Il coraggio delle scelte: Trinca Colonel e l'approdo in Jayco AlUla
Solo un anno e mezzo fa, o poco più, Monica Trinca Colonel era a mani vuote. Anzi, a mani vuote ed a mente piena, come succede con i progetti nuovi, diciamo pure con i sogni. Per questo, la realtà che si trova davanti oggi, nelle sue sensazioni, è anche più bella di quella che tutti noi che ne siamo estranei possiamo vedere e analizzare. Il dato di fatto è che, dopo appena un anno dal suo ritorno nel ciclismo con BePink, nel 2025, Trinca Colonel ha già firmato un contratto e iniziato una nuova stagione con Jayco AlUla: «Non solo non sapevo come sarebbe andata, ma mi chiedevo anche quante possibilità di fare la ciclista ci sarebbero state. Paradossalmente questa storia avrebbe potuto non iniziare mai ed io lo sapevo. Non bastava volerlo e neppure lasciare il vecchio lavoro e allenarsi duramente. Non fosse iniziata, non avrei comunque più avuto un lavoro, avrei dovuto ricominciare da capo. Per questo è enorme quel che sta succedendo. Per me è una conferma di aver fatto le cose per bene. Una conferma del fatto che, forse, certi rischi vanno corsi. Non è questione di eroismi, è, semmai, questione di quel che vogliamo ed io volevo essere una ciclista». Un anno, solo un anno: si potrebbe dire che è stato tutto veloce, sin troppo. La verità è diversa, pur se nessuno la conosce fino in fondo. Sì, i primi interessamenti da parte di squadre World Tour sono avvenuti dopo le prestazioni di Trinca Colonel alla Vuelta a España dello scorso. Avrebbe potuto dire subito sì, invece ha aspettato, ha corso il Tour de Suisse ed il Giro d'Italia Women ed ha preso una decisione solo successivamente.

«Volevo conoscermi, capire realmente il mio valore ed acquisire sicurezza in me stessa. Non credo nelle decisioni affrettate, anche se portano a qualcosa di bello. Ho continuato a correre, senza pressioni, comprendendo che ruolo potessi avere nel ciclismo. Solo dopo, ho firmato. era da poco finito il Giro». Nel frattempo proseguivano le gare con BePink, la squadra senza cui, parole sue, non sarebbe qui a parlare oggi: la gratitudine è per l'ambiente, per il rapporto che ha instaurato con le compagne e, soprattutto, per la serenità. «Queste squadre sono fondamentali, vanno tutelate perché sono l'unico ambiente in cui le atlete possono crescere senza pretese, imparare senza tensioni. Persino sbagliare, senza dovere nulla a nessuno. Sono cose che si ricordano, andrò sempre a salutare lo staff BePink perché a loro devo il mio essere ciclista e la mia felicità nell'esserlo». La firma e la decisione perché era quello che voleva, perché ha 26 anni e non intende aspettare oltre e perché, forse soprattutto, «in questo sport non è possibile attendere troppo, tutto può succedere e bisogna essere pronti perché, spesso, capita una volta sola».
Paure per la nuova avventura? Trinca Colonel, al momento, non ne ha praticamente mai avute, è solo contenta. Ha sempre saputo che i cambiamenti sarebbero stati molti, per esempio non sarà sempre lei la donna di punta, colei per la quale le compagne fanno rifornimento di borracce all'ammiraglia, spesso le toccherà proprio questo ruolo e sarà bandito ogni protagonismo, ma non importa, anzi ne è orgogliosa. I segnali di miglioramento, tra l'altro, sono costanti ed in aumento, in particolare nello scorso finale di stagione: «Me la sono cavata sempre abbastanza bene quando si è trattato di stare davanti in gruppo, la differenza, però, è la convinzione. Mi è capitato di perdere posizioni a causa di cadute perché, di base, non mi muovevo in maniera decisa. Ora sì, ora so esattamente quello che voglio e vado a prendermelo, all'inizio del 2024, invece, non c'era un obiettivo vero e proprio e raccoglievo quel che mi capitava». Vorrebbe migliorare a cronometro, aiutare una sua compagna a vincere tappe o un grande giro. Nelle gare dello scorso fine stagione, alle partenze ed agli arrivi, ha parlato con lo staff di Jayco AlUla e, via messaggio, con Letizia Paternoster, che ricorda quando correvano assieme da bambine e non vede l'ora di ritrovarla in squadra. Il resto del team l'ha conosciuto durante i primi ritiri stagionali e anche lei si è fatta conoscere, si è raccontata. Ha sempre voluto tornare alla Strade Bianche ed ha un leggero timore nel rivelare che le piacerebbe vincerla, «ma sì, diciamolo, in fondo non si può mai sapere e nulla è impossibile». Qualche indizio, tra l'altro c'è e risale a pochi giorni fa: quell'undicesimo posto sugli sterri senesi, "più di una semplice gara", per usare le sue parole. Ammette, invece, che ha nel mirino un buon risultato al Giro d'Italia Women e vorrebbe correre il Tour de France Femmes. Il suo giorno più difficile è stato all'ultima tappa del Giro d'italia conquistato da Elisa Longo Borghini quando una crisi ha buttato al vento parte del lavoro fatto nelle frazioni precedenti, in altri casi erano state cadute o malessere a guastarle i piani, una crisi però è diversa e lascia più amaro in bocca.

La sua famiglia è, se possibile, più felice di quanto lo sia lei stessa, perché il cerchio si sta chiudendo e tutto inizia a combaciare. Il suo compagno, appassionato di ciclismo, gareggia anche lui, ultimamente rinuncia alle proprie gare per seguirla, per starle accanto: «In fondo, è stato lui a convincermi a prendere il coraggio a piene mani e a buttarmi in questa avventura. Non è solo una cosa mia, è una cosa nostra tutto questo che si sta realizzando e, forse, è questa la parte migliore».
Silvia Persico: alla ricerca del tempo perduto
Silvia Persico è tornata da qualche giorno dagli Emirati Arabi Uniti, quando le telefoniamo. Dalla voce si intuisce serenità, giusto il cielo cupo dell'inverno italiano, dopo la bella stagione incontrata correndo l'UAE Tour la lascia perplessa, ma presto ripartirà al modo delle cicliste e dei ciclisti: «La certezza è che correrò in Belgio, a proposito di cieli grigi, poi la Strade Bianche, ma, sono sincera, ora non ricordo nemmeno il calendario preciso, però una cosa, rispetto all'anno scorso, mi ha colpita: dal nulla, mi capita di chiedermi quanto manchi al ritorno in corsa, anche adesso che non sono tornata a casa da molto tempo. Me lo chiedo e sento di aver voglia di correre, di gareggiare, di competere. Questo è il bello»..
