in su, alla Parigi-Nizza.

Verso Lido di Camaiore, invece, alla Tirreno-Adriatico, matti come gatti, ci sono Viviani, Ewan, Ballerini, van Aert, Merlier e altri. Le loro potrebbero essere intese anche come prove generali per la Classicissima ma quel giorno dovranno fare i conti con van der Poel e Alaphilippe (sì sempre loro).
Oggi si sono sfidati, hanno affilato muscoli e denti, provato trenini e scambiato vagoncini. Alla partenza Ewan era carico: «Sono qui per vincere» ha detto. Potrebbe mai pensare qualcosa di diverso? Merlier invece osservava con rispetto e venerazione la livrea del suo compagno van der Poel: «Orgoglioso di avere lui, oggi, a disposizione». Ebbè.

Un gruppo di muratori, finito il turno di lavoro, non rientra subito a casa, ma decide di aspettare il passaggio della corsa, tra una sigaretta e l’altra. E la corsa passa: veloce. Velocissima, come van Aert in progressione. Ha avuto la strada dritta e libera e fulminato i velocisti. Di mestiere non è uno sprinter ma di sicuro conosce bene il modo per arrivare prima degli altri dal punto A al punto B.
Pronto, scaltro, vincente, potente: perché per ogni van der Poel c’è un van Aert. Così come per ogni Pogačar c’è un Roglič che solo pochi minuti prima, alla Parigi-Nizza, vinceva in salita con strada bella libera e in progressione. Nemmeno Roglič è un velocista, ma è certo che anche lui oggi ha corso più forte degli altri.

Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021


La natura dei fuoriclasse

Liberi scorrazzano i cavalli nei campi attorno a Colle Pinzuto. In tensione i corridori scavallano il penultimo settore in sterrato, frustrando gambe e frustando pedali. Con lingue in fuori e gote rosse, senza rispetto né riguardo per i sentimenti dei propri avversari. Senza avere nemmeno il minimo ritegno per le nostre coronarie: due ore finali di corsa come celebrazione assoluta. Da farti alzare dalla sedia, da far scomodare tutta una lista di aggettivi e di superlativi che dicono si dovrebbero lasciare da parte, ma che vengono in soccorso, mentre il cuore solo un’oretta dopo l’arrivo dei corridori inizia a rilassarsi. Spettacolare, meravigliosa, la definiamo così, in modo banale, ma senza orpelli. Una corsa bellissima figlia dell’interpretazione di una generazione di fuoriclasse.

Tutto attorno alla Strade Bianche 2021 è verde intenso, per la natura è stato un buon inverno e pare una giusta primavera. All’ombra fa freschetto il giusto, al sole si suda, a tratti c’è una leggera bava di vento che non dà fastidio, in altri momenti, invece, sembra nemica di chi va in bicicletta. Spira di lato, soffia impazzita, muove gli alberi che sembrano ossessi sbilenchi appesi un po’ per caso, un po’ per necessità.
Il verde spiritato si alterna a un giallo paglierino che sono campi, sì, ma è anche terra sabbiosa, argillosa, creta che a vederla fa quasi male agli occhi. Spuntano le prime timide fioriture; il cielo, stamane piombo fuso sulla testa di ciclisti e di senesi, ora è blu come avessero capovolto il mare. Le nuvole sono barche sparse di pescatori appiccicate a testa in giù e che in qualche modo provano a rientrare verso casa.

La polvere che nasconde i corridori è una coltre di nebbia lattiginosa che brucia i polmoni. Lo sterrato è battuto. Cani sparsi a bordo strada come spettatori; spettatori (pochissimi) che dialogano in toscano: «Eppure ai corridori gli garba» afferma uno. «Beh anche se un gli garbasse l’è la loro vita» risponde l’altro.
Brucano le bestie nei campi, bucano le gomme i corridori e arrancano, si fermano, bestemmiano, ondeggiano, in un tumulto di macchie colorate di squadre e sponsor. Inviati di stampa e televisioni in scampagnata solo apparente rincorrono auto e ciclisti, filmano, applaudono, salgono e scendono, si affrettano e annaspano. Si annullano le urla fino a una silente Piazza del Campo dove l’unico sussulto sono i rumori dell’attrito di ruote e telai, oppure della potenza di van der Poel che emana un suono che durerà nel tempo.

