Chi ha paura di João Almeida?

Fatevi avanti coraggiosi, oggi, sulle non-troppo-ripide rampe che portano verso Piancavallo. Salita nervosa, irregolare a tratti, trampolino per impavidi, appiglio per timorosi, ma che tra freddo e vento in faccia potrà provocare dolore.

Fatevi avanti se volete ribaltare la corsa, perché fino a oggi avete avuto paura di un ragazzo che di anni ne ha ventidue, come Pogačar o Hirschi: quest'anno pare che non ne abbiamo ancora avuto abbastanza.

Quando un corridore indossa la maglia rosa, la narrazione, scritta o parlata, dà fondo a quello che è il sunto della retorica. La maglia rosa fortifica, quadruplica le forze, è un segno di eleganza e chi la indossa appare più bello e distinto di quello che è in realtà. Ti fa correre più forte, è una medicina, allevia la fatica, dà soddisfazione, alleggerisce nel suo essere un fardello, è come lo slogan su un giornalino degli anni '70: indossami - sarai soddisfatto. La squadra che ti scorta all'improvviso diventa una fratellanza, i ragazzi con i quali condividi ogni istante si tramutano in fedeli che si alimentano dall'energia che irradia il colore che porti addosso.

Il 2020 anche nel ciclismo è un anno che più strano e complicato non si poteva e immaginatevi la faccia di João Almeida che inizialmente non doveva nemmeno essere al Giro. Quando è passato sembrava già aver visto il meglio alle sue spalle, spremuto da una febbrile attività giovanile. Non ha mai vinto una corsa, non ha mai disputato un Grande Giro, l'unica Monumento non l'ha nemmeno portata a termine, e invece, a suon di costanza, scalava le gerarchie. Doveva esserci solo per dare conforto a Evenepoel, e poi eccolo lì.

Visto quanto va forte sul passo, e visto lo spunto veloce, dopo il terzo giorno è in maglia rosa e lo è ancora alla vigilia della quindicesima tappa. Per trovarne altri con più di dieci giorni in maglia rosa a meno di ventitré anni, bisognerebbe scomodare nomi di enormi talenti precoci e che per bontà lasciamo negli appunti.

Non vi fa paura uno così? Ne diciamo un'altra: quattordici tappe al Giro d'Italia 2020, mai fuori dai venticinque; quattro volte sul podio di tappa. Certo, di "salite vere" - corsi e ricorsi retorici - non ne abbiamo ancora viste e oggi, lo diciamo fuori dai denti, la possibilità di perdere la maglia rosa c'è ed è concreta - Kelderman, gettonatissimo.

In Portogallo si dice "Barriga cheia cara alegre" - pancia piena volto allegro - a noi, ammiratori di facce, il viso di Almeida sembra sempre attento e in tensione, la maglia rosa fa paura e cura la tristezza.

Un giorno, sul petto di un uomo alla deriva, e descritto alto e biondo come una birra, fu trovato scritto un messaggio: "Sono nato per rivoluzionare l'Inferno". Almeida forse (ancora) non osa così tanto, ma agli altri sembra far davvero paura.

Foto: Gabriele Facciotti/Pentaphoto


Un senso di Fiandre

Nelle Fiandre capisci cos'è l'empatia, quella fra cielo e terra. In questo nulla di strade disseminate fra brulle colline, aspre come un taglio nella pelle, addolcite malinconicamente solo da un pallido sole che fugge e rifugge e da quella luce, fredda, che ricorda un bagliore d'autunno anche agli albori della primavera. Qual è la luce delle Fiandre? Quella foschia che lascia solo sognare le distese azzurre del mare del nord. Un oltre che pare irraggiungibile, mentre tutto è avvolto dalla foschia. C'è il vento che spazza così forte quelle terre che ti chiedi come faccia a non spezzarsi nulla, dentro e fuori. Come facciano le cattedrali, maestà nel vuoto, a restare lì impassibili: quanto freddo c'è fra le loro vetrate? Quanto cielo è rimasto fra le guglie ed i pennacchi? Già, perché qui il cielo si abbassa e ti resta addosso. Sarà per quelle nuvole sbattute dal vento che perdono in un attimo il loro cupo grigiore per riscoprirsi bianche, candide. Sarà per quella bruma che seppellisce tutto. Cardarelli diceva che il mare odora quando è sepolto dalla bruma. Non solo il mare, tutta la natura ed anche queste vie ortogonali a disperdersi chissà dove. Se hai il coraggio di respirare a pieni polmoni, quell'aria, a tratti gelida, ti porta dentro ciò che vedi. A dir la verità, qualcosa ti resta appiccicato lo stesso, anche bardato: è nelle ossa che la bruma fa il nido. Lì cade senza far rumore e viene assorbita. L'empatia, nelle Fiandre, è questo: un richiamo continuo.