Non c'è considerazione più importante di questa, almeno per la donna, prima che per l'atleta, perciò partire da qui semplifica tutto. L'inverno di Persico è stato un buon inverno ed il debutto a Maiorca l'ha ampiamente evidenziato, con un terzo ed un secondo posto al Trofeo Palma Femina ed al Trofeo Binissalem-Andratx. All'UAE Tour, dopo una prima giornata dedicata alle velociste, il secondo giorno, quello del vento e dei ventagli a spazzare il gruppo e di Elisa Longo Borghini e Wiebes davanti, a dominare le raffiche dal deserto, Silvia Persico non era riuscita ad entrare nel ventaglio di testa in quanto durante il trasferimento, brevissimo in quella tappa, era dietro l'ammiraglia e la partenza così veloce non le aveva dato il tempo di rientrare. Se il vantaggio del primo gruppo è arrivato a toccare oltre i tre minuti, però, è merito anche del lavoro di Silvia Persico che «a quel punto, con Elynor Backstedt, ci siamo inserite nei ventagli per rallentare il ritmo e per una buona parte di corsa ha funzionato». Al terzo giorno, quello di Jebel Hafeet, si è arrivati così. Anzi, con qualche passaggio che non tutti sanno e che noi apprendiamo durante la telefonata. Si parte da una sera: Silvia Persico ed Elisa Longo Borghini condividono la camera d'albergo.
«Nel 2014 avevo dichiarato in un'intervista che Elisa Longo Borghini era una sorta di idolo per me. Beh Elisa ha letto quel pezzo e, ti dirò di più, se n'è ricordata. Me lo ha proprio detto durante questa trasferta: "Ma ti ricordi cosa dicevi di me dieci anni fa?"». Sì, io me lo ricordo e ci ho pensato quando ho saputo che saremmo state compagne di camera». Proprio in quei giorni aveva provato la salita con Longo Borghini, da un paio di settimane sentiva di stare particolarmente bene e l'aveva detto alla campionessa italiana. Il tratto più duro dell'ascesa era fra i meno tre ed i meno due dal traguardo: lì era previsto l'attacco della capitana. Un piccolo inconveniente, in realtà, c'è: l'assenza di Karlijn Swinkels che avrebbe dovuto fare il ritmo per una parte di salita. «Le situazioni di gara sono così, bisogna adattarsi. Ho pensato solo ad impostare un'andatura che fosse il più regolare possibile in modo da stancare le rivali. Quando Elisa è partita, le avevo appena chiesto via radio cosa fare, se e quanto proseguire con la "menata". Ricordo che mi sono spostata ed ho tirato il respiro, ho rallentato. Un attimo, non più di dieci secondi».
Silvia Persico conosce bene la salita, sa che più avanti tornerà a spianare, non vuole fare allontanare molto il gruppetto con Kimberley Le Court, Monica Trinca Colonel, Barbara Malcotti e Antonia Niedermaier perché se riuscisse a "tornare sotto" potrebbe fare qualcosa di buono. Elisa Longo Borghini vince la tappa, conquista la maglia di leader e, di fatto, la classifica generale, negli stessi attimi dalla radio giungono delle grida: «Silvia, sei forte! Vai che la gamba c'è, puoi prenderti il secondo posto. A tutta!». Ora racconta che quello sprint per il secondo posto l'ha vinto anche per quelle urla dalla macchina e che in quegli istanti le è balenata l'idea del piazzamento in generale. Quello per cui il giorno successivo ha "battagliato" agli sprint intermedi con Le Court, da cui la separavano solo due secondi: l'ha difeso anche grazie alle compagne di squadra che, nel secondo intermedio, sprintando, hanno sottratto all'atleta di AG Insurance-Soudal Team gli abbuoni.
«È stata una liberazione: non solo la prestazione in salita. Siamo all'inizio della stagione, ma ho provato sensazioni che non sentivo da non so quanto su una salita, in gara. È stata una liberazione anche perché sono arrivata al traguardo ed ho visto tutti felici. È bello sapere che tutto è andato bene, che la squadra è contenta. In me c'è una sorta di leggerezza, fatta di cose semplici. Direi una bugia se dicessi che Elisa (Longo Borghini) mi ha dato un consiglio particolare o detto qualcosa in particolare e, forse, è proprio questa la differenza. Ho ritrovato benessere nelle cose semplici, di tutti i giorni, nello stare in squadra e nell'andare a correre. Del resto, sono una ciclista, cosa c'è di più importante?».
Dritta al punto: intervista a Sofia Bertizzolo
Sofia Bertizzolo non ha peli sulla lingua, lo sanno tutti, e, quando parla, quando risponde alle domande, va dritta al punto, anche se la realtà è cruda e fa male. Accade, per esempio, quando, ad inizio telefonata le chiediamo cosa trattenga del 2024, quali consapevolezze e quali certezze: «Che anche i muscoli si possono rompere e non basta stare fermi finché non si sistemano perché, lo dico, non si riparano. Questo, basta. Ero a pezzi quando ho ricevuto la diagnosi: l'osso si era rotto, ma il discorso muscolare è sempre più complesso. Non ho mai avuto una data sotto mano: dopo i quindici giorni di tutore, nessuno si esponeva perché non poteva esporsi. Un continuo aspettare e posticipare, uno stop completo chiedendosi se e quando si riprenderà. Alla fine, sono tornata in sella e ad ogni salita dovevo salire in macchina perché non potevo fare alcuno sforzo. Solo far girare le gambe. È stato un anno negativo, punto e basta». L'atleta ventisettenne di Bassano del Grappa, dal 2022 in maglia UAE Adq, si riferisce ai postumi della brutta caduta che l'ha coinvolta il 16 maggio del 2024, assieme ad Elisa Balsamo, nel finale della seconda frazione della Vuelta a Burgos. «Sia chiaro, non mi piango addosso e non lo farò mai, ci sono mali ben peggiori nella vita, però vorrei tornare indietro di 365 giorni e sentire nello stomaco la sensazione che avevo in Australia, ad inizio stagione, e quella sensazione può dartela solo il risultato. Sono partita dalla stessa terra, il 17 gennaio, cercando di riportare i miei pensieri a quello stato mentale». Bertizzolo fa una pausa, poi riprende, approfondendo il discorso.
«Sono un corridore vecchio stampo. Dire che "vincere aiuta a vincere" sembra una banalità, eppure è esattamente così. Il corpo e la mente si fidano molto più delle sensazioni che dei dati che oggi compulsiamo tutti freneticamente. Un risultato restituisce ad un atleta una consapevolezza che nessun numero può dare. Se arriva il risultato pieno, il giorno dopo hai qualcosa in più, nel corpo e nella mente, e puoi anche metterla a disposizione delle compagne di squadra, per aiutarle: è tutto più facile. Prendete lo sprint che è, per eccellenza, un insieme di vari componenti eppure, spesso, quando si vince il giorno prima, si vince anche il giorno seguente. Qualcosa vorrà pur dire, no? Ma ripeto: sono vecchia come mentalità, il ciclismo sta andando altrove». L'amarezza trova presto una spiegazione in un inciso disarmante: «Mi sento morire dentro quando vedo atlete che non "si conoscono". Non serve un allenatore per capire se il carico è troppo intenso, il tuo fisico te lo dice». Bertizzolo torna indietro negli anni, ai suoi inizi, ora che, dice lei stessa, «non sono anziana, ma nemmeno così giovane»: ha vissuto il momento del passaggio dalle sensazioni al potenziometro, da quando la forma si capiva ripetendo più volte la stessa salita e confrontando le varie scalate, a quando erano i numeri a raccontare lo stato del fisico. «Sì, sono infastidita e vivo con pesantezza questa situazione perché non si capisce quanto sia importante riconoscere i sintomi della fatica sul proprio corpo. Mi pare distruttivo questo approccio. Tuttavia ormai so che è un ciclo: anni fa si parlava di "low carb" e dieta chetogenica. Ora siamo tornati al punto di partenza: succede sempre così e questo mi conferma che era corretto il primo approccio, che nulla dice più di come un ciclista si sente».
La ferita maggiore, probabilmente, l'impossibilità di essere presente all'Olimpiade a Parigi, opportunità che, afferma Bertizzolo, prima dell'infortunio era molto alta. Dice che sarebbe stato il coronamento di un percorso e non sa se ricapiterà perché l'Olimpiade, nel ciclismo, si disputa ogni quattro anni ma, per ogni singolo atleta, può passare anche più di quel tempo, considerando problematiche personali e differenti tipologie di tracciato, non sempre adatte alle caratteristiche tecniche di ogni ciclista: «La gara olimpica non è una gara di spicco nel ciclismo: abbiamo sessanta corridori in corsa e una gara ciclistica non è così, ha molti più ciclisti e diverse tattiche. Una classica o un Campionato del Mondo hanno ben altro rilievo, però l'Olimpiade è l'evento sportivo più importante al mondo, multidisciplinare, in cui sono coinvolti tutti gli sport. Ricordo l'atmosfera ai Giochi del Mediterraneo, già molto bella, pensate a cosa possono essere i Giochi Olimpici. Peccato». Sofia Bertizzolo è appassionata di ginnastica artistica, una disciplina rigida, elegante, e si è emozionata vedendo i risultati delle azzurre, ma c'è qualcosa in più se pensa alle Olimpiadi, qualcosa che lei stessa ammette «non ti racconterò del tutto, perché è una cosa a cui sono affezionata e voglio custodirla, tenerla per me». Noi siamo d'accordo, in fondo, è anche più bello così. «In occasione della Festa della Polizia, sono passata dalla mia cameretta per recuperare l'abbigliamento per andare a Roma. Per caso, ho trovato una foto di Valentina Vezzali, distesa a terra ad un'Olimpiade, dopo una stoccata vincente e al momento non ci ho fatto neppure molto caso, se non per chiedermi il motivo per cui fosse lì. Bene, alla Festa della Polizia c'era anche lei ed ha tenuto un discorso: ho capito ascoltandola perché l'avessi scelta e perché quella foto era rimasta lì. Avevo scelto bene, avevo avuto ragione».

Sofia Bertizzolo è una ciclista professionista ed è questa parola a pesare più di tutto il resto quando parla del suo ciclismo che, a marzo, avrà per la prima volta la Milano-Sanremo femminile: «Oggi siamo atlete professioniste, facciamo questo e altro non possiamo fare. Siamo retribuite per correre in bicicletta e corriamo per noi stesse e anche per il pubblico che viene a vederci, per i bambini che aspettano di osservare la magia della maglia iridata o della maglia gialla. Noi possiamo continuare a lavorare per migliorarci e per migliorare il nostro ambiente. Una volta non era così, non esisteva nemmeno il ruolo della gregaria e, se non eccellevi in nessun terreno, ti toccava andare a lavare i piatti la sera per mantenerti e non sto esagerando». Pensa alla gente ed ai tifosi al Monte Grappa al Giro d'Italia e chiosa: «Siamo sempre bravi a criticare il Giro ed esaltare il Tour, dovremmo lodare i nostri tifosi, era uno spettacolo». Dall'infortunio si è rialzata soprattutto grazie al sostegno della squadra, alla pazienza e a quella carta bianca lasciata proprio nel momento più difficile, che le ha permesso di lavorare con tranquillità ed era l'unica possibilità: l'agonismo è rimasto intatto, come la fame di vincere che riesce a coesistere con il desiderio di aiutare le compagne, pur tenendo strette le possibilità di fare bene, ogni qualvolta se ne presenti l'opportunità. «L'anno scorso abbiamo lavorato molto bene come squadra, ma, forse, non abbiamo mai avuto la possibilità di brillare fino in fondo, cogliendo il risultato pieno, talvolta a causa di individualità che ci hanno superato, altre perché in gara può succedere di tutto e altre ancora perché, a mio avviso, avevamo magari tre buone idee tuttavia, al momento della concretizzazione, non riuscivamo a portarne a termine alcuna». Alla partenza di Chiara Consonni, spiega Bertizzolo, si è fatto fronte con due velociste molto forti e un buon lavoro sul lead out, in squadra, inoltre, è arrivata Elisa Longo Borghini, il vero colpo del ciclomercato.
«Con Elisa ho lavorato già in nazionale e con le Fiamme Oro: mi piace dire che è un capitano facile da gestire, perché sa quello che vuole. Una pedina forte come Elisa alleggerisce la squadra, anche se l'impegno dovrà essere importante per accompagnarla verso la finalizzazione che vorrà dare al nostro lavoro. Il focus sarà chiaro e questo semplifica di molto le cose». Se si parla di ciò che c'è da cambiare nel ciclismo, Sofia Bertizzolo pensa al tema sicurezza: «Si parla molto e giustamente della sicurezza sulle nostre strade. Parliamone sempre di più e agiamo di conseguenza. Io, però, vorrei portare l'attenzione sulla sicurezza in gara, dove si tende ad andare sempre più veloce. Chiediamo e abbiamo chiesto più volte di ridurre le difficoltà del percorso, non dal punto di vista di altimetrie, ma con riguardo a dossi, rientranze, muretti e all'attenzione che ogni vettura in corsa deve prestare, perché se cadiamo, cadiamo a sessanta all'ora». Precisa, dritta al punto, schietta, l'avevamo detto: Sofia Bertizzolo è così.
"Le prime parole che mi ha detto Longo Borghini": intervista a Greta Marturano
Elisa Longo Borghini si è avvicinata a Greta Marturano durante il primo boot camp con UAE Team ADQ: l'intenzione era quella di stringerle la mano. Le due condivideranno la squadra almeno per il prossimo biennio: «Ciao Greta, in realtà credo che noi abbiamo sempre corso assieme, ma non abbiamo mai parlato. Piacere, Elisa». La ventiseienne di Cantù realizza solo ora, con una risata incredula, che, dopo tanti anni, la prima parola che ha detto a Longo Borghini, tra la timidezza e l'imbarazzo, è stata solo «ok». Effettivamente era vero: non vi era mai stata una conoscenza diretta tra Marturano e Longo Borghini e la prima causa è da ricercarsi proprio nella timidezza della ciclista della provincia di Como. «Timida come sono, figurati se osavo avvicinarla in corsa anche solo per un saluto. Il fatto è che Elisa è grande, troppo grande per una ragazza come me, così la guardavo da lontano, cercando di "rubare il mestiere" e di prendere spunto». In questi mesi che accompagnano all'inizio della nuova stagione, spesso gli incontri tra Marturano e Longo Borghini avverranno in aeroporto, infatti i loro voli partiranno dallo stesso luogo, nel frattempo Greta sta riflettendo sul fatto di essere compagna di squadra di colei che, forse, rappresenta per eccellenza il ciclismo italiano: «Lei ha classe, io devo allenarmi e allenarmi molto per poterle restare accanto- ride Marturano- capirò meglio a forza di allenarmi assieme metodi e differenze, ma so già che il mio sarà un ruolo molto importante, soprattutto nelle corse a tappe». Non è spaventata dalla responsabilità e nemmeno dagli sforzi a cui dovrà sottoporsi perché «l'importante per me è avere un traguardo da raggiungere, se lo ho esco anche con la pioggia, la grandine e la neve: è la mia precisone a spingermi. Se farò tutto quel che devo fare al meglio, avrò solo da imparare da questa esperienza e mi ritroverò cresciuta. Leggo in questo modo il mio nuovo ruolo e mettermi a disposizione mi viene naturale». Elisa Longo Borghini, per le sue colleghe, non è solo un simbolo per tutto quello che ha vinto, anche per il modo in cui affronta una professione di sacrifici: «Il divertimento che trasmette, pur nella fatica, si propaga alla squadra. Perché fare le cose seriamente non è il contrario di una certa leggerezza nel lavoro. Per me Elisa è una testimonianza di questo principio, uno stimolo».
