Il riscatto di Sacha Modolo

Era estate e molti amici di Sacha Modolo, terminata la scuola, avevano da mesi iniziato a lavorare in fabbrica: i primi guadagni, i primi stipendi e le prime vacanze, magari in discoteca a divertirsi. Modolo correva in bicicletta da qualche anno, nessun guadagno o ben poco e le ferie poteva scordarsele perché in quei mesi c’erano le gare. Decise così di dire ai genitori che avrebbe smesso e sarebbe andato a cercare lavoro in fabbrica. «Quel giorno mio nonno ci vide lungo. Mi disse: “Se vuoi andare a lavorare, domani mattina vieni con me”. Nonno consegnava bibite ai privati e ai bar. Era tutto un caricare e scaricare da quel camioncino. A sera lo guardai e: “Ho capito, torno a pedalare”».
A Sacha Modolo non è mai mancato nulla a casa, ma la sua era una famiglia umile, una di quelle famiglie che certe cose non avrebbe mai potuto permettersele. «Ho saputo che la prima bicicletta ce l’hanno regalata, altrimenti non avrei potuto comprarla” racconta, mentre parla della sua indole da ragazzo. In Veneto si dice “remengo” e vuol dire scalmanato, irrequieto. Quel ragazzo si è riscattato con il ciclismo: «Non mi sono mai sentito arrivato, ma, se fai un certo percorso e ti accade quello che è successo a me, lo vivi come un riscatto. Senza il ciclismo avrei conosciuto solo il mio paese e la mia vita sarebbe finita lì. Succede a tanti».
Negli ultimi anni qualcosa era cambiato. Modolo lo ammette, si era un poco spento e pensava di smettere più che di continuare. Anche a casa diceva quello che aveva sempre detto: «Quando smetterò non ne farò una malattia e del ciclismo non ne vorrò più sapere». Eppure di ciclismo parlava sempre. Sua moglie glielo ha detto: «Mostri tanto distaccamento per questo mondo, ma in realtà pensi solo alla bicicletta». E Sacha non nasconde che la verità è proprio quella.
Dal 2018 una serie di problemi fisici lo hanno bloccato. C’è voluto tempo prima di capirne la causa, nel frattempo si brancolava nel buio. La sua è la storia di chiunque attenda un esito che non arriva. «All’inizio non ho pensato a nulla di tragico. Anche da ragazzo mi allenavo poco e riuscivo a vincere. Prima mi sono detto che dovevo cambiare allenamento, poi che gli altri andavano di più e non potevo farci molto». Fino a che Modolo inizia a mangiare sempre meno, forse anche poco. Uno stato di infiammazione molto forte che mette preoccupazione: «Ho temuto fosse qualcosa di più grave. Poi ho iniziato a curarmi ma per stare meglio è servito molto tempo». Una crisi arrivata proprio quando stava iniziando a capire che tipo di corridore era: tutti lo hanno sempre trattato come un velocista, lui avrebbe voluto essere qualcosa di diverso. Quel sesto posto al Fiandre lo racconta bene. «Quando Pengo mi chiese la prima volta che pressione delle gomme tenere sul pavé, mi venne da ridere. Non sapevo nulla di questi dettagli. Capii che avevo ancora tanta pastasciutta da mangiare. Marcato mi aiutò».
C’è l’esperienza degli anni passati e un cerchio che si chiude col ritorno in Bardiani Csf-Faizanè. Modolo è ritornato quel ragazzo, quello che vuole tornare a vincere, non importa dove. Che vuole decidere da solo dove e come dire basta. «Molti mi dicono che avessi avuto una testa diversa avrei vinto di più. Forse o forse avrei vinto meno. Certe volte bisogna anche accontentarsi. Non ho rimpianti e questo mi basta».
Se guarda avanti sa che, comunque vada, la fine della carriera si avvicina. Non ha paura, forse qualche nostalgia: «Tutto questo mi mancherà perché sono stato fortunato. In bicicletta si fa fatica al massimo per sei, sette ore. Nelle ditte ci sono persone che fanno otto ore per molto meno e fanno più fatica di noi. Dobbiamo rispettarle. Ma non mi spaventa rinunciare a questo. Ho paura che mi manchi la bicicletta, quello sì».


Un'idea di giovani: intervista a Roberto Reverberi

«Continuiamo semplicemente a fare ciò che abbiamo sempre fatto, solo anticipando i tempi» esordisce così Roberto Reverberi, direttore sportivo della Bardiani CSF-Faizanè quando gli chiediamo degli otto ragazzi, tra cui due juniores, che la squadra ha aggiunto all’organico nell’ambito del progetto giovani. «Parliamo di atleti da proiettare tra i professionisti passo dopo passo. Anche sulla spinta dei procuratori, se non si agisce prima, questi ragazzi giungono subito in squadre World Tour o in Continental satellite. Da lì, il rischio temo sia quello di bruciarli».
In quarant’anni di questo lavoro, Reverberi ha visto le cose cambiare: «Una volta, passavano in pochi, probabilmente con un talento più pronunciato sin dall’inizio. Oggi il professionismo ha alzato di molto l’asticella. Questi otto ragazzi non devono dimostrare nulla, non chiediamo vittorie o risultati. Li sgraviamo da ogni pressione. Vogliamo solo professionalità massima, soprattutto per loro. Perchè questi treni passano una volta sola e non si possono lasciare scappare. È importante che lo capiscano».

Per i grandi risultati, invece, bisogna attendere e l’attesa, per Reverberi, è opportunità e consapevolezza. «Sanno che hanno la squadra a loro disposizione in ogni momento, se dimostrano di stare bene. Sanno anche che alla loro età il risultato principale è la continuità, non il picco. Purtroppo questo è un momento difficile. Senza gare fuori dall’Europa, a causa della pandemia, non c’è quasi più la possibilità di confrontarsi con un livello più tranquillo, ma ci si va subito a scontrare con squadroni e performance di altissimo livello. È necessario affrontare quelli più bravi, perchè quella è la realtà del ciclismo, ma servono anche le gare in Cina o in Malaysia perché ti danno morale. Ti consentono di continuare a lavorare mentre aspetti di essere all’altezza».
Nella scelta dei ragazzi, Reverberi ha osservato coloro che se la cavavano da soli e che erano sempre fra i primi pur, magari, non essendo in squadre molto blasonate. «Nelle squadre molto forti, vincono anche atleti che magari non vincerebbero in team minori. Li aiuta la tattica, li aiuta il controllo della gara. Se un ragazzo, da solo o quasi, riesce a farsi valere merita questa possibilità. Sono minimo tre anni di contratto, per provarci. Potremmo fare anche meno, perché per vedere il talento puro bastano tre mesi. Noi aspettiamo, non abbiamo fretta. Non serve diventare campioni o fare cose straordinarie. Per qualcuno ci vuole più tempo e glielo diamo».

La considerazione si sposta sui ragazzi più giovani, gli juniores, che hanno ancora un percorso scolastico in essere. «Faranno una quarantina di gare, non di più. La priorità è lo studio. Tutelarli significa anche questo». Qui si apre una parentesi importante e Reverberi vuole fare chiarezza, soprattutto in merito alla discussione sull’opportunità del passaggio nel professionismo di ragazzi così giovani: «C’è un buco normativo, solo in Italia tra l’altro. Il regolamento in essere risale a quando le squadre si dividevano tra dilettantistiche e professionistiche, per questo non prende in considerazione le Continental. Questi ragazzi, correndo con le Continental, potrebbero tranquillamente correre con i professionisti senza problemi. Si ritiene, invece, che non possano passare professionisti in quanto, in Italia sono richiesti due anni da Under23 per il passaggio. Non dico sia sbagliato, dico che le norme dovrebbero essere uniformi». Non finisce qui, perché l’accento Roberto Reverberi lo sposta proprio sulla tutela dei giovani: «Offriamo un salario minimo dei team Professional che altrimenti non avrebbero. Cerchiamo di preservarli. Credo sia necessario un adeguamento della norma. Le cose cambiano e le norme devono riconoscerlo».