Fuggono i fuggitivi, si fiondano gli inseguitori, allungano i più forti, resistono i temerari. Scappano i primi con nomi pittoreschi e diverse storie da raccontare, ma magari sarà per un’altra volta. Sono Bevilacqua – e quanto ce n’è bisogno oggi – e Rivi; Walsleben, Zoccarato – grande da sembrare infinito – Petilli e Van der Sande – uno figlio di pizzaioli, l’altro di paninari – Ledanois e Tagliani.
La loro sorte è segnata, ma se ne fregano. Valli a capire e infatti li capiamo. In otto di loro hanno vinto tre corse tra i professionisti e se per Zoccarato e Rivi è anche normale – sono al primo anno – per Ledanois è un cruccio, lui che nel 2015 trafisse Consonni nel Mondiale Under 23. Walsleben, infine, serve a riequilibrare il karma: è il meno giovane davanti, non ha mai vinto in vita sua, ma corre in squadra con van der Poel.

Dura poco la loro sortita, il tempo di un sospiro, di un faticoso respiro. Di uno sterrato dietro l’altro. In gruppo si attacca: è nella natura di questa corsa. Folle, differente, affascinante e ammaliante, spettacolare, pericolosa, amata dai corridori. Casali, ulivi e campi ovunque, curve infide, salite indigeste, discese incontrollabili; dislivello e fatica da tappa di montagna, cadute e polvere, ristoranti, chiesette e scaramucce.

Sulle Sante Marie arriva il primo grido “che spettacolo! che corsa!”. Un gruppo di stelle in parata con van Aert che appare irresistibile. Vanno via Pidcock, Bernal, van Aert, van der Poel, Gogl – ribattezzato Van Gogl per l’occasione – Pogačar, Simmons, Geniets. Quest’ultimo cede, poi Simmons buca e non rientra più. Su Monteaperti tutto cambia: è sempre la natura di questa corsa, è ciò che più diabolico prepara il ciclismo. Van Aert sembrava il più forte ma si stacca (con Pidcock). Van Aert ha un cuore grande che potrebbe battere per tutti gli abitanti del pianeta e allora rientra per poi staccarsi di nuovo.
E su Le Tolfe cede pure Pogačar e ci ritroviamo con Bernal, Alaphilippe e van der Poel a giocarsi tutto verso Piazza del Campo. Il resto è storia nota, non è mai stata noia: van der Poel che vince, Alaphilippe secondo, Bernal terzo, van Aert quarto. Il modo in cui l’olandese ha vinto servirà per scomodare gli appassionati: “ma quanta potenza ha sprigionato van der Poel?” ci si chiederà.

Qualcuno dirà di avergli visto perdere un pedale nella penultima curva, altri che avranno visto schizzare scintille, volare schegge di sanpietrini. Altri ancora diranno di averlo sentito urlare al traguardo come mai prima. Le gote rosse, di nuovo, i muscoli in fuori. Una tattica perfetta. «Per vincere le gare importanti, devo iniziare a correre con la testa», raccontava alla vigilia. E lo ha fatto. Perché corridori così imparano da ogni dettaglio. È la natura dei fuoriclasse.

Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021


L'attesa della Strade Bianche

Se Elisa Longo Borghini fosse uno stato d’animo, sarebbe la leggerezza, quella di Italo Calvino, quella che consente di «planare sulle cose dall’alto, senza avere macigni sul cuore». Mancano poche ore alla partenza della “Strade Bianche” e lei è estremamente serena. «Voglio divertirmi come facevo da ragazzina, voglio godermela questa gara». Sarà per questa leggerezza, preservata nonostante i successi, le aspettative e anche gli anni che passano, che sentire Elisa raccontare gli sterrati senesi è un’esperienza da consigliare. «Ho anche vinto qui, ma il feeling che ho con queste strade non dipende da quello. Me la sono sempre immaginata come una classica del Nord staccata e accompagnata in Toscana. Quando sali sullo strappo di Santa Caterina, capisci cosa sia questa terra. Senti la storia, l’arte, la musica, è un’emozione rara».

