Quando Chiara Redaschi parla del suo lavoro, la fotografia, il primo concetto che spiega è relativo all’improvvisazione. «Noi raccontiamo una storia attraverso un’immagine. La particolarità delle storie è il fatto che, sino a quando non ti passano davanti, non puoi conoscerle. Non puoi sapere cosa racconterai quel giorno, perché non puoi sapere cosa accadrà. Se è il tuo lavoro, tuttavia, sai che qualcosa dovrai raccontare. Al mattino te lo chiedi: “Chissà come andrà oggi”. La paura che possa non andare come vorresti diventa una tua compagna». Lei, con quel timore, ha imparato a convivere sin da giovanissima, quando si occupava di fotografia di strada nell’ambito della moda. «Ricordo che mi mettevo in un posto, ci ripensavo e mi spostavo. Ripetutamente. In strada ti guida solo l’istinto. Se, per caso, rivedendo le foto non mi piacevano, iniziavo a dirmi che forse non ero capace, che avevo sbagliato. Continuavo a ripensarci. Volevo solo essere lì a fotografare, solo che quella stretta allo stomaco mi faceva venir voglia di tornare a casa. Mi succede ancora oggi. Accade così con le cose che desideri, sbaglio?».
In fondo, spiega Chiara, è normale. «Ognuno di noi ritiene importantissimo ciò che fa ed è giusto così, perché è uno stimolo a migliorare, a fare bene. Però serve anche la reale consapevolezza della grandezza delle cose. Non stiamo salvando vite, stiamo raccontando storie. Può capitare di non essere al massimo, di voler buttare tutto all’aria. Certe giornate non ingranano, non puoi farci nulla. Devi darti quel permesso e perdonarti». Per Redaschi, la fotografia ha cambiato forma e sostanza nel tempo, perché il tempo ha cambiato i motivi per cui fotografare. «Ho iniziato a fotografare perché lavoravo in un ufficio di comunicazione ed era una competenza necessaria. Non ne ero entusiasta all’inizio. Dovevo farlo e lo facevo. La sera, invece, andavo con amici a vedere le gare di scatto fisso al Parco Lambro. Era in pieno inverno e faceva un freddo assurdo. Comprarmi una macchina fotografica è stato un modo per impegnare quelle serate e sentire meno freddo». Nessuno lo direbbe, ma è quello il momento in cui per Chiara Redaschi cambia tutto. «Ho scoperto che in realtà fotografare mi piaceva e mi veniva abbastanza naturale. Il mio è stato un percorso veloce. Nel giro di un anno sono arrivata a fotografare nel professionismo e poco dopo a seguire una tappa del Giro d’Italia in moto. Senza aver mai studiato fotografia, imparando sul campo».
Quel giorno, Chiara non lo scorderà mai. «Era il 2018, la tappa con arrivo al Lago di Iseo. Ero in moto con Francesco, un signore toscano. Guardavo il gruppo che mi passava accanto e mi sembrava quasi di poterlo toccare. In alcuni momenti ridevo, in altri piangevo. Credo lì sia racchiusa la mia indole: sono un’insicura estremamente testarda. Quando mi succede qualcosa di bello, non voglio crederci. Ma non c’è un minuto in cui non lotti con tutta me stessa per quell’istante. Non sento la fatica, non sento lo sforzo». Ed è questa sua insicurezza che la porta a ricercare i motivi per cui ha scelto questa strada. «Quando fai qualcosa, devi chiederti il motivo ed io mi sono chiesta più volte perché abbia deciso di proseguire questa strada. La risposta è semplice: mi piace vedere le persone che si emozionano, mi fa stare bene. La fotografia è un modo come un altro per far sentire qualcosa e ciò che senti non ha nulla a che vedere con la tecnica. Ha a che vedere con ciò che hai vissuto tu e con ciò che ha vissuto chi ti guarda. Una foto tecnicamente perfetta è bella, ma ti lascia qualcosa? Si fa ricordare? A me piace chi si fa ricordare».
Il prezzo da pagare è l’attesa. «Attendere per cinque minuti l’arrivo del gruppo o della fuga, è un tempo infinito. Tu sei lì, ti guardi attorno e cerchi di costruire ciò che vorrai vedere dall’obiettivo della macchina. La verità è che spesso ciò che hai immaginato non si concretizza, anche perché i tuoi occhi sono una cosa, quella lente di vetro un’altra. Coglie ogni piccola sfumatura e basta poco per rovinare tutto. In una foto entra un piccolo pezzo di mondo e saper scegliere cosa mostrare e come farlo è essenziale». Già, perché poi non sai mai dove si poserà l’attenzione delle persone. «Può accadere che di uno scatto ti lasci qualcosa un singolo particolare. Va bene così ed è importante che quel particolare ci sia. Certe volte è qualcosa che tu non avevi nemmeno visto, qualcosa a cui non avevi fatto caso. Il nostro vissuto ci influenza ed è per questo che della realtà cogliamo aspetti diversi. Questo è il bello della fotografia. La foto è la stessa, ma ciascuno vede una cosa diversa. Ciò che vedi coincide in parte con ciò che sei ed in parte con ciò che vivi. La fotografia ci permette di lasciar uscire queste cose, spesso nascoste in noi».
Proprio questa molteplicità nella fotografia permette di scoprire ed appassionarsi ad ambienti che non avevamo mai considerato. «Tempo fa, mia madre mi ringraziò perché avevo scelto di fotografare il ciclismo. Non capii subito. Per lei era un modo per dirmi che grazie a quelle fotografie aveva scoperto qualcosa che prima ignorava. È mia madre e probabilmente avrebbe apprezzato qualunque cosa facessi. Però mi piace pensare che quelle parole fossero sincere e che ciò che facciamo abbia davvero questo potere». Per questo, racconta Chiara, vale la pena di correre qualche rischio.
«Anche con questo impari a fare i conti col tempo. Preferisco non avere alcuna foto, piuttosto che avere una fotografia uguale a quella di tutti gli altri. Penso che la possibilità di essere nella bolgia che tendenzialmente si crea dopo il traguardo vada sfruttata al meglio. Per me sfruttarla al meglio significa mostrare ciò che gli altri non possono vedere. Essere i loro occhi». Quella bolgia che, in tempi di Covid, si fatica anche ad immaginare. «Quando mi sono ritrovata sul Poggio, a Sanremo, da sola, nel silenzio, ho provato una malinconia, una forma di angoscia. Avevo trovato l’angolo giusto e la luce perfetta, ma mancava tutto il resto. Le persone che troviamo ai bordi della strada sono una parte essenziale di questo lavoro, senza di loro anche fotografare diventa difficile. Il ciclismo è sempre stata la mia festa preferita e non avrei mai pensato che si potesse arrivare a questa situazione. Dobbiamo adeguarci ed avere pazienza, le cose torneranno come prima». C’è qualcosa che si può fare nel frattempo, con o senza macchina fotografica, e Chiara Redaschi lo sa bene. «Alla fine noi poniamo attenzione a determinati aspetti piuttosto che ad altri per una questioni di abitudine. Questo è il momento per aggrapparci a ciò che ci resta e tenerlo stretto. Per comprendere ciò che non avevamo mai compreso».