Fa freddo e c’è vento. È quasi buio pur essendo passato da poco mezzogiorno. Le mani sono intirizzite. Cerco di scaldarmele come posso e la possibilità migliore me la dà una vecchia osteria con i mattoni a vista che ha la fortuna di affacciarsi sul rettilineo d’arrivo.

So che i corridori passeranno almeno tre volte sul traguardo e quindi c’è tempo di bere qualcosa per provare sollievo e acclimatarsi per bene scambiando due chiacchiere e scattando pure qualche foto. Arriva un massaggiatore di una squadra che funge da vivaio per un team di professionisti. Anticipa il gruppo, entra nel bar e chiede di riempire le borracce con del tè caldo. La barista sgrana gli enormi occhi verdi ed esclama: «Abbiamo fatto fuori trecento bustine di tè!» gli dice «E non possiamo nemmeno muoverci da qui perché la strada è chiusa» alludendo al passaggio dell’ultima tappa del Giro del Friuli.
Perché se fa freddo per noi che siamo chiusi al caldo con la compagnia di un bicchiere di rosso della casa, immaginarsi chi sta in strada. C’è bisogno di qualche bevanda calda per i ragazzi e di ogni malizia. Ogni tanto vanno strigliati perché «oggi non ce la faccio» dicono, ma è stata una corsa dura e si chiude un occhio, e se qualcuno preferisce fermarsi questa non è la giornata per usare il bastone «perché nei momenti di sconforto vanno sempre supportati» mi raccontava un direttore sportivo proprio nei giorni scorsi.

L’abbigliamento è importante mi dice il componente dello staff di un’altra squadra, anche lui passato al volo in quel bar chiedendo «Tè caldo, per favore!» per riempire qualche borraccia. «Se oggi sbagli qualcosa sei letteralmente fottuto». Testuale. E di quel gruppo di centoquaranta ragazzi, di fottuti, per usare il termine che mi frulla ancora per la testa, ne sono quasi la metà. «Vestirsi in modo adeguato è fondamentale, il problema però sono le gambe: scoperte e al freddo per tutto il giorno».

Arriva il primo corridore ritirato; lo avevo già notato alla partenza un paio di ore prima, si era staccato subito dopo il via mentre la pioggia era forte, quasi una bufera, sembrava bava appiccicosa. Poggia la sua bici, una Scott gialla con il numero novantaquattro, su una botte ornamentale fuori dall’ingresso dell’osteria. Entra battendo i denti, completamente grondante pioggia come una bistecca al sangue. Lo sguardo è perso, il viso assume tratti violacei. «Bevi qualcosa di caldo» gli faccio. «No, grazie. Fra un po’ arriva l’ammiraglia» risponde lui. Un’ora dopo è ancora lì, impietrito verso la porta, continua a battere i denti come stesse parlando l’alfabeto della fatica e dello strazio e nel frattempo il bar continua a riempirsi di corridori. Ci sono i bulgari: si ritireranno tutti in un colpo dopo aver chiuso regolarmente in coda ogni tappa. Volevano onorare la corsa e lo hanno fatto, ma il livello è davvero alto. A loro importava soltanto esserci.

Arriva un corridore dietro l’altro; si fermano, cercano l’ammiraglia. Alcuni sembrano reduci, altri naufraghi: hanno diciannove, venti, ventuno, ventidue anni, alcuni anche venticinque o ventisei e persino più di trenta. Un ragazzo si è fermato, ha poggiato la bici e si è tolto gli scarpini. Ha i calzini fondi d’acqua e ora corre sul marciapiede in mezzo alle pozzanghere cercando qualcuno, forse un parente, un collega o forse scappa semplicemente perché non sa che fare come quando un ciclista va in fuga sapendo di essere ripreso. Sono spaesati, contriti, chi gliela fa fare? chiedevo giorni fa a un ex corridore. «La crudeltà di questo sport è che pedali con ogni tipo di clima, e fai fatica, fisica e mentale e poi non sai nemmeno se l’anno dopo continuerai a correre o se quello che stai facendo diventerà il tuo mestiere».

Il mestiere che sarà di sicuro quello del numero uno della corsa, un norvegese alto con i capelli rossi e le lentiggini, ha dominato e l’anno prossimo correrà tra i grandi mentre tutti bisbigliano: “è un predestinato”. A fine gara la sua fame non è placata nemmeno dalle tre maglie conquistate e dalle due tappe: divora una pizza in meno di cinque minuti.

Resta tempo per accennare alla storia di quel ragazzo che arriva terzo di tappa, illuso ed esultante convinto di aver vinto: un grido di gioia che se potesse tornare indietro strozzerebbe in gola o legherebbe ben stretto con un fil di ferro. La rabbia è la sua, la delusione è quella del secondo arrivato; ha gli occhi rossi di chi non ha smesso di piangere. E non smette di piangere nemmeno un altro corridore in maglia giallo fluo. Fermo per minuti che appaiono sia a me che a lui interminabili, dietro il palco delle premiazioni. La testa è retta dal palmo delle mani e ha una caviglia gonfia e fasciata. Eppure è venuto a prendere lo stesso il premio dei traguardi volanti.

Torno indietro e passo davanti al bar e il numero novantaquattro è ancora lì che aspetta. Sta cercando di farsi caldo strusciando le mani su tutto il corpo ancora mezzo scoperto. Indossa gli indumenti di gara e chiacchiera con un altro ragazzo, lombardo sembrerebbe dall’accento. Il viso ha preso un po’ più di colore, forse l’hanno convinto a bere qualcosa. Entrambi continuano a sbattere i denti e forse si capiscono così. Io invece li guardo e non capisco, ma apprezzo e domandandomi ancora una volta chi gliela fa fare, non posso che provare empatia per chi fa questo mestiere disgraziato.