«Ho visto van der Poel, ho visto van der Poel». Erano i primi giorni di marzo, sugli sterrati senesi, quando un ragazzo, tornando verso la propria famiglia, ha gridato così. E noi abbiamo ripensato al mare di Napoli e a chi a centinaia di chilometri di distanza, tanti anni fa, ha gridato: «Mamma, mamma ho visto Maradona». Non ci sono paragoni da fare. Chissà se, con tutte le persone che accorrevano per vedere Maradona, qualcuno lo vedeva davvero. O forse immaginava di vederlo, ne intuiva i lineamenti. Come con i ciclisti perché nel folto del gruppo, spesso, tocca immaginarli, non potendoli distinguere bene. Ma basta una vana somiglianza e tutti sono certi di quello che hanno visto e lo raccontano.
C’era un vento assassino nel giorno del passaggio nei luoghi del terremoto, al Giro d’Italia, roba che nemmeno gli striscioni dei Gran Premi della Montagna erano saldi. Ricordiamo i capelli bianchi di quel signore che tracciava la linea del Gran Premio, arruffati dal vento, gettati all’indietro. Ricordiamo la sua giacca che continuava ad aprirsi, sotto i colpi dell’aria. Perché tutti danno per scontato che lì ci sia la vetta e quasi nessuno si interroga su chi abbia tracciato quella linea o posizionato quello striscione. Su cosa sia per queste persone una gara ciclistica. Loro che il ciclismo lo vivono distrattamente, pieni di sudore o d’acqua. Forse più che vederlo lo intuiscono come chi fa un lavoro di fatica per permettere agli altri di divertirsi.
Quello stesso vento, di giro in giro, era arrivato sopra al Ventoux, all’Osservatorio, in un giorno di luglio al Tour de France. Lì, Blanchard, nome quasi omaggio al bianco lunare di lassù, era salito con amici. Le loro biciclette le trovavi quasi aggrovigliate in un angolo. Sulla sue spalle una sacca, una borsa. “Il mezzo per andare dove vuoi e un sacchetto con le poche cose per poterci restare”. Nello zaino di qualcuno lì vicino dei vecchi giornali.
“A cosa vi servono?”
“Guardiamo le foto e cerchiamo i punti esatti in cui sono scattati i ciclisti per cui abbiamo tifato”.
Roba da matti, verrebbe da dire. Soprattutto con quella polvere che entra negli occhi e li fa bruciare. Loro, però, hanno continuato e a giudicare dall’entusiasmo qualche punto devono averlo trovato. Poi hanno visto van Aert e non c’era più bisogno di cercare nulla.
Perché servono le visioni e servono i ricordi.
Ferruccio, un attempato tifoso di Colbrelli, incontrato mentre mangiavamo una piadina al Campionato Italiano ci disse che, da ragazzino, andava al cantiere dove lavorava suo papà a vedere il mestiere dei muratori e quando tutti gli dicevano che stare lì, sotto al sole o al gelo, gli avrebbe fatto male, lui rispondeva che suo papà era cresciuto in strada, suo nonno anche e chissà indietro nel tempo quanti altri. Forse avevano qualche ruga in più, ma erano felici e lui voleva diventare come loro. Colbrelli che, dopo tanti tentativi, ha vinto ciò che ha vinto, è come Ferruccio. E noi, che su quelle strade abbiamo sempre avuto il gusto di tornare, non siamo poi tanto diversi.