Della sabbia e del fango: intervista a Nicolas Samparisi
La prima parola che ci viene in mente per parlare di Nicolas Samparisi non può che essere schiettezza. Parlando con lui, classe 1992, lombardo di Tirano, si nota subito una spiccata lucidità, soprattutto nella valutazione del proprio lavoro, una sincerità spietata. Il mondiale di Ostenda non è andato come avrebbe voluto e nasconderlo non serve a niente: «Non è partito bene ed è proseguito peggio, purtroppo. Venerdì, in ricognizione, ero a ruota di Gioele Bertolini: lui è caduto ed io non sono riuscito a evitarlo. Mi sono ferito ad un dito, mi hanno dato immediatamente alcuni punti di sutura e dell’anestetico ma ormai il danno era fatto. La domenica sono già partito con questa problematica ed a lungo andare ha influito sulla prestazione».
Per preparare la gara di Ostenda, Nicolas era stato diversi giorni in Olanda, aveva gareggiato lì e si era allenato. «Credo sia utile seguire un percorso di questo tipo: quando torni da Olanda, Belgio o Repubblica Ceca senti immediatamente di avere una gamba diversa. Noi diciamo che “ti cambia la gamba” per intendere questo miglioramento repentino. Attenzione però perché è un’arma a doppio taglio. In questi paesi trovi moltissimi tracciati duri, ideali per crescere. In molti casi si rischia l’overtraining: arrivi in gara già stanco e ti pregiudichi il risultato». Quest’ultima problematica Nicolas la avverte particolarmente, anche a causa del suo carattere. «Sono molto preciso. Se in tabella sono indicate quattro ore di allenamento, anche se dopo tre e mezza sono stanco, non mi fermo. Se sono quattro, devo farne quattro. Forse, qualche volta, essere un poco più indulgenti con se stessi farebbe bene. Sono fatto così, posso farci poco».
Nicolas si definisce un passista-scalatore. «Dico sempre che la diversità caratteriale tra me e mio fratello Lorenzo passa anche per le nostre diversità tecnico-tattiche. Lui è uno scalatore puro, più istintivo, tanto nel cross quanto nella vita. Io, da buon passista, sono riflessivo. Però Lorenzo è una delle poche persone di cui mi fido ciecamente. Se mi dice che la pressione delle gomme in una determinata gara deve essere di 1.2 bar, non ci penso un attimo a regolarmi in tal senso». Tempo fa, Lorenzo è stato operato per il restringimento di un’arteria, Nicolas non ha avuto dubbi su cosa dirgli: «Gli ho solo detto di avere pazienza che sarebbe riuscito a tornare ai suoi livelli. Soprattutto gli ho ricordato che la vita non si ferma al ciclismo e che non bisogna mai dimenticarlo. Anzi, bisogna conservare la capacità di godersela, altrimenti si fa un errore madornale». Parlare di carattere è in realtà anche parlare dei vari percorsi che il ciclocross propone e delle caratteristiche che servono per affrontarli. Già, perché parte del tuo rendimento è direttamente influenzato da questo. «Il percorso del mondiale di Ostenda è indubbiamente stato uno dei percorsi più completi degli ultimi anni. L’introduzione della sabbia è molto significativa e bisogna parlarne. Nella sabbia si pedala in modo diverso rispetto al fango. Le ruote affondano ed è indispensabile una potenza non indifferente per uscirne. Devi prendere la canalina, riuscire a stare in equilibrio e gestire le sbandate. Il tutto con i battiti alti della gara».
A Samparisi piacciono percorsi di questo tipo ed è convinto che in Italia ci si stia muovendo nella giusta direzione, cercando di disegnare percorsi più duri dopo che per molto tempo si era puntato tutto sulla tecnica. Nicolas pensa che la presenza di van der Poel e van Aert sia un bene per tutto il movimento: «Con loro in corsa il ritmo gara aumenta di molto: solo così possiamo migliorarci. A livello personale credo che van Aert sia più forte mentre van der Poel più tecnico. Se guardiamo i dati delle gare questo emerge nettamente». Anche ora che, a casa, vuole solo dedicarsi alla propria famiglia ciò che prova in corsa lo emoziona: «Quest’anno è stato particolare e non fa molto testo. In Belgio le persone pagano per venire a vederci. Quanto devono tenerci? Quanto dobbiamo interessargli? L’anno scorso avevo fatto stampare mille cartoline da regalare ai tifosi: le ho finite e ho dovuto farle ristampare. Qualunque momento è buono per chiederti un ricordo o un pensiero. Rende l’idea della grandezza del cross?». Quando le cose non vanno, Nicolas Samparisi riesce a staccare mentalmente e ripartire, col tempo ha imparato ed oggi è questa caratteristica a salvarlo. «Non ero molto felice al ritorno da Ostenda ma pensarci non avrebbe comunque cambiato la situazione. Al campionato italiano c’è in palio una maglia tricolore a cui tengo molto, ora penso a quella. In più quest’anno ho capito di poter entrare tra i primi venti nelle gare di Coppa del Mondo, è un passo importante per cui lavorare giorno per giorno. Non c’è tempo per guardarsi indietro. Non vi pare?».