Di consigli se ne potrebbero dare tanti. L’ambiente aiuterà perché, oltre ai direttori sportivi, in squadra ci saranno uomini di esperienza a supporto. Reverberi non fa nomi. Dice che non ha senso, soprattutto per non creare quelle pressioni di cui tanto si parla. «Tranquillità e lavoro sodo devono andare di pari passo. Voglio che questi ragazzi imparino a considerare ogni gara a cui parteciperanno come quella giusta da vincere. Spesso guardano troppo in là, selezionano i traguardi. Non si fa. A questa età ogni volta in cui sei in corsa devi provare a vincere. È un punto di partenza, si lascia da parte ciò che si è già fatto nelle categorie minori e si riparte. Nella vita bisogna saperlo fare. Impararlo a vent’anni è importante».


Di riforme e futuro sulla strada: intervista a Giovanni Visconti

Giovanni Visconti ha le idee chiare in merito alla recente riforma del Codice della Strada: «Sento dire che è ancora tutto uguale a prima, non è vero, si sbagliano. È peggio di prima, molto peggio. Ogni giorno si continua a morire sulle nostre strade, eppure si sceglie ancora una volta di non fare nulla. Restare immobili di fronte a una situazione di questo tipo è terribile». Il siciliano ammette pochi minuti dopo che, purtroppo anche in lui, si sta facendo strada la rassegnazione. «È sbagliato, lo so bene. È sbagliato perché ci sono persone che su quella strada hanno perso figli, genitori, fratelli. In quella rassegnazione di cui ti parlo c'è tutto il dolore e la rabbia per l'immobilismo di fronte a queste situazioni. C'è chi continua a lottare per una strada più giusta dopo la perdita di un figlio e chi, potendo cambiare, fa altre scelte, si pone altre priorità. Alla fine, ti rassegni perché fa male».

Nella riforma non si parla di zona 30 in città, non si parla di distanza minima vitale per il sorpasso di un ciclista oppure di ritiro della patente per l'uso del cellulare alla guida. Visconti ha qualcosa da aggiungere: «Di queste cose non si dice nulla, ma anche delle cose di cui si parla, si parla a vuoto. A me sembrano norme vuote, che, alla fine, non porteranno nulla, non saranno applicate. Faccio una domanda: si parla di sanzioni per l'uso di tablet alla guida ed è giusto. A parte il fatto che trovo assurdo che la sospensione scatti alla seconda violazione nel corso di un biennio, vorrei capire quante multe si fanno ad oggi per l'uso del cellulare alla guida, situazione già normata. Mi sembra che si punisca troppo tardi. Magari dopo incidenti gravi. Vedo ogni giorno persone che usano il cellulare in auto. Le persone continuano a usare il cellulare in auto perché non sono attente, perché non capiscono ma anche perché non hanno abbastanza timore della sanzione. Dovrebbe bastare il buon senso e il rispetto degli altri utenti della strada, ove non basta servono più controlli e più sanzioni. Sia chiaro, vale anche per noi ciclisti. Perché non si passa col rosso, non si sta appaiati in mezzo alla strada, non ci si distrae. Personalmente richiamo sempre all'attenzione i ciclisti che pedalano con me».

Discorso simile, Giovanni Visconti lo apporta quando si parla del metro e mezzo di distanza. «L'iniziativa dei cartelli è lodevole ma senza controlli, senza sanzioni non andiamo da nessuna parte. Mettere cartelli e ignorarli è un'ulteriore mancanza di rispetto nei confronti di padri come Marco Cavorso che non rivedrà più suo figlio. La sensazione di non essere considerati come ciclisti l'abbiamo ogni giorno. L'altro pomeriggio, in una galleria, al buio, un camion, a velocità elevata, mi ha fatto il pelo. Una volta mi sarei arrabbiato, l'avrei mandato a quel paese. Oggi ringrazio solo di tornare a casa senza essermi fatto male». Il punto è sempre lo stesso, la strada è un luogo sempre più caotico, dove si scatena il nervosismo di ognuno. Visconti ha posto una regola a tutti coloro che escono ad allenarsi con lui: «Non voglio vedere persone che urlano o mandano a quel paese l'automobilista, il camionista o l'incivile di turno. Non voglio vederle perché tanto così non cambiamo nulla e anzi accresciamo solo quella rabbia che si vive in strada, oltre a rischiare che, di parola in parola, poi ci si metta a litigare e ci si faccia ancora più male». Certo questo non vuol dire che vada tutto bene e che si debba continuare così. «Perché non c'è una pubblicità in televisione che parli di questo? Magari alla sera mentre tutti si è sul divano. Che faccia riflettere su questo tema. Perché nelle scuole non c'è un'ora di educazione stradale? Non credo sia impossibile inserirla fra le materie».

Il ciclista della Bardiani Csf-Faizanè è completamente sfiduciato rispetto alla propria generazione, crede invece nelle generazioni future. «Noi non cambiamo più. I bambini invece assorbono tutto e non devono captare questi comportamenti. Sono loro a dirci che non si usa il cellulare in auto, che non si gettano le carte per strada, a correggere i comportamenti sbagliati che portiamo avanti da anni. Parliamo di questo nelle scuole, se vogliamo avere una strada diversa».

Qualche tempo fa, il figlio di Giovanni gli ha confessato di avere paura quando lo vede uscire per gli allenamenti. «Cosa puoi rispondere? Ha ragione. Se si pensa che io stesso, ciclista, ho paura a farlo andare in bicicletta con gli amici, ci si rende conto dell'assurdità della situazione. È triste perché la bicicletta è una delle più grandi scoperte per tutti i bambini». Anche questo, per Visconti è un discorso di cultura. «L'altro giorno ho rimproverato mio figlio: gli chiedo sempre di mettere il casco, ho visto che lo aveva ma sul manubrio, non in testa. Mi ha detto di non averlo indossato perché altrimenti gli altri bambini lo prendono in giro. Non è colpa dei bambini ma dei genitori: tutti ci fidiamo dei nostri figli, il casco serve per proteggerli dai comportamenti errati altrui, perché lo facciamo percepire come un di più?».

E si ritorna alla capacità di percepire le esigenze altrui. «Ogni volta che parlo di questi temi ho la netta sensazione che sarò ascoltato e compreso solo da ciclisti che vivono le stesse problematiche, come se agli altri non interessasse. È grave. Purtroppo, quando senti parlare di riforme e poi leggi queste cose, la percezione si amplia».


A piccoli passi: intervista a Filippo Zana

Mancavano pochi chilometri all'arrivo della prova in linea per Under 23 dell'Europeo di Trento, quando Filippo Zana rompeva gli indugi. In Piazza del Duomo la gente si affollava davanti al mega schermo e si sentiva il boato della folla: tutto questo per aver visto le maglia azzurre davanti.

Il suo scatto faceva saltare la corsa come quando lo spumante cerca di uscire dalla bottiglia. Gli spagnoli, fin lì padroni del gruppo come cattivoni di un b-movie, si facevano da parte. Davanti restavano in sette.