Greta Marturano racconta di divertirsi, in ambito lavorativo, quando è serena: il divertimento ha quindi a che vedere con la possibilità di gestire al meglio lo stress e la pressione pur nel massimo impegno. La tranquillità viene da qui e la serenità in corsa le ha sempre portato maggiore facilità di azione e più risultato. Il primo boot camp è stato proprio all'insegna di questo principio e lei non se lo aspettava: «Se parliamo di training camp, di ritiri, mi aspetto di dover partire con la bicicletta per ritrovarmi in una situazione in cui la bicicletta sia al centro, soprattutto mi aspetto che sia qualcosa di completamente differente da una vacanza, denso di allenamenti e fatica. Niente di tutto questo: la bici non l'abbiamo quasi vista e per me è stata una seconda vacanza». Ha scoperto di cavarsela discretamente con il surf, tra le attività proposte: «Erano tutte onde artificiali. Alla prima, sono stata l'unica a restare in piedi. In realtà, poi, credo di non aver capito il gioco, perché continuavo a finire sott'acqua. Sono sincera, non pensavo di divertirmi e non credevo mi sarei divertita così tanto». L'approccio con l'ambiente è stato positivo, come quello con lo staff e le compagne: «Non c'è niente da fare: rispetto a Fenix-Deceuninck sono due mondi differenti e due diverse modalità di concepire le relazioni fra persone: da un lato la schematicità, la freddezza e la precisione dei belgi e degli olandesi, dall'altro un ambiente che mantenendo ai massimi livelli la professionalità aggiunge l'empatia e questo è importante per chiunque, forse, specialmente per chi ha il mio carattere. Mi era mancata l'empatia». Della possibilità di passare in UAE Team ADQ, Greta Marturano è venuta a conoscenza ad agosto, mentre era in ritiro a Livigno, parlando con il suo procuratore: il fatto che Elisa Longo Borghini avrebbe vestito la stessa casacca era ancora una voce. Lei, dopo i primi contatti e l'offerta, ha deciso abbastanza velocemente, ma qualche paura residuava.
«Si parla spesso dell'entusiasmo di ricominciare da capo, ed è vero, è un dato di fatto. A me piacerebbe, però, soffermarmi anche su tutti i dubbi, i timori di ogni atleta che cambia squadra, perché non è facile. Significa farsi conoscere da persone che ancora non ti conoscono, imparare nuovi modi di collaborare, fare propria una nuova mentalità, magari anche un nuovo ruolo. Ricominciare è sempre complesso. A dire la verità, io pensavo anche al mio carattere ed alla mia proverbiale timidezza, che, soprattutto all'inizio, può rendere tutto ancora più difficile. In realtà, hanno subito capito come sono fatta e non c'è stata attività in cui non abbiano cercato di coinvolgermi, nonostante io non faccia praticamente mai il primo passo. Questa comprensione mi ha reso serena, tranquilla». In UAE Team ADQ la grande opportunità è quella di continuare a crescere, in un clima di alto livello, anche perché se è vero che in Fenix-Deceuninck, Marturano ha accresciuto la propria consapevolezza e conoscenza, è altrettanto vero che qualcosa ancora manca: un paio di ani fa, Greta Marturano era certa di essere una scalatrice, ora sa che di sicuro ha doti di scalatrice ma non di scalatrice pura, perché anche nelle volate ristrette se la cava bene, come in percorsi nervosi, stile Ardenne e Tre Valli Varesine. «Per me è un poco come se fossi stata in Erasmus per due anni e fossi appena tornata: in UAE ci sono tante atlete italiane e, c'è poco da fare, come italiane abbiamo un background comune, per cui ci capiamo molto più agevolmente e non è solo una questione di lingua».
Nel primo meeting con i direttori sportivi, la domanda posta è stata chiara: «Vogliamo diventare la squadra più forte di tutte e per farlo è necessario che tutte voi miglioriate i vostri punti "deboli". Siamo disponibili ad aiutarvi in qualunque sfaccettatura vogliate cambiare, ma abbiamo bisogno che, con estrema sincerità, ci diceste per quale aspetto credete di aver bisogno di aiuto». Greta Marturano ha parlano della propria abilità in sella e delle discese dove, al momento, "sopravvive": «Sopravvivo perché se resto nel gruppo principale in salita, poi, per non sprecare quella fatica mi butto, ma anche questo è un aspetto su cui perfezionarsi. Nel mio caso ritengo indispensabile la fiducia: se mi fido pienamente di chi ho davanti, di chi fa strada, non ho alcun timore. Voglio imparare a fidarmi, perché questo risolve tutto ed è fondamentale, non solo in discesa». Giusto in questi giorni, il coach che aveva in Fenix-Deceuninck le ha scritto, augurandole di proseguire il percorso di crescita, perché il margine c'è e dove possa arrivare non lo sa con precisione neppure lei. In UAE Team ADQ, avrà Paolo Slongo come preparatore e ne è felice anche perché sarà lo stesso preparatore di Elisa Longo Borghini, tra l'altro Marturano aveva già lavorato con lui ai tempi di Fassa Bortolo: «Ci parliamo quasi tutti i giorni e questo scambio, questo confronto è prezioso. Mi sento ascoltata: la tabella c'è, ma può essere modificata. Sarà un inverno differente dallo scorso anno, perché inizierò a correre a gennaio, in Australia: continuerò il lavoro in palestra, in misura minore, ma per tutta la stagione, perché Slongo lo ritiene utile ed a me piace focalizzarmi su lavori di forza e resistenza. Prima di riprendere con l'allenamento mi sono cimentata per vari giorni nella corsa a piedi e mi ha aiutato. Variare è sempre bello».
Quando ha avuto la certezza che avrebbe lasciato Fenix-Deceunick i primi che ha avvisato sono stati proprio il suo coach e la compagna Pauliena Rooijakkers: ne ha parlato di persona, perché per il rapporto che si era creato, era giusto così. «Non sono un fenomeno e non voglio nemmeno atteggiarmi a fenomeno. Penso che un bel modo di entrare in contatto con una realtà nuova sia farlo in punta di piedi, con cura e delicatezza: cercherò di fare così, spero di riuscirci».
