Succedono così tante cose nella “mini-Roubaix”, come l’avevano presentata, che sembra difficile raccontarle tutte. Un po’ sui generis una giornata del genere, è vero, ma solo per la nostra scarsa abitudine; manna del cielo una tappa così, per accendere un pomeriggio estivo passato a guardare il Tour de France e non riuscire mai a staccare gli occhi dal televisore.
Una di quelle tappe da “Lasciami stare! c’è il Tour de France!”. Squilla il telefono? “Vai tu a rispondere, non vedi che oggi c’è il pavè?” Una di quella giornate da empatia con i corridori: facce stravolte e visi impolverati con il segno degli occhiali, la bava incrostata di terra; una di quelle giornata da mani e gambe che faranno così male che le scorie se le porteranno dietro in questi giorni fino al riposo di lunedì. Che lavoro avranno da fare i massaggiatori stasera!
Succedono tante cose: proviamo in ordine sparso. Si cade sin dal chilometro zero: è solo il preludio. Van Aert poi va giù, recupera, sembra impaziente, rischia di tamponare un’ammiraglia; quando è in gruppo non pare riuscire mai a rimontare la testa perché davanti si prendono i settori a tutta velocità: diventerà essenziale, quasi superbo, infine, il suo lavoro nel ricucire il più possibile il distacco da quel fuoriclasse epocale che ancora una volta ha dimostrato di essere Tadej Pogačar.
Succedono tante cose, e alzi la mano chi non ha sentito in bocca il sapore di quelle giornate lì. Alla vigilia qualche corridore lo diceva: «Chi guarderà la gara da casa oggi si divertirà… noi un po’ meno».
Succedono tante cose: una fuga che va all’arrivo con dentro Magnus Cort Nielsen, quattro fughe su quattro tappe e le energie che nel finale lo abbandonano; Neilson Powless che arriva a pochi secondi dalla possibilità di vestire la maglia gialla (che, a proposito, nonostante tutto resta sulle spalle di van Aert, lui solo sa come, lo sanno le sue gambe, lo sa il suo motore, la forma e la classe); Edvald Boasson Hagen che non vince da tempo immemore e poi quando leggi che di corse ne ha conquistate ottantuno ti chiedi, «ma dov’ero finito?» perché la maggior parte ti sembra di averle perse per strada.
C’è Taco van der Hoorn, uno dei più amati del gruppo e non potrebbe essere altrimenti; Alexis Gougeard che qualche stagione fa prometteva proprio in questo tipo di contese e Simon Clarke. L’australiano che quando parla ha l’accento toscano.
Succede che dopo una giornata così, fatta di cadute rovinose, ritiri, forature, incidenti, con quasi venti chilometri di pavé, quello infame della Roubaix, diviso in undici settori che lasceranno il segno, fanno la volata dai milletrecento metri: Powless anticipa e sembra possa vincere lui, poi sembra stia vincendo Boasson Hagen, poi invece no è van der Hoorn, ma Clarke lo anticipa di pochi millimetri. Clarke, che pochi mesi fa era rimasto senza squadra dopo la chiusura della Qhubeka, pensava quasi al ritiro, ma oggi «dopo vent’anni che corro in Europa, realizzo il mio sogno. Ancora non ci credo, ho i crampi e male ovunque, ma ho bisogno di vedere il replay dell’arrivo».
Succede che una balla di fieno messa a protezione, invece di proteggere distrugge: ostruisce la carreggiata e Roglič, Paperino al Tour de France, ci finisce addosso, e a finire potrebbe essere il suo Tour, vista la spalla lussata. Succede che Vingegaard ha un problema meccanico, cambia una bici, ne cambia un’altra, poi prova a salire su quella di van Hooydonck ma sembra un bambino che prova a scalare la bici di un gigante.
Succede che Pogačar, un bambino, ma un gigante, dà spettacolo. Sembra nato (anche) su queste strade, un corridore da 9/9,5 su tutti i terreni, che ha messo il ciclismo – è solo suo quel ciclismo – su un altro livello, quello dei nomi che resteranno nella leggenda. Tiene la ruota di Stuyven, uno dei corridori più solidi da queste parti, dopo aver corso ogni settore in testa, senza squadra, scegliendo la ruota giusta e la traiettoria migliore
Succede che van der Poel ha qualcosa che non va, poteva essere la sua tappa e invece arrancava mestamente «Senza gambe» racconta. Succede di tutto, poi sembra non succedere niente, ma non ditelo a chi oggi era in bicicletta: stasera dovranno fare i conti con i dolori e le ferite. O forse sì, che a loro alla fine fa anche piacere. Lo ha detto Simon Clarke a inizio stagione: «Voglio godermi un altro anno in gruppo. Correre in bici è molto più divertente che stare seduti in ufficio». Fatti di pasta strana i corridori.