L'empatia nelle Fiandre è ciò che prova un milione di persone che si riversa nelle strade, in queste strade, per vedere il passaggio della Ronde van Vlaanderen. Questi uomini e queste donne «dai desideri limitati, dall'esistenza modesta; calmi, misurati, freddi, flemmatici, in una parola "fiamminghi", come se ne incontrano a volte tra la Schelda e il Mare del Nord», diceva Jules Verne. Loro, per natura, rispecchiano ciò che c'è e, forse, soprattutto ciò che non c'è. I luoghi che viviamo ci plasmano, ci afferranno o ci respingono. Forse per questo chi arriva nelle Fiandre, chi arriva al Giro delle Fiandre, vuole toccare quella terra, quelle pietre, e ci mette le mani, ci si sdraia sopra, qualcuno ci appoggia anche le orecchie. Perché chi non vive qui, non riesce a capacitarsi di quello che accade e cerca una risposta, la cerca ovunque, aspetta una rivelazione. Questa umanità sente qualcosa e brulica, si accende e vive di una vita in festa in quei giorni. C'è la birra, in quelle bottiglie dalle marche variegate e in quei bicchieri di plastica, appoggiati a terra, accanto alle transenne dove lo sguardo sceglie la sua regia. Ci sono musica e voci che non si seguono in scia, ma si rimpallano ed in alcuni momenti sembra il caos. In alcuni istanti non senti nemmeno la tua voce e ti chiedi dove sia, se, per caso, a forza di gridare e di incitare chiunque, sia finita, si sia addormentata come accade a qualche bambino di pochi mesi che riesce a dormire anche in questo "inferno". Si incita davvero chiunque, dal professionista all'amatore, all'anziano signore che su una vecchia bici non percorre più di cento metri fra quelle pietre sgangherate, ma lo fa qui e questo basta. Li si incita urlando il nome, il numero, un colore che li caratterizza od un soprannome che si inventa al momento e che ricorda una loro caratteristica. Che insomma li fa sentire al centro per qualche secondo, accolti. Perché il mistero delle Fiandre è anche in questa loro accoglienza che diviene urgenza di farvi ritorno.

Quelle pietre sono diverse. Non sono piane ma hanno forme strane, strambe. Una caratteristica è comune: una sorta di bombatura sul dorso. Le linee che si arrotondano dovrebbero suggerire pacatezza, tranquillità, come una discesa, come qualcuno che accompagna. Invece no. Quelle pietre a "cappello di prete" sono le spine dell'inferno. Devi trovare l'equilibrio e mantenerlo perché basta una minima sbandata per cadere o per essere costretti a mettere il piede a terra. Quelle pietre conservano il dolore di una processione triste. Fanno male quanto la terra che si alza ovunque e si confonde con la foschia. Vedi solo qualche bandiera con i leoni rampanti, gialla e nera, e preghi che la cantilena dei muri dai nomi multiformi, finisca presto perché senti male ovunque. Ti accorgi di ogni minima parte di te in questo inferno. Se pensi a Karel Van Wijnendale, il giornalista che a questa corsa pensò per primo, ti sembra un uomo nato per far soffrire altri uomini, quelli che lui definiva Flandrien per questo spirito votato al martirio. Perché non ne puoi più e non trovi una buona ragione per essere ridotto come sei ridotto in questo momento. Le ragioni, però, nella vita arrivano sempre dopo e certe volte è anche meglio evitare di cercarle. Non devono per forza esserci, non tutto deve avere un senso. E questo forse un senso non lo ha ma esiste ed è così spietato, reale, brutale da essere bello.

Foto: Bettini


Primož Roglič: il mondo in un istante

Nel momento in cui tagliava il traguardo della cronometro de La Planche des Belles Filles al Tour, Primož Roglič aveva una faccia che non poteva generare alcun tipo di malinteso. I suoi pensieri non li potevamo conoscere, ma erano facili da intendere; la faccia non mentiva, mentre saliva a fatica, brutto da vedere sulla sua bici, come non si era mai visto prima, e non serviva essere dentro la sua testa – per altro coperta a fatica da un casco antiestetico che pareva andare da tutte le parti - per cercare di interpretarlo.

Il mondo, quello sportivo, pareva essergli crollato addosso in un istante. Tutto, insieme alle sue certezze e a quelle della sua squadra, sembrava assumere contorni nebulosi. Una scampagnata nei Vosgi trasformata in un martirio. Soccombeva a chi arrivava prima di lui al traguardo; dopo di lui, in una presunta linea temporale di nascita, a pochi chilometri di distanza, se invece tutto ciò vogliamo ridurlo a una storia di provenienza.
Una settimana dopo, Primož Roglič si batteva come poteva: dalla Francia a Imola, avremmo potuto intitolare. Pogačar, quel ragazzo più giovane e descritto sopra in poche righe, gli apriva la strada; lui cercava di tenere il ritmo dei migliori, chiudeva sesto, beffato in corsa e umiliato da fischi e critiche da chi, dal Belgio, ripeteva: «Ma come si è permesso di non aiutare van Aert dopo quello che van Aert ha fatto per lui al Tour?» E niente, forse per qualcuno lo stato delle gambe non contava, ma va beh.

E contavano, invece, gambe e facce, e tutto sembrava uno scritto occulto, ieri, sul traguardo di Liegi. Alaphilippe? Una saetta ubriaca. Scartava da tutte le parti con quel suo modo sempre febbrile di interpretare le corse, quelle sue sceneggiate in bicicletta che sono forza, ma a volte anche limiti. Metteva giù la testa, e quasi in modo metaforico sembrava puntare una bandiera slovena sventolante a bordo strada. A destra, poi a sinistra rischiando di far cadere “tutti”. Sul traguardo alzava le braccia per godersi quel momento e farlo suo, soltanto suo, ingannando se stesso e fotografi, ingannando una corsa che da oltre un secolo bacia la primavera belga – e per una volta fa l'amore con l'autunno.

