Laurent Fignon, il professore

«Ah, ma io ti riconosco: tu sei quello che ha perso il Tour per 8 secondi!»
«No, signore, sono quello che ne ha vinti due».

La nuova puntata di Parole Alvento è un viaggio nell’universo dello sconfitto più famoso della storia del ciclismo. Un omaggio a Laurent Fignon, a quarant’anni dal suo esordio tra i professionisti e a pochi giorni dall’inizio del Tour de France, la corsa a cui più ha saputo legare il suo destino. Ripercorriamo la sua parabola ciclistica e non solo insieme a Filippo Cauz e Gino Cervi, curatore dell’edizione italiana di “Eravamo giovani e incoscienti”, l’autobiografia del campione parigino che testimonia il passaggio di un’epoca, la fine di un ciclismo all’insegna della spensieratezza, e forse anche l’ispirazione per un approccio al ciclismo che sta ritornando.

«Devo ammettere che non ho mai pensato che ai miei tempi fosse meglio di adesso. Era solo diverso, tutto qui. Come ogni epoca è diversa dall’altra. Credo, tuttavia, di aver attraversato la breve parentesi hippy del ciclismo. Credo persino di esserne stato uno dei principali ispiratori. Qualcuno mi ha definito un “capobanda”. Ma ero un capo curioso. Ed era una curiosa banda».

Voci: Filippo Cauz, Gino Cervi
Ospiti: Giovanni Fidanza, Laurent Galinon, Valerio Tebaldi, Stefano Zanatta
Sound design: Brand&Soda


Lost in Tuscany

«Pedalare in Toscana è come mangiare la pasta al sugo della mamma. L’hai fatto mille volte, però poi capita il periodo che per un po’ non riesci a tornare a casa, oppure quello in cui hai la fissa dell’etnico, in cui hai voglia di quella cucina un po’ da fighetto e non la mangi per un po’. A un certo punto torni a casa e al primo maccherone ti dici che – sticazzi i cuochi stellati – quella è la cosa più buona del mondo.
Il Tuscany Trail è un bel piatto abbondante di pasta al sugo della mamma. Abbondante sì – per i chilometri, ovviamente – però di quelli che ci fai pure la scarpetta e se fossero avanzati due maccheroni nella pentola non ti tireresti di certo indietro. Ma andiamo con ordine e usciamo dalla metafora, perché comunque poi a rimanere in cucina toccherebbe spostarsi su pici, fiorentina e cantucci e andrebbe a finire che di bici se ne parlerebbe un’altra volta».Questa è la descrizione di Federico Damiani, su Alvento 16.
Quest’anno ci siamo andati proprio per realizzare una puntata del nostro podcast!

3.000 persone da tutto il mondo, per pedalare sulle strade della Toscana in uno dei trail più partecipati al mondo. 460 km e 6.600 metri di dislivello di cui il 66% su strade sterrate.

Abbiamo pedalato il Tuscany Trail in quattro giorni per raccontarlo in presa diretta e trasferire le impressioni live dei partecipanti e degli addetti ai lavori direttamente dalla strada!

Voce (e pedalata): Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda


Black Boy Fly

È stato il più grande campione afroamericano della storia del ciclismo, uno del primi campioni mondiali di velocità su pista, un’icona che va ben oltre l’ambito sportivo ma che per decenni ha finito per essere dimenticata.

La quarta puntata della seconda stagione di Parole Alvento è dedicata a Marshall ‘Major’ Taylor, in occasione dell’uscita di Black Boy Fly, il nuovo libro della collana Pagine Alvento.
Un viaggio nel ciclismo dei pionieri e nella cultura afroamericana, tra velodromi, corse e musica. Un racconto a tre voci, con Marco Ballestracci, autore di Black Boy Fly, Gino Cervi, curatore di Pagine Alvento, e Luca Mich, storyteller ed esperto di cultura black.

Voci: Marco Ballestracci, Gino Cervi, Luca Mich
Sound design: Brand&Soda


1909, primo Giro di ruota

Testo e interpretazione: Marco Pastonesi
Sound design: Brand&Soda

Due e cinquantatrè. Di notte. La notte del 12 e del 13 maggio, ormai 13 maggio, del 1909. Milano, Rondò Loreto. La zona nord della città. Centoventisette corridori ciclisti – a quel tempo si chiamano così per distinguerli dai corridori podisti – danno il primo colpo di pedale. Il primo colpo di pedale della prima tappa del primo Giro d’Italia. La prima lettera di una storia infinita, la prima lettera di un’appassionata dichiarazione d’amore, la prima lettera di un romanzo rotondo, sudato, avventuroso, alpino e appenninico ma anche lacustre e marino, urbano e rurale, imprevedibile e ancora misterioso, la prima lettera di una divina commedia umana.

Ma non si può raccontare il Giro d’Italia, innanzitutto il primo Giro d’Italia, senza raccontare “La Gazzetta dello Sport”. Che lo organizza allora, che lo organizza ancora adesso. Il primo numero esce tredici anni prima, venerdì 3 aprile 1896. Non si chiama ancora “La Gazzetta dello Sport”, ma “Il Ciclista e la Tripletta” (che qui non significa tre gol in una partita, ma indica una bicicletta a tre posti), due testate e due giornali che si fondono in uno solo. La prima pagina – a cinque colonne, titoli a una colonna, senza disegni o fotografie, soltanto testo – è interamente dedicata al ciclismo. Si presenta la riunione in pista a Milano, organizzata dalla Forza e Coraggio al Trotter, con i più forti specialisti italiani, da Pontecchi ad Alaimo, da Pasini a Tommaselli e Momo. Si presenta anche la corsa su strada Milano-Lecco-Erba, 70 chilometri, e si aggiunge che contemporaneamente si organizza una gita turistica Milano-Erba. Si propone il parere di Tom Eck, un allenatore americano passato dall’ippica al ciclismo, cioè dai cavalli ai corridori, compreso il formidabile Johnnie Johnson (qui peraltro ribattezzato Antonio), che fa parte di un sedicente World Team, la squadra mondiale, con cui si esibisce negli Stati Uniti e in tournèe in Europa, da Londra a Parigi. Si annuncia la sfida lanciata da tre milanesi – De Peccati, Pereda e Delmont – che intendono cimentarsi in una corsa ciclistica di mille chilometri, sempre nel ciclodromo del Trotter a Milano, scommettendo, ciascuno, 250 lire. E si precisa che due dei tre contendenti, De Peccati e Pereda, si sono già sfidati un anno prima, in una giornata di freddo e pioggia, ma – come si scrive – “al tour de force d’allora mancò quella garanzia di controllo e di disposizioni che occorrono per dare serietà all’avvenimento”. E si danno i risultati di una riunione, sempre ciclistica, disputatasi a Londra nell’Agricultural Hall, trequarti di miglio per gli uomini, mezzo miglio per le donne. Sulle altre tre pagine: ippica, scherma, tiro a segno, tiri a volo (compresi tiro alle quaglie, tiro alla tortora e tiro al piccione), sport pedestre (cioè corsa a piedi), ginnastica, lawn-tennis (cioè tennis sull’erba), pattinaggio, alpinismo, automobilismo e caccia. E anche la pubblicità, che però riguarda soltanto il ciclismo.

La Gazzetta dello Sport” ha dunque quattro pagine, formato lenzuolo, carta di un verde pallido, smunto, anemico, prezzo di ciascun numero cinque centesimi, prezzo dell’abbonamento da aprile a dicembre quattro lire, due uscite settimanali, il lunedì e il venerdì, cioè dopo gli avvenimenti sportivi che a quel tempo si tengono sempre la domenica e il giovedì. La redazione è a Milano, a due passi dal Duomo, in via Pasquirolo 14, nella sede della società editrice Sonzogno. Le macchine da stampa sono quelle del quotidiano “Il Secolo”, giudicate “le più potenti rotative che abbiamo in Italia”, capaci di stampare 40 mila copie all’ora. La prima tiratura è di 20 mila copie. 20 mila copie che andranno completamente esaurite.

Dodici anni più tardi, è il 1908, per incrementare il numero delle vendite del giornale, nasce l’idea del Giro d’Italia. L’idea è rubata. E’ l’agosto 1908 quando trapela la notizia di un Giro ciclistico d’Italia, a imitazione del già esistente Giro automobilistico d’Italia, che il “Corriere della sera” con la collaborazione del Touring club italiano (che nasce eallora si chiama ancora Touring club ciclistico italiano) e della Bianchi allestirebbe per elevare le vendite del giornale. Il triumvirato convocato d’urgenza nella sede della “Gazzetta dello Sport” – uno dei soci Tullo Morgagni, il direttore Eugenio Costamagna, il cui pseudonimo è Magno, e il responsabile della redazione ciclismo Armando Cougnet – decide di precedere i rivali sparando la notizia in prima pagina. Al resto ci avrebbero pensato: regolamento, percorso, iscrizioni, squadre e corridori. Si può ben immaginare: non è stato facile. Ma nove mesi dopo sboccia il primo Giro: otto tappe, la prima partenza e l’ultimo arrivo a Milano, sede del giornale, in tutto 2447 chilometri e 900 metri. E poi la punzonatura: nel Salone del Giardino Teatro Margherita all’Albergo Loreto di Milano. Il ritrovo: nell’Albergo Loreto. La partenza: dal Rondò Loreto dalla parte di viale Monza. Gli iscritti: 166. E i partenti: 127, di cui cinque stranieri, quattro francesi e un austriaco, che viene da Trieste, che fa ancora parte dell’Impero asburgico, cioè austro-ungarico. La prima tappa: da Milano a Bologna, 397 chilometri. Il saluto: del dottor cavalier Carlo Cavenaghi, presidente della Uvi, l’Unione velocipedistica italiana. Il mossiere: Gilbert Marley, inglese, poi milanese, poi campione italiano di biciclo e triciclo nell’Ottocento, poi fondatore dell’Unione sportiva Milanese, carte e biliardo, ciclismo e calcio, poi cronometrista, il re dei cronometristi. Il giorno, anzi, la notte, già detto, quella del 13 maggio. L’ora, già detto: le 2.53 di notte. Non si corre a tempo, ma a punti: vince chi meno ne fa (un punto al primo arrivato, due al secondo, tre al terzo e così via). C’è un’altra premessa da fare, ed è doverosa: i francesi ci hanno preceduto, il primo Tour de France è scattato sei anni prima, nel 1903.

Ma torniamo al nostro Giro. Il giorno prima del pronti-via “La Gazzetta dello Sport” apre il trisettimanale con il titolone “La grande battaglia tra i giganti della strada”. E nell’editoriale “Il congedo” si declama, militarmente e retoricamente: “Corridori!! L’ora è prossima, la battaglia incombe. Gli amatori del ciclismo di tutte le nazioni vi ammirano e attendono. Ognuno ha fra di voi il suo favorito, la sua speranza. Come corridori italiani avete il gran compito di difendere i colori della nazione. Come forestieri ed ospiti, troverete fra i nostri campioni avversari degni ma leali e cortesi”. E ancora: “Corridori! Concorrenti tutti! Più che il premio vi sia incitamento l’amore puro per lo sport. In questo amore, in questa passione sana e sincera, voi troverete le forze per vincere, per trionfare”.

Chi sono questi concorrenti? Fra gli “inscritti” (con la enne) spiccano il tre volte campione italiano (e a quel tempo campione in carica) il tortonese Giovanni Cuniolo, l’astigiano Giovanni Gerbi soprannominato il Diavolo Rosso ricordato e cantato anche da Paolo Conte, il pavese Giovanni Rossignoli detto Baslot per il recipiente, la scodella, con cui il padre – oste – versa il vino nella sua osteria, e Luigi Ganna, muratore – magutt, in dialetto – varesotto di Induno Olona, allenatissimo perché ogni giorno fa sessanta chilometri per andare a lavorare a Milano e altri sessanta per tornare a casa. Fra gli “inscritti” ci sono anche i migliori “routiers” francesi, da Petit Breton (è il soprannome che si è dato Lucien Maze per non farsi riconoscere dal padre, contrario al ciclismo, negli ordini di arrivo) a Louis Trousselier, per tutti semplicemente Trou-Trou. Fra gli “inscritti” i corridori ciclisti che fanno parte delle squadre, le squadre delle case costruttrici di biciclette, e i corridori ciclisti definiti dilettanti, isolati, individuali e addirittura individualisti, e ancora peggio, diseredati, costretti ad arrangiarsi da soli nell’assistenza meccanica, ma anche nel mangiare, bere e dormire, nel sostenere le spese, tanto che molti devono ricorrere all’aiuto economico – collette, adesso si direbbe “crowdfunding” – dei concittadini, o più semplicemente, gli amici del bar.

Alle 2.53 lo storico via. “I piedi premono, i garretti scattano, il piccolo esercito di ciclisti si stacca – è la cronaca della “Gazzetta dello Sport” -. La folla scoppia in un lungo ululato di ammirazione, di entusiasmo, di augurio, di gioia. Un lampo, una luce bianchissima, abbagliante che tutto avvolge e illumina come di pieno meriggio. La schiera ciclistica sembra per un istante lunghissima, infinita, eborme; la folla stacca nel buio che la circonda in tutta la sua urlante compattezza variopinta”.