Foto: Previsdomini/Per gentile concessione di Nicolas Samparisi
Fem van Empel e la filosofia olandese
Un calcio al pallone non si rifiuta mai, figuriamoci in Olanda, terra dove il calcio assume da un secolo significati persino filosofici. È vero che, come afferma il giornalista inglese David Winner, si iniziò a scrivere di Totaalvoetbal nel 1974, ma le basi furono gettate diversi decenni prima grazie a Jack Reynolds, allenatore inglese che guidò l’Ajax, a fasi alterne, dal 1915 al 1947.
A lui pare si debba una certa impostazione del gioco palla a terra, una struttura di scuola calcio basata sull’insegnamento dello stesso metodo di allenamento e di gioco a ragazzi appartenenti proprio al settore giovanile dei lancieri. Non ultimo, a Jack Reynolds si attribuisce il celebre aforisma calcistico “l’attacco è la miglior difesa”.
Se poi il grande Ajax negli anni ’60 e ’70 perfezionò il metodo e lo strutturò in una vera e propria armonica filosofia di gioco, beh sappiamo tutti chi sono stati alcuni tra i grandi artefici: Rinus Michels e Ștefan Kovács, o come non citare poi Johan Cruijff. La loro idea è arrivata fino ai giorni nostri, fino a Pep Guardiola, il suo più importante (e vincente) rappresentante contemporaneo, catalano di nascita, ma olandese dal punto di vista della filosofia calcistica.
Tuttavia questa è una digressione, concetti semplificati allo stremo – d’altra parte si parla di ciclismo. Un volo pindarico per introdurre la veloce e recente ascesa di Fem van Empel, diciottenne di Sint-Michielsgestel, Brabante olandese, Brabante del Nord, che domenica scorsa ha conquistato il titolo iridato nella prova Under 23 femminile del ciclocross a Ostenda, in Belgio.
Fem van Empel inizia a muovere i primi passi – davvero in questo caso – proprio giocando a calcio, nonostante una famiglia che nel ciclismo si distingue non solo per passione, ma anche per lavoro. Suo zio Ad van Empel è un noto costruttore di bici – le Empella, mezzi sui quali negli anni sono stati vinti diversi titoli mondiali proprio nel ciclocross – ma a Fem, figlia della tradizione descritta sopra, inizialmente piaceva di più giocare a pallone – anche se siamo pronti a giurare che a lei della filosofia del calcio totale e della sua architettura, poteva interessare il giusto. Fino a 13 anni, Fem si misura con i ragazzi, poi, a causa della differenza fisica che si faceva via via più marcata, si adatta a giocare con le sue coetanee.
Leggiadra e talentuosa col pallone tra i piedi e come più tardi lo si scoprì vedendola in sella a una bici, van Empel sfruttava le sue qualità come ala destra del club di Neunen, squadra della piccola cittadina dove Vincent van Vogh visse una brevissima parte della sua breve vita e vi trovò ispirazione per dipingere una delle sue opere più conosciute: “De Aardappeleters”, “I mangiatori di patate”. Neunen, città dove è nato e vissuto anche Steven Kruijswijk.
Van Empel, però, a suo dire si divertiva molto più con le due ruote che col pallone. E difatti la scelta non tarda ad arrivare: a un certo punto doveva decidere se diventare calciatrice, da piccolina sognava di vestire la maglia del Bayern Monaco, oppure iniziare a praticare uno sport che vede l’Olanda come una delle nazionali sportive più forti e dominanti in assoluto. Dopo buoni risultati in mountain bike, nel 2019 si indirizza verso il ciclocross entrando a far parte di quel mondo che oggi vede gente come Alvarado, Betsema, Brand, Worst, Kastelijn, senza dimenticare l’eterna Vos o le altre rampanti emergenti come van Anrooij, Pieterse, van Alphen, Bakker, governare in modo assoluto. Aggiungendoci proprio il nome di van Empel farebbero undici, proprio come una squadra di calcio. Aggiungendoci, poi, quello che fa van der Poel, o il titolo conquistato sempre a Ostenda da Ronhaar davanti a Kamp – altri due olandesi – tra gli Under 23, e la tripletta tra le donne nella prova élite, fanno otto medaglie su dodici totali nel recente mondiale: se questo non è dominio totale figlio di una filosofia vincente, ditecelo voi cos’altro può essere.
Domenica scorsa, mentre tutti aspettavano il duello van Aert contro van der Poel, un dualismo che ha fatto parlare anche il Wall Street Journal e che è stato seguitissimo in televisione sia in Olanda – a dispetto di alcuni match di Eredivisie in contemporanea – che in Belgio, Fem van Empel era una delle favorite nelle gara delle Under 23, ma alla fine poteva essere un nome tra i tanti da pescare in mezzo al mazzo delle pretendenti in arancione. A un certo punto della gara cade con la faccia in mezzo alla sabbia. Si rialza e invece che difendersi, attacca, inizia a macinare, raggiunge e supera le avversarie sulla spiaggia prima di mantenere il distