Si era parlato così tanto di fughe, di fuga, che stamani pareva proprio che il primo scatto, quello sulla sinistra del plotone, appena sventolata la bandierina del via, per intenderci, dovesse essere quello buono, quello giusto. Invece no. Per lasciare andare la fuga, ci sono voluti quasi cento chilometri, quasi due ore di corsa, c’è voluta una discesa, mentre tutti ci provavano sugli strappi. Stasera non parlate di fuga “lasciata andare” a De Marchi, Scotson, McNulty, Cepeda, Healy, perché loro quella fuga l’hanno inseguita per minuti e minuti, in una nebbiolina di umidità insistente, ma, oggi, non era la loro giornata. Delicato equilibrio quello fra “inseguire” e “lasciare andare”. Vero che il gruppo lascia andare la fuga con Andreas Leknessund, Aurélien Paret-Peintre, Toms Skujiņš , Vincenzo Albanese e Nicola Conci, fra gli altri, altrettanto vero che tutti coloro che ci avevano provato prima hanno a loro volta lasciato andare, non solo la fuga: la stessa idea di fuga, lo stesso ideale. Forse la parte più difficile. Certo anche che Leknessund e Paret-Peintre, il primo maglia rosa a Lago Laceno, il secondo vincitore di tappa, hanno inseguito la possibilità di essere lasciati andare, hanno inseguito il respiro quieto del gruppo, che mette la mantellina, torna alle ammiraglie, mangia, beve, molla la presa.

Inseguire, ovvero i battiti che aumentano, il rapporto più duro, le gambe che girano veloci e l’acido lattico che assale, oppure lasciare andare, respirare, alleggerire la pedalata e pensare a domani: equilibrio, legame stretto, talvolta imposizione con cui fare pace, altra scelta difficile, seppur senza possibilità. Prendete Bruno Armirail: quanto insegue la fuga ormai partita? Quanto ci crede, mentre è da solo e la vede avvicinarsi? Inseguire è speranza, forza, lo si intuisce. Più difficile è capire che lasciare andare non è da meno. Siamo tutti Armirail, forse, soprattutto, nel momento in cui ha detto basta, si è arreso e ha pensato che ci riproverà. Un atto di coraggio. Lasciar andare è anche questo, oltre a lasciar andare una maglia, quella rosa, come fa Evenepoel: solo che di Evenepoel dicono tutti che la ritroverà, che è ovvio, quasi certo, di Armirail non lo dice nessuno. Deve saperlo e crederci da solo: capite che è diverso, non paragonabile.

Nicola Conci insegue quello scatto, sulla salita di Colle Molella, anche se apparentemente sono gli altri a inseguirlo. Conci prima insegue lo scatto, poi lascia andare. Albanese fa il contrario: prima lascia andare, poi insegue. Warren Barguil lascia andare e basta, dopo una fuga così lunga, dopo aver inseguito quella stessa idea per tanti chilometri e probabilmente aver avuto anche buone sensazioni, altrimenti non sarebbe stato lì davanti. Il modo più difficile di lasciare andare: quello in cui credevi, quello di cui ti eri illuso o di cui il tuo corpo ti aveva illuso.

Andreas Leknessund, solo qualche tempo fa, si chiedeva: «Chissà se un giorno lotterò per la generale di un Grande Giro». Non lotterà per la generale, ma la maglia rosa l’ha addosso e non ci pensava neppure lui, forse. Il suo è un inseguimento in due tempi: dapprima nel gruppetto all’attacco, cercando anche di non dare troppo peso a quella maglia rosa virtuale, per non cadere nelle illusioni e farsi troppo male, poi attaccando e spingendo la bicicletta, persino con i denti, per evitare brutti scherzi, da quel gruppo tirato dalla Ineos. Anche Aurélien Paret-Peintre, che a Lago Laceno vince, ha lasciato andare, per qualche attimo, ha lasciato andare Leknessund e lo ha ripreso. Qualcosa vorrà pur dire, forse che, come ci sforziamo di inseguire, dovremmo imparare a lasciar andare, senza vergognarcene, perché si può vincere lo stesso. Oppure semplicemente perché nella quotidianità non è solo vincere che conta.

Andreas Leknessund, dalla Norvegia, pallido e colorato solo dallo sforzo e dalle sensazioni, ha inseguito tutto il giorno quell’idea, quella della maglia rosa di cui sistema anche il colletto. Al traguardo, ha pianto, felice. Ha lasciato andare tutto quel che c’era dentro. Anche lui.