«Baroncini e io stavamo bene» mi racconta Zana giorni dopo, soddisfatto per come è andata la corsa, nonostante il piazzamento finale: Baroncini 2° e Zana 6°. «Ho fatto il forcing: meno corridori fossimo rimasti lì davanti e più possibilità di medaglia avremmo avuto. Io non sono molto veloce, sono un passista scalatore e amo fare la differenza su salite di massimo 6/7 chilometri. Ho provato di nuovo la sortita arrivando in città. Alla fine non è andata male, una medaglia che ci dà fiducia per il futuro».
A sorprendere tutti Thibau Nys, che fa base nel ciclocross, ma mostra da tempo eccellenti qualità su strada e allo sprint. «Fare ciclocross ti dà qualcosa in più - afferma sempre Zana – l'ho praticato da ragazzo e quest'inverno tornerò anche io a sporcarmi nel fango. Parteciperò a qualche corsa per fare fatica e prendere freddo; per affinare il motore quell'ora che fai fuori soglia è tutto un guadagno quando riprenderai l'attività su strada».

Arriva dalla provincia di Vicenza, Zana, fa parte di quella classe '99 che tanto pare possa dare al ciclismo italiano. I suoi genitori hanno una birreria e lui ama i cavalli. Un doppio binomio: birra-fatica, cavalli-ciclismo che pare scritto apposta. «In realtà io sono la pecora nera degli Zana: da noi ha sempre dominato il calcio. Però i cavalli sono stati una parte della nostra famiglia. Me ne sono comprato uno qualche anno fa con i risparmi, le paghette, i premi vinti da ragazzo. Si chiama Vior; l'ho preso che si chiamava così e gli ho lasciato il nome: dicono che ai cavalli non vada cambiato». D'inverno, racconta, va nei boschi a fare legna per mantenere la forma fisica e Vior è sempre con lui.

Se scrivesse un programma politico, il suo impegno avrebbe un motto: "A piccoli passi". Dice di aver scelto di restare un altro anno in Bardiani-CSF-Faizanè perché è la realtà perfetta per uno come lui, perché se avrà la possibilità di passare nel World Tour vorrà essere pronto al 101% e qui trova lo spazio giusto per crescere con calma. «Se fai il passo più lungo della gamba rischi di bruciarti. Guarda tutti quei ragazzi che passano da junior a professionisti. Te lo puoi permettere se sei Evenepoel, ma se non sei un fenomeno cosa fai? Sbagli un anno e rimbalzi indietro e magari nemmeno una Professional ti vuole più».

Sesto all'Europeo, terzo all'Avenir, vincitore della classifica finale del Sazka Tour in Repubblica Ceca, risultati tutti ottenuti con la nazionale Under 23: la maglia azzurra lo gratifica, e lui vuole portarla in alto. «A inizio stagione con Amadori (il CT della nazionale Under 23, N.d.A.) ci siamo parlati e abbiamo programmato la stagione così. Che dite, secondo voi ho ripagato la fiducia?».
Vorrebbe far scorrere tutto il possibile sotto le sue ruote: ama la Roubaix, sogna la classifica in un Grande Giro («devo migliorare a cronometro e sulle salite lunghe, ma mi sono accorto di avere buone doti di recupero»), ma quest'anno l'infatuazione più grande è arrivata alla Strade Bianche. «Sullo sterrato e sugli strappi mi sono divertito un mondo. Certo che van der Poel ha fatto quello che voleva».

Racconta di non avere un proprio punto di riferimento in gruppo, ma di captare segreti da ognuno: «Ma soprattutto cerco gli errori per non commetterne in futuro io stesso». Si allena guardando watt e dati, ma in gara si lascia trasportare dalle sensazioni. Se pensa al ciclismo pensa al sacrificio, agli allenamenti, al “non si molla mai un metro”: freddo, pioggia o caldo che sia. Ma soprattutto, sostiene, il massimo è la soddisfazione che ti dà una vittoria. E prima o poi, a piccoli passi, arriverà anche quella importante.

Foto: Bettini


Un giorno sul lettino dei massaggi

 

Michele De Biasi, il massaggiatore della Bardiani Csf Faizanè, è sempre stato un attento osservatore. Ha capito così che tutto, ma proprio tutto, passa dai dettagli. Soprattutto ha capito che bisogna avere il coraggio di credere ai dettagli anche quando sembrano una parte trascurabile del tutto. «Quando arriva da te, sul tuo lettino, un ragazzo che ha fatto duecento chilometri in bicicletta c’è una cosa che devi fare prima di tutte le altre. Una domanda, l’unica che hai il dovere di porre: come stai? Chiedere come sta con la vera volontà di conoscere il suo stato fisico ed il suo stato d’animo, è importantissimo. Te lo dirà? Alcuni si aprono e ti raccontano, altri non hanno voglia. Si tratta del carattere e della giornata. Non conta, tu devi chiederlo. Poi capirai iniziando a massaggiare, se ti ha detto la verità oppure no. Quando li conosci, i muscoli ti dicono tutto. Quella domanda però è importante perché permette al ragazzo di aprire una porta e di raccontare. A lui la scelta». De Biasi spiega che dopo quella domanda lascia che siano i ragazzi a scegliere come gestire quei quarantacinque, cinquanta, minuti di massaggio, perché «è giusto così». Una frase breve, secca, che viene subito ripresa e specificata.

«Tecnicamente tutti ti diranno che il massaggio serve per disintossicare i muscoli, per togliere le tossine e favorire il recupero muscolare dell’atleta. Vero, un massaggio ben fatto si percepisce subito. Se parli con un corridore affaticato prima e dopo il massaggio, ti descriverà sensazioni diverse. Il punto è che ci sono tossine tipiche dei muscoli e tossine tipiche della mente. Per recuperare da quelle, solo tu sai ciò che ti fa bene. Per alcuni è necessario parlare, sfogarsi, per altri basta il silenzio. In generale io dico che aiuta molto la leggerezza. Spesso non si capisce a fondo quanto anche una battuta possa fare bene. Il segreto è staccare la spina per “disintossicare” anche la mente».

De Biasi è arrivato al ciclismo solo quattro anni fa, per un caso, come per un caso era arrivato alla massofisioterapia dopo aver fatto studi da elettricista. «Tutti ti dicono: guarda che è tutto diverso, guarda che farai fatica, pensaci bene. Tu li ascolti ma, se sei come me, una volta che hai deciso non cambi più idea. Questo non significa che non abbia mai pensato di aver sbagliato o di tornare indietro. Ci ho messo un anno e mezzo ad ambientarmi, a capire ciò che era accaduto». In Bardiani lo chiamano Hellas: «Perché sono tifoso del Verona ma soprattutto perché ho lavorato con la squadra. Io arrivo dal calcio e dalla pallavolo. Sì, si tratta sempre di sport ma cambia tutto». Da un punto di vista mentale ma anche da un punto di vista tecnico.

«Dipende sempre dall’ambiente ma nel calcio, generalmente, avvertono il tuo lavoro quasi esclusivamente come un lavoro. Questi ragazzi sono proprio bravi, ti danno spazio, riconoscono il tuo spazio e ti ringraziano sempre. Alcuni ti chiedono anche qualche foto perché vogliono raccontare chi sei. Ti sono riconoscenti. Quelle foto le tengo da parte e le faccio vedere con orgoglio ai miei amici. In pubblico non le mostro, no. Si tratta di una forma di pudore e di rispetto. Prima parlavo della conoscenza che ti permette di capire molto senza chiedere. Ecco, la conoscenza passa anche da queste piccole forme di rispetto e di attenzione».

Poi ci sono le differenze che riguardano i tre sport. «Nel calcio il massaggio è tendenzialmente meno importante, c’è anche il cambio ritmo ma è più che altro corsa in linea. Alcuni calciatori non si sottopongono nemmeno sempre ai massaggi, sentono la necessità di terapie fisiche strumentali per traumi e tendiniti: laser, tecar e ultrasuoni. Discorso simile vale nella pallavolo per i bendaggi: gli atleti sono esperti e spesso provvedono autonomamente almeno per quanto riguarda le mani. Noi li aiutiamo con le caviglie. Il resto è riservato a trattamenti di scarico, consideriamo che si allenano tutti i pomeriggi e per almeno due mattine fanno pesi in palestra. Capisci la differenza con una gara a tappe? Cambia tutto».

Parlando di corse a tappe, De Biasi ritorna sulla conoscenza. «Non è facile lavorare su un corridore che non hai mai massaggiato. Se ti capita, lo fai ma sarebbe meglio avere affinato una certa conoscenza. Il massaggio è fatto anche di piccoli dettagli e di minuscole cure che il singolo gradisce. Scoprirlo in una corsa a tappe, in un momento difficile, non è l’ideale». I pre-ritiri sono l’ambiente in cui affinare questi dettagli, ma sono anche il luogo della sincerità e dell’accettazione. «Può succedere che un corridore si trovi meglio con un mio collega. Non deve diventare un fatto personale. Credo che tutti siamo qui per aiutare questi ragazzi, noi siamo il dietro le quinte. Non deve esserci invidia. Al primo posto c’è la squadra e perché la squadra funzioni bene è indispensabile la serenità dei singoli. Non può esserci serenità se i rapporti sono forzati o se non si ascoltano i bisogni dei corridori. Massaggiare è ascoltare, quando si ascolta, si capisce. Poi serve l’umiltà di scegliere e lasciar scegliere».

Foto: Paolo Penni Martelli


I sogni leggeri di Umberto Marengo

Umberto Marengo ricorda molto bene i giorni d’estate della sua infanzia. Nonno usciva presto con la bici, andava in edicola, comprava il giornale, faceva un giro in paese e poi tornava a casa. Dopo pranzo si sedeva con lui sul divano e aspettava la sigla d’inizio del Giro. «Vedevo quella macchia di colore sulle strade e mi immaginavo di essere lì». Marengo ricorda come le volate di Mario Cipollini riuscivano a tenerlo incollato allo schermo. «Da ragazzino avevo i suoi poster in camera. Chi avrebbe mai pensato di poterlo incontrare? Mi piacerebbe passarci una settimana assieme, solo per stare ad ascoltarlo. Avrei tante cose da farmi raccontare».

Quando invece pensa alle salite, pensa allo Stelvio e ad Alberto Contador. «Forse non dovrei nemmeno dirlo perché non sono uno scalatore puro e quando la strada sale faccio abbastanza fatica. Ma credo sia per questo che Contador mi ipnotizzava con la sua pedalata. Lui non saliva, lui danzava sui pedali. E poi aveva tanta fantasia, di quella fantasia leggera, da potersi permettere di inventare qualsiasi cosa». La famiglia di Umberto è appassionata di ciclismo, papà operaio e mamma maestra, ma, quando si tratta di scegliere uno sport, il ciclismo è la scelta più difficile. «A otto anni sono entrato nella mia prima squadra. Forse i miei avrebbero voluto facessi altri sport».

Nonno c’è sempre e, se non può seguirlo nelle trasferte più lontano da casa, appena Umberto è vicino corre a vederlo. «Mi chiamava a fine gara e riusciva a farmi star bene anche quando ero deluso. Purtroppo è mancato due anni prima che diventassi professionista. Ero il suo orgoglio, il suo nipote ciclista».

Il fratello di Umberto ora è un cuoco ma, per un anno, ha corso assieme a lui. I loro caratteri sono diversi e, forse, Umberto non poteva che avere il suo carattere per diventare professionista. «Un conto è ciò che vuoi fare, un conto è quello che ti accade. Ci ho creduto solo quando ho firmato, in alcuni momenti, per quanto mi intestardissi, mi sembrava impossibile». Sono tempi difficili: Marengo resta dilettante e torna a casa alla sera deluso, amareggiato, talvolta con l’idea di rinunciare. Gli amici gli dicono che forse dovrebbe cambiare strada, lui non vuole ma capisce che così non si può andare avanti. «Ho provato ad andare a letto con l’idea di buttare tutto all’aria, certo. Ma al mattino mi alzavo più convinto di prima».

Se Marengo parla in un certo modo della fuga è anche per il suo vissuto. «È la mia chiave di lettura del ciclismo: un modo per migliorarsi e mostrare che ci sei». Certo, perché quando ci metti tanto a conquistare qualcosa e sembra sempre che ti sfugga via, poi hai più paura di chiunque altro all’idea di svegliarti di nuovo a mani vuote. L’altro sostantivo per parlare di ciclismo è la furbizia. «Sono furbo. Riesco a risparmiarmi e ad attaccare nel momento giusto. Nelle volate ristrette questa dote è fondamentale».

L’altro giorno parlava con Giovanni Visconti e si dicevano che ormai è il loro terzo anno assieme. Marengo ha fame di imparare e appena parla di un compagno più esperto questo sentimento torna forte, per Enrico Battaglin ad esempio. «La Bardiani Csf Faizanè condensa tutto ciò che potevo immaginarmi del ciclismo. Ora so come ci si sente, mi immedesimo in ogni corridore quando vedo una corsa. Ora comprendo la fatica oltre l’impresa». Sorride quando gli chiediamo di proiettarsi in avanti e di immaginarsi fra cinque o sei anni e ritornano tutti i sogni semplici di un ragazzo alla mano. «Ho sempre sognato di correre la Milano-Sanremo e l’ho già corsa più di una volta. Sì, forse vorrei far bene al Giro d’Italia, magari vincere una tappa. Ma non chiedo poi molto. A me basterebbe restare qui, in questo ambiente. Ed essere una di quelle maglie colorate in mezzo al gruppo. Chissà quanti altri bambini a casa vedono le corse con i nonni e vogliono immedesimarsi. Non voglio altro. Davvero».

Foto: Paolo Penni Martelli


Negli occhi di mio fratello: intervista ad Alessandro Donati

L’intervista con Alessandro Donati, direttore sportivo della Bardiani-Csf Faizanè, parte da una pausa. Alessandro guarda fuori dalla vetrata, abbassa un attimo lo sguardo e inizia a parlare: «Negli occhi di mio fratello vedevo tutto ciò che può dire il ciclismo».

Walter Donati è mancato a causa di una malattia nella tarda primavera del 1998, dopo aver visto vincere il suo idolo, Marco Pantani, al Giro d’Italia. Aveva solo otto anni. «Era un bambino ma lo vedevi che era fatto per il ciclismo. Era perfetto su quella bici, esile, corporatura ideale. Quando si alzava sui pedali assomigliava a quel pirata che tanto amava. Sarebbe diventato un ciclista e avrebbe vinto molto, ne sono convinto. Io avevo cinque anni in più di lui ma, quando pedalavamo assieme, mi massacrava».

Alessandro e Walter sono cresciuti nel piazzale davanti al bar della vecchia stazione di Pescara. Quel bar era gestito da papà: «A noi bastava poco: quattro pietre su un marciapiede e avevamo una porta per la nostra partita di calcio. Quando non era il calcio, era il ciclismo, il nuoto, la pallavolo, il basket. Io sono cresciuto in strada come tanti ragazzi della mia età e lì ho imparato a voler bene allo sport. Non pensavo che sarei diventato un ciclista professionista, pensavo a divertirmi, facevo tutto con una leggerezza assurda. Mi faceva bene».

Alessandro si diverte, esce con gli amici, va a ballare la sera. Alcune volte anche di nascosto dai genitori, scappando da una finestra sul retro della casa. Quando manca Walter, si rompe tutto.
«Dovevo diventare ciclista e fare quello che non aveva potuto fare lui. Non sono stato un vincente ma sono stato corridore e ho sempre amato il mio lavoro. Di più. L’ho amato ancora maggiormente conoscendolo».