Il coraggio e il lavoro: intervista a Martina Berta
Martina Berta ha ripreso a "costruire" al ritorno dall'Olimpiade di Parigi, dove, ad agosto, aveva concluso in quattordicesima posizione la prova di cross-country, nonostante, nei giorni dopo Parigi, ci fosse solamente grande stanchezza, perché l'anno delle Olimpiadi è così: dapprima le qualificazioni, successivamente si mette la testa sull'appuntamento a cinque cerchi e si sacrifica tutto il resto, dentro e fuori dal ciclismo, ma le gare di una giornata hanno una storia a parte e la prova olimpica è una prova di un solo giorno con caratteristiche ancor più particolari. Sostiene Berta che per fare bene all'Olimpiade serva almeno una pregressa esperienza, lei sperava di più, era in forma, non se lo nasconde, ma mettere tutto assieme è difficile e non c'è molto da fare, è un dato di fatto. «Ero stanca, ma sapevo una cosa: all'Olimpiade tutti scoprono le proprie carte, ciò vuol dire avere un osservatorio privilegiato sulla reale condizione delle tue rivali. Era stanco anche il mio staff, ci siamo solo detti cosa potevamo fare per migliorare e abbiamo tirato dritto verso il Mondiale. Nel frattempo, ogni tanto, sentivo qualcuno che diceva: "Guarda che andavi più forte prima. Non ci credevo, ma le orecchie non si possono chiudere e si sentono le voci delle persone attorno». In pochi, infatti, sanno che, quest'anno, Martina Berta ha cambiato allenatore, convinta che per raggiungere quel qualcosa in più che desiderava, fosse questa la scelta giusta da fare, ma, come tutti i cambiamenti, serve tempo perché i risultati arrivino e, nel frattempo, ognuno dice la sua: «La verità è che fino a quando vai forte e vinci hai un sacco di persone attorno, a sostenerti, a incoraggiarti. Come qualcosa inizia a non funzionare, si riducono sempre più e restano in pochi, pochissimi. Ecco, solo quei pochi, poi, capiscono il vero significato dei risultati che ottieni. Gli altri, magari, torneranno, ma non sapranno mai davvero cosa c'è dietro, perché se ne sono andati nel momento difficile. La realtà è che le scelte complesse le affronti sempre da sola, con la fiducia di un ristretto gruppo di persone».
Fra le motivazioni del cambio, soprattutto, forse, la volontà di lavorare sulla base aerobica: nelle partenze, Berta se l'è sempre cavata bene, pagava però negli sforzi ripetuti e nel finale di corsa e, come sintetizza lei, sorridendo, le corse si decidono nel tratto conclusivo, quindi bisogna essere pronti. Probabilmente anche le sue persistenti difficoltà nella short race, in sostanza le qualifiche che stabiliscono le posizioni di partenza della gara della domenica, nel cross country: partire dalla quarta o quinta fila vuol dire, in ogni caso, essere maggiormente esposte a cadute o incidenti, perché «una gara ad inseguire è una gara diversa, comunque vada a finire». Più di uno sguardo è stranito da questa scelta, lei lavora bene, ma, in gara, non riesce ancora ad esprimersi al massimo: il Mondiale di Andorra arriverà con questa situazione e, domenica 1 settembre 2024, Berta conquisterà il bronzo in quella stessa competizione iridata, dietro a Puck Pieterse e Anne Terpstra. Di più: l'ultimo giro sarà, per lei, il giro più veloce. Dopo qualche giorno, di nuovo a casa, la prima considerazione che fa è proprio sul lavoro che paga, sull'aspetto mentale che deve essere strettamente legato a quello tecnico e tattico, soprattutto in un Mondiale, gara di un giorno, differentemente dalla Coppa del Mondo, ma non si ferma qui. «Penso a tanti giovani che soffrono perché intrappolati in situazioni che sentono non corrispondergli: vorrei invitarli a scegliere, a cambiare, a non restare in mezzo al guado, seduti ad aspettare che le cose cambieranno, perché non cambieranno se non le cambierete voi. Provare è la soluzione. Io credo alle decisioni di petto, credo alla scelta, pur se sbagliata. Meglio sbagliare che non decidere, nello stallo si butta via tempo che poi si rimpiangerà. Fare quel che facciamo noi atleti è un sogno per molti, è una soddisfazione enorme, pur se non si vince: ecco, i risultati arrivano anche scegliendo, la strada si fa scegliendo».
Classe 1998, Berta ha ventisei anni e fatica a realizzare quel che è accaduto, di fatto la concretizzazione di un pensiero che aveva dalle prime volte in sella o, per meglio dire, da quel giorno del 2015 in cui ha vinto il Mondiale Juniores: sostiene che la sua carriera sportiva sia nata in quel momento. L'occasione è arrivata e questa volta più di altre è stata una conferma, oltre la stanchezza e oltre tutte le domande. Diverso eppure simile ai risultati conquistati in Coppa del Mondo due anni fa, dopo un'annata viziata da una caduta con la frattura di alcune vertebre. Quando ha visto la prova di Pauline Ferrand-Prevot all'Olimpiade si è "gasata": «Sono convinta sia bello sapere che una prestazione del genere è possibile. Certo, in corsa si soffre, ma, appena tagliata la linea del traguardo, si pensa solo a come fare per avvicinarsi a quel risultato. Ho chiesto come fare al mio allenatore. Vuol dire che continuiamo a crescere, a migliorare. Racconta un progresso e la bicicletta è questa cosa qui». La bicicletta è per Martina Berta un sinonimo del verbo "provare": «Il passaggio nelle categorie junior e under non è stato facile, tuttavia potevo solo provare. Mi dicevo: "Provo, al massimo non funziona". Ci sono esperienze che puoi vivere solo a determinate età e lo sport ad alti livelli fa parte di queste. Non è un dramma, se non va, a patto di non aver rinunciato a priori. Forse qualche volta ho anche pensato di smettere: non l'ho fatto perché continuo a imparare, a migliorare ogni giorno. Io mi sento ancora alle prime armi. Smetterò il giorno in cui, in un momento difficile, sentirò di non aver più nulla da dare». Dal 2022 ad oggi, per esempio, ha lavorato molto in palestra, ha corretto squilibri nel bilanciamento posturale e ne ha tratto vantaggio, indubbiamente, così è accaduto per l'aspetto aerobico nel 2024. Impara il singolo ed impara e cresce il mondo in cui è calato: si può citare il lavoro sull'aerodinamica che tanti atleti stanno sviluppando anche nella MTB, l'alimentazione che è centrale su strada, meno in MTB, tuttavia atlete come Ferrand-Prevot e atleti come Pidcock alzano il livello anche da questo punto di vista, le preparazioni ed i materiali in cui un settore relativamente giovane come la MTB ha fornito spunti anche per le corse su strada.
Martina Berta resta la ragazza che è sempre stata: riservata, di quelle che non amano essere al centro dell'attenzione, è appassionata di sci e arrampicata. In sella va lontano ed ha scelto la bicicletta per poterlo fare, per scoprire una velocità giusta ed esplorare tutti quanti i luoghi che nessuno sport le avrebbe permesso di scoprire, chiusa in un palazzetto. Seria, professionale, eppure desiderosa, quando non corre in bicicletta, di staccare completamente la spina e liberarsi: «Il nostro è un mondo di orari e tabelle prefissate, troppo schematico per rappresentare la vita reale: è un lavoro e come tale va vissuto. Mi piacerebbe comunicare questo ai più giovani, raccomandando loro di avere sempre altro su cui contare fuori dal ciclismo, perché, in certi giorni, è tutto quello che serve per andare avanti. La serietà non è nemica della leggerezza, è possibile impegnarsi molto e allo stesso tempo sapere che sarà un picnic in mezzo al bosco a permetterti di proseguire, dopo aver ripreso fiato».