Giorgia Bronzini, suo Direttore Sportivo, ci dice subito che deve ringraziare Elisa, poi continua: «Noi abbiamo anche corso assieme ed in queste situazioni è facile chiedere qualcosa in più e comportarsi in maniera diversa dalle altre atlete facendo leva sull’amicizia. Elisa chiede informazioni tramite mail come da protocollo di squadra, questo per dire della sua professionalità. Oggi lavoreremo per lei».

La variante principale considerata da Bronzini è quella legata al meteo. «Bastano poche gocce d’acqua e la situazione qui cambia repentinamente. Se pioverà la gara sarà più dura e molti disegni tattici potrebbero andare in fumo. Non so se per noi possa essere meglio o peggio, bisogna essere pronti ed elastici nel cambiare tattica. Sinceramente mi auguro solo che sia una gara aperta a più squadre. Una gara movimentata sin dall’inizio, per noi ed anche per il pubblico che ci guarderà da casa, non potendo stare in strada». Il punto cruciale? Elisa Longo Borghini non ha dubbi: Le Tolfe. «Probabilmente sembra assurdo detto da me, ma quel tratto di sterrato mi piace particolarmente. Lì me ne capita sempre qualcuna e spesso questo mi pregiudica la vittoria. Mi spiace, ma resta la bellezza. Sembra di essere in un’arena, la miccia si accende e la corsa esplode».

Intanto Giorgia Bronzini pensa alle possibili rivali e lo fa analizzando le prove viste sino ad ora. «Se parliamo per valori assoluti non si possono non citare van Vleuten e van der Breggen. In gara, poi, possono esserci circostanze sfavorevoli per cui non si ottengono risultati, ma restano le migliori. Non si possono sottovalutare. Se invece vogliamo vedere le ultime evidenze, credo siano da marcare strette le atlete della SD Worx. Hanno una cadenza e una continuità non scontata considerando che siamo solo a marzo».

In ogni caso la “Strade Bianche” sarà una briciola di quasi normalità in un periodo in cui la normalità manca a tutti. «Sai, è ancora tutto strano – spiega Longo Borghini – però si sente che è primavera, che le corse si disputano nel loro periodo e questo un poco rassicura, ci fa pensare che le cose possono sistemarsi». Giorgia Bronzini è stata campionessa del mondo, ma è la prima a confessare che una stagione come quella appena trascorsa l’avrebbe vista in seria difficoltà. «Credo che dobbiamo guardarci negli occhi ed essere grate per il fatto che fra poco partiamo e abbiamo la possibilità di fare il nostro lavoro. Ci sono tante persone, tanti amici, che non possono farlo e sono distrutti. E non è solo un discorso economico, c’è di più».

L’indole diversa di Bronzini e Longo Borghini emerge sul finire della chiacchierata quando si parla di sterrato e di modi per affrontarlo. L’istinto di Elisa e la tattica ragionata di Giorgia si incontrano a metà strada. Longo Borghini parla da atleta navigata: «Sono abbastanza brutale in questo: io sullo sterrato pedalo, ma non so spiegarti il modo in cui pedalare. Mi viene naturale, lo faccio senza pensare troppo e i risultati arrivano. Potrei dire che è qualcosa di faticoso ma spontaneo». Giorgia Bronzini, invece, ha la visuale di un’ex atleta e ti racconta lo sterrato come se dovessi affrontarlo in prima persona. «Devi scegliere chi comanda. Vuoi essere tu a decidere che traiettoria prendere o accetti che sia lo sterrato a farlo per te? Se vuoi decidere, devi aggredire quella terra. Sicuro, deciso, ma non rigido. Se l’aggressività si tramuta in rigidità, la bici non va più avanti. I muscoli devono essere sciolti. In fondo, lo sterrato è una questione di equilibrio». Ora, però, basta chiacchiere, le atlete stanno per essere chiamate sul palco. Si parte!

 

Foto: Valerio Pagni/BettiniPhoto©2020