Neanche il tempo di accendere le luci che per qualcuno già si spengono. Ancora “La Gazzetta dello Sport” scriverà in toni angosciosi: “Il Primo Giro d’Italia ciclistico si è iniziato con un incidente drammatico”. Poi tranquillizza: “Non c’è sangue, non ci sono morti, ma non per questo il dramma è meno intenso e meno commovente, non per questo meno fosca vi appare l’ombra di ciò che gli antichi chiamavano ‘fato’ – che i francesi hannosportivamente volgarizzato sotto il nome di ‘guigne’ – e che a Napoli traducono ‘jettatura’”. Gerbi, il Diavolo Rosso, millcinquecento metri dopo il pronti-via, è coinvolto in una caduta, forse contro un carretto, provocata da un bambino che attraversa la strada e che genera un groviglio di uomini e biciclette. Tutti si rialzano, anche Gerbi, ma non la sua bici. “La Gazzetta” riprende con enfasi: “Il piccolo gioiello d’acciaio, accuratamente miniato e irrobustito per la battaglia, giacerà solo, nella polvere, con una ruota spezzata quasi senza rimedio. E sopra di esso, spezzato, pure, un audace sogno di gloria – affranta un’energia delle più invidiate e più temute – piangente, di dolore e di rabbia, il Campione”.

Gerbi, è lui “il Campione”, non ha la possibilità di sostituire la ruota e ripartire, come succede oggi, perdipiù con l’assistenza dell’ammiraglia e del meccanico. Ma deve tornare, a piedi, alla partenza, cercare un’officina e riparare da solo la ruota. Un problema, data l’ora. Tant’è che deve camminare un altro chilometro e mezzo prima di trovare un meccanico che lo accolga e, senza intervenire con le mani, lo consigli con le parole. Morale: tre ore più tardi, mentre il gruppo è già a Brescia, Gerbi ricomincia il suo Giro dal Rondò Loreto. “La macchia rossa – tinteggia “La Gazzetta dello Sport” – riprende la via, che poteva essere della vittoria e che diventa quella del Calvario”. E subito commenta: “Gerbi ha avuto molte colpe, che oggi non si richiamano per rinfaccio”. Non a caso era soprannominato “il Diavolo Rosso” per i suoi diabolici trucchi. Poi una citazione evangelica: “Molto sarà perdonato a chi molto ha amato”. Infine la dura realtà: “Ma egli, in questa sua ‘stagione nera’ ha subito la più terribile delle espiazioni. Mentre scriviamo la corsa continua. Da ogni parte, per telegrafo, per telefono, ci arrivano lo stupore, il dolore, la tristezza infinita, perché Gerbi non c’è, perché Gerbi non passa. Bergamo, alle 7,40, tre ore dopo il gruppo di testa, lo accoglie col plauso della più affettuosa simpatia, lo incoraggia, lo spingerebbe, se potesse…”.

La corsa è vera. Ai rifornimenti c’è sempre qualcuno che prova ad attaccare. Dopo Lonato il gallaratese Domenico Ferrari ripara una gomma, si specifica, “penosamente”. A Desenzano, sopra un carro, una fanfara accoglie il gruppo. Prima di Peschiera Petit Breton cade e si lussa un braccio, ma si rimette in sella e ai pedali, e insegue. Cuniolo confessa di essere ammalato, fatica, si stacca. Trou-Trou cerca di andare in fuga, ma viene controllato da Ganna e da Eberardo Pavesi. Fa caldo: il forlivese Attilio Zavatti – documenta “La Gazzetta dello Sport” – vede una ragazza con una secchia d’acqua, balza di sella, corre alla giovinetta, le toglie la secchia e vi tuffa la testa tra le più matte risate degli astanti”. L’arrivo, dopo 397 chilometri, è allestito nell’ippodromo Zappoli di Bologna, la pista in terra battuta, e siccome piove a dirotto, il fondo è molle, quasi fangoso e insidioso soprattutto per chi è costretto a fare la volata larga, all’esterno. A vincere, in 14 ore, sei minuti e 15 secondi, alla media di circa 28 chilometri all’ora, è il romano Dario Beni. Ultimo, Gerbi, a tre ore e mezzo dal primo. Quando Gerbi arriva a Bologna, è ormai notte. L’ippodromo è stato chiuso. Per lui il traguardo è diverso da quello di tutti gli altri, sistemato fuori dall’ippodromo, davanti a un’osteria, l’unico punto illuminato del quartiere.

Ma chi è Dario Beni, il primo vincitore di tappa al Giro d’Italia? Quattro giorni prima della grande partenza del Giro da Milano, Dario Beni è a casa sua, a Roma. Andare in treno a Milano sarebbe la soluzione più ovvia, ma Beni non ha i soldi per acquistare il biglietto e deve campare una quindicina di giorni fuori da casa. Quindi, in bici. Seicento chilometri, in due tappe, la prima da Roma a Firenze, la seconda da Firenze a Milano, prima la Cassia, tutta su e giù, poi la via Emilia, diritta e polverosa, da condividere con altri tre corridori romani. Beni, vent’anni, ha ottenuto la bici – gratis – da un rappresentante della Bianchi a Roma, e la collauda in queste due tappe – per così dire – di riscaldamento. I quattro si arrangiano come possono. In Toscana accade quello che loro definiscono “inevitabile”. Alla fine del pranzo, robusto, anche perché a pancia vuota non si pedala, i quattro avviano un’animata discussione su chi tra loro dovrà pagare. Visto che l’accordo era impossibile, chiedono all’oste di fare lo starter di una particolare volata: l’ultimo sarebbe andato alla cassa. Inorgoglito ma anche ingenuo, l’oste abbassa la salvietta e dà il via alla sfida, salvo accorgersi che i quattro non hanno alcuna intenzione di tornare indietro.

Quei seicento chilometri da Roma a Milano si rivelano allenanti. Nell’ippodromo di Bologna Beni parte lungo, infilandosi fra Trousselier che è scattato e il bordo della curva, tiene duro per trecento metri, in testa, alla corda, e vince quasi per distacco. E poi si lascia andare: grida, urla, esulta. Vede gente che corre verso di lui. Si esalta. Ma quando gli cantano “Viva Ganna, viva Ganna”, capisce che lo hanno confuso con il vincitore della recente Milano-Sanremo. Si riprende dalla delusione quando viene avvicinato dai dirigenti della Bianchi. A bordo di un’automobile viene portato in un grande albergo a Bologna, bagno caldo, massaggi, cena, infine una banconota da mille lire e la promessa di uno stipendio di 250 lire al mese. Beni non si dimentica di Ottorino Celli, 19 anni, con cui ha diviso l’alberghetto a Milano in corso Venezia: “E’ mio cugino e il mio gregario”. Alla Bianchi fanno le cose in grande stile. Ingaggiato anche Celli, con uno stipendio di 125 lire al mese. Affare fatto. Beni fa i conti: per la vittoria di tappa ha guadagnato anche mille lire per il chilometraggio e trecento lire di premio tappa. “Commendatore – dice al direttore tecnico della Bianchi – i soldi, tutti sti soldi, li tenga lei, me li darà a Milano quando vincerò ancora”.

La seconda tappa va da Bologna a Chieti, 378 chilometri e mezzo, primo il redivivo Cuniolo. La terza da Chieti a Napoli, i chilometri diminuiscono, quasi 243, ma le condizioni delle strade peggiorano, primo il tenace Rossignoli. La quarta tappa va da Napoli a Roma, 228 chilometri e 100 metri, primo Ganna.

Un prezioso libriccino, s’intitola “Cronache del primo Giro d’Italia”, Edizioni La Vita Felice, ripubblica i pezzi della “Gazzetta dello Sport” di allora. Le note, soprattutto le più semplici, sono illuminanti, e anche divertenti per la loro ingenuità. Per esempio: “Tutte le equipes, per qualche disgraziato incidente, ne escono ferite, smembrate. Le ferite però non sono inguaribili”. Per esempio: “Gli umili, quelli che compiono il Giro ‘en promenade’, passano pressoché inosservati: tutta l’attenzione della folla è rivolta ai grandi nomi”. Per esempio: “Le simpatiche cittadine romagnole ci hanno tutte preparato una accoglienza trionfale. Si lanciano migliaia di cartoline allegoriche al Giro d’Italia e noi ci divertiamo al getto come a una battaglia di fiori”. E ancora: “Al lancio di foglietti multicolori si unisce quello dei fiori, veramente, e dalle finestre sciami di signorine salutano e inneggiano, sorridendoci e sventolando i fazzoletti”. I giornalisti assistono e partecipano a momenti emozionanti: “Gaioni ci chiama disperatamente, ma non possiamo essergli pietosi”, “Ceccarelli si sente male e vuol prendere la ferrovia. Ma il poveraccio non ha soldi. Gli do venti lire. Voglio sperare che siano poche queste defezioni, altrimenti…”, “Alla sommità della salita (350 metri) troviamo l’amico Banfi. Egli ci domanda sorridendo con che treno si parte per Napoli. Poi ci dice di voler ritornare a Chieti, perché la tappa è troppo dura”, “Inseguiamo il veterano Nanni Enrico di Bologna, un simpaticissimo routier. Ha quarantaquattro anni ed è padre di quattro figli. Scende filosoficamente, allargando le gambe. Buona fortuna, nonno!”, “Ferrari Domenico rimonta a raccattare la pompa che ha perduto”, “Como scarta violentemente e minaccia di andarsi a schiacciare contro un muro. E’ un urlo di paura e raccapriccio. Fortunatamente riesce a frenare in tempo, con molta energia, e si salva per miracolo. Tuttavia cade, e si rialza leggermente contuso”. C’è anche chi fa il furbo: alla partenza da Napoli, quarta tappa, Giuseppe Brambilla da Gorla viene squalificato perché beccato mentre prende il treno nella Bologna-Chieti, seconda tappa. Anche la giustizia sportiva ha i suoi tempi. Ma Brambilla non ci sta, protesta, contesta, infine minaccia i delatori: “Quando passerà quello che m’ha denunciato gli spaccherò una bottiglia sulla testa”. Giustamente preoccupato, un ispettore di Pubblica Sicurezza allontana Brambilla, lo chiude in una stanza guardato a vista dai carabinieri e lo libera un’ora dopo la partenza. E il vecchio Nanni, anche se estromesso dalla classifica perché giunto al traguardo fuori tempo massimo, parte da Napoli con gli altri, perché vuole almeno arrivare – chissà perché – ad Aversa.

La corsa è un’orgia di incidenti, cadute, forature. Anche di bestemmie. “Dio fauss, due gomme”, si sfoga il torinese Luigi Chiodi. Si corre per vincere, per arrivare, anche per sopravvivere. Davanti a una cascina ci sono tre bici, i concorrenti sono dentro a lavarsi e rinfrescarsi e rifocillarsi. Annibale Magni, milanese, 45 anni, il più vecchio in gara, procede solitario. Un giornalista della “Gazzetta” gli grida “forza!”, Magni gli risponde in milanese: “Con comod vegni anca fina all’Arena”, con comodo arrivo anche fino all’Arena, l’Arena di Milano, il traguardo finale. Intanto l’arrivo a Roma è caotico. “Un mare umano – Armando Cougnet registra sulla “Gazzetta dello Sport” – e uno spazio strettissimo per il passaggio dei corridori”, “Al traguardo vi sono ben ventimila persone. Il servizio di pubblica sicurezza quantunque abbondante, è insufficiente a contenere l’entusiasmo della folla, collettivamente stupida”, “Quasi tutti si fanno lavare e si sdraiano sul letto, o si fanno fare il massaggio e la doccia”, “Una vera gragnuola di scoppi di gomme ha modificato un po’ la lotta ultima. Ma questi sono pure gli inevitabili incerti delle gare su strada”. Cougnet conclude salomonicamente: “Il ‘guignard’ (lo sfortunato) d’oggi è il fortunato di domani, e viceversa”.

Siamo a metà dell’opera. Mancano quattro delle otto tappe. La direzione della “Gazzetta” e del Giro non nasconde qualche timore: se “da Milano noi abbiamo avuto una partenza imponente, meravigliosa, davanti a diecine diecine di migliaia di persone accorse all’epico spettacolo”, “sapranno Firenze, Genova, Torino essere degne della sorella, più di quello che le altre città del Giro non siano state fino ad oggi?”. Ma sì, lo saranno. Il 23 maggio si riparte con quinta tappa, la Roma-Firenze, 346 chilometri e mezzo, primo ancora Ganna. La sesta tappa va da Firenze a Genova, 294 chilometri e 100 metri, e Rossignoli concede il bis. La settima è la Genova-Torino, 354 chilometri e 900 metri, e il finale è rocambolesco. Fuggono Rossignoli e Ganna. A Pinerolo l’ultimo rifornimento. Rossignoli ci arriva prima di Ganna, si precipita per avere un bicchiere di tè, invece Ganna beve correndo per cercare di scappargli. Ma Rossignoli lo insegue e lo raggiunge. E ricomincia la lotta, che i giornalisti al seguito definiscono “snervante e titanica”. Finché Rossignoli “leva le braccia al cielo, desolatissimo”. Ha forato la gomma posteriore. Deve femarsi a cambiarla, “ma l’operazione – sempre nelle parole scritte sul giornale – è lunghetta”, e già si profila il colle di Superga. Ma non è tutto. Causa sovraffollamento, per prudenza il traguardo viene spostato indietro di tre chilometri, a undici dal centro di Torino. Così, quando Ganna giunge al traguardo, ci sono solo tre o quattrocento spettatori. E, ancora sulla “Gazzetta dello Sport”, la marea urlante è laggiù. E Ganna prosegue, seguito dall’automobile della Giuria. L’accoglienza” è “qualcosa di grandioso, di colossale, di indimenticabile. Lo portano in trionfo, non può nemmeno firmare” il foglio d’arrivo.