Alessandro Donati alle prese con i suoi ragazzi durante il ritiro della Bardiani a Benidorm. Foto: Paolo Penni Martelli

Il papà di Alessandro è stato professionista, suo nonno ha gestito una squadra da cui sono usciti diversi professionisti abruzzesi. Lui è stato deluso dall’ambiente del ciclismo ma non lo ha mai abbandonato. «Nel 2013 ho fatto una scelta sbagliata. Sono rimasto senza lavoro e non potevo permettermi di attendere altre proposte. Mia moglie aspettava nostra figlia ed avevamo da poco investito tutti i nostri risparmi per la casa. Ho dovuto cercarmi un lavoro».

Alessandro trova un impiego in una ditta di arrosticini, prodotto tipico abruzzese. Il proprietario è appassionato di ciclismo e investe in quello amatoriale. Dapprima Alessandro partecipa a qualche gara con lui, poi gli parla e si racconta. L’ambiente lo conosce bene, i fondi ci sono e i due investono in una squadra. Si tratta del ritorno, in ammiraglia questa volta: «Io sono cresciuto col ciclismo, ho imparato quasi di più dal ciclismo che dalla scuola. L’uomo che sono è maturato qui. Un uomo tranquillo, pacato ma determinato. Poche parole e pedalare. Il nostro è un lavoro duro. Un lavoro precario, direi. Passiamo circa centocinquanta giorni fuori casa, è vero. Ma ne passiamo altri duecento a casa. Siamo dei privilegiati e dobbiamo ricordarcelo quando andiamo al lavoro».

A casa ad aspettarlo ci sono due bambine, di nove e tre anni: «Per loro vinco sempre. Mi chiamano e chiedono: Papà hai vinto? No? Fa niente, per noi hai vinto lo stesso. Sai perché? Perché a loro, alla fine, della vittoria non interessa nulla. La più grande corre, io la accompagno alle gare e faccio semplicemente il papà, lei del ciclismo ama le cose più genuine».

In fondo Donati era già direttore sportivo in corsa, lo sa bene Stefano Garzelli per cui Alessandro è come un fratello. «Lui si fidava ciecamente di me. Io sapevo dove dovevo portarlo e lavoravo per quello. Il modo dovevo sceglierlo io, carta bianca. Ma Stefano doveva arrivare nel migliore dei modi al punto designato. In corsa non c’è molto spazio per parlare di famiglia o di casa. Quando abbiamo smesso ci siamo raccontati tutto. Ci vogliamo un gran bene». Donati scherza. «Ma sai che io organizzavo le vacanze per tutta la squadra? Sceglievo i voli con le coincidenze migliori, quelli più economici e li portavo in giro per il mondo». In un certo senso è rimasto un qualcosa di quel ragazzino che scappava dalla finestra per andare a ballare.

«Quando correvo pensavo sarebbe stato meglio fare il direttore sportivo. Ora, quando vedo i ragazzi, mi dico che mi piacerebbe tornare con loro in gruppo. Credo che fino a quando non si smette non ci si renda conto del privilegio che si ha. Fuori da qui c’è tutta una vita che molti di questi ragazzi non conoscono, ma è normale. Succede a tutti».

Da quando è salito in ammiraglia Alessandro ha dovuto fare i conti con questo e con molto altro. «Io devo decidere, il direttore ha questa responsabilità. Devo dare indicazioni sul lavoro di altri. Talvolta ho timori anche io, ho dubbi, magari sono nervoso o non sto bene. Ma questo non deve filtrare. Chi dirige deve sapere mantenere l’ambiente sereno. Questo però non significa abdicare alla decisione. Io preferisco sbagliare ma devo assumermi ogni responsabilità. I ragazzi sono tutti diversi, anche psicologicamente. Può capitare di sbagliare approccio. Spiace e si modificherà ma se non decidessi sarebbe ancora più grave. Non farei il mio lavoro».

La riflessione porta Donati al ciclismo di oggi e l’analisi è decisa. «Tutti vogliono vincere, nel professionismo come nelle categorie giovanili. Bisogna capire, però, che si fanno errori colossali se non si ha chiara la situazione. Da giovani noi dobbiamo crescere dei ragazzi non dei campioni. Altrimenti li roviniamo. Di campioni ce ne sono pochi, di uomini tanti. La vita del ciclista oggi è molto esasperata. A breve non ci saranno più carriere di quindici anni, solo di sette, otto anni. Credo manchi quella spensieratezza del gioco in strada, con quattro pietre e tanta fantasia. Credo che, almeno fra i più giovani, dovrebbe tornare questa leggerezza».

Foto: Paolo Penni Martelli


Il tempo non torna più: intervista a Filippo Fiorelli

«Non mi ha mai detto bravo. Se arrivavo in volata e vincevo mi diceva che avrei potuto partire prima, se partivo troppo presto mi spiegava che sarebbe stato meglio aspettare la volata. Non lo faceva per cattiveria, lo faceva per insegnarmi a non sedermi mai, a fare la vita del corridore. Mi diceva sempre: “Se vai in gara, devi correre. Altrimenti ti alleni e basta. Non si va in corsa per giocare”. Tutti i miei errori li ho capiti grazie a lui». Filippo Fiorelli parla così di Marcello Massini, il suo preparatore, lo definisce «un tipo strano ma in senso buono, uno di quelli che devi conoscere per capire».

Dopo le prime vittorie in Beltrami, Fracor e la convocazione in nazionale, è stato proprio l’incontro con Massini nel 2017, un anno difficile dopo la mononucleosi, a far scattare qualcosa in questo ragazzo di Palermo dai capelli rossi e dalle tante lentiggini. «Ha visto in me qualcosa che nessuno aveva mai visto e me lo ha tirato fuori. Lui e Paolo Alberati sono stati i miei appoggi: tanta sincerità e poche illusioni».

Il papà di Filippo era un amatore nel settore mountain bike e avrebbe voluto vedere suo figlio correre da subito in bici anche lontano dalla Sicilia. «Mia mamma era abbastanza preoccupata: sarei dovuto andare lontano da casa e avrei dovuto lasciare gli studi. Purtroppo in quei giorni papà ebbe un grave incidente ed io alla bicicletta non pensai più per diverso tempo». Sotto casa, però, ci sono dei locali di proprietà dei nonni e un anno il nonno affitta il negozio a un venditore di biciclette; lì accade qualcosa, lì la bicicletta torna nella vita di Filippo.

Questa volta è qualcosa di più serio, qualcosa che impone una decisione. Filippo decide di partire per andare in Toscana, c’è una squadra ad aspettarlo. «Ho passato una settimana a non dormire per l’entusiasmo prima della partenza. Sono partito con un amico: in treno abbiamo parlato tutto il tempo. Ci chiedevamo che vita ci aspettasse, è normale no? Ti chiedi sempre cosa ti aspetti. Le difficoltà le capisci dopo, quando sei solo e devi crescere prima, devi diventare grande più in fretta. All’inizio ero abbastanza scosso da questo tipo di vita ma la accettavo in quanto tale. Mi dicevo che se per fare il dilettante era necessaria, non potevo fare altro».

Filippo Fiorelli è un tutt’uno con la sua terra. «Non si parla solo di famiglia o parenti. Quando mi allontano, della Sicilia mi manca qualcosa che non si può nemmeno raccontare. Mi manca l’aria, mi mancano le sue strade, le sue estati e il gelato sul muretto con gli amici. Fatico a immaginarmi lontano dalla mia terra». Due settimane fa, Fiorelli era a Palermo con Giovanni Visconti. «Per noi è un esempio, un modello. Per molti ragazzini è la ragione stessa per cui iniziano a correre, perché vogliono essere come Giovanni. Ricordo benissimo cosa ho pensato la prima volta che l’ho incontrato in nazionale. Qualcosa che riprovo ogni volta che penso ora che siamo compagni di squadra».