Foto: Sprint Cycling Agency
Quando finisce il buio: intervista a Giada Borghesi
Anche il 2021 stava per finire e Giada Borghesi continuava ad avvertire quella stanchezza sempre più simile a un malessere. Solo diciannove anni eppure, ogni mattina, al risveglio i suoi muscoli erano indolenziti, le sue braccia erano stanche, svuotate. Un anno prima, di quei tempi, a dicembre, aveva contratto il Covid e tutti i medici con cui parlava, a cui chiedeva consulto, continuavano a dirle che erano sintomi normali, perfettamente assimilabili al Long Covid, il problema era il tempo: ormai erano troppi mesi e Giada non riusciva più a riconoscersi. «Da bambini vogliamo tutti sentirci speciali in qualcosa, sapere di avere un tratto unico, di poter essere qualcuno nel futuro ed io, nell'infanzia e nell'adolescenza, avevo capito che la mia "unicità" potesse trovarsi nello sport, in qualunque sport, perché riuscivo a fare cose difficili con facilità e sentivo un senso di pienezza in quegli istanti. Era stato tutto così fino all'anno prima, anche nei momenti più complessi, ora sembrava non esserci più nulla.
Quel fuoco che mi teneva in piedi era ridotto a fiammella, certe sere a pura speranza senza un fatto a cui aggrapparsi per crederci e, in alcuni momenti, ero io la prima a non crederci più. Ma può finire tutto così? Può sparire tutto?». Ancora oggi, se date un pallone da calcio a Giada Borghesi vi sorprenderà con una lunga serie di palleggi, se la cava bene su un campo da tennis, con pallina e racchetta e, in bicicletta, sono mesi in cui sta meglio e i risultati hanno iniziato a venire. Nel buio di quell'anno voleva i risultati, quelli cercava? Sì, ma, alla fine, c'era una posta più importante in gioco. «All'inizio soffrivo per il ciclismo: correvo le gare di ciclocross alla domenica e, per recuperare, mi serviva una settimana: gli allenamenti erano impossibili e appena recuperavo arrivava un'altra gara a sfinirmi. Ad un certo punto, però, non pensavo nemmeno alla bicicletta, pensavo alla mia salute, a quando sarebbe passata, se sarebbe passata. Volevo stare bene, uscire da quel tunnel, smettere di continuare a fare analisi chiedendo a tutti una risposta, non la soluzione al problema, ma, almeno, l'individuazione del problema».
I consulti, alla fine, una risposta la danno: è celiachia. Un'infiammazione dei villi intestinali che li debilita e rende praticamente impossibile assorbire energie. Si tratta di cambiare completamente alimentazione e serviranno mesi perché qualcosa possa vedersi, nella vita di tutti i giorni e nel ciclismo. Non è facile per nessuno, per una ciclista ancora meno, perché la vita da ciclista porta spesso a cene fuori casa, magari all'estero, non sempre si viene capite, non sempre si trovano gli alimenti adatti, eppure il giorno della diagnosi è un giorno di sollievo per Giada Borghesi: sa da dove ripartire, sa cosa fare. Basta poco quando si sta male, pochissimo. Suo padre Giuseppe, anch'egli ciclista, smise dopo la categoria dilettanti per un problema di salute: «In tanti mi hanno capita, lui, forse, ancora di più. Ricordo che mi diceva che doveva esserci per forza qualcosa, che lo avremmo scoperto e, solo a pensare che esistesse una soluzione, stavo meglio, mi facevo coraggio». Sua sorella, Letizia, ha iniziato a pedalare proprio vedendo le foto di papà e lei, Giada, ha iniziato a farlo vedendo Letizia, la sorella maggiore «da cui imparavo solo guardando, lei ha tracciato una strada in questo mondo che piace ad entrambe e quando sai che qualcuno, prima di te, ha vissuto le stesse esperienze puoi chiedere e, se puoi chiedere, sei meno solo, tutto è più facile». Quel talento non è scomparso, il fuoco torna ad ardere, la fiammella è nuovamente viva: Giada Borghesi prende dei punti di riferimento in gruppo, se riesce ad arrivarci vicino o assieme si sente confortata. «Ricordo che vedevo la posizione in cui era arrivata Alessia Vigilia, quest'anno in FDJ, e, se non avevo perso molto, mi rassicuravo vedendo il suo percorso, era una sorta di ispirazione, pur se non gliel'ho mai detto». A volte vorrebbe solo staccare per un mese, non pensare a nulla, però non può: deve trovare una nuova squadra per correre. Sarà la BTC City Ljubljana Zhiraf Ambedo, squadra italo-slovena con sede in Italia.
Sì, pur non sentendosi soli, certi ragionamenti si fanno in solitudine, in silenzio, mentre nessuno ci guarda, ci sente: nel bene e nel male. Al Giro Mediterraneo Rosa, il 19 aprile, durante la prima frazione, da Frattamaggiore a Terzigno, coglierà il successo: le corse a tappe, tuttavia, non permettono molto di gustarsi quel che accade, da lì ci si sposta al Gran Premio Liberazione, a Roma, dove Borghesi concluderà quinta dietro, fra le altre, a Chiara Consonni e a Silvia Persico: «Lì ho capito quello che stavo facendo e che, dopo tanto brutto tempo, le cose andavano meglio. Soffrire non fa mai piacere, però, forse, se accade, può formarti, in qualche modo, farti capire ciò che vuoi, esserti utile». Soprattutto sono i giorni in cui Borghesi sente il suo corpo come lo vorrebbe, senza stanchezza, senza malessere, la cosa per lei più importante: «Il risultato non mi sarebbe bastato, sarebbe anche potuto arrivare, ma non sarebbe stato sufficiente, dovevo tornare a sentire di avere qualcosa di speciale, qualcosa che potesse farmi "arrivare"». Quel corpo, Borghesi lo conosce alla perfezione, sa ascoltarlo: lei che si allena, senza un preparatore, seguendo le sensazioni e per farlo mette ancora più voglia "perché non si ha una tabella, magari i passaggi dell'allenamento sono differenti, ma è necessario fare tutto, senza lasciare nulla al caso. Il corpo non sbaglia mai". Come al Tour Féminin International des Pyrénées, sul Col d'Aubisque, quando ha avuto la pazienza di rallentare, di prendere il proprio passo e salire con tranquillità: è arrivata sedicesima ed il giorno successivo era a giocarsi la tappa.
Si sente scalatrice, con ampi margini di miglioramento: viene dal ciclocross, ha imparato così a guidare la bicicletta, si cimenta nel gravel, perché la diverte e continuerà a fare cross in preparazione della stagione su strada. Insieme a Letizia, da bambine, a casa della nonna, sul computer si cimentavano in giochi geografici, oggi conosce quasi tutte le capitali degli Stati e, se gliene manca qualcuna, corre subito a cercarla, per poi sfidare gli amici. Ogni tanto sogna la Roubaix o il Fiandre, per le corse a tappe, invece, «serve un pizzico di tempo in più per capire quanto si sia adatte». E Giada Borghesi quel tempo se lo prenderà, ora che sta bene non ne ha più.
Questionario cicloproustiano di Maria Giulia Confalonieri
Il tratto principale del tuo carattere?
Mio marito crede nella mia generosità.
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
L'onestà.
Il tuo peggior difetto?
Permalosa e disordinata.
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Leggere e cucinare.
Cosa sogni per la tua felicità?
Stare bene in famiglia e nel lavoro.
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere una persona cara.
Cosa vorresti essere?
Felice sempre.
In che paese/nazione vorresti vivere?
Italia.
Il tuo colore preferito?
Verde.
Il tuo animale preferito?
Cane.
Il tuo scrittore preferito?
Ne dico due: Ken Follett e Jo Nesbø.
Il tuo film preferito?
Non ho un film preferito ma più un genere thriller. Mi piacciono anche i film di ambientazione storica.
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Ascolto un poco di tutto. Dipende dal mood.
Il tuo corridore preferito?
Marianne Vos.
Il tuo nome preferito?
Enea e Lavinia.
Cosa detesti?
La falsità.
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Domanda difficile.
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Diverse, non ne saprei indicare una sola.
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Da nessuna, in generale non è una cosa che mi piace fare.
Un dono che vorresti avere?
Il teletrasporto.
Come ti senti attualmente?
Serena.
Lascia scritto il tuo motto della vita
Vivi e lascia vivere.
Ritorno alla bicicletta: intervista a Monica Trinca Colonel
«L'adolescenza è un periodo complesso per tutti, io non sono stata un'eccezione. In quegli anni avevo altre cose per la testa e la bicicletta non riusciva più ad entrarci: l'avevo mollata in un angolo, da lì, la presi e la appesi direttamente al muro. Avevo quattordici anni o poco più: sì, i nonni non erano stati bene in quei momenti, è vero, ma la responsabilità della decisione è stata solo mia. I miei genitori non volevano smettessi, a me essere una ciclista non interessava più, ero abbastanza "debole" a livello caratteriale, mi sono rafforzata solo più tardi, anche grazie all'altro lavoro, quello che non aveva nulla a che fare con una passione, ma solo con la necessità di mantenersi, nel campo dell'ottica, degli occhiali da vista. La bicicletta era appesa e per molto tempo non l'ho più nemmeno sfiorata». Se è vero che la storia di Monica Trinca Colonel, in sella ad una bicicletta, è una storia in due tempi, è certamente vero che l'intermezzo ha a che vedere con queste parole: qui ci sono le cause, da qui prendono il via le conseguenze. Ma di queste parleremo più avanti.
Classe 1999, venticinque anni compiuti il 21 maggio, di Grosotto, Trinca Colonel ha preso in mano la prima bicicletta da giovanissima: era sotto un albero di Natale, uno dei tanti che da bambini hanno sorprese vicino alle radici. Il fratello desiderava una bicicletta ancor prima di poter pedalare, quando riuscì a "cavalcarla", iniziò a gareggiare, e ad accompagnarlo c'era proprio Monica, sua sorella. Nessuno, in famiglia, faceva parte di quel mondo: suo padre seguiva altre due ruote, quelle delle moto. Cominciò così, guardandolo e avendo voglia di provare e, da quel momento, quella ragazzina non mancò nemmeno un allenamento: «Non riesco a iniziare a fare qualcosa tanto per farlo, per occupare il tempo. Non volevo perdere, mi arrabbiavo se succedeva. Era un gioco, ma ho imparato presto il valore di giocare seriamente». Il ciclismo, dapprima mountain bike, successivamente su strada, le è servito per accantonare parte della timidezza che affligge molti da ragazzi, per acquisire sicurezza, per uscire dalla riservatezza e mettersi a confronto con gli altri: è un valore che Trinca Colonel riconosce a tutto lo sport, non solo al ciclismo, poi l'adolescenza, anni difficili, e la decisione di smettere. Eppure, in lei, la bicicletta, pur abbandonata su un muro, aveva lasciato un segno. Sì, perché dopo i primi tempi in cui l'allontanamento era un modo come un altro per cercare una nuova strada, crescendo, è tornata a pensarci: «Mi capitava di vedere le gare di altre ragazze, cresciute con me, in televisione e di chiedermi io dove avrei potuto essere in quel plotone. Di più: mi chiedevo proprio quante possibilità avrei avuto di arrivarci, se avessi continuato». Invece, ora, usava la bicicletta solo per brevi spostamenti, magari in pausa pranzo, all'uscita da quel negozio di Livigno dove lavorava. Su e giù, appena qualche chilometro.
La casa è il luogo dove maturano i pensieri, spesso nei momenti di solitudine, magari in un pomeriggio in cui si è particolarmente insoddisfatti e quel pensiero pesa di più. Allora si aspetta che qualcuno torni in casa e, dopo tante volte in cui si è pazientato, si è rimandato, questa volta si libera la mente e, attraverso le parole, si dona fiato a quell'idea. La persona che rientra, quel giorno, è il suo compagno, le parole sono poche e semplici: "Voglio riprovarci". «Non era facile: si trattava comunque di lasciare un lavoro sicuro per il nulla, in sostanza, perché sappiamo tutti le difficoltà che ci sono nel ciclismo femminile. Le cose sono migliorate, è vero, ma le problematiche restano e affrontarle da capo a venticinque anni, cambiando tutto nella tua vita, è spiazzante, per te e per chi ti sta intorno. Inoltre, un conto è dire di voler tornare, altro conto è essere in grado di farlo. Da ragazzina ero in gamba, ma adesso?. Tuttavia, qualunque lavoro potrò riprenderlo anche successivamente, anche a cinquant'anni, basterà la voglia: il ciclismo no, il tempo che passa può bloccarmi per sempre quella possibilità, così ho scelto e, devo dire la verità, la mia famiglia ha capito bene questa scelta. Non succede sempre, a me è successo ed è stato importante perché da soli è anche difficile decidere».
Proprio il suo compagno, le consiglierà di fare un test per verificare le effettive possibilità ed i reali valori per un suo ritorno in gara, meglio ancora, per proporsi a qualche squadra. Sarà quel test a rivelare valori decisamente positivi: «Mi hanno detto che avrebbero sottoposto il test a diverse squadre. Sono tornata a casa, ho continuato a lavorare, ero in attesa. Quante volte mi sono detta che non ce l'avrei mai fatta? Più o meno quante volte ho pensato l'esatto contrario. Aspettavo una telefonata». A chiamarla sarà Walter Zini, la squadra con cui potrà ricominciare sarà la Bepink-Bongioanni: «Di fatto, non ci si crede fino a che non si arriva alla partenza della prima gara. L'unica cosa che potevo fare era aumentare le ore sui rulli, post-lavoro, per essere preparata fisicamente. Fino al giorno in cui ho lasciato definitivamente il negozio a Livigno». In quel momento, il filo spezzato quando aveva poco più di quattordici anni è stato ricucito: Monica Trinca Colonel è di nuovo una ciclista.
«I movimenti che impari in bici non li scordi mai. C'è un qualcosa di inspiegabile che fa sì che il nostro corpo se ne appropri e non li lasci più. Temevo di faticare a riacquisire l'automatismo, invece mi sentivo a mio agio: certo, stare davanti è stato difficile, nella nuova prima volta, non ci sono sempre riuscita e, probabilmente serviranno altri allenamenti e altre gare per aggiustare quel che manca, ma sono stata soddisfatta sin da subito». Il ciclismo è squadra, anche o forse soprattutto: all'inizio Trinca Colonel è concentrata soprattutto sulle proprie sensazioni, sul non sbagliare, sulla tensione di una situazione a cui non è più abituata. L'importanza della squadra sarà nella disponibilità delle sue compagne, negli incoraggiamenti o nei complimenti, nella consapevolezza che ci sarà tempo e modo di perfezionare ciò che ancora non funziona e saranno loro a guidarla, accanto a Walter Zini. «Zini è diretto: dice tutto quel che deve dire e lo dice esattamente come lo pensa. All'inizio è possibile restarci male, lo capisco, ma nel lungo la sincerità è sempre la cosa migliore. A me, poi, quella schiettezza piace: il mio allenatore di quando ero bambina era proprio così. Inoltre la sua visione di gara è eccezionale: dall'ammiraglia è in grado di consigliare quasi fosse al tuo fianco in gruppo».
Tutti hanno in mente quel che Trinca Colonel ha messo su strada alla Vuelta: ventiseiesimo posto finale in classifica generale, dodicesima nell'ultima frazione, la tappa regina, in montagna, quattordicesima e diciottesima in altre due tappe complesse, sempre non lontano dalle migliori, qualche difficoltà solamente nel vento e nei ventagli, ma l'aveva messo in conto. Il traguardo che si era prefissata era riuscire ad essere fra le prime trenta e ci è riuscita: «Voglio sia chiaro che questo è un punto di partenza, non credo di aver dimostrato ancora nulla, lo farò, di certo ho più convinzione, la sicurezza e la forza che servono per farcela, per provarci almeno». Le montagne le piacciono, ma non si definisce una scalatrice pura, bensì una passista scalatrice, con il traguardo prefissato di migliorare in pianura. Un'atleta legata all'istinto in sella, con la voglia di buttarsi anche in situazioni che lo sconsiglierebbero, che, però, sta imparando ad ascoltare i consigli dalla radiolina, a non prendere rischi inutili, a preservarsi per altri appuntamenti. Si è emozionata ad essere in gruppo con Marianne Vos, la stessa che seguiva in televisione da bambina, e con Demi Vollering, «ciclista perfetta da vedere in sella», ammira Tadej Pogačar, perché vince, per il talento, ma soprattutto «per l'umiltà e la capacità di restare umile nonostante i successi».
La sua storia in bicicletta è giunta al secondo tempo ed è una storia diversa da tante altre, di cui lei va fiera, nonostante le difficoltà: «Non mi sono mai vergognata, mai sentita fuori luogo. In fondo, il gruppo colorato e multiforme è un insieme di donne con storie diverse. Ciascuna è importante. Io provo a portare la mia, chissà fino a dove arriverò».
Questionario cicloproustiano di Matteo Bianchi
Il tratto principale del tuo carattere?
Mi definisco un po' fissato con l’ordine e la precisione. In molte situazioni mi reputo un calcolatore, per il fatto che penso molto a ciò che devo fare e programmo tutto nel dettaglio.
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
La sincerità.
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
La sincerità.
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Con i miei amici stretti riesco ad instaurare un legame molto forte e spesso sono il fattore che riesce a riportarmi ad uno stato di calma e spensieratezza a livello mentale, specialmente nei periodi con la pressione più alta dovuta alle competizioni.
Il tuo peggior difetto?
Un po' intransigente in determinate situazioni.
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Godersi una giornata all’aria aperta, che sia in montagna o al mare, in buona compagnia.
Cosa sogni per la tua felicità?
Sono già molto felice, per ora mi godo il momento.
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Se capitasse qualcosa alla mia famiglia sarebbe sicuramente la situazione peggiore per me immaginabile.
Cosa vorresti essere?
Sono soddisfatto di ciò che sono adesso. Cinque anni fa sognavo di essere dove sono adesso perciò continuo per la mia strada.
In che paese/nazione vorresti vivere?
Sono innamorato dell’Italia ma se dovessi scegliere un altro paese probabilmente sceglierei l’Australia.
Il tuo colore preferito?
Lo scelgo in base al mio umore.
Il tuo animale preferito?
Quokka.
Il tuo scrittore preferito?
Non ne ho uno in particolare.
Il tuo film preferito?
La ricerca della felicità.
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Ernia.
Il tuo corridore preferito?
Jason Kenny.
Un eroe nella tua vita reale?
Mio padre.
Una tua eroina nella vita reale?
Mia madre.
Il tuo nome preferito?
Ellesse.
Cosa detesti?
Perdere tempo.
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Nessuno in particolare.
L’impresa storica che ammiri di più?
Il percorso e l’incredibile ascesa di Sinner nel Tennis.
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Nibali tre cime di Lavaredo, Giro 2013.
Un dono che vorresti avere?
Nessuno.
Come ti senti attualmente?
Molto bene, concentrato sul migliorarmi giorno per giorno.
Lascia scritto il tuo motto della vita.
Qualsiasi cosa succeda, questa avviene per una ragione.
Questionario cicloproustiano di Gaia Masetti
Il tratto principale del tuo carattere?
Determinazione.
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Carisma.
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Rispetto.
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Sincerità.
Il tuo peggior difetto?
Permalosità.
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Giocare-coccolare i miei cagnolini.
Cosa sogni per la tua felicità?
Che i miei più grandi sogni si realizzino.
Quale sarebbe per te la più grande disgrazia?
Ad oggi, che un qualche incidente non mi permetta più di pedalare.
Cosa vorresti essere?
Nient'altro, sono fiera di essere quella che sono.
In che paese/nazione vorresti vivere?
L'italia mi piace molto, anche se dopo il TDU mi sono innamorata dell'Australia.
Il tuo colore preferito?
In assoluto, nero.
Il tuo animale preferito?
Cane.
Il tuo scrittore preferito?
Non ho uno scrittore preferito.
Il tuo film preferito?
Top Gun.
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Coldplay.
Il tuo corridore preferito?
Non ho un corridore preferito.
Un eroe nella tua vita reale?
Mio papà.
Una tua eroina nella vita reale?
Mia mamma.
Il tuo nome preferito?
Non ho un nome preferito, il mio mi piace molto, è abbastanza particolare?
Cosa detesti?
Il menefreghismo della gente.
L’impresa storica che ammiri di più?
La storia non è mai stata una mia amica.
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Probabilmente l'impresa di Pantani nel '98 a Montecampione.
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Uno dei 2 grandi giri a tappe - Giro e Tour.
Un dono che vorresti avere?
Immortalità - rimanendo fissa sulla fascia d'età dai 22 ai 27 anni, i migliori.
Come ti senti attualmente?
Sto bene, sono felice.
Lascia scritto il tuo motto della vita:
PER ASPERA AD ASTRA - che significa, attraverso le asperità sino alle stelle.