«Sai, ci lamentiamo tutti per questa situazione e lo capisco benissimo. Davvero. Il 23 settembre sono diventato papà per la seconda volta. Da quel giorno non mi sono staccato da mio figlio un attimo. Si chiama Noah. Mi piace tenerlo in braccio, tenerlo vicino. Anche adesso, mentre parlo con te. Con Elia non avevo potuto, ero sempre fuori per lavoro. Elia quando tornavo a casa dai ritiri piangeva, sembrava non mi riconoscesse. Sto vivendo dei momenti stupendi. Penso a quello che accade fuori da qui e mi spiace perché è brutto, bruttissimo. Poi penso a questa casa, a quei due piccolini che sono qui a giocare, e mi dico: ma cosa potevi volere di meglio dalla vita?». Diego Rosa è un ragazzo abituato a cercare il lato buono delle cose e questa volta il lato buono, per lui, è davvero grande. Ha maturato questa abitudine perché, del resto, fare diversamente non cambia la realtà: «Noi non abbiamo il potere di cambiare questa situazione. Dobbiamo seguire le regole ma non possiamo fare altro. Dovrà passare del tempo e provare ad essere sereni, per quanto possibile, offre a questo tempo la possibilità di trascorrere meglio. Per questo dico sempre di guardare il mondo con serenità, perché in questo modo gli si offre una possibilità di essere sopportabile anche in momenti bui».

Questa forma di serenità diventa sicurezza nei fatti e nelle parole: «A me piace essere schietto. Alcuni mi dicono che vedo solo il bianco ed il nero delle situazioni e non so captare il grigio. Forse è vero e forse, in alcuni frangenti, questo mi penalizza. Ma, alla fine, sono convinto che sia necessario. Forse è anche un aspetto caratteriale che appartiene ai ciclisti, altrimenti avremmo scelto un altro mestiere. Seguo molto l’istinto e le mie scelte sono difficilmente comprensibili razionalmente. Seguo l’istinto per scegliere e per esprimermi. Quando, a inizio stagione, alla Parigi-Nizza, continuavamo a correre nonostante la pandemia ero esterrefatto. Mi sembrava una recita. Perché fingere una normalità che non c’è? Questo non è quel lato buono delle situazioni, questo significa ingannarsi consapevoli di sbagliarsi. Bisogna anche avere il coraggio di fermarsi e cercare a bocce ferme un punto da cui ripartire».

Questa continua ricerca non gli ha impedito di avere paura. Una paura che in questa stagione si è ripresentata in molteplici forme: «A dirti la verità, quando ci dicevano che saremmo tornati a correre, non ci credevo e avevo paura. Ma non tanto per le gare, sia chiaro. Ci si può anche fermare per un anno, si può anche vivere un anno senza ciclismo. Le cose essenziali nella vita sono altre. Il problema è che molte squadre non avrebbero retto un anno senza corse e, probabilmente, avrebbero chiuso. E chi pensa al futuro di tutti coloro che ci lavorano? Non parlo tanto di atleti. Noi siamo comunque dei privilegiati. Parlo del personale. Ci sono squadre che hanno sessanta, settanta persone al loro interno. Se chiudono due squadre restano “a spasso” più di centoventi persone. Questo è drammatico. Noi atleti sappiamo che il ciclismo sarà una parentesi della nostra vita e che, si spera il più tardi possibile, ma verrà il giorno in cui appendere la bici al chiodo. Ma loro? Mi conforta il fatto che per arrivare a fare questo lavoro hanno dovuto stringere i denti tante volte, sottoporsi a tanti sacrifici, fare molte rinunce. Sono abituati a resistere. Li invito a stringere i denti ancora una volta, a tenere duro. Tutto questo finirà».

Paura che può essere anche mancanza: «All’inizio, pur di tornare a fare il nostro lavoro abbiamo passato in secondo piano tanti aspetti: la mancanza di pubblico, per esempio. E, se non si può fare altrimenti, va bene così. Ma poi te ne accorgi, ti accorgi di quanto le persone ti manchino. Al Tour de France salivamo sul palco a salutare un pubblico che non c’era. Alla “Strade Bianche” sono arrivato staccato. Di solito sull’ultimo strappo c’è tantissima gente ad applaudire, ad incitare. Questa volta no. Questa volta c’era un silenzio spettrale. Un silenzio che mi ha fatto parecchio male, che mi ha fatto sentire ancora più solo».

Al Tour de France, Diego Rosa si è trovato diverse sere a parlare con i propri compagni: «Ad un certo punto, siamo arrivati ad avere un vero e proprio terrore dei tamponi. Noi eravamo davvero in una bolla ma con il regolamento del Tour sarebbero bastati l’autista del bus, un massaggiatore e magari un D.S. positivi per andare a casa tutti. Io ho lasciato il Tour dopo alcune tappe per una brutta caduta e la frattura della clavicola, ma, dei giorni che ho vissuto, ricordo questo. Ci dicevamo che dovevamo essere fortunati, che se la sfortuna avesse deciso di affiancarci, sarebbe stata la fine. Difficile correre così, molto difficile».

Poi ci sono le parole per i suoi figli, quelle che suonano come un auspicio di futuro: «Io vorrei solo che si realizzassero per ciò che sono e che desiderano. Senza lasciarsi intrappolare troppo dalle voci della gente. Credo non ci possa essere desiderio più bello da esprimere per un figlio. Che possa percepire chiaramente la sua essenza e che possa avverarla. Con tutta la tenacia che serve. E certe volte ne serve davvero tanta».

Foto: Claudio Bergamaschi