Visconti racconta di parlare poco il dialetto siciliano ma quando è con Fiorelli, sì. «Dice che gli tiro fuori un lato caratteriale che manco lui sa di avere». Così giù a ridere e scherzare, la mattina a colazione o su un divanetto, la sera prima di tornare in camera.
L’altro giorno Fiorelli lo diceva ai suoi compagni: «Dai, sono stato anche fortunato». La fortuna di cui parla Filippo è quella che insieme alla determinazione lo ha portato a diventare ciclista, pur iniziando a pedalare tardi. Determinazione, perché a Fiorelli non piace proprio lamentarsi. «Quando sei in mezzo ad un problema, qualunque problema, devi cercare una soluzione. Non lo risolvi piangendoti addosso e tanto meno lamentandoti con te stesso o con gli altri». Poi una riflessione. «Quando inizi a pedalare seriamente a diciannove anni, non è come quando lo fai dai dodici anni o anche prima. Non è facile arrivare al professionismo. Però non mi pento di nulla. Sono felice delle scelte che ho fatto e credo anche siano state le scelte giuste».

Già perché Fiorelli del tempo ha capito la cosa più importante. «Diciotto anni li hai solo quando sei realmente diciottenne, non prima e non dopo. Non puoi riaverli a sessant’anni. Per cui è giusto che vivi in pieno i tuoi anni e fai tutto ciò che puoi fare. A costo di provare e sbagliare. Certe cose devi viverle perché, si sa, il tempo non torna più».

Foto: Paolo Penni Martelli


La schiettezza e l'orgoglio: intervista a Roberto Reverberi

Poco dopo la metà della Vuelta 1996, Bruno Reverberi ha fatto le valigie ed è tornato a casa. In ammiraglia è restato il figlio, Roberto. È il 19 settembre. Il giorno seguente, nel tardo pomeriggio, Roberto telefona a casa, risponde papà: «Papà, abbiamo vinto. Abbiamo vinto con Biagio Conte». Bruno Reverberi non ci crede. «Sai, più di vent’anni fa non c’era tutta l’informazione che c’è oggi e papà non sapeva nulla. Probabilmente pensava fosse uno scherzo, ci ho messo diversi minuti per convincerlo che era effettivamente andata così. Suo figlio aveva vinto la prima corsa in cui si era trovato in ammiraglia da solo». In realtà il ciclismo era di casa dai Reverberi, almeno dai tempi in cui, con Roberto ancora piccolo, Bruno aveva corso qualche periodo nei dilettanti. Successivamente il passaggio come direttore sportivo nelle categorie minori e qualche anno dopo nel professionismo. Parliamo di circa 39 anni fa. Roberto si era subito appassionato al ciclismo guardando papà. Aveva anche provato a correre, per circa sei anni, ma ben presto si era reso conto che non sarebbe mai diventato un corridore di livello. «Inizialmente seguivo papà e facevo il meccanico. Mi piaceva, e per sette, otto anni ho continuato. Poi mi sono sposato e ho deciso di aprire e gestire un negozio. Il fatto è che a me la vita del direttore sportivo è sempre piaciuta, soprattutto per il fatto organizzativo. Mi piace pianificare, organizzare, studiare tutto nei minimi dettagli. Forse, in cuor mio, ho sempre saputo che, alla fine, sarei ritornato». Bruno sa che la passione di Roberto è il ciclismo e vede in lui alcune delle doti fondamentali per fare bene questo lavoro. Passa qualche tempo e Roberto torna. Questa volta in ammiraglia accanto a papà.

«Io e papà siamo molto diversi. Il mio carattere somiglia a quello di mia mamma. Papà è uno molto forte, duro, autoritario direi. In famiglia come con i corridori. Lui ci va giù dritto. Ha ben chiare poche e semplici regole e quelle devono essere rispettate. Io cerco di mediare maggiormente, dico ciò che c’è da dire ma lo pondero bene prima. Il punto è che poi, quando mi rendo conto di non essere ascoltato, sbotto e quando sbotto non ce n’è per nessuno. Non so se sia un bene, forse sarebbe meglio essere più lineari». Con papà si parla molto di ciclismo ma Roberto avverte: «Certi argomenti è meglio evitare proprio di toccarli. Ogni tanto ho provato a impuntarmi ma con lui è una battaglia persa. Non ti dirà mai che hai ragione. Magari lo pensa ed agisce di conseguenza ma non lo ammette nemmeno per scherzo. Una cosa però devo dirla: mi ha sempre lasciato fare la mia strada liberamente, non si è mai intromesso, non mi ha mai condizionato nelle decisioni».

Roberto Reverberi è di poche parole con i suoi corridori, questione di chiarezza e schiettezza. «Io lo dico sempre: i treni passano una volta sola nella vita. Posso dirti una volta che per fare la vita da ciclista devi impegnarti, altrimenti è meglio se vai a lavorare. Non te lo dirò una seconda volta. A me fa sorridere chi continua a criticare le squadre per i corridori lasciati a piedi. Sia chiaro e cerchiamo di ricordarcelo: non siamo un ente assistenziale. Un conto è dare una possibilità, un conto è approfittarsene. Alcuni ragazzi se ne approfittano e a questo gioco non ci sto».

Negli anni Roberto Reverberi ne ha viste davvero di tutti i colori e con cortesia estrema, ma anche fermezza, ci tiene a non lasciare dubbi. «Molti ragazzi che sono venuti in Bardiani hanno corso subito il Giro d’Italia, la Milano-Sanremo o altre gare importanti. Da noi funziona così: se sei forte, se hai le caratteristiche adatte per una gara, hai tutta la squadra a disposizione anche se sei giovane. A queste condizioni devi metterci tutto l’impegno possibile. Non puoi permetterti di fare il turista, di trovare scuse ogni volta che c’è da andare in fuga, di pensare a vivacchiare. Nel ciclismo non si può vivacchiare. Alcuni non lo hanno ancora capito: ci sono atleti con un fisico e delle potenzialità incredibili che si buttano via perché non hanno la testa giusta. Non sai quanto mi fa arrabbiare questa cosa».

Bardiani è sempre stata una squadra di formazione, in cui molti giovani hanno spiccato il volo e Reverberi ne è orgoglioso. «La cosa più bella che possa succedere a un direttore sportivo è veder vincere un neo professionista. Valgono anche i piazzamenti, i tentativi. È inutile girarci intorno: o sei un campione, o ci provi da lontano, o ti metti a disposizione. Si tratta dei ruoli, chi non rispetta i ruoli fa un danno tremendo a tutta la squadra. Pensano di fare di testa loro per un piazzamento che salvi il contratto, in realtà fanno peggio. Noi vediamo tutto, vediamo chi si impegna, chi è solo sfortunato, chi ha qualità, chi si mette a disposizione e chi fa il furbo. Negli anni i furbi ho imparato a riconoscerli a chilometri di distanza».