L’ottava e ultima tappa porta quello che resta del gruppo da Torino a Milano, i cinquantuno arrivati alla settima, più il veterano Nanni che aveva promesso di fermarsi ad Aversa e che invece ha proseguito fuori classifica, e in attesa di giudizio partono anche Giovanni Carena, piemontese di Bosco Marengo, e Camillo Carcano, lombardo di Soncino, “risultando a loro carico la taccia di aver usufruito del treno”. E’ la frazione più breve, 206 chilometri, ma ormai i concorrenti sono sfiniti, e il risultato finale non è ancora scontato, Ganna è in testa alla classifica generale, ma Carlo Galetti, tipografo di Corsico, alle porte di Milano, potrebbe ancora aggiudicarsi il Giro. Cento metri dopo il via il primo imprevisto: il milanese Pietro Molina, “per scansare sulla banchina una vecchia”, così è scritto, cade in malo modo e abbandonerà. A Borgomanero lo stato di tregua si esaurisce e comincia la battaglia. Attacchi e controattacchi, fughe e contro fughe, polveroni che si alzano dalla strada e quando Ganna fora, Galetti lo attacca. “Magno”, Eugenio Costamagna, fondatore e ancora direttore della “Gazzetta dello Sport”, si prodiga con la retorica: “Il momento è emozionante, ma nel tempo stesso lascia come una pena dolorosa nel cuore. Si approfitta delle disgrazie altrui”. A questo punto esibisce la sua conoscenza delle lingua e della letteratura latina: “Hodie mibi cras tibi”, oggi a me domani a te. E prosegue: “I corridori sono meno sentimentali degli osservatori. Corrono, corrono staccando altri concorrenti sino a ridursi ad un gruppo di cinque”. E’ Galetti a spingere più di tutti. Al passaggio a livello di Busto Arsizio i corridori non aspettano, scavalcano la sbarra e passano: il primo gruppetto è condotto da Galetti, poi ce n’è un secondo, quindi un terzo, ed è quello di Ganna. Che subito raggiunge e sorpassa il secondo gruppetto e si lancia all’inseguimento del primo. C’è un nuovo passaggio a livello, ma stavolta il cantiniere non permette ai corridori di scavalcare il cancello. E Ganna raggiunge Galetti. “L’epica lotta – conclude “Magno” – è compiuta”. Nessuno, né gli atleti né gli spettatori, sanno con precisione dove sia stato stabilito lo striscione d’arrivo. Il motivo è la pubblica sicurezza. Non si vogliono creare pericolosi assembramenti, così tutti si dispongono lungo la statale del Sempione fino al cimitero Musocco e infine, lungo il viale Sempione (oggi si chiama corso Sempione), all’Arena. Lo striscione viene alzato, proprio all’ultimo momento, davanti alla trattoria Isolino. I corridori sono protetti, si fa per dire, dai cavalleggeri al galoppo. A vincere la tappa è Dario Beni, il romano che ha vinto la prima e che aveva promesso di vincere anche l’ultima. A vincere il Giro è Ganna. A vincere la scommessa, forse anche la storia, è “La Gazzetta dello Sport”.

Ma chi è Ganna? E’ un povero cristo. Dignitoso, rispettoso, forte, atletico, povero. La povertà ha il suo peso. Quando nasce Luigi, o Luisìn come lo chiamano in famiglia, Induno Olona ha la scuola elemnatare (lui frequenterà un paio di classi), ma non il telegrafo, non la farmacia, non l’ospedale. E’ il nono di dieci figli, ma tre sono già morti. E’ del 1883, lo stesso anno in cui nasce Benito Mussolini. Alla nascita, in casa, e dove se no?, il medico è sostituito dalla levatrice. Luigi imparerà a scrivere, ed è già tanto. Strada facendo, cioè facendo lavori di strada, imparerà anche a fare di conto. Imparerà soprattutto a soffrire. A 13 anni perde la mamma, a 19 il papà. Resta l’unico maschio di casa: una colonna d’Ercole. Fa il muratore. In dialetto, magutt. Come muratore sarà anche Learco Guerra, “la Locomotiva Umana”, nato 19 anni dopo vicino a Mantova, poi campione del mondo. La fatica scolpisce, la fatica fortifica, la fatica struttura, la fatica fa e farà sempre la differenza, anche su una bicicletta.

Ganna, nel ciclismo, esordisce a vent’anni. Oggi, a vent’anni, c’è chi già nauseato ha smesso di correre. Gianni Brera scrive che, alla prima uscita, a Milano, in Piazza d’Armi, Ganna batte tutti. E’ il 1903. Un anno più tardi vince la Milano-Melegnano-Milano, 60 chilometri, per dilettanti di seconda categoria. Il mondo delle corse è il Far West, i pionieri sono cowboy, cavalcano bici invece di puledri e stalloni. La gavetta è lunghissima. La rincorsa lunga. La rivelazione nella Milano-Piano dei Giovi-Milano, 250 chilometri: primo davanti a due fuoriclasse come Pavesi e Galetti. Da quel momento in poi Ganna entra in un’altra dimensione: quella dei campioni.

Dunque, la classifica finale del primo Giro d’Italia recita: primo Ganna Luigi punti 25, secondo Galetti Carlo punti 27, terzo Rossignoli Giovanni punti 40. Carena, sospettato di essere salito e sceso da un treno, assolto, figura trentasettesimo. L’altro sospetto, Carcano, probabilmente giudicato colpevole, non c’è più. Se nelle otto tappe Ganna colleziona 25 punti, Giuseppe Perna, siciliano di Regalbuto, provincia di Enna, ne somma 297. Quarantanovesimo e ultimo, Perna è uno di quei corridori che Cougnet definisce “attori generici”, che “hanno una parte importante e servono a dare maggiore risalto alle linee del dramma”. Ma chi è l’ultimo se non il primo da un altro punto di vista? E chi dice che non sia quello il punto di vista giusto? Di certo, è il punto di vista più umano. Perfetto – e lo avrebbe dimostrato un altro ultimo, Luigi Malabrocca, il primo ufficialmente capace di ribaltare la classifica generale – perfetto per il Giro d’Italia, questa divina commedia così umana.

E Milano ha il cuore in mano. Si dimostra affettuosa e generosa. Secondo i calcoli degli organizzatori (ma su questi bisogna andarci sempre con molta cautela) gli spettatori al finale dell’ultima tappa potrebbero essere anche centomila. Ganna, quando fa per proseguire in bici dall’arrivo all’Arena, viene fermato dalla folla e portato in trionfo.

La sera di quel 30 maggio 1909, alla festa organizzata al Teatro Dal Verme, a Milano, un giornalista della “Gazzetta dello Sport” domanda a Ganna come si senta. E Luigi, dopo quasi 2500 chilometri su strade infernali e con bici pesanti ed elementari come cancelli, risponde, semplicemente: “Me brusa el cu”. Che non ha bisogno di traduzione.

 


Jacopo Guarnieri, l'ultimo uomo

Di volate e di spallate, di vittorie e di cadute, di crescita e di paternità, di diritti e opportunità, di un mondo che cambia e di un ciclismo che vorrebbe o dovrebbe cambiare.
E di musica. E di un Giro d’Italia che sta per partire e che, quando toccherà a lui, lo vedrà ancora una volta protagonista.

La seconda puntata della seconda stagione di Parole Alvento ci porta a Castell’Arquato, in provincia di Piacenza, a casa di Jacopo Guarnieri. Siamo andati a trovarlo per registrare un’intervista di una quarantina di minuti, è durata il doppio, e sarebbe potuta andare avanti ancora, a chiacchierare di ciclismo e oltre il ciclismo.

Intervista: Filippo Cauz
Sound design: Brand&Soda


125 anni di attesa

Testo e interviste: Filippo Cauz
Interpretazione: Filippo Cauz, Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda

Tra Hornaing e Wandignies la strada, se così la possiamo chiamare, scorre parallela a un fosso. È un tratto comune a tante strade nelle campagne di questa zona del nord francese, a ridosso del confine belga, sempre che si possa chiamarle proprio strade. Anche il dubbio lessicale, in effetti, è un tratto che le accomuna tutte.
Ciclisticamente si chiamano settori. Sono numerati a scalare e contraddistinti da stellette come fossero alberghi. Ma se nel turismo le stelle vanno di pari passo col comfort, alla Parigi-Roubaix sono il metro di valutazione del disagio. Sulla mappa della corsa, il settore numero 17, Hornaing à Wandignies, è indicato con quattro stelle, ovvero: vade retro. 

La strada – continuiamo a chiamarla così – è una riga grigio-beige di pietre scomposte. Al centro, la terra e il fango illudono sull’uniformità delle pietre, ma verso i margini i blocchi di pavé scoprono spigoli vivi come denti aguzzi in un sorriso minaccioso. Tra una pietra e l’altra, naufragati in canyon profondi pochi centimetri, si affacciano dei sassolini e qualche detrito. Qualcuno ha rabberciato i tratti peggiori con piccole colate di cemento, sporadiche lingue più grigie del grigio che si ricongiungono come flussi lavici agli irregolari margini stradali, perlopiù invisibili, nascosti dalle pozzanghere e dal fango. 

E quando si alza lo sguardo ai lati della sede stradale, i panorami si alternano senza alcuna fantasia. A sinistra i cespugli, qualche albero sbatacchiato dal vento, una casa o una stradina qua e là, un po’ di pali elettrici. A destra i campi, quasi solo i campi, con le reti che li delimitano e due grandi silos che si stagliano nell’orizzonte. In mezzo, tra la strada di pietre sconnesse e le reti che segnano i confini dei campi, c’è il fosso. 

Stranamente, il fosso è asciutto. Il clima umido, il cielo grigio e il fango marrone, farebbero pensare diversamente. Tanto che è dentro al fosso che due famigliole della zona si sono appostate per veder passare la corsa.
Hanno parcheggiato il passeggino di uno dei piccoli faccia alla direzione di gara e al vento, un altro bimbo lo hanno preso in braccio, gli ultimi due ragazzini saltano e si rotolano nel fosso.
Il freddo spinge le mani in fondo alle tasche, solo uno dei padri cede all’impulso di immortalare il passaggio con la fotocamera di un cellulare. I ragazzini hanno giacconi pesanti e ridono. Quante centinaia di volte gli sarà capitato di buttarsi nei fossi nella loro infanzia di campagna? Eppure il gioco resta intatto, la gioia uguale, come se intorno non stesse accadendo nulla di nuovo. E mai percezione fu più falsa, perché lì davanti qualcosa di nuovo sta accadendo eccome.

Arriva la corsa, la si sente prima nelle orecchie, poi nel mulinare dell’aria, quindi in una sorta di vibrazione elettrica. Arriva la corsa ed è un esordio per tutti, tranne che per il gioco del fosso: è il primo settore in pavé della prima edizione femminile della Parigi-Roubaix. Ed è la prima ciclista a transitare di lì. Prima tra le prime il giorno della prima. 

I bambini si issano dal fosso: dritti sulle gambe o accovacciati osservano con un certo stupore lo spettacolo naturale di un corpo così atletico ed efficace. Non sanno che Lizzie Deignan, partita all’attacco quasi involontariamente all’imbocco del settore 17, non cambierà mai la sua posizione in classifica. E non sanno, o forse non considerano, la straordinarietà di questo momento. Ma scrutano stupiti, strizzano gli occhi per schermarli dal vento e cercano di vivere questo istante esatto. Forse lo ricorderanno a lungo, forse l’hanno già scordato troppo presi dal richiamo del fosso. Non sempre ce ne si rende conto quando la storia ci passa davanti. Non sempre, ma in questo sabato di inizio ottobre sì, più che mai, questo sabato si fa la Storia.

Quest’ingombrante presenza con la S maiuscola, termine dentro al quale sono racchiusi tutti gli avvenimenti che hanno interessato la specie umana negli ultimi due milioni abbondanti di anni, si aggirava in maniera ben percepibile nel centro di Denain, sabato 2 ottobre 2021. In quasi un migliaio di anni di vita, la cittadina francese aveva avuto poche occasioni per incrociarsi con la Storia.
Sia ben chiaro, ogni luogo e ogni essere vivente ha la sua storia, e sono tutte storie importanti, ma andando a ritroso negli annali di questa cittadina campagnola del Dipartimento del Nord si trova poco più di una singola traccia: la Battaglia di Denain, che nel 1712 vide l’inizio della controffensiva francese durante la Guerra di Successione. Fino al 2 ottobre 2021, quando il richiamo dell’eternità irrompe nel parcheggio di Rue de Villars dove fino a poco prima girava solo un furgoncino dai cui altoparlanti si annunciava lo spettacolo de Le Cirque Français, in programma alle 16.

Uno dopo l’altro si allineano i mezzi delle squadre e ne escono a ondate cicliste sorridenti e orgogliose. Because something is happening here, direbbe Bob Dylan. Qualcosa sta accadendo, e sta accadendo esattamente qui e ora.

Annemiek van Vleuten è assediata dai microfoni, ed è felice, perché «possiamo mostrare che le donne tenaci possono correre gare dure come la Roubaix».
Anche Elisa Balsamo è circondata, gli occhi seguono il candore di una maglia iridata fresca di una settimana, il cui bianco durerà ben poco: «alla fine oggi faremo la storia, quindi correre con questa maglia è qualcosa di incredibile».
Un’opinione condivisa da tutte, a partire dalla più titolata, Marianne Vos: «Credo che sia una cosa grande essere qui», dice Vos.
Una corsa il cui valore va oltre il semplice evento sportivo, come nota Marta Cavalli: «È una bella occasione per noi perché è un altro passo verso l’essere considerate uguali al mondo maschile».

E questo passo non è stato completato in un giorno. C’è voluto tanto lavoro e tanta pazienza. Anche tanta attesa, per una gara che era stata annunciata il 5 maggio del 2020, inserita a sorpresa per l’autunno in un calendario rivisto dopo l’arrivo della pandemia, e infine rinviata di nuovo alla primavera successiva. E poi di nuovo in autunno. Finalmente, dice Elena Cecchini.

«Sono felice che finalmente ci sia questa gara. Perché l’abbiamo voluta tanto e aspettata altrettanto. Il nostro movimento sta migliorando e sviluppandosi di più anno dopo anno. Abbiamo sempre più gare, per cui questo era un grande obiettivo per noi. Penso che ci meritiamo questa classica oggi».
Tanto che ciò che si percepisce alla partenza è soprattutto emozione. Elisa Longo Borghini trema.

«È sicuramente emozionante essere qui oggi. Un po’ tremo per il freddo e un po’ per l’emozione, per la verità. L’ho sempre pensato realizzabile. Oggi è un bellissimo giorno per il ciclismo, e spero che anche voi possiate godervi lo spettacolo».
C’è tensione, c’è emozione, c’è paura e c’è curiosità al via di Denain. C’è soprattutto attenzione. Marta Cavalli non aveva mai visto un’attenzione del genere.

«Abbiamo avuto a che fare per quattro giorni con giornalisti da tutte le parti, cosa mai successa. A livello mediatico ha un bacino d’utenza enorme che non avevamo mai visto. Quindi tra di noi scaturisce anche un po’ più di tensione per questo punto di vista».

Eppure la corsa è la corsa, e anche la storica emozione si stempera mano a mano che le squadre si susseguono al foglio firme e le cicliste si dispongono in strada, pronte a partire.
Sono solo 115,6 i chilometri in programma, motivo per cui la partenza è prevista addirittura nel primo pomeriggio. Sul bus della Trek, Lizzie Deignan inganna l’attesa leggendo un libro, ma la stagione è stata lunga e arrivata a inizio ottobre la stanchezza fa sentire la sua presenza più che mai, tanto che Lizzie finisce presto per appisolarsi sul libro. Uno sbadiglio, gli occhi chiusi, il sonno che arriva e si prende qualche momento, quando meno ce lo si aspetterebbe. La sua compagna Longo Borghini se ne accorge, la guarda e pensa: oggi vince lei. 

Alla partenza della corsa più attesa dell’anno, attesa da più di due anni per i ripetuti rinvii, Deignan è talmente rilassata che si addormenta.  Una trentina di chilometri più avanti sarà già da sola.

Non era programmato l’attacco. Voleva soltanto prendere il pavé davanti per evitare guai. 

Non era attesa una fuga vincente di 82 chilometri, più di quanto abbiano mai fatto Tom Boonen, Fabian Cancellara o gli altri grandi interpreti della Roubaix in questo millennio. 

E non era prevista l’attenzione di fotografi e giornalisti verso le sue mani prive di guanti, che al traguardo sono colorate di sangue. I guanti, Lizzie non li usa mai, e non li ha indossati nemmeno qui. Come attenzione extra ha deciso solo di sfilarsi l’anello nuziale e attaccarlo ad una collanina al collo. 

Non era stato pianificato nulla in questa giornata storica, eppure tutto è andato alla perfezione. D’altronde la Storia raramente è prevedibile, si può girarsi indietro e leggerne i segnali a posteriori, ma quando i fatti accadono lo fanno quasi sempre col fragore della sorpresa. Così Lizzie si avvantaggia appena il pavé fa la sua comparsa in gara. E se ne va. 

Transita davanti ai bambini che giocano nel fosso a Wandignies con le avversarie poco distanti, che si interrogano se sia il caso di andarle dietro o si domandano che effetti hanno sortito le prime cadute. Se ne va da sola a Orchies, dove rombano i camion sulla vicina autostrada. Pedala in solitaria a Mons-en-Pévèle, dove la pioggia è cominciata a cadere accumulando a bordo strada pozzanghere d’acqua marrone che l’indomani saranno strabordanti piscine in grado di rendere ogni pietra uno scivolo e ogni volto una maschera. Resiste all’inseguimento a Templeuve, tra tifosi belgi che hanno allestito improvvisati salotti all’asciutto nei cassoni dei camion e abitanti locali che, addossati ad alti ziggurat di balle di fieno, urlano a tutte indistintamente: «Allez! Tout va bien!».
È sola sul Carrefour de l’Arbre, dove le lumache sono tornate a prendere possesso degli umidi campi autunnali, finita la stagione del raccolto delle barbabietole da zucchero che ha reso il panorama più omogeneo che mai. E stringe i denti al comando tra Willems e Hem, settore due ovvero penultimo, dove le pozzanghere si sono mischiate con i liquami che colano dal letame. 

È uno sport di merda, diceva un video ciclistico di successo. 

Oggi Deignan non sarebbe d’accordo, e con lei nessun’altra delle partecipanti.

La pioggia cade leggera sul velodromo André-Pétrieux di Roubaix quando Lizzie Deignan sbuca in pista. È un’immagine che chiunque segua il ciclismo ha visto decine, se non centinaia di volte: l’ultimo vialetto lastricato in città, la doppia curva, il boato della folla. 

No, non è vero, è un’immagine che non aveva mai visto nessuno. 

Nell’aprile del 1895 gli imprenditori tessili Theodore Vienne e Maurice Perez cominciarono a costruire un velodromo nel parco che divideva i comuni di Croix e Roubaix, lo chiamarono Roubaisien. Per pubblicizzare il nuovo impianto proposero al giornale parigino Le Vélo di organizzare una corsa, con partenza dalla capitale e arrivo al velodromo.
Esordì nel 1896 e oggi, 125 anni più tardi, è il velodromo di Roubaix ad accogliere Lizzie Deignan per il suo rituale di un giro e mezzo. Non più il medesimo velodromo, ma il suo erede, sorto sulle sue ceneri. È una storia che continua: pochi metri più in là, sorge il velodromo regionale coperto Jean Stablinski, quello che due settimane dopo l’arrivo di Lizzie Deignan ha ospitato i campionati del mondo su pista del 2021. Cambiano le architetture, rimane il rituale, il giro di pista.
Una processione ellittica che dopo un secolo e un quarto continua a rendere omaggio a quel velodromo a cui si deve l’idea della Roubaix. Luogo unico e sacro dove il pubblico accede ancora gratuitamente e applaude chiunque irrompa sull’anello di cemento.

Si affacciano una dopo l’altra, sotto una pioggia leggera che si farà diluvio nella notte, e c’è un elemento che riunisce tutte le partecipanti: il sorriso. Dentro quei sorrisi ci sono gioia, stupore e soprattutto orgoglio. Quasi nessuna si accascia subito sul prato, quasi nessuna si precipita immediatamente verso le docce. Tutte vogliono prima abbracciarsi e in ogni abbraccio condividere le emozioni del giorno in cui sono divenute protagoniste della Storia. 

Per Deignan l’ingresso in velodromo è stato surreale. Marta Cavalli non riesce a frenare l’emozione e non vede l’ora di riviverla. «Purtroppo ero e sono abbastanza stanca e non me la sono potuta godere a pieno. Probabilmente domani alla televisione me lo riguarderò e potrò dire: io c’ero, ero tra i primi concorrenti che sono entrati nel velodromo».

Audrey Cordon-Ragot è in lacrime. Le atlete e lo staff della NextGen Racing si stringono tutte, tra loro c’è anche Britt Knaven, che completa la Roubaix vent’anni dopo la vittoria di suo padre, Servais, nell’edizione più fangosa di questo millennio. 

Teniel Campbell taglia il traguardo fuori tempo massimo mano nella mano con la compagna Jessica Allen. È tentata di salire sulla curva parabolica ma l’asfalto umido la intimorisce un po’. Così si ferma al centro, raggiante. «Ero felicissima. Mi sono divertita così tanto. Ho incrociato le dita e sperato così tante volte di non cadere ma è stato così maledettamente fantastico. Non vedo l’ora che sia l’anno prossimo per rifarla e spero che piova di nuovo, è molto più bella così che con l’asciutto», dice. E ride.

Le condizioni estreme nella corsa che per più di un secolo è stata ritenuta di suo troppo estrema per le cicliste hanno finito per sottolineare il fascino di una gara che, come dice Elisa Longo Borghini «è fatta di caos e cadute; bisogna solo abbracciare il caso e sapere che si sfiderà l’ignoto». 

Al suo fianco, ad accompagnarla sul podio, c’è Marianne Vos. Favorita alla partenza ma solo seconda al traguardo, la nederlandese è ugualmente sorridente e consapevole di quanto ha appena vissuto: «non poteva esserci di meglio che la pioggia e il fango, hanno reso questa giornata più epica». 

Certo, quella che resta da fare è ancora una lunga strada, sempre che si possa chiamare strada.
Nonostante il peso del suo status, la Roubaix femminile è stata confinata a soli 115,6 chilometri, meno della metà di quanti ne hanno affrontati gli uomini l’indomani.
E non è un caso isolato. Poche settimane dopo l’Inferno del Nord è stato presentato il ritorno del Tour de France femminile, previsto nel luglio del 2022, a 19 anni di distanza dall’ultima edizione completa. Ma sarà solo una settimana di corsa, a fronte delle tre riservate agli uomini. 

Le televisioni hanno mostrato soltanto un’ora e mezza di corsa della prima Parigi-Roubaix femminile. Una differenza notevole rispetto alle dirette integrali delle prove maschili, e in questo caso anche un clamoroso buco nell’acqua perché il collegamento ritardato non si è perso soltanto una partenza storica ma pure l’azione che ha deciso la corsa. «È come se nel tennis le dirette delle partite femminili cominciassero dal secondo set», ha commentato la giornalista ed ex-ciclista Kathryn Bertine. 

E nonostante l’interesse globale, meno visibilità corrisponde a meno soldi, un problema che appare ben lontano dall’essere risolto. Lo si legge chiaramente nella tabella delle somme spettanti ai vincitori, con i settemila euro di montpremi per la prova femminile che rappresentano un tredicesimo dei novantunomila stanziati per la gara maschile della domenica. Con i suoi 1’535 € Lizzie Deignan ha guadagnato venti volte in meno di Sonny Colbrelli, seppur vincendo la medesima corsa. Persino il sesto classificato Christophe Laporte ha riscosso un premio più sostanzioso. 

Eppure il destino ha voluto che la corsa femminile andasse a una ciclista della Trek, la squadra che sin da inizio stagione ha deciso di integrare le differenze, pareggiando la somma dei premi tra gare maschili e femminili. Una bella beffa della Storia, nel giorno in cui si è fatta concreta.

Ci sarebbero tanti elementi in più per definire storica la Roubaix del 2021. Una corsa fissata e rimandata per tre volte e infine disputata in autunno, un’altra prima volta. 

Alla giornata memorabile del sabato è seguita una notte di acqua a catinelle e una domenica ancor più infangata. La Roubaix non si correva in condizioni simili dal 2002, e già questo è un fatto eclatante. Così come ancor più sorprendente è assistere a un podio occupato per intero da corridori all’esordio nella classica del pavé: una gara in cui contano fortuna ed esperienza, che non premiava un esordiente dal 1953, di colpo si è concessa ai debuttanti, per un intero weekend. 

Usciti tutti dal fango, dal vincitore Sonny Colbrelli, che si rotola inzaccherato per celebrare il risultato più importante di una carriera, sino a Tom Paquot, ventunenne belga della Bingoal che la sua prima Roubaix l’ha conclusa quaranta minuti più tardi. Fuori tempo massimo come altri nove corridori, tra cui il vincitore del 2014 Niki Terpstra, ma ultimo corridore a varcare il cancello del velodromo. Coperto di melma, come Colbrelli, e come lui in lacrime. «Nei cinque chilometri conclusivi ho pianto di più che negli ultimi due anni della mia vita», ha detto Paquot all’arrivo, godendosi un ultimo giro sotto il sole, a differenza di tutti coloro che lo hanno preceduto.

La storia distribuisce i suoi privilegi in maniera imprevedibile. A qualcuno un’accoglienza sotto il sole, a qualcuno un fosso in cui giocare, a qualcuno un trofeo di pietra da esibire in salotto, ad altri soltanto una doccia calda. 

Per raggiungere le docce più famose del ciclismo bisogna uscire dal velodromo, attraversare la strada e infilarsi in un anonimo edificio di cemento grigio. Un percorso a cui quasi tutti i ciclisti ormai rinunciano, preferendo i comfort dei bus delle squadre.
Al termine della corsa femminile, però, nessuna ha voluto rinunciare all’appuntamento, che rappresenta il completamento della lunga e strana avventura chiamata Parigi-Roubaix. 