Alzava le braccia, Alaphilippe, spadaccino infilzato da Primož Roglič che non aveva compreso la portata di quell'istintivo colpo di reni. “Istant Karma”, lo ha definito Tylor Phinney prendendosi gioco di Alaphilippe, pochi minuti dopo il verdetto dei giudici che declassavano il francese al quinto posto.
Dalla Francia al Belgio passando per Imola e dagli sberleffi belgi, quel destino ci ha messo un po' di tempo prima di ingraziarsi nuovamente il talento di Primož Roglič. Uno che faceva altri sport, che faceva l'amatore, che sembrava non avere nulla a che fare con il ciclismo: scambiato per sgraziato oppure per inscalfibile. Per una volta, dopo interminabili settimane, nuovamente cavaliere di ventura e col mondo ai suoi piedi.

Foto: Bettini


Filippo Ganna è straordinario

Permetteteci di dirlo: Filippo Ganna, oggi, è stato semplicemente stupendo. Per quella bicicletta dorata, omaggio alla perfezione del mezzo che sfida il vento (ma "ghe voeren i garùn" come ricordava qualcuno) e per quella maglia iridata che ne scolpisce ogni centimetro di muscoli, ogni proiezione di forza, di potenza. Ancor di più: è stato commovente nella semplicità con cui ha risposto alle domande dei cronisti dopo il traguardo, un profumo di normalità che ben si mescola all'atmosfera di questa Sicilia agli albori dell'autunno, spazzata da un vento caldo che ricorda Luglio. Gianni Mura spiegava che il vento, e lui parlava di quello del Mont Ventoux, è come una mano che ti prende e ti sposta. Un consigliere del timore che sconsiglia azioni di fantasia e ti spinge indietro, di lato, obliquamente, persino a terra, se provi a non ascoltarlo. Quel vento traditore e multiforme che appare e scompare, ingrandendo e ridimensionando aspettative e progetti. Quello che fa sentire gli uomini tanto piccoli e impotenti, che ne quieta la tracotanza, come tutti i fenomeni atmosferici che sovrastano e dominano il mondo.

Gli atleti, almeno nelle prime fasi di gara, sono scostati dal vento, devono mettere nelle braccia altrettanta forza di quella che mettono nelle gambe, per reggere il mezzo. Per segnarne ed indirizzarne il tragitto. Il confine dell'impossibilità che si manifesta, quello dove l'uomo deve rallentare, riflettere e dare il massimo per non arrendersi. Accade nella vita, accade in sella. In certe circostanze, restare in sella è tutto ciò che sia possibile fare. Devi dare tutto ciò che vali, questo conta, poi le condizioni esterne avranno un impatto sulla tua prestazione, ma di quelle non devi farti carico, quelle sono da sopportare, da vivere. Siete capitati nello stesso istante, nello stesso luogo, o scappi o accetti la vertigine.

C'è poi qualcuno che quella vertigine può domarla. Che ha un dono, una dote per cui in quel timore di caduta vede una possibilità. Qualcuno che non nasce oggi, come non nasceva poco più di una settimana fa al Mondiale di Imola o qualche mese fa al Campionato italiano. Giusto per ricordarlo. Qualcuno che a quell'essere saldo, marmoreo, vettore di spazio e tempo, ha lavorato silenziosamente per anni. Sin da ragazzino, sì, perché i talenti puoi possederli ma devi crescerli, coltivarli, curarli. Proprio in segno di gratitudine, verso te stesso e verso la natura che ha scelto te: non era dovuto. Filippo Ganna ha fatto questo per tanti anni e continua a farlo, silenziosamente, con coscienza ed occhio critico. Prima di tutto verso la propria persona. E tutti sappiamo come questo sia merce rara in tempi di giudizi sparsi a pioggia, quasi se li portasse via il vento.

Filippo Ganna che percorre i 15.1 chilometri della cronometro inaugurale del Giro d'Italia numero 103 ad una media di 58.8 chilometri orari. Che percorre un chilometro in meno di un minuto, 51 secondi per la precisione. Che supera i 100 chilometri orari di velocità. Che è campione italiano e campione del mondo della specialità. Che è tanto altro, tutto da scoprire e da raccontare, magari con lo stesso stupore del suo viso di fronte ad ogni nuovo successo. Filippo Ganna, di Vignone, che oggi è maglia rosa, nel primo giorno del Giro. E non abbiamo ancora detto tutto.


Un ciclismo diverso: Antwerp Port Epic

Il porto di Anversa si presenta come ogni... porto. Container colorati come piccoli mattoncini lego, luci azzurrognole sfumate all'orizzonte come fuochi fatui, enormi gru, sirene che segnano il cambio del turno e cicalii che evidenziano il movimento di grossi tir. Una litania di omini in arancione e casco giallo segnalano, sventagliano, dirigono, controllano: il porto di Anversa si presenta come ogni porto.

La sua importanza però è superiore a quella di "ogni porto". Ad esempio la sua estensione, che supera di gran lunga quella della città di Anversa - circa quattrocentotrenta chilometri di strada, quasi duecento di moli, oltre un migliaio di linee ferroviarie - non è quella di "ogni porto". Ne ha fatta di strada, se così si può dire, quel piccolo insediamento sul fiume Schelda da quando «nel 1803, l'imperatore Napoleone compì la sua prima visita in città e dette il via a importanti lavori in vista della costruzione di due moli». Oggi è il secondo porto in Europa come volume di traffico.

