Se il ciclismo fosse teatro, il Mont Ventoux sarebbe un palcoscenico da sogno. Con quella specie di pennacchio messo in alto a incorniciare la scenografia, la stele, la ghiaia, la vegetazione che via via scompare ad atterrire pubblico e interpreti. Una Broadway francese d’alta montagna, per chi passa tutta la vita a immaginarsi di interpretare un musical, anche se oggi la musica al massimo i corridori la sentiranno per rilassarsi un po’ nel fresco (si spera) delle loro camere da letto.

Se Il ciclismo fosse teatro, Alaphilippe sarebbe il più geniale degli improvvisatori. Il ruolo dell’istrione sarebbe perfettamente ritagliato su quella faccia che, non le abbiamo contate a dir la verità, mentre era in fuga avrà assunto almeno un centinaio di migliaia di espressioni differenti. Nei giorni scorsi raccontava di non conoscere bene il Ventoux, di come non abbia potuto fare la ricognizione perché stava per nascere il figlio proprio in quei giorni, ma oggi si è fatto guidare dall’intuizione, tipica degli artisti. Ha interagito con il pubblico: tipico elemento della Commedia dell’Arte. Peccato abbia ceduto, ma il terzo atto prevedeva altri protagonisti.

Wout van Aert, invece, sarebbe quell’attore che interpreta decine di ruoli diversi: l’antagonista se c’è di mezzo van der Poel, col quale lotta e poi rilancia, l’aiutante di Roglič, il trattore su ogni terreno, il ciclocrossista, il velocista, il cronoman, l’uomo di classifica, quello del Nord, lo scalatore, il protagonista: dategli una mansione da svolgere e lui vi farà vedere come si fa. Alla perfezione. Oggi ha persino asfaltato e spianato, ha mostrato a tutti che cos’è l’indole del campione. Abbiamo pensato fosse pazzo, lo abbiamo fatto in maniera sincera, ma lui, forte e genuino, è stato semplicemente geniale. Voleva dimostrare e ha dimostrato.

Se il ciclismo fosse teatro, noi saremmo spettatori privilegiati di quest’epoca. Non resta che alzarci dal nostro posto e applaudire allo spettacolo.