Sono trascorsi 125 dall’inizio di questa storia, e per 125 anni ci sono stati solo uomini tra i vincitori, tra i direttori sportivi, tra i dirigenti delle squadre, tra gli organizzatori, tra chi ha governato il ciclismo e chi tutt’ora lo governa. Fino al 2 ottobre 2021.

Per ogni nome entrato nell’albo d’oro della corsa c’è una placchetta di metallo sulla parete di cemento di una doccia. Ora su una di quelle docce c’è anche il nome di donna, Lizzie Deignan, e non ci saranno acqua o fango in grado di cancellarlo. In attesa del prossimo nome, della prossima doccia, della prossima storia. 


Il richiamo delle Fiandre

Le Fiandre, per chi ama il ciclismo, sono un Paese speciale.
Storia, tradizione, riferimenti culturali: tutto rimanda alla bicicletta.
Siamo andati a pedalare sul percorso dei Campionati del Mondo 2021, quelli vinti da Julian Alaphilippe con quell’attacco fulminante a pochi chilometri dall’arrivo del circuito cittadino di Lovanio.
Ma abbiamo anche trascorso tre giorni a guardarci in giro, ad assaggiare birre e parlare con le persone del luogo.
Volete leggere il nostro speciale Fiandre? Ecco il link

Per tutto il resto, non vi resta che ascoltare questa puntata di Parole Alvento in compagnia di Filippo Cauz che racconterà tutto quello che non ci stava (o non si poteva dire) nel servizio pubblicato sulla rivista.

Il richiamo delle Fiandre – ep. 14
Intervista: Claudio Ruatti
Ospite: Filippo Cauz
Sound design: Brand&Soda


Leadville 100

Words: Paco Gentilucci
Voice: Luca Mich
Sound design: Brand&Soda

Nel 2012 dopo aver passato più di un mese girando in autostop e dormendo sui divani di sconosciuti, la mia ex ragazza decide di raggiungermi negli USA e le chiedo di accompagnarmi a Leadville.
Stando alle regole delle macchine a noleggio USA io avevo la patente da troppo poco tempo, pur essendo maggiorenne, il che è sensato, per loro, considerato il fatto che a16 anni già possono guidare la macchina.

Leadville è fondamentalmente un paese costruito su una strada. Una strada con dei fast food e un piccolo centro commerciale con un motel (in cui dormiremo) prima di arrivare in quella che viene definita downtown: un barbiere, un coffeee shop e un negozio di vestiti dell’usato, il tutto al lato della solita strada.
La mia ex ragazza mi fissa con quello sguardo che significa siamo sul serio venuti qui? mentre io svuoto la sacca delle attrezzature per correre – un paio di pantaloncini una tshirt, un paio di scarpe e un cappello bianco con la visiera acquistato al negozio dell’usato in downtown dieci minuti dopo essere arrivato. Un cappello di Oil the Machine, un brand produttore di olio per condire l’insalata utilizzato da molti ultrarunner oltreoceano: un vero pezzo da collezione, per intenditori. A dir la verità il cappello era già molto usato e sporco, non fu un grande affare, non contrattai e lo pagai effettivamente più di quanto valeva in sé, ma il prezzo mi sembrò appropriato, chissà chi lo avesse indossato prima di me, magari AK, Anton Krupicka; chi poteva saperlo. Lo pagai volentieri, lasciando anche due dollari di mancia.
Secondo la mia ex ragazza non era stato un grande acquisto. Me lo disse apertamente mentre eravamo seduti a bere il classico caffè lunghissimo e acquoso che qualsiasi italiano definirebbe acqua sporca: io lo adoravo.
Ce lo servì un signore in camicia di flanella pieno di rughe con la barba che indossa una tshirt scolorita con scritto Leadville 100.
Com’è stato? gli chiesi, indicandola col dito
Horrible mi rispose, aprendosi in un sorriso sdentato.
In quel momento pensai di trovarmi nel posto giusto, proprio quello in cui avrei dovuto essere.
Tornati in Italia la mia ex prese a portare con frequenza il cane a spasso con un tizio, con cui dopo qualche giorno iniziò ad andare a letto, prima di decidersi a scaricarmi, dopo qualche mese. Quando mi parlava del recinto per far giocare i cani assumevo la stessa espressione con cui lei mi guardava mentre dicevo che buono bevendo quel caffè: felice, come un bambino al luna park.  

Leadville, 3094 metri di quota, città più alta degli Stati Uniti. Chiamarla città è eufemistico in quanto è più un villaggio, attorniato da questi collinoni enormi che arrivano senza difficoltà ai 4000 metri.
Cosa rende un posto degno di essere visitato?
Di sicuro Leadville non è tra le mete che strappano un “wow” o un “che fortunato” alle persone quando gli racconti dove sei stato, tipo le Hawaii o New York o il mar Rosso, ma tant’è.
Immagino che i luoghi assumano significato per le persone che ci abitano e ciò che vi succede, e ogni estate Leadville è una meta ambita per un certo tipo di persone.

Leadville nasce nel periodo storico della corsa all’oro, nel 1860. Intere generazioni di persone scommettono in un immediato futuro migliore andando a caccia della ricchezza facile, il dio denaro, che come sempre nella storia dell’uomo, offusca la razionalità. Una volta terminato il periodo dell’estrazione in California le famiglie emigrano dalla pianura alle montagne rocciose del Colorado, vestiti di stracci con in mano la speranza di un futuro migliore. Era l’isteria generale il motore della caccia all’oro, la prospettiva dei soldi, tanti e immediati, che smuoveva queste persone. Attraevano come gratta e vinci, i videopoker o un investimento spirituale in cambio del paradiso eterno. Non si trattava di cercare pagliuzze d’oro nel fiume con un retino, ma di un’estrazione sistematica, invasiva e senza tregua. La gente era disposta a tutto, lasciando la propria vita a caccia di questo materiale luccicante. Entro il 1860, Denver City, Golden City e Boulder City erano di fatto delle città che servivano le miniere. La rapida crescita della popolazione portò alla creazione del Territorio del Colorado nel 1861.

Le cose assumono il valore che le persone decidono di attribuirgli. Pensate che dei sassi sono molto più importanti della vita delle persone, possono migliorargli o rovinargli la vita per sempre.
Sassi per cui i Pellerossa o gli Indios sono stati sterminati, e per cui ancora adesso succedono guerre e che vengono mostrati come status sociale addosso alle persone in luccicanti anelli e crocifissi al collo.
Dei sassi luccicanti che influenzarono la vita delle persone, arricchendone molte, e conducendone molte di più al baratro. Nella metà del 1860 i flussi auriferi terminarono e molte persone si ritrovarono con un pugno di mosche in mano, i minatori senza lavoro e molte malattie per le condizioni di lavoro estreme e città che sarebbero diventate fantasma nel giro di pochi anni, come Uptop, intera città messa all’asta nel 2015 per un milione di dollari.
Oro City stessa, la cittadina che nasceva a un miglio dall’attuale Leadville, raggiungeva nel 1860 ben 5000 abitanti censiti, ma scomparse velocemente assieme all’oro dei giacimenti. 

E Leadville?
Leadville fu fondata nel 1877 dai proprietari di miniera Horace Tabor e August Meyer durante la Silver Rush. Si, perché terminato l’oro, i minatori riuscirono a estrarre da quelle montagne martoriate dell’argento. Non fu mai un vero boom come quello per l’oro, ma Leadville, in precedenza chiamata Slabtown (in quanto giaceva nella desolata pianura sotto le montagne) venne ribattezzata Leadville e ben presto si sviluppò con illuminazione e gas, strade, scuole, banche e ospedali. Personaggi di spicco vissero lì, prima che Leadville tornò ad essere una cittadina quasi disabitata (circa 2000 persone ci abitano oggi) e tra tutti vogliamo ricordare la nostra connazionale Giuseppina Morlacchi, ballerina milanese emigrata negli stati uniti e stabilitasi lì per il resto della sua esistenza.
Chissà cosa avrebbe pensato di quegli individui che si sarebbero trovati nella sua cittadina per correre 160 km in bici, o a piedi, da lì a qualche secolo.

Il tasso di disoccupazione a Leadville è altissimo, più di 3000 persone si ritrovano senza lavoro a causa della crisi mineraria. Serve qualcosa di nuovo, ma la terra è già stata spremuta e non può più offrire niente alle persone del Colorado. Serve una prospettiva nuova e a trovarla sono Ken Chlouber e Merilee Maupin a guardare ciò che vedono ogni giorno dalla loro casa in modo diverso. Montagne, a perdita d’occhio, e strade sterrate percorse normalmente in jeep. Ken nato in Oklahoma giocava a football, come chiunque, da quelle parti e si laureò in biologia, dopo essersi arruolato nell’esercito. Un giorno, andando a caccia con gli amici per noia, si beccò un proiettile da un amico, proiettile che ancora adesso è nel suo ginocchio. Dopo essersi sposato e avuto un figlio si trasferì a Leadville, trovando lavoro in un’azienda di estrazione mineraria, negli anni 70 prima di approdare nella politica come Repubblicano ed essere eletto alla Colorado House of Representatives dove lavorò per 10 anni. Ken è però anche un appassionato corridore, trascorre molte ore sui sentieri e le grandi strade sterrate attorno Leadville.
Un giorno si trova a leggere il racconto di questa gara che è già sulla bocca di tutti – o per meglio dire, di tutti i fuori di testa pionieri dell’ultrarunning– chiamata Western States 100 Endurance Run. Una gara in california di 100 miglia (160 chilometri) che un ragazzo di Auburn ha inventato, iscrivendosi alla gara, allora corsa per cavalli (la Tevi’s Cup) correndo senza cavallo e coprendo la distanza a piedi, in meno di 24 ore. Una cosa così folle e avveniristica da smuovergli qualcosa dentro. Perché le persone non potrebbero correre 100 miglia qui?
“L’altitudine forse li ucciderebbe” provò a spiegargli il dottore del posto.
Ken alzando le spalle lo mandò a quel paese.
L’anno dopo, nel 1983, 45 corridori erano al via, nessuno di essi morì.
La Leadville 100 era ormai nata, ed è una tradizione che prosegue fino ai giorni nostri. 

Leadville 100 è in assoluto una delle gare più importanti per qualsiasi ultrarunner al mondo. Nel percorso che parte da downtow, arriva a Hope Pass e torna indietro sulla stessa strada dopo aver girato attorno a un birillo, tutti i nomi più importanti della storia della corsa si sono dati battaglia. Dai record imbattuti dei leggendari Matt Carpenter in 15 ore e 42 minuti e Ann Trason in 18 ore e 6 minuti, arrivata seconda assoluta nel 1994 e vincitrice di Western States per 14 volte i sentieri della cittadina del Colorado trasudano storie e leggende. Dalla resurrezione di Rob Krar che è stato capace di tornare a vincere nel 2018 dopo la sua vittoria nel 2014 e una lunga assenza a causa di infortuni; alla consacrazione di Clare Gallagher che corse per la prima volta nella sua vita 100 miglia, bevendo litri di Coca Cola e mangiando cibo spazzatura stampando il secondo tempo più veloce della storia, senza aver praticamente mai gareggiato prima. Vogliamo parlare delle due vittorie di Anton Krupicka?
La prima volta questo capellone simile a Gesù corse a torso nudo, scarpe minimali a cui aveva tagliato via la suola e una borraccia infilata nel retro dei pantaloncini, staccando qualsiasi altro corridore, dopo una notte trascorsa dormendo nei bagni pubblici.
Una notte burrascosa trascorsa con i suoi pacer Julian Boggs e Alex Nichos durante la quale un ubriacone continuò a urlare fino all’alba, momento in cui Anton partì, per vincere la gara. 

Tutti i grandi nomi dell’ultrarunning sono passati, almeno una volta, da Leadville: Jurek, Sherman, Sandes e in questo posto sperduto del Colorado il seme della distanza ha portato anche alla creazione della gara in mountain bike, corsa per la prima volta nel 1994.
Il percorso? Lo stesso della gara di corsa a piedi: vai avanti 80 chilometri, ti giri e torni
indietro fino all’arrivo. Out and back.
Follia?
No, una cosa sensata per tutti quelli che la capiscono.

La Leadville 100 trail MTB nasce appunto nel 1994 grazie a un’idea di Tony Post, uno dei pionieri dell’ultrarunning, nonché ex-vicepresidente di Rockport Company, sponsor dell’evento. Lo stesso Tony Post che diventò CEO di Vibram USA e poi diede vita al suo brand di scarpe da corsa, innovativo e da poco presente anche sul mercato italiano: Topo Running.
Con il benestare del solito Ken Chlouber la pioneristica gara in bici passò dall’essere una faccenda per pochi scoppiati al diventare una gara must dell’ambiente. Le 150 iscrizioni del primo anno finirono ad essere le1700 richieste di partecipazione dell’anno scorso. Richieste, si, perché per accedere alla gara non basta pagare e partire, ma bisogna guadagnarsi l’iscrizione per merito (vincendo una delle gare qualificanti, solitamente sulla distanza di 100km) o tramite un bacio della dea bendata, vincendo la lotteria a estrazione che si tiene prima della gara, lotteria ovviamente esistente anche per la gara di corsa.

La quota, la lunghezza e le condizioni climatiche che possono variare dal caldo asfissiante alla neve e al fango rendono questa gara un’esperienza memorabile per molti, che si tratti di lottare per il podio o per vincere la fibbia da finisher, che nella gara in mountainbike prevede il cutoff dopo 9 ore (per ricevere la big buckle) e di 12 come cutoff massimo per essere nella classifica.
E i primi? I tempi dei primi classificati rispecchiano l’evoluzione di questo sport, di bici sempre più performanti e preparazioni atletiche sempre più mirate per questo evento. Il primo vincitore e la prima vincitrice di Leadville Trail 100 MTB furono John Stamsad e Laurie Brandt coi rispettivi tempi di 7 ore e 52 minuti per la gara maschile e poco più di 9 ore per quella femminile.  Per vincere la gara adesso bisogna essere in grado di percorrere i 160 km in poco più di 6 ore tra gli uomini e di 7 tra le donne. Il livello si è alzato di anno in anno, ma la svolta avvenne quando in griglia di partenza si presentò David Wiens, un ragazzo di Denver, nel 2003. 

Già mountainbiker di buon livello, Wiens vinse la gara nel 2003 inanellando una serie di vittorie consecutive in questa gara, fino al 2007. Nel 2007 però in griglia di partenza c’era anche un ciclista non proprio qualsiasi: Floyd Landis. Era chiaro ed evidente a tutti che David avrebbe perso la sua imbattibilità, nessuno avrebbe scommesso un centesimo sul ragazzo del posto, campione di mountainbike si, ma già ritirato dalla carriera, e che comunque, al prospetto di un grande mostro del ciclismo su strada, era un signor nessuno. Landis, al tempo ancora professionista su strada, nonché vincitore del Tour de France 2006 (prima che questo successo gli venne revocato per la orribile vicenda di doping in cui era coinvolto e che sconvolse il ciclismo di quegli anni e che venne sospeso l’anno seguente dalle competizioni) venne tuttavia battuto da Wiens, che compì il miracolo di vincere la gara abbattendo il muro delle 6 ore, per due minuti.
cosa successe l’anno dopo?
In linea di partenza c’era un texano che in bici aveva spadroneggiato, battendo qualsiasi altro corridore della terra, un corridore amato o odiato, che nell’armadio a casa collezionava varie maglie gialle. Anzi, più che varie dovremo dire, più di chiunque altro. Erano 7.
Si, proprio un certo Armstrong. Lance Armstrong. 

Alla domanda ricevuta pochi mesi prima, un giornalista chiese a Lance come sarebbe voluto essere ricordato dopo la sua settima vittoria al Tour, Lance dichiarò:
«Come il campione che ha radicalmente cambiato il modo di avvicinarsi e vincere il Tour. Il lavoro invernale, la costruzione della squadra, gli stage su Alpi e Pirenei, l’approccio studiato nei dettagli. Per sette anni io ho vissuto per il Tour». E alla domanda
Addio definitivo? Nessun ripensamento?
Lance tuonò: «Nessuna possibilità di tornare alle gare col numero sulla schiena. Non farò come Michael Jordan. Andrò ancora in bici per restare in forma e potrei anche partecipare a qualche corsa di mountain bike o cross, giusto per divertirmi”

A differenza di quanto dichiarato, Lance sarebbe tornato l’anno dopo al Giro d’Italia. Lance si preparava quindi, non aveva mai smesso, e si allenava per il suo ritorno al ciclismo professionistico, e una cosa era certa: non si era iscritto a Leadville 100 per perdere. Lance non era il tipo di persona che si iscriveva alle gare per divertirsi e basta.

Ad ogni modo, in quell’estate del 2008 Lance non si stava divertendo molto.
Wiens gli era attaccato alla schiena, nonostante il ritmo forsennato da record di gara, a meno di 10 miglia dall’arrivo, e i due procedevano appaiati in salita.
A 20 minuti dagli inseguitori Lance non riusciva a scrollarsi David di dosso, e provò ad accelerare, ma Wiens non mollava. Successe l’impensabile, Lance si girò e dichiarò:
Sono distruttoI’m done. Ordinando a Wiens di andare da solo all’arrivo.
Wiens, che veniva dai trails e non era abituato alla concorrenza assoluta della strada si trovò a rincuorare Lance, a tenere duro, gli disse di continuare, disse a Lance di non mollare e di proseguire.
Immaginate la scena: un signor nessuno che dice a Lance Armstrong, il corridore più tiranno e assetato della storia, che spadroneggiava su tutto il gruppo al Tour de France e che piazzava i suoi uomini della US Postal a tirare ai 60 all’ora solo per distruggere i sogni di gloria dei corridori fuori classifica colpevoli di non essergli simpatici, di tenere duro e arrivare assieme all’arrivo, semmai giocarsela in volata.
Fu la prima volta nella storia che Lance Armstrong disse ciò e ribadì il concetto con poche semplici parole: I’m done.
Wiens non si guardò più indietro e sollevò le braccia all’arrivo per la sesta volta consecutiva, battendo ancora una volta il record di gara, di due minuti.
Lo stesso Armstrong confidò che mai nella sua carriera aveva detto quelle parole a un avversario.
Non passò molto tempo che Lance affermò il suo ritorno al ciclismo professionistico e la sua volontà di rivincita su Wiens, a Leadville 100.

Grazie a questa vicenda Leadville Trail 100 diventò una gara sotto i riflettori della ribalta e il numero di professionisti del ciclismo aumentò di anno in anno. Lo stesso Armstrong tornò per vincere la gara, nel 2009, e il suo compagno di squadra alla Radio Shack Levi Leipheimer vinse l’anno dopo con il tempo record di 6 ore e 16 minuti, correndo per la prima volta su una mountain bike.

Leadville era polvere, sudore, una gara che portava al limite i corridori: anche i più forti atleti del pianeta dovevano soffrire almeno 6 ore per arrivare in fondo. Leadville era, ed è, la mecca per certe persone, non più a caccia di oro, ma di emozioni forti. Leadville è storia, leggenda ed è molto più di una semplice gara in mountain bike.
Il mio consiglio?
Al coffee shop del paese fanno un caffè squisito.


100% Daniel Oss

Questa puntata l’abbiamo registrata a poche ore dalla partenza del Giro d’Italia 2021 – che in questi giorni si appresta ad affrontare la terza settimana.
Siamo andati a trovare un Daniel Oss sereno e rilassato, anche se molto concentrato sulla Corsa Rosa. Non tanto per parlare di attualità, quanto per approfondire la sua visione del ciclismo, della professione di corridore. Per farci raccontare come lui stesso è evoluto in tutti questi anni in gruppo e come vede il suo futuro, in sella alla bicicletta ma non solo.
Daniel Oss è uno dei personaggi più riconoscibili del plotone, un professionista esemplare ma anche un grande comunicatore.
Godetevi questa oretta di freestyle, registrata a Trento a casa di Franz Perini, manager di Daniel.

Volete vedere anche la versione video di questo episodio? Ecco il link:

100% Daniel Oss – ep. 12
Intervista: Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda
Special thanks: Franz Perini


La locomotiva umana

Words: Gino Cervi
Voice: Luca Mich e Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda

Il 10 maggio 1931 è un giorno di grandi duelli. Sulle strade d’Italia, seppure a distanza di mille miglia, vanno in scena due appassionanti contese sportive. In Sicilia, sulle curve e i saliscendi delle Madonie, si corre la ventiduesima edizione della Targa Florio, una delle più antiche e illustri corse automobilistiche. Al volante di rombanti fuoriserie i piloti più forti del momento: su tutti spicca la sfida tra il vecchio, Tazio Nuvolari, e il giovane campione, Achille Varzi. Al termine dei quattro giri di circuito, 584 km, 9 ore, 0 primi e 27 secondi, alla media di 64,836 km/h, taglia per primo il traguardo di Cerda l’Alfa Romeo del Nìvola, il “Mantovano volante”; Varzi, su Bugatti, arriva soltanto terzo; in mezzo un’altra Alfa Romeo, quella di Mario Umberto Borzacchini. Completa la classifica dei migliori, Giuseppe Campari, quarto. Sembra una canzone di Lucio Dalla.

Dall’altro capo della penisola c’è un’altra sfida. Non schiacchiano i piedi su acceleratore, freno e frizione ma mulinano le gambe sulle pedivelle delle loro biciclette. Nella prima di tappa del Giro d’Italia, la Milano-Mantova, 206 chilometri e mezzo, piatti come una tavola e più o meno dritti come una ferrovia, il testa a testa è tra Alfredo Binda e un altro mantovano che non è ancora volante, ma sta per spiccare il volo: Learco Guerra.

Ci sono almeno due buoni motivi per appassionarsi all’ouverture dell’edizione numero 19 del Giro. Il  primo è che da quest’anno la corsa si è data un colore che la accompagnerà per il resto della sua storia. Il leader in classifica generale indossa una maglia che lo distingue per eccellenza: una maglia rosa. Rosa come la carta sulla quale, fin dal 2 gennaio 1899, viene stampata “La Gazzetta dello Sport”. L’idea è “copiata” dal Tour: anche lì da qualche anno, il primo in classifica è riconoscibile per una maglia gialla, gialla come il colore delle pagine del giornale “L’Auto”, l’organizzatore della manifestazione.

Pare che a Mussolini e agli alti dirigenti dello sport fascista la scelta non convincesse per niente. Il rosa non è u colore che si addice agli eroi, virili e ardimentosi, dello sport. Forse per questo la novità viene poco enfatizzata dagli stessi organizzatori e dalla stampa. Il termine infatti compare timidamente sulle pagine della “Gazzetta” solo al termine della 7a tappa e, a Giro concluso, in una poco appariscente didascalia di una foto del vincitore. Col tempo tuttavia il colore “delle dita dell’aurora”, come scrive Omero che di epica se ne intende, conquistò anche i suiveur del Giro. Non solo la maglia del più forte, ma anche il Giro stesso divenne “la Corsa Rosa”.

Il secondo motivo è questo. Se vogliamo restare fedeli alla tradizione omerica, diciamo che Alfredo Binda e Learco Guerra si accingono quel giorno a diventare l’Achille e l’Ettore del ciclismo nazionale. Così, spalla a spalla, e col coltello tra i denti, si presentano i due avversari alle porte della pista del Te, che prende il nome dal vicino palazzo gonzaghesco a Mantova.

A poche decine di metri dall’ingresso in pista, mentre il gruppo compatto si accinge a preparare la volata, cade Antonio Negrini. Sei corridori si trovano in testa: Di Paco e Battesini della Maino, quindi Binda della Legnano, Guerra ancora della Maino, e poi Mara della Bianchi e, a chiudere, un altro “ramarro” della Legnano, Marchisio. Devono ancora percorrere un giro e mezzo di pista. Ma noi, per il momento, li lasciamo qui. E facciamo un passo indietro per raccontarvi da dove arrivano i due duellanti.

Se fossero vissuti a cavallo tra il I e il II secolo d.C. Plutarco, lo scrittore greco di cittadinanza romana, Alfredo Binda e Learco Guerra li avrebbe inseriti nelle sue celebri Vite parallele. Invece sono figli del XX secolo e ci tocca raccontarli in un altro modo, magari proprio in un podcast. Le vite di Binda e Guerra incominciano nel 1902, quasi appaiate: l’11 agosto nasce Alfredo, 14 ottobre Learco.

A Cittiglio, provincia di Varese, il primo; a San Nicolò Po, frazione di Bagnolo San Vito, provincia di Mantova, il secondo. Un lombardo di lago e un lombardo di fiume. Binda, decimo di quattordici figli, cresce in una famiglia quasi agiata. Il padre ha una piccola ditta edile: il piccolo Alfredo trova anche il tempo di studiare musica e suonare la tromba nella banda del paese. All’indomani della Grande Guerra, sulla “sponda magra” del Lago Maggiore non c’è però lavoro per tutti. E il giovane Alfredo, al seguito del fratello maggiore, Primo, emigra e va a cercar fortuna in Francia, come stuccatore e decoratore nelle belle case della Costa Azzurra.

Qui incomincia ad appassionarsi di ciclismo: all’inizio accompagna il fratello alle corse, poi scopre di avere un innato talento sui pedali.

A vent’anni comincia a correre. E comincia a vincere nelle gare a cui si iscrive, da dilettante, tra un lavoro e l’altro. Va talmente forte che presto diventa quello il suo lavoro. Nel 1923 in una corsa in salita aperta ai professionisti, la Nizza-Mont Chauve, batte tutti, francesi e italiani, Girardengo compreso.

Learco Antenore Giuseppe Guerra è figlio di Attilio, capomastro mantovano, e di Pasquina, combattiva casalinga di simpatie socialiste. Perché lo battezzino Learco nessuno lo sa. Che Learco in mitologia sia lo sfortunato figlio di Atamante, ucciso dal padre reso pazzo per vendetta da Era, o Giunone, non importa a nessuno. Learco suona bene e basta così. A Learco piace lo sport: è forte, atletico, resistente. Gioca a pallone. Vorrebbe anche provare a correre in bicicletta. Ma di tempo da perdere, in famiglia Guerra non ce n’è. L’unica bicicletta è un vecchio tandem. Lo inforca insieme a Papà Attilio per andare nei cantieri.