E tutto intorno strade di sabbia, ciottoli e asfalto che tagliano in ogni maniera il polder, campi di grano che delimitano vie d'accesso, principali e secondarie. Lì, da un po' di anni, si corre la Antwerp Port Epic. Esaltazione dell'umana concezione dello spirito agonistico: fango e polvere come nella migliore delle tradizioni. Il vento, poi, soffia in faccia in modo così violento che devi essere per forza un belga o un olandese per farti piacere questa corsa.
E quando sei belga e ciclocrossista, qualche vantaggio ce l'hai. Gianni Vermeersch ha vinto l'ultima edizione dopo aver fatto gara d'attacco «perché è l'unica tattica che ti puoi permettere in corse di questo genere».

Meglio stare davanti che dietro, meglio aprirsi un varco nella polvere che mangiare quella del tuo avversario e una volta tanto non in senso figurato come fosse un dialogo di Tex. Vermeersch di fango si è ricoperto a sufficienza nel ciclocross dove stringe un rapporto tale con van der Poel da aiutarlo come un fedele compagno in ogni corsa, da esaltarsi come quando l'olandese vinse l'Amstel Gold Race. «L'unica cosa che sentii quel giorno fu il frastuono nelle cuffie e allora capii che qualcosa di bello era successo».

Ed è belga anche Bert De Backer, quattordicesimo all'arrivo dell'Antwerp Port Epic e che a fine stagione potrebbe smettere di correre. Bert De Backer doveva fare il Tour e invece lo dirottano a nord: ventinove chilometri di pavé e trentanove di sterrato. Non che a uno come lui diano fastidio, d'altronde pare abbia scelto la Paris-Roubaix per abbandonare il ciclismo. «L'undicesimo posto nel velodromo di Roubaix è il risultato di cui vado più orgoglioso nella mia carriera. Sapevo che non avevo il talento dei leader ma quella volta mi resi conto che era inutile continuare a lamentarmi. Faccio il lavoro più bello del mondo e guadagno più di quello che avrei guadagnato con il diploma. È la mia corsa e so che potrei arrivare anche a giocarmela. Se mi ricordo come si vince? Mica tanto. L'ultima volta che ho alzato le mani dal manubrio stavo simulando una vittoria tornando da scuola in bici. Provai anche ad impennare e finii per terra con tutto lo zaino».

E lo sguardo di De Backer a fine corsa dice tutto. Esprime la durezza di una competizione che va a inserirsi nel contesto di un ciclismo che sceglie la via dell'antico per selezionare i gruppi, vendere spettacolo e marcare le differenze; sterrati anche all'interno di grandi giri, arrivi con paesaggi mozzafiato, corse come Strade Bianche o Tro-Bro Léon che fanno il giro del mondo, oppure le modifiche a un percorso tradizionale come quello della Paris-Tours che ora riscopre i sentieri per diventare ancora più attraente. Vecchio e nuovo mescolati per ridare aria a un ciclismo altrimenti spesso così monotono come una tappa di pianura con i suoi interminabili passaggi su strade che sembrano autostrade con le rotonde.

E Bert De Backer esprime stupore più che sofferenza. Ha lo sguardo di chi è passato in mezzo alle pannocchie, ha fatto tribolare i suoi muscoli per stare in piedi, ha bestemmiato quando ha forato. Uno sguardo che abbaglia quanto l'orizzonte affabulatore che si staglia da dietro la corsa. Piccoli ciclisti colorati e sullo sfondo, in mezzo alla polvere granulosa, enormi ciminiere, antenne, pale eoliche che sembrano appartenere a un vecchio Luna Park ormai dismesso.
Si parte e poi si arriva nella Het Eilandje, la "piccola isola", a rendere ancora più forte la contraddizione. Quartiere di Anversa ricostruito come fosse la scena di un film patinato. Invece della polvere, mangi anguilla dello Schelda in salsa verde oppure sogliola e bistecche. Dalle cattedrali gotiche, come una piccola Gotham City disegnate dallo sfondo del porto vero e proprio, alla novità di una zona totalmente alla moda con magazzini ed ex mattatoi ricreati ad arte come una New York espressionista.

E intanto, lo sguardo di De Backer resta ugualmente pieno di polvere, più che smarrito ora è dubbioso, mai sofferente. Era lì per giocarsela, ma si fa riprendere a trecentocinquanta metri dall'arrivo. Per ogni corridore che arriva in fondo - quel giorno solo in quarantatré - queste corse sono sempre una scoperta.


Alaphilippe è l'uomo del mondiale di Imola

Non è un caso se il Campionato del Mondo è, per molti, la gara dell’immaginazione sin da fanciulli. Non sono un caso la mano portata al cuore durante l’inno o il legame che ognuno stabilisce con un colore; quel colore che, chissà perché, rappresenta la propria nazione. Alla fine, se guardi bene, quel colore è un paesaggio, un umore, un’indole, una persona, forse una musica. Tante altre circostanze legate a questa competizione, anche la sua luce, la sua stagione e il ricordo del primo Mondiale vissuto, vogliono dire ciò che vogliamo dirvi noi, oggi.

Persino la fuga: Jonas Koch, Torstein Traeen, Yukiya Arashiro, Danii Fominykh, Ulises Castillo ovvero Germania, Norvegia, Giappone, Kazakistan e Messico. Senza dimenticare tutti gli altri che lì, davanti al gruppo, ci sono andati. Perché il Mondiale, è questo il punto, è per molti la possibilità di plasmare un’idea e di farlo insieme. È quella magnifica sensazione di gruppo, di quando fai qualcosa e ti rendi conto che non lo stai facendo solo per te. Quando fai qualcosa e hai il sogno o anche solo l’immaginazione che quel tuo passo cambierà qualcosa per altri. Qui c’è il concetto di terra: sembra quasi di sentirne il profumo o l’umidità. Come quella dei prati in cui ti distendevi da bambino con addosso quel colore. Pensando che un domani tu, proprio tu, avresti rappresentato qualcuno. Quando ci parli, gli atleti ti dicono questo: «Credo che la mia terra abbia tanti talenti. Vorrei essere un esempio, vorrei aprire un varco. Una strada». Essere un esempio ovvero buttarsi in avanti senza pensare alle conseguenze. Fa paura, certo. Forse fa meno paura quando sai che qualcuno sta capendo il tuo gesto. Che, almeno qualcuno, ci sta provando e i cinici dicano ciò che vogliono. Non hai nemmeno il tempo di pensare a loro. Questo, per i più, è il significato di un giro di pedali al Mondiale: ritrovare quella forza e quella splendida incoscienza che solo l’appartenenza regala. E quando hai quelle non ti ferma più nessuno.

Tadej Pogačar questa cosa la sa molto bene, meglio di altri. La sa perché sa quanto potesse sembrare una follia vincere il Tour de France, a ventidue anni, alla penultima tappa ed essere a Parigi con occhi gonfi di lacrime grosse quanto una noce. Sapeva che in tanti, comunque, ci credevano già prima che accadesse e altri hanno faticato a crederlo anche dopo quel tramonto ai Campi Elisi. Lui ha capito che l’importante era fare qualcosa per i primi, perché quando qualcuno smette di credere a qualcosa è un dramma e per chi non spera in nulla poco si può fare. Per chi crede e spera si scatta anche oggi. Un motivo lo si trova sempre, come lo trova Damiano Caruso che immagina un ciclismo raccontato dalle storie di tutti e per questo scatta e allunga. Perché, se non sei pronto a farti un poco male per ciò che vorresti, anche se ottenessi tutto non sapresti difenderlo. Il mondo invece ha bisogno di persone che difendono ciò che vogliono a costo di sbucciarsi le ginocchia e di piangere qualche notte. Ai tuoi desideri devi tutta la protezione di cui sei capace, altrimenti lasciali ad altri.
Alaphilippe è l’uomo di questo Mondiale. Non solo perché lo vince, non solo perché è Campione del Mondo. È l’uomo di questo Mondiale perché la sua storia parla di questa storia. Di dignità e orgoglio, di quando sei ad un passo e perdi tutto ma anche di quando vinci mentre nessuno ti sta aspettando. Parla dei colori che ci portiamo addosso e di appartenenza. Di quel “Lulú” che é uomo forte e fiero ma anche figlio indifeso, abbandonato tra le braccia di un padre. Che poi è uno dei modi più veri che esistano di essere uomini. Poi ci sono tutti i ricordi cancellati per andare avanti e quelli rilanciati per trovare le forze. C’è tutto questo e tanto altro. C’è soprattutto quell’iride che è lì, in quella maglia, e starebbe benissimo sullo schermo del cielo. E chissà che Imola, prima di sera, non la proietti lì, come in un sogno.

Foto: Luigi Sestili


Ciò che respiri diventa il tuo respiro

Accade che un sabato di fine settembre, a Imola, spieghi tutto. Racconti, per esempio, di Anna van der Breggen, nuova campionessa del mondo, che non è così imperscrutabile come potrebbe sembrare. Van der Breggen che in conferenza stampa l'aveva detto: «Sono cambiate tante cose in me. Crescendo è normale. Una volta soffrivo per le vittorie che mi mancavano, per ciò che non raggiungevo. Così ti condanni a stare male. Su quella bicicletta io metto tutto quello che ho. Certe volte le cose accadono, altre no. Ora so bene che per ogni volta che qualcosa non va, c'è la possibilità di ritornare lì e riprovarci. Questo mi rende tranquilla». Ricordiamolo anche noi, mentre arriva l'autunno e, per molti, giunge il momento di fare i conti con quello che l'estate aveva nascosto tra la sabbia e le conchiglie. Se va male, se non va, ci saranno altre occasioni. Non buttiamoci via. Ancor meglio, non buttiamo via ciò che vorremmo perché fuori fa buio. Puoi uscire, come Anna van der Breggen ha fatto, e scoprire che ti diverti, che stai bene come non ti accadeva da tempo. Da tanto tempo. Bastava riscoprirsi farfalla, alla faccia del mondo.

Accade che, questo sabato a Imola, ci ricordi ancora una volta il senso profondo delle parole. Ci ricordi che è giusto, sacrosanto, utilizzare aggettivi entusiastici per parlare di Annemiek van Vleuten ma c'è di più. Sì, perché chi si ferma all'apparenza delle parole non le fa proprie. Così le ribalta appena cambia il vento. Fare propria una parola vuol dire scavarci dentro, sopra, sotto, intorno, fino allo sfinimento. Vuol dire pensare a cosa significhi per van Vleuten essere qui dopo che, appena una settimana fa, era in ospedale, operata al polso. Uscita sconfitta da un Giro Rosa già vinto, eppur mai conquistato. Vuol dire, per esempio, ricordarsi ogni benedetto giorno che il tuo essere qui ha una ragione. Un qualcosa di difficilmente spiegabile per la mente, un qualcosa di profondamente naturale: quello che sin da bambino sentivi il tuo luogo giusto. Un segno di futuro e guai a chi non bada ai segni, per presunzione o diffidenza. Le parole che si accosteranno ad Annemiek van Vleuten dovranno contenere questo disegno. Annemiek van Vleuten si è ricordata del suo posto nel mondo e, mentre tutti le dicevano che venire al Mondiale era una pazzia, ha sentito di non dover tradire quelle sensazioni di bambina che la vita le ha fatto avverare. Ha preso per mano la bambina che era e pazienza se quel polso non può stringere come vorrebbe.

Questo circuito di Imola, con le sue salite come stanche cantilene, ha parlato di Elisa Longo Borghini e della capacità di togliere parole, di restare senza parole, se necessario, e sapere che va bene così. Che è giusto così. Restare senza parole è meraviglioso perchè, forse, proprio quando non puoi più spiegare ciò che senti, tutto emerge. Come quando l’abbiamo guardata a Grosseto, in maglia rosa, e abbiamo sentito noi stessi quel nodo in gola che le soffocava le parole. Non abbiamo perso un istante di quel silenzio pieno e ci siamo augurati che lo sentissero in tanti. Perché non esiste solo un'età giusta per certe cose, non esistono solo esperienze già vissute e quindi scolorite, non esiste solamente la certezza che debba essere così. C'è la possibilità di riscrivere il finale. Di continuare a stupirci come se nulla fosse già avvenuto, come se nulla non potesse avvenire. Come ha fatto Elisa sul traguardo di Imola. E, per una volta, tutti ci riscopriamo meno attenti ai numeri. Così si è subito detto che quella odierna è stata ''la più bella volata nella carriera di Elisa''. Senza recriminazioni, senza troppi ''se'' a inquinare qualcosa da guardare e di cui godere. Gli umani faticano ad avere questo approccio, oggi ci riescono. Perché poi l'aria che respiri diventa il tuo respiro. Per questo sarà davvero speciale questo sabato: per tutto quello che abbiamo imparato o ricordato.


Pantani, il poligono e la storia di un'amicizia

Sono tutti sul Peyresourde per vedere passare Alaphilippe. «Non lo avevamo mai visto salire in montagna, solo in pianura e quindi ne abbiamo approfittato» racconta una tifosa a un giornalista de L'Equipe. D'altra parte Alaphilippe smuove la passione, riempe le cronache, colora i racconti, e il ciclismo colpisce in maniera viscerale da quelle parti. A maggior ragione in una tappa di salita al Tour c'è sempre una festa enorme – pure di questi tempi.
Le notizie arrivano in fretta in cima alla montagna, grazie a tablet e telefonini. Non c'è bisogno di affidarsi alla radio o alla fantasia o nemmeno di fermare gendarmi o molestare ammiraglie e massaggiatori: nessuna strana fuga di notizie o resoconti frammentari e lasciati a metà. Lungo le astiose rampe della vetta pirenaica a passare per primo è Nans Peters e lo si può vedere con i propri occhi. Nel gruppo dietro, invece, Alaphilippe arranca. Si era messo in testa di riprendersi la maglia gialla finisce per guardare in faccia la dura realtà che al momento è un sussurro che lo porta lontano dalla classifica.
E così l'interesse è un abbaglio per chi in gruppo è chiamato “il pinguino”. Nans, come “Nans le Berger”, Nans il pastore, una serie televisiva francese in voga negli anni '70. Pinguino si diceva, ma non c'entra nulla con il personaggio dei fumetti, bizzarro antagonista di Batman, ma piuttosto è per quel viso tagliato, gli occhi grandi e il naso aquilino. In bici forse non è il più bello da vedere, nella storia del ciclismo non sarà mai il più vincente, ma da casa – non solo sulle vette alpine – vale la pena tifarlo, magari indossando persino la divisa dell'AG2R.

Emilien Jacquelin è quel tifoso in divisa. Più di un tifoso, è amico di Nans Peters e i loro destini si tendono a incrociare di continuo. Si conoscono sin da bambini quando i due correvano assieme in bicicletta, amici e rivali, al tempo dei cadetti. «Io sono sempre stato più veloce» racconta Peters dopo essere andato a tifare per Jacquelin a Le Grand-Bornand, Coppa del Mondo di biathlon, «Ma ora stiamo progredendo assieme».
Oggi, mentre Peters corre ancora in bici, Jacquelin è biathleta di successo. In Francia raccoglie la pesante eredità di uno dei più grandi di sempre: Martin Fourcade. Jacquelin lo scorso inverno ad Anterselva conquistò la medaglia d'oro nell'inseguimento davanti a Johannes Boe (quando si parla dei più grandi di quello sport...) nello stesso stadio dove Nans Peters, nel mese di maggio, conquistava una tappa del Giro d'Italia staccando di ruota gente come Formolo e Jungels. Peters in inverno pratica sci di fondo – il suo primo sport – e lo fa con risultati nemmeno da buttare via partecipando anche ad alcune competizioni: un cerchio tra due ruote e sport invernali che è in continuo movimento.

Emilien Jacquelin da ragazzo pedalava, andava forte e lo faceva per infatuazione. «Conosce a memoria il Tour del 1998, quella VHS l'ha consumata a furia di vederla e rivederla», racconta suo fratello. E Jacquelin, difatti, quando scatta in salita con gli sci stretti ai piedi – dove sennò! - racconta di ispirarsi al volo di Pantani sulle strade di quel Tour de France. «Quando sono in salita penso a Pantani, alle sue fughe, ai suoi attacchi». Voleva essere come lui, e diventare un ciclista professionista, come ci provò prima di lui suo nonno, senza fortuna, che a sua volta ereditò la passione da suo padre, pistard. Jacquelin sostiene, però, come fosse proprio la bicicletta a non volere lui. «Ogni volta che mi selezionavano per una corsa o per un club, mi ammalavo».
E mentre Peters tagliava con aria infida l'ombra della folla accalcata lungo la salita, tenendo a bada il tartaro Zakarin - dopo averlo visto persino “scendere come una capra lungo la discesa”, Jacquelin si ricordava di quando sul Peyresourde “montagna povera e rattoppata di verde“, Pantani attaccò. Fu una tappa in cui si cadeva e ci si ritirava, e disputata con una trentina di gradi in meno rispetto ai giorni precedenti. Fu solo un primo colpo al grande bersaglio – Ulrich e la maglia gialla - che lo scalatore romagnolo avrebbe inflitto in quelle settimane.

Adora Pinot, Jacquelin, e spesso in corsa un po' lo rassomiglia: raffinato a volte forse un po' bizzoso come lo definisce Vincent Vittoz, ex stella del fondo francese e ora tecnico della squadra nazionale di biathlon. Estroverso come tutti gli artisti, Jacquelin è capace di picchi altissimi e discese vorticose e forse per questo mentalmente non potrà mai essere Martin Fourcade, ma più vicino a Marco Pantani – mica poco.
E invece che un poligono, potrebbe esserci una salita in bicicletta lungo il cammino, oppure viceversa, dipende da che lato volete leggere questa storia, se dal punto di vista del biathleta o da quello del corridore. E intanto lui, fiero di indossare la maglia della squadra del suo amico, ridacchia vedendolo esultante e incredulo al traguardo, e quando può gli resta vicino.

Foto: Bettini


Per noi stessi

Domenica, dopo aver conquistato il campionato Italiano, Giacomo Nizzolo si è accomodato nella mixed zone per le interviste. Una delle prime domande dei cronisti, probabilmente se la aspettava. «A chi dedichi questa vittoria?» gli hanno chiesto. Tutti rispondono parlando di famiglia, di amici, di tifosi. Lui ci ha pensato qualche secondo e poi ha esordito con: «Non vorrei sembrare egoista, davvero. Indubbiamente la dedico alla mia famiglia e a tutte le persone che mi sono vicine e che mi sono sempre state vicine ma la dedico anche a me stesso. Per quanto ho saputo soffrire in questi anni, per quanto ho saputo insistere, per non aver mai mollato ed essere qui”. Non è facile dedicarsi qualcosa in questa vita. Soprattutto non è facile dedicarsi qualcosa e avere il coraggio di dirlo forte e chiaro: “Questa è per me. Solo per me. Per quello che sono». Eppure ogni tanto bisogna farlo. Di più. Ci sono circostanze della vita in cui, volersi bene e dedicarsi i propri successi, è un dovere. Per restare a galla. Perché il nostro corpo e la nostra mente danno segnali, ci fanno capire quando qualcosa ci sta facendo male, quando hanno sofferto per troppo e hanno bisogno di liberarsi, quando hanno bisogno che venga riconosciuta la loro tenacia. Insomma, quando dovremmo essere noi stessi a darci una pacca sulla spalla e a portarci in salvo. Giacomo Nizzolo lo ha fatto: si è riconosciuto i meriti che ha, senza superbia alcuna ma con consapevolezza. È come se si fosse detto: «Vali Giacomo, ricordati che vali». Dovremmo farlo tutti ogni tanto.

Due colpi di reni, uno al campionato Italiano e uno all’Europeo, per buttar fuori quella rabbia, quel dispiacere, per due anni di difficoltà lasciati alle spalle. Due vittorie, prima campione d’Italia, poi campione d’Europa. Riccardo Magrini racconta che Nizzolo gli ha confidato che, in fondo, gli dispiace non poter indossare la maglia tricolore. Ci teneva, ci teneva tanto. Invece indosserà quella di campione europeo perché nella gerarchia delle casacche è più importante. È grato. Oggi più che mai, infatti, tornano quelle parole che ci disse qualche mese fa: «Sai, sono stato bravo ma anche fortunato. Mi piace dire le cose come stanno. Volevo diventare un velocista e sono nato con le caratteristiche giuste per esserlo ad ottimi livelli. Da bambino vedevo i colpi di fioretto tra Mario Cipollini e Ivan Quaranta e pensavo che mi sarebbe piaciuto somigliare a loro. Al primo per forza e costanza, al secondo per l’estro che dimostrava ogni volta che batteva il primo». Gli hanno sempre detto che le volate sono cambiate e forse è anche vero ma non nel senso in cui lo intendono certi. Il livello si è alzato, per questo ci sono più nomi fra i favoriti. Nizzolo non è mai stato spaventato da ciò. Nizzolo cercava come l’aria la possibilità di tornare dove era stato, con orgoglio e dignità, prima delle problematiche e dell’infortunio. Come chi non ama le scuse, come chi non crede al destino scritto da altri ma bensì alla possibilità di scriverlo da soli.

E per questo serve tanto coraggio. Perché, quando ti fai autore di te stesso, l’errore è dietro l’angolo. Poi ci sono le voci: se avessi aspettato, se avessi fatto così, se avessi evitato quello, se fossi stato più attento, più bravo. Ovviamente tutte cose dette da chi, della tua vita, non sa assolutamente nulla. Tutte frasi che dietro il sembiante del consiglio, nascondono una certa superbia. Ovviamente a fatti avvenuti: «Se uno potesse sapere cosa gli riserverà la sorte, sarebbe un bel vivere, non credete? Tocca prendere quello che viene e regolarsi di conseguenza. Può darsi che in alcuni frangenti abbia anticipato fin troppo il rientro, ma finché uno non rientra alle corse come fa ad accorgersene?». Perché ancora prima dell’attenzione alle frasi da dire, per portarsi in salvo serve attenzione alle frasi da ascoltare e da ricordare. Perché devi farti del bene, devi volerti bene, per tornare dove la natura ti ha concesso di poter essere. Qualcuno diceva che le qualità che possediamo sono un dono che riceviamo dalla natura, l’uso che ne facciamo sono il nostro modo di ricambiare il dono. È necessario fare sempre il massimo, non buttarsi via e riconoscersi errori e meriti con onestà e gentilezza. Il colpo di reni che ci serve, nelle gare e nelle vita, arriverà proprio da lì.

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Cinquanta metri prima

Il libro preferito di Elisa Balsamo è “Novecento” di Alessandro Baricco. Se le si chiede il perché, la risposta va a pescare nel suo presente ma anche, e forse soprattutto, nel suo passato. Elisa dice che quel libro le piace “perché è ironico e triste allo stesso tempo: al protagonista manca il coraggio di fare ciò che vorrebbe. È un monito: nella vita quel coraggio bisogna trovarlo. Non è solo importante, è fondamentale”. Lei ammette che diverse insicurezze tormentano il suo carattere. Così sente il bisogno di avere qualcuno al suo fianco che la sproni, qualcuno che creda in lei, qualcuno che le dica “ce la puoi fare”. Elisa Balsamo non la scopriamo certo oggi, è un’atleta di primo rango. Non le manca niente. E allora perché dirlo? Perché ripeterlo? Perché le cose ovvie non lo sono mai del tutto. Perché qualcuno che ti ripeta certe parole, fa sempre bene. Non importa se sono parole che hai già sentito tante volte. Non importa se, in fondo, lo sai anche tu. Certe cose hai bisogno di sentirtele dire. Chi tiene a te, ha questo dovere. Dirtele. Nel suo caso, oltre alla sua famiglia, a ripeterle quelle parole c’è il suo preparatore Davide Arzeni.

Oggi, Chiara Consonni era con le braccia levate al cielo a cinquanta metri dal traguardo. Non in testa al gruppo, in decima posizione. Davanti c’era Elisa. Quante cose possono succedere in cinquanta metri in volata? Tante, forse troppe. Quando abbiamo visto Chiara alzare le braccia al cielo quando il traguardo non era ancora tagliato, abbiamo pensato a quando Elisa Balsamo ci ha detto: «Senza le mie compagne di squadra non sarei la stessa. Non sarei qui, senza di loro». Chiara Consonni se lo sentiva, è questo il bello. Quando sai qualcosa, quando la tua conoscenza deriva dall’intelletto, puoi fallire, puoi sbagliare, puoi confonderti. Quando lo senti, no. Quando lo senti, lo hai dentro. Non sai da dove arrivi, non sai se è un qualcosa che ti appartiene oppure qualcosa di assolutamente estraneo a te, che coincide con la tua persona per particolari circostanze. Ma sai che è così. Come avesse detto: “Non ti riprende più nessuno, sei troppo forte. Hai vinto! Guarda che volata sai fare. Ma la vedi? Ma ti vedi? Sei uno spettacolo. Sei campionessa europea”. Proprio così. Prima che la realtà confermasse la sensazione.

La volata è una questione di velocità ma anche di pazienza. Nella vita quotidiana, duecento metri sono poco o nulla. In una volata, partire duecento metri prima o duecento metri dopo, cambia tutto. Anche se la voglia è tanta devi aspettare, devi stare tranquilla. Lei ha imparato ad aspettare sin da bambina. In un negozio aveva visto una bellissima bicicletta Colnago: «Me la fecero provare ma era troppo grande. Tornai a casa delusa ma non volevo rinunciarci. Tornavo lì ogni giorno e la riprovavo. Il giorno in cui i piedi riuscirono a toccare i pedali ero felicissima». Stasera, Elisa rivedrà quella volata e ripenserà a tutti gli attimi di attesa. A quanto l’attesa sia bella perché dopo sei ancora più felice. Alla fortuna di avere imparato quella lezione sin da bambina. Poi rivedrà Chiara a braccia alzate ai cinquanta dal traguardo e penserà a quanto queste ragazze credano in lei. A quanto sia bella questa fiducia, a quanto faccia sentire protetti. Tanto protetti da gettarsi al vento senza alcun dubbio. Un piccolo miracolo. Un miracolo a cui credere perché si verifica spesso a patto di avere il coraggio di fidarsi e di affidarsi. Poi le cose belle succedono. Non abbiate paura.

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