Quando parla di ricordi ed emozioni, Reverberi pensa alla maglia gialla di Ciccone al Tour de France, quella che lo ha commosso perché «Giulio era stato fermo un anno e mezzo per un’ablazione e noi abbiamo continuato a crederci. Fosse stato in una squadra World Tour, chissà…». Alla mente poi affiora il piazzamento di Sacha Modolo alla Sanremo: «Alla Tirreno-Adriatico lo vedevo che era fresco come una rosa. Al ritorno, in auto, c’erano lui e Pozzovivo, e ho detto al Pozzo: “Hai da fare nel fine settimana? No? Porta Sacha a provare il percorso. Questo arriva nei cinque”. Alla fine è arrivato quarto. Ma ci credevamo solo io e Domenico, gli altri quasi mi prendevano in giro. Bisogna guardarli i corridori, c’è poco da fare». Quest’anno Bardiani ha in parte cambiato politica, inserendo in squadra due atleti di esperienza del calibro di Enrico Battaglin e Giovanni Visconti. Per stare vicino ai giovani e aiutarli a crescere nel migliore dei modi. «Giovanni ha proprio l’indole del capitano, è un atleta modello. Lo vedi che li consiglia in ogni cosa, dal pranzo alle frenate brusche in corsa. Lavorare con uomini così è un piacere».

Questo cambio di politica è dato anche da un cambio abbastanza radicale nel modo di orientarsi del ciclismo. «I giovani si fanno ingolosire sempre più dalle squadre World-Tour perché credono di avere più opportunità lì. Così per sperare di inserire qualche buon corridore dobbiamo cercare sempre ragazzi più giovani. Faccio notare una cosa: le corse non vengono disputate da trenta ragazzi per squadra. Non è detto che tu correrai perché sei in quel team. Lì ci sono i capitani che hanno sempre la precedenza, non puoi inventare molto, non puoi inventare fughe o azioni particolari. Ti vengono a riprendere e ti mettono a lavorare. Preferisci fare panchina in una squadra di grande livello o provare a crescere in una buona squadra? Noi abbiamo vinto trenta tappe al Giro d’Italia, non so se rendo l’idea. La domanda è semplice, basta rispondersi».

La colpa però non è solo dei ragazzi. «Quante litigate ho fatto e faccio quotidianamente con i procuratori? Molti pensano solo a inserire i ragazzi nelle squadre per la soddisfazione di dire di averli inseriti. Sai quanti ne hanno bruciati facendo così? Il loro compito dovrebbe essere quello di fare il bene dei ragazzi, così fanno tutto tranne che il loro bene». Il tempo ha cambiato anche Roberto e la constatazione per quanto amara è molto significativa. «All’inizio mi fidavo ciecamente di tutto ciò che mi dicevano i corridori, li giustificavo sempre, non mettevo mai in dubbio una parola. Così qualcuno cercava di fare il furbo, di schivare le fatiche e magari consigliava male i compagni. Non tutti gli atleti esperti si mettono a disposizione del gruppo. Rimanendo deluso ho capito che certe volte bisogna aspettare a fidarsi, bisogna essere lungimiranti. Purtroppo il mondo non è sempre come ci piacerebbe che fosse. Basta saperlo e provare a prenderne le misure».

Foto: Paolo Penni Martelli


Di lezioni e umiltà: intervista a Giovanni Visconti

 

Era il 2007 e Giovanni Visconti era a Stoccarda con la nazionale italiana di Franco Ballerini. In quel gruppo, che pochi giorni dopo avrebbe vinto il Mondiale, Giovanni era riserva assieme a Vincenzo Nibali. Ad un certo punto Danilo Di Luca lascia il ritiro. Nella testa del siciliano scatta qualcosa: «Volevo correre ed in quel momento ero veramente convinto che il “Ballero” mi avrebbe chiesto di entrare in squadra». Franco Ballerini la pensa diversamente e quella sera telefonò a Matteo Tosatto. Il “Toso” sta guidando verso l’Oktoberfest ma al richiamo della Nazionale non può che rispondere presente. Visconti e Nibali non se l’aspettano. «Sono abbastanza permaloso, “musone” direi. Negli anni ho migliorato questo aspetto ma questo continuo rimuginare mi ha molto condizionato durante la mia carriera. Quella sera ho reagito male ed il giorno dopo, in allenamento, non andavo proprio. Stavo in fondo al gruppetto dei miei compagni, con la testa bassa. Come un cane bastonato. Non parlavo più con nessuno, non salutavo nemmeno Franco. Pensa che io e Franco eravamo come fratelli: da bambino, a casa sua, mi aveva regalato il casco e gli occhiali della Roubaix. Quello, però, per me era un affronto. Non riuscivo a digerirlo».

Franco Ballerini si accorge di questo stato d’animo di Giovanni e gli si affianca in allenamento. «Visco, stai rompendo. Ora basta. Levati sto muso e vai davanti a menare. Vuoi la verità? Se non avesse corso Tosatto, avrei fatto correre Nibali. Quindi evita queste scene». La lezione è pesante, Giovanni Visconti racconta di avere i brividi ancora adesso a pensarci, ma allo stesso tempo in quel giorno c’è un bagaglio da custodire. «L’umiltà. Le batoste servono per questo, ti fanno tornare con i piedi per terra. Quando sei giovane devi dimostrare e devi farlo con umiltà. Il tuo tempo arriverà. Prima però c’è bisogno di pazienza e voglia di imparare: la fame di apprendere. Ho vissuto tre generazioni del ciclismo e quando vedevo correre Boonen, quando gli correvo accanto, ero felice per il solo fatto di essere al suo fianco».

Ora, forse, il ciclismo, corrisponde un poco meno a Visconti sebbene Visconti corrisponda perfettamente al ciclismo. Sono cambiate tante cose, forse troppe. «Qui, in Bardiani, non manca nulla e non è assolutamente scontato. Scherzando dico sempre che il primo che si lamenta prende due schiaffi. Voglio essere sincero: sento di poter ancora far bene, sento di poter ancora vincere. Non sarei qui altrimenti. L’altra missione è quella di stare accanto ai giovani, di aiutarli. Ci sono tanti giovani molto promettenti in Bardiani. Credo che la mia esperienza potrà aiutarli. Certo, dovranno ascoltarmi e con i giovani di oggi non è sempre facile».

L’analisi va in profondità e Visconti tocca due punti importanti: la mentalità dei giovani e quella del mondo che li circonda. «Non è solo colpa loro, ci mancherebbe. Secondo me negli ultimi anni sono saltati alcuni passaggi. Tanti ragazzi quando arrivano al professionismo si sentono già ciclisti navigati. Credono di non avere nulla da imparare, non ti ascoltano. Sanno che io metto a disposizione tutto quello che so, l’esperienza serve a questo, altrimenti sarebbe inutile. Però devono avere la curiosità di venirmelo a chiedere e l’umiltà per provare ad ascoltare. In parte sono io a dovermi adattare a certe cose che sono cambiate nel tempo, in parte loro a dover capire che il ciclismo non è tutto qui. C’è una storia del ciclismo, c’è un passato. Perché non vogliamo riconoscerlo?». La storia di cui parla Giovanni è una storia radicata nella pelle, una storia di vento, decisioni ed anche errori. Una storia di sensazioni. «Il tuo corpo comunica. Ci sarà un motivo per cui ti senti stanco piuttosto che carico. Non dico di ascoltare solo le sensazioni, bandendo la tecnologia. Dico di abbinare le due cose. Se un giorno non stai bene, è meglio che non ti alleni. Che fai qualche chilometro in meno, altrimenti è controproducente. Non muore nessuno, non cambia nulla. Sai cosa accade in realtà?».

Il nostro sguardo incrocia quello di Giovanni e lui ricomincia a parlare. «I ragazzi hanno paura di non seguire alla lettera ogni minimo consiglio dei preparatori. Devono avere tutto scritto, in ogni dettaglio. Non è più ciclismo questo, sono telecomandati. Io lo dico sempre: “Ma il preparatore vi restituisce i soldi se non raggiungete i risultati che volete?”. Discorso analogo vale per i procuratori. Siamo noi a pagarli e loro sono “al nostro servizio”. Possono indicarci una via, ma quello che è meglio per il nostro fisico dobbiamo iniziare a saperlo noi. Un domani vorrei fare il preparatore per provare a cambiare questa realtà. Sia chiaro, non tutti i preparatori ragionano così ma alcuni sì. E i ragazzi di conseguenza hanno timore a fare un giro più tranquillo e a fermarsi a prendere un cappuccino prima di tornare a casa. Se saltano un passaggio sulla tabella, vanno in panico. I ritiri dovrebbero servire anche per fare bagarre, per fare gruppo, per stare con i compagni. Alcuni preparatori assegnano il loro lavoro da fare durante i ritiri. Non esiste. Sai cosa è accaduto? Nel ciclismo, con il World Tour che era un bene all’inizio, ora forse meno, è arrivata tanta gente che lavora esclusivamente per lo stipendio. Senza passione».

Giovanni Visconti in azione durante il ritiro con la sua squadra a Benidorm (Foto: Paolo Penni Martelli)

Senza peli sulla lingua, argomento dopo argomento. Giovanni Visconti lo dice chiaramente: «Io sono fatto così. Magari risulto antipatico, ma mi sento libero. Forse alcuni preferiscono i mezzi discorsi. Io credo che la chiarezza sia un valore». Certi discorsi non sono casuali, provengono da ciò che hai dentro, dalle difficoltà che hai vissuto, dai mostri che hai vissuto.

Marco Pastonesi, quando Giovanni Visconti vinse sul Galibier al Giro d’Italia 2013, scrisse che Giovanni aveva vinto sul mostro perché il mostro lo aveva dentro. Ora Giovanni può parlare di quel mostro. «Ho sofferto di attacchi di panico. Un’esperienza bruttissima da cui non riuscivo a liberarmi. Era quello il mostro che avevo dentro. L’anno prima mi ritirai ed in ambulanza mi dovettero tenere l’ossigeno perché non riuscivo più a respirare. Anche nel giorno in cui ho vinto ho avuto un attacco di panico. Quando il tuo malessere viene da qualcosa di mentale, di psicologico è tutto più complesso. Fai fatica anche a spiegarlo e in pochi lo capiscono. Però, vedi come funziona la testa? Dopo quella vittoria mi sono sbloccato. Due giorni dopo sono tornato a vincere a Vicenza, forse la vittoria più bella di tutta la carriera. Non sai quanti affrontano periodi simili. Quando ci sei dentro è bruttissimo».

Sono quegli stessi mostri a restituirti empatia, capacità di comprensione e di unione. A Giovanni Visconti è da tutti riconosciuta la capacità di fare gruppo e quella capacità è annodata a doppio filo con queste vicende. «Ti rendi conto di tante cose. Del rispetto dovuto ai collaboratori, allo staff, di quanto ogni piccolo gesto li renda orgogliosi, cementi il rapporto e permetta a tutti di stare meglio. Basta un semplice grazie per ciò che fanno per noi. Basta un vassoio con quattro pasticcini ed un caffè. Certe volte una birra ad un meccanico mentre sistema le biciclette. La differenza passa per questi gesti».

Qui si entra in un altro campo e Giovanni Visconti è deciso. «Ad alcuni campioni manca la riconoscenza. C’è troppo egoismo in certe situazioni. Tu come campione hai gloria, soldi, fama. Agli altri cosa resta? Se tu arrivi dove arrivi è anche merito della squadra. Nella vita, prima che nel ciclismo, bisogna riconoscere chi ci aiuta e ringraziarlo. A me forse sono mancate altre cose ma le squadre le ho sempre unite. Forse per le mie origini. Io vengo dal basso, in tutti i sensi. Dalla Sicilia, da Palermo. I viaggi nascosto in macchina li ho fatti davvero, ho conosciuto il nulla e ci ho combattuto per provare ad essere quello che vedi oggi».

Giovanni Visconti in carriera ha vinto tre volte il campionato italiano (Foto: Paolo Penni Martelli)

Cos’è Palermo per Giovanni Visconti in un pomeriggio di gennaio a Benidorm? «Sono io, è tutto quello che vedi in me. Nel mio modo di parlare, di fare. C’è sempre quella fame che mi monta dentro, quel desiderio di andare a lottare per prendermi qualcosa che ancora non mi sono preso. Questa cosa la conosci se cresci a Palermo, se provi ad emergere da Palermo. Per me Palermo è luogo di allenamento, di sacrifici, di rinunce. Per me Palermo è salita, è quella pasta che mi portavo a scuola, quella che mangiavo a ricreazione mentre i miei compagni uscivano a mangiare le pizzette. Lo facevo per uscire in bicicletta prima che facesse buio. Non conosco nient’altro di Palermo. Oggi per me la casa è in Toscana. Quando vado in Sicilia, dopo due, tre settimane, sento desiderio di tornare a casa. La Sicilia è stupenda, meriterebbe molto di più. Dalla Sicilia viene tutta la forza che ho avuto per costruirmi quello che mi sono costruito. La mia casa in Toscana ha fondamenta in Sicilia. Io sono un siculo-toscano. Palermo è stato il mio sacrificio».

Casa vuol dire famiglia e famiglia per Giovanni Visconti vuol dire figli. Quando pensa a casa, pensa a suo figlio. «Forse perché mi vedeva correre, da piccolo, ha iniziato a praticare ciclismo. Vedevo che non gli piaceva e quando ha smesso, ti dico la verità, sono stato contento. Quando ci sentiamo al telefono parliamo poco di ciclismo, parliamo di altro. Credo che lui vorrebbe smettessi. Ma è anche giusto, ha undici anni e desidera avere il papà vicino. Non me lo ha mai chiesto e credo non me lo chiederà mai ma non smetterei nemmeno se me lo chiedesse. Non per un capriccio. Non smetterei per il suo bene, per il suo futuro. La mia è stata una carriera da onesto lavoratore ma non ho avuto guadagni che mi consentano di mantenermi senza lavorare. Io continuerò fino a quando sarò in grado di fare bene, fino a quando mi sentirò bene».

Ancora Giovanni Visconti in azione insieme ai suoi giovani compagni di squadra (Foto: Paolo Penni Martelli)

Qui il discorso ritorna su una vena più intima e Visconti racconta delle sue chiacchierate col figlio. «Cerco di educarlo al valore del denaro. Gli dico sempre che per guadagnare si fa fatica, tanta, e molte persone lavorano tutto il giorno per guadagnare ben poco. Qualche anno fa, quando tutti si trasferivano a Montecarlo, sono andato lì con moglie e figli a fare un giro anche io. Come sono arrivato e ho visto la situazione in cui avrei dovuto vivere ho guardato mia moglie e le ho detto: “Via, andiamo subito via da qui”. Avrei dovuto vivere in un appartamento di cinquanta metri quadri, pagando fior di affitto, in mezzo alla finzione più totale. Non fa per me. Ho fatto i bagagli e me ne sono tornato a casa».

Fuori ormai è buio pesto, nonostante siano appena le otto. Giovanni Visconti sorride, sistema la felpa e riprende a parlare. «Ho trentotto anni e sono ancora qui. Sto facendo ancora il lavoro che ho scelto da ragazzino e lo sto facendo mettendoci tutto quello che ho. Ho fatto una vita sana, integra, consapevole. Le persone mi dicono che sembro più giovane, che in corsa sembro ancora un ragazzino e questo mi riempie di orgoglio. Certo, sono stato deluso. Ognuno di noi si fa male con la vita. Capita a tutti. Anche da questo versante, però, posso dirmi fortunato. Non erano delusioni troppo forti, troppo importanti, troppo pesanti. Visco è in sella, è questo che conta».
Foto: Paolo Penni Martelli