Nel Mantovano gli anni della guerra sono durissimi: l’alluvione del Po nel giugno del 1917, i disastri della ritirata di Caporetto in autunno; e poi, a guerra finita, le tensioni sociali. Il 3 e 4 dicembre 1919 a Mantova le Giornate rosse dei braccianti, sempre più poveri e sfruttati. Protestano contro il costo della vita e la disoccupazione. Manifestazioni e scontri di piazza degenerano in saccheggi e devastazioni. L’esercito interviene: 8 morti, 50 feriti, centinaia di arresti. Anche alcuni amici di Learco finiscono in carcere e sotto processo. I socialisti vincono le elezioni amministrative del 1920. Le squadre fasciste iniziano le spedizioni punitive nelle campagne. Nel 1921 devastano la cooperativa di San Nicolò.

Learco a vent’anni è chiamato alla leva militare e si toglie per un po’ da quella polveriera. Due anni dopo, al suo ritorno, nell’ottobre del 1924, è già papà. Nasce Gino Beniamino e la mamma è Letizia Malavasi, la sua “morosa” fin da prima di partire soldato. Si sposano qualche mese dopo. Ora che c’è una famiglia da mantenere, c’è ancora meno posto per le fantasie ciclistiche. Eppure Learco non smette di pensare a quegli aitanti ciclisti che corrono nel Pedale Mantovano, o per 23a Legione Bersaglieri del Mincio; e ai campioni locali di cui legge sulle pagine dei giornali. Alfredo Donini e Spartaco Boselli; Giacomo Gaioni e Aimone Altissimo; e Armando Maggiori, che nel 1927 corre il Giro da indipendente. Learco sente che, in sella a una bicicletta, non sfigurerebbe al loro confronto. Ma restano solo sogni.

Ad Alfredo Binda invece la bicicletta ha fatto svoltare la vita. Dopo aver vinto in Francia una trentina di corse, sul finire del 1924 torna in Italia per partecipare al Giro di Lombardia. Ha un obiettivo: vincere le 500 lire di premio messe in palio per chi passerà primo sul Ghisallo. Alfredo ce la fa. Scollina per primo con 2 minuti di vantaggio su Brunero e 3 e mezzo su Girardengo. In discesa viene ripreso da Brunero, che poi lo stacca a Viggiù. Al traguardo, arriva 4°, a 8 minuti da Brunero, il vincitore, ma insieme a molti navigati campioni come Girardengo e Linari. L’occhio lungo di Eberardo Pavesi, direttore sportivo della Legnano, lo nota. A corsa finita gli fa firmare un contratto con la Legnano. Per un decennio sarà la fortuna di Binda, ma anche di Pavesi.

L’anno seguente, con la maglia verde ramarro, il “Trombettiere di Cittiglio” – come hanno iniziato a chiamarlo sui giornali – vince il Giro d’Italia al primo tentativo e, a fine stagione, anche il Giro di Lombardia. Nel 1926 arriva secondo al Giro, ancora dietro a Brunero, ma vince sei tappe, si ripete al Lombardia e conquista il suo primo titolo di campione italiano su strada.

Nel 1927 ammazza il Giro: guida la classifica dal primo all’ultimo giorno e vince dodici tappe su quattordici. Sgomina la concorrenza internazionale al primo Campionato mondiale su strada, sul circuito del Nurburgring.   Quindi ancora Campionato italiano e ancora il Giro di Lombardia.

Nel 1928 si “limita” al terzo Giro d’Italia (con sette tappe su dodici) e alla terza maglia tricolore.
Nel 1929 vince la prima Milano-Sanremo e poi cala il poker sia al Giro sia ai Campionati italiani.
Non è un dominio: è una tirannia. Binda pare imbattibile. In meno di cinque anni ha sbaragliato il campo, mettendo all’angolo un Campionissimo come Girardengo. Quello che sconcerta di più è la scientificità dei suoi successi. Tutto, nelle sue imprese, pare calcolato al millimetro: sforzi ed emozioni. Il varesino ha una gestione perfetta del proprio talento sportivo ma non entusiasma le folle. Anzi, i tifosi del ciclismo, abituati fin dalle origini alle rivalità e a i duelli – Gerbi e Cuniolo, Ganna e Galetti, Girardengo e Belloni – cominciano a irritarsi per questa incontrastata egemonia. Lo capiscono anche gli organizzatori del Giro d’Italia. Nel 1930, per non privare d’interesse la corsa, gli propongono questo accordo: «Tu resti a casa, noi ti paghiamo lo stesso il premio del vincitore: 22.500 lire». Binda accetta: così avrà modo di prepararsi meglio al suo primo Tour de France.

Cosa succede intanto dalle parti di Mantova al muratore Guerra?
Autunno 1927. Ferruccio Gatti, fascista della prima ora, è il presidente della società sportiva della 23a Legione Bersaglieri del Mincio, affiliata alla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Gli presentano Learco: ha già venticinque anni, non ha mai corso in bicicletta, però quel giovanottone massiccio, con le mani grosse da muratore, gli ispira fiducia. Learco si lascia alle spalle il suo passato di simpatizzante socialista: prende la tessera del partito e viene iscritto. Non vede l’ora di essere messo alla prova.
Nelle prime corse solo piazzamenti. La prima vittoria è nel Giro della Provincia di Ferrara: porta a casa 1200 lire, quel che ci vuole per rispondere alle perplessità della famiglia che non vede di buon occhio la passione ciclistica.
Si iscrive come indipendente al Lombardia: tiene fino a 10 km dall’arrivo, poi si ritira. Ci riprova nella “Coppa d’Inverno”. Arriva 11° e si merita una menzione da Emilio Colombo della “Gazzetta”:

«Atleta solido, ben piantato, munito di un fiato rimarchevole. Potrà certamente fare qualcosa».

Si batterà generosamente in altre corse, ma i risultati non arrivano. Manca qualcosa: forse la preparazione, forse l’assistenza tecnica. Forse è troppo tardi per lui: le grandi case, la Legnano, la Bianchi, non si accorgono di lui. A fine stagione sta per mollare tutto. Ma un amico, Gino Ghirardini, piccolo imprenditore mantovano, gli procura una bicicletta Maino e una maglia grigia. Gli dice di presentarsi a Milano alla partenza della Sanremo: la Maino gli ha procurato il materiale tramite Spaggiari, un loro rivenditore mantovano.

Learco è stupito: ma il 19 marzo è alla partenza della Classicissima di primavera. Si presenta a quelli della Maino, tra cui Antonio Negrini che si sta facendo massaggiare da Biagio Cavanna. Lo guardano storto: Guerra, timido e orgoglioso, gira al largo. Ma in corsa gira eccome. È l’unico tra quelli in maglia grigia ad arrivare al traguardo, anche se a 17 minuti e 35 secondi da Binda, che stravince. All’arrivo però non capisce perché nessuno della squadra gli rivolga una parola, una pacca sulla spalla, neanche uno sguardo. A stento riesce a trovare qualcuno che gli presti i soldi per tornare a casa in treno. In viaggio lo assalgono pensieri cupi. Una volta tornato a Mantova scopre la verità: non era vera la storia dell’invito della Maino. Era stato l’amico Ghirardini a comprare bici e maglia al rivenditore Spaggiari. Learco è mortificato.

Ma quella Milano-Sanremo “regalata” è la sua sliding door. Girardengo che non prendeva parte alla gara l’ha notato in corsa e convince il commendator Giovanni Maino a dare davvero una possibilità al muratore mantovano. Corre il Giro del Piemonte. Dopo aver dato l’anima per Negrini, che infatti vince per distacco su Binda, Learco è costretto al ritiro da due forature. Testardo, insiste. Giro di Romagna. Anche qui si batte alla morte per Giacobbe e Negrini, che arrivano alle spalle di Binda. Lui solo 17°. Alla Maino però hanno capito che ci si può fidare. E lo ingaggiano per il Giro d’Italia. Learco tocca il cielo con un dito: neppure un anno e mezzo prima la bici la usava solo per andare a lavorare. Al servizio Negrini e Giacobbe chiude 24° in classifica generale. Prima della fine della stagione vince la Coppa Appennino, a Vignola, e la Benevento-Napoli, 4a tappa del Giro di Campania; e poi, tra la sorpresa generale, i Campionati nazionali di mezzofondo su pista, a Carpi, battendo Binda e altri campioni come Piemontesi e Linari.

La stagione 1930 inizia con un 7° posto alla Milano-Sanremo. Ma è al Giro d’Italia, quello che si corre senza Alfredo Binda, pagato pur di lasciare il campo agli avversari, che Learco Guerra diventa finalmente protagonista. Dopo un anno di apprendistato tra i professionisti, grazie all’allenamento, a una migliore alimentazione e una maggior assistenza tecnica, Guerra inizia a esprimere tutte le sue potenzialità. È un formidabile passista, perfetto per le gare a cronometro. Sa battersi allo sprint ma ha anche notevole capacità di tenuta sulle lunghe distanze.
Ma soprattutto è un esplosione di temperamento. Così come Binda applica un metodo scientifico alla sua condotta di corsa, Guerra è al contrario un arrembante esplosione di vitalità. Per questo che i tifosi iniziano ad amarlo ancora prima che diventi un vero campione. E al Giro del 1930 Guerra parte all’arrembaggio. Vince due tappe (a Roma e a Forlì), arriva due volte secondo, una volta terzo e altre due volte quarto. Alla fine si piazza 9° in classifica generale, a 36 minuti e 10 secondi dal vincitore, Luigi Marchisio della Legnano.

Il giornalista della “Gazzetta” Valdo Cottarelli lo ribattezza “La Locomotiva Umana”.

La consacrazione a idolo dei tifosi avviene un mese dopo. Guerra è chiamato a far parte della squadra italiana che partecipa al Tour de France. Il patron Henri Desgrange, inventore e autorità assoluta della Grande Boucle, ha rivoluzionato la formula della corsa. Basta con le squadre-corsa delle marche di biciclette. Alla partenza cinque squadre nazionali, Francia, Belgio, Spagna, Italia e Germania, formate da otto componenti l’una; più una schiera di un ottantina di touristes-routiers, ovvero di corridori che correvano in autonomia, senza assistenza tecnica a supporto. La rappresentativa italiana è tutta votata al successo di Alfredo Binda: lo affiancano il vecchio Tano Belloni che ha già 38 anni, Domenico Piemontesi, Giuseppe Pancera, Leonida Frascarelli, Marco Giuntelli, Felice Gremo e, appunto, Learco Guerra, «il più taciturno, spesso appartato, quasi sempre imbarazzato»

Ma se al Tour tutti quanti attendono l’exploit internazionale di Binda, a stupire è proprio il campione mantovano. Vince la seconda tappa, la Caen-Dinan, e indossa la maglia gialla. Ha un vantaggio esiguo, 12 secondi, sul francese Charles Pellissier. L’uomo che tutti temono resta Binda. I francesi cercano di farlo fuori, non perdendo occasione per farlo innervosire. Nella volata di Bordeaux, Pellissier gli si aggrappa alla maglia e los supera di slancio sul traguardo. Pellissier viene penalizzato e retrocesso, ma il campione di Cittiglio vuole ritirarsi. Lo convincono a ripartire ma nella tappa seguente rompe un pedale e poi cade: accumula un ritardo di oltre un’ora. Binda è sempre più intenzionato ad abbandonare, ma c’è la maglia gialla di Guerra da difendere. Lo fa con successo nella Hendaye-Pau. Ma nel successivo tappone pirenaico, la Pau-Luchon, con Aubisque e Tourmalet da scalare, Guerra cede di schianto: Binda va a vincere per il secondo giorno consecutivo, ma la maglia gialla passa sulle spalle del francese André Leducq.

Nella Luchon-Perpignan, vittima dell’ennesimo incidente, si ritira infine anche Binda. Guerra, secondo in classifica, rimane solo, con Pancera e Giuntelli. Nonostante questo, e nonostante le provocazioni dei francesi, Guerra si batte come un leone. Si conquista anche la stima e la simpatia dei tifosi francesi, che lo chiamano Ghérà. Vince altre due tappe, a Cannes e a Grenoble, e a Parigi, sul traguardo finale, arriva secondo. Un secondo posto che vale 30.000 franchi di premi e la popolarità. Che vuol dire altri soldi. In Italia Guerra che corre il Tour de France suscita l’entusiasmo dei tifosi. In segno di gratitudine aprono cospicue sottoscrizioni a suo favore. A Mantova si raccolgono 13.358 lire. Un sarto si offre di tagliargli un abito su misura. Un barbiere gli assicura barba e capelli gratis per un anno. Attraverso le pagine della “Gazzetta” si arriva addirittura alla cifra di 111.761 lire. Per dare l’idea del valore, all’epoca un buono stipendio di un impiegato di banca era di 500 lire al mese. Albergatori di tutta Italia, da Montecatini e Ponte di Legno, lo invitano a soggiornare gratuitamente nelle loro strutture. Ma la stagione non è ancora finita. Il 30 agosto ai Campionati mondiali di Liegi 1930, Guerra è di nuovo al fianco di Binda nella lotta per la conquista del titolo iridato. Si corre in casa del campione belga Georges Ronsse, vincitore delle ultime due edizioni. Da alleati, Alfredo e Learco sono imbattibili. Nella fuga decisiva a quattro, vince il primo, lanciato in volata dal secondo: Ronsse è solo terzo.

Gli ultimi appuntamenti dell’anno sono le prove del Campionato italiano. La sera del 13 settembre parte la Predappio-Roma, 477 km, praticamente una Gran Fondo. La gara si decide a 60 km dal traguardo, quando Guerra parte in solitaria e stacca tutti. Arriva primo all’ippodromo di Villa Glori, portato in gloria dalla folla di tifosi. Si ripete il 5 ottobre, nell’ultima prova del Campionato tricolore: vince la Coppa Caivano, vicino a Napoli, e si aggiudica il titolo italiano, interrompendo la serie di quattro successi consecutivi di Binda. Da qui in poi tra i due sarà guerra, di nome e di fatto. A prendere le parti di Learco sono soprattutto i vecchi tifosi di Girardengo, che, ormai a fine carriera, è di fatto anche il mentore di Guerra alla Maino, come spiegano i commentatori più avveduti:

«Guerra è curato, consigliato, indirizzato da Girardengo al quale non par vero di buttare un tale ostacolo tra le ruote dell’aborrito rivale. Binda aveva vinto per quattro volte consecutive la maglia tricolore? Ebbene, al primo serio assalto di Guerra, egli dovrà cedergliela. Il dito di Dio! Sentenziano gli inconsolabili girardenghiani, d’incanto diventati guerriani per la pelle…».

E sono sempre loro a raccontarci che, soprattutto a Mantova, l’ex muratore di San Nicolò Po non conosce più la solitudine:
«Anche Virgilio, se potesse, verrebbe giù dal piedistallo e apparirebbe sotto i platani del Te con il suo bravo programma delle corse in mano».
Per le vie della città lo salutano affacciandosi alle finestre, le automobili rallentano, si fermano per strada. Se va a comprare il giornale, le edicole vengono prese d’assedio. Se entra in un bar a prendere un caffè, fuori fanno la fila per vederlo dalle vetrine. I bambini gli corrono dietro, le ragazze gli sorridono, le autorità se lo contendono.

Al Giro di Lombardia, gran chiusura di stagione, tra i due litiganti, secondo Binda e terzo Guerra, gode Mara, primo dopo la squalifica di Piemontesi per scorrettezze in volata. Mantova tutta gli prepara una gran festa. 15.000 spettatori assistono alla riunione su pista, dove sono invitati i più forti, da Binda a Charles Pellissier, in segno di pace dopo le scazzottature al Tour. La fa da padrone… il padrone di casa: a mani basse Guerra vince nella velocità, nell’inseguimento e a cronometro. Il giorno dopo, la domenica, a palazzo Aldegatti gran pranzo di gala. Ci sono tutti: da Giovanni Maino a Costante Girardengo, da Orio Vergani a Vittorio Varale, a Henri Desgranges. Emilio Colombo consegna a Learco il lauto incasso della sottoscrizione della “Gazzetta”.

Il 1931 la sfida continua. La Sanremo la vince Binda davanti a Guerra, non senza polemiche. Alfredo perde in casa nella Tre Valli Varesine, dove è primo Giacobbe, compagno di squadra di Learco. Guerra s’impone al Giro di Calabria. Alla vigilia del Giro del 1931 i duellanti si presentano così. Binda ha già praticamente vinto tutto: due Campionati del mondo, quattro Giri d’Italia, tre Giri di Lombardia, due Milano-Sanremo. Guerra ha un palmarès infinitamente più modesto: due tappe al Giro, tre al Tour e la maglia di campione italiano. Eppure quella che si preannuncia è una lotta tra titani.

E allora torniamo all’ingresso alla pista del Te, arrivo di quel 10 giugno 1931, prima tappa della XIX edizione del Giro. Riporta la cronaca del “Corriere della Sera”:

«Al primo giro, Binda supera i due grigi [Di Paco e Battesini] che gli stanno davanti, e si porta davanti in prima posizione. Guerra lo segue come un’ombra. All’entrata dell’ultima curva il mantovano supera il cittigliese e resiste vittoriosamente sul rettilineo al contrattacco del rivale». Learco Guerra vince e indossa la prima maglia rosa della storia del Giro d’Italia. Ma la battaglia è apertissima. Nella seconda tappa che arriva a Ravenna Guerra concede il bis. Ma nella terza paga dazio alle prime salite appenniniche e sul traguardo di Macerata accusa un distacco di 6 minuti da Binda, che arriva primo e balza in testa alla classifica.

Nella quarta tappa che giunge a Pescara il testa a testa è appassionante: allo sprint vince per un nulla Binda. All’arrivo a Roma, Binda cade a pochi chilometri dall’arrivo: si ferisce e viene scalzato in classifica generale da Mara. Il giorno dopo è costretto al ritiro.

Guerra allora si scatena: vince due tappe consecutive, a Perugia e poi a Montecatini, dove riconquista la maglia rosa. Ma nella successiva Montecatini-Genova, va in crisi sulla salita della Foce e cade in discesa, investito da altri corridori. Il freno di un’altra bicicletta lo ferisce alla schiena. Viene soccorso, si riprende ma a La Spezia, con la maglia rosa insanguinata, si ritira. A differenza della defezione di Binda, l’abbandono di Guerra suscita grande emozione tra i tifosi. Privato dalla malasorte dei duellanti tanto attesi, il Giro del 1931 viene vinto da Camusso.
Né Binda né Guerra partecipano al Tour de France. Entrambi puntano al Mondiale, in programma a Copenaghen, il 26 agosto.

La formula è inedita: una cronometro individuale di 172 km. Praticamente una maratona contro il tempo. Binda, il campione uscente, non è in forma e arriva solo sesto. Guerra stravince alla strepitosa media di 35,136 km/h e con 5’23’’ di vantaggio sul francese Le Drogo, un nome che forse oggi susciterebbe ben di più che un sospetto. Da Mantova seguono la corsa via radio. Alla trattoria Stella con campo di bocce, in Porta Pusterla, c’è anche il padre di Learco, Attilio. Corre a casa ad annunciare il trionfo e vorrebbe cambiare nome alla nipotina, nata solo da pochi giorni, il 13 agosto: «Cambiamo nome alla Carla! Chiamiamola Vittoria!». A Mantova la goliardia dei GUF inneggia in versi al trionfo del concittadino, prendendosi gioco dell’avversario:

«Lo disse Socrate
lo confermò Virgilio
che uno solo di Mantova
val cento di Cittiglio».

La strepitosa vittoria del Mondiale di Copenaghen sembra a molti un passaggio di consegne. Ma non è così. Due mesi dopo, Binda torna a vincere alla grande il Lombardia.
La rivalità si acuisce. Una rivalità, come scrive Bruno Roghi sulla “Gazzetta”, «sorda, caparbia, gelosa. Una rivalità senza parole e senza gesti, come se l’uno e l’altro fossero muniti di uno schioppo carico e si minacciassero continuamente la fucilata senza avere mai il coraggio di premere il grilletto».

1932 è l’anno del Decennale del fascismo. Ci si aspetta che al Giro si celebri la ricorrenza con un testa a testa tra i due grandi campioni. Ma, ironia della sorte, la corsa nazionale rischia di essere vinta da uno straniero. A lungo in maglia rosa è il tedesco Büse e lotta fino in fondo per la vittoria anche il belga Demuysere: per fortuna ci pensa il bergamasco Antonio Pesenti, il “mulo di Zogno”, a mettere d’accordo tutti. Guerra arriva 4°, anche se vince 6 tappe su 13. In una di queste la banda locale lo accoglie con le belligeranti note del coro «Guerra! Guerra!» della Norma di Bellini. Binda invece è solo 7°. Ma si prende la rivincita trionfando nel primo Campionato mondiale che si disputa in Italia, a Rocca di Papa. Guerra, attardato da una congestione, è 5°.

Il 1933 è di nuovo lotta all’ultimo sangue tra i due, che corrono l’uno con la maglia iridata di campione del mondo, l’altro con quella tricolore di campione d’Italia. Alla Sanremo Binda rompe una ruota a 20 km dal traguardo e Guerra ha via libera per la sua prima vittoria in Riviera. Al Giro, dopo la vittoria all’esordio, la sfortuna si accanisce contro Guerra, attardato in classifica già dalla seconda tappa. Si riprende, recupera in classifica, vince altre due tappe, prima di cadere di nuovo in volata a Roma, proprio per essersi toccato con Binda. È costretto al ritiro tra mille polemiche dei tifosi delle contrapposte fazioni. Binda conquista la maglia rosa a Foggia e la tiene fino all’arrivo di Milano: è il suo quinto Giro d’Italia. Ma è anche il suo canto del cigno. Guerra invece torna al Tour a dare spettacolo. È il leader della selezione italiana che però gli fa mancare il supporto decisivo. Da otto che erano rimangono in tre nelle tappe decisive tra Alpi e Pirenei. Nonostante questo, Guerra vince cinque tappe.

Vola a Charleville, città natale di Rimbaud, poeta «dalle suole di vento». Learco ha il vento nelle suole anche a Aix-Les-Bains e a Grenoble, quando nella discesa del Galibier rimonta un ritardo di oltre 10 minuti; poi ancora a Pau, nella massacrante tappa del Tourmalet. E infine nel gran finale sui Champs Elysées.
Guerra, come già tre anni prima, arriva secondo, dietro il francese Speicher. I baci della conturbante Joséphine Baker sono anche per lui.

Tra Binda e Guerra il duello non ha più storia nel 1934. Binda scompare dietro le quinte e Guerra trionfa. Dopo tante vittorie parziali, il Giro è un suo monologo: vince 10 tappe e finalmente è anche primo a Milano. Binda si ritira nella tappa di Napoli. Ai Mondiali di Lipsia una scorrettezza in volata del belga Kaers – non punita dai giudici – sottrae a Guerra il secondo titolo iridato. Learco si rifà vincendo il suo primo Giro di Lombardia e il suo quinto titolo di campione italiano. Nel 1935 la “Locomotiva umana” vince ancora cinque tappe al Giro ma anche il suo straordinario motore comincia a battere in testa. Mentre Binda si ritira dalle corse l’anno seguente, Guerra continua. Indossando la maglia che fu del rivale, quella della Legnano, nel 1937 vince la sua ultima tappa al Giro, la Roma-Napoli. Non poteva che andare così. Napoli, dopo Mantova, è da sempre la sua seconda patria: all’ombra del Vesuvio, accompagnato dal calore dei tifosi che da quelle parti lo idolatrano, ha ottenuto le vittorie entusiasmanti.

Lo ha scritto Mario Fossati, in questo bel ritratto parallelo dei due contrapposti campioni:
«Binda era un campionissimo che incantava i raffinati. Non era un freddo, un ingrato, un avaro come in fans di Girardengo sostenevano… Certo, con lo stile superiore delle sue imprese sapeva convincere i tecnici; certo, diceva una parola nuova; certo, mascherava lo sforzo con tanta eleganza da portare il primo pubblico femminile al ciclismo. Ma la corsa rimaneva sempre dentro di lui. Poi arrivò Guerra. Un volto aperto, i capelli nerissimi, la risata pronta, la generosità oltre ogni limite. Guerra osa perché non tramonta mai l’ora di osare. Osa per il bel gesto in sé. Binda scivola, arriva, espugna la trincea. Guerra la invade, a suo rischio, d’un balzo. Il pueblo è per Guerra».

Il secondo dopoguerra riserva al grande Learco una seconda carriera di successi da imprenditore – dà il suo nome a una fabbrica di biciclette – e da direttore sportivo. Con la Guerra-Ursus porta alla vittoria al Giro per la prima volta un campione straniero: lo svizzero Hugo Koblet nel 1950. Replicherà nel  1954 con l’outsider Carlo Clerici, altro svizzero di origini italiane. E poi ancora, con la Faema-Guerra, nel 1956 è l’artefice strategico della mitica vittoria di Gaul: nella giornata di tregenda sul Bondone, fa fermare Charly, gli fa fare un bagno in una tinozza calda, lo riveste con un cambio asciutto e lo rimette in sella. E l’Angelo della montagna conquisterà il suo primo Giro. L’accoppiata Gaul-Guerra farà il bis, tre anni dopo, nel 1959. Ma anche le Locomotive smettono di correre. Learco Guerra dà i primi segni di un improvviso cedimento – un tremore alla mano destra – quando ancora non ha sessant’anni. La diagnosi è una sentenza, per quegli anni: morbo di Parkinson. Learco Guerra si spegne a Milano il 7 febbraio 1963. Non c’è miglior finale di quanto ha scritto di lui Marco Pastonesi:

«Come un vulcano, uno tsunami, una bora. È un bisonte della strada. Come una moto, una macchina, un camion. Di più: la Locomotiva umana. Nell’immaginario popolare, se nel cognome sono rappresentati lo spirito del corridore, la strategia di corsa, la filosofia di gara, nel soprannome risuona il motore bicilindrico, si respira la polvere, si sente il vento. E Guerra indossa un paio di occhialoni alla Nuvolari, degni delle Mille Miglia».

 

 

Fonti

Renzo Dall’Ara, Locomotiva umana: Learco Guerra: l’avventura di un campione nella leggenda del ciclismo, Tre Lune Edizioni, 2002
Claudio Gregori, voce Ciclismo in Enciclopedia dello Sport Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2005.
Marco Pastonesi, Ritratto di Learco Guerra. Macchina da… Guerra, in Giro d’Italia. La grande storia. 1925-1935, La Gazzetta dello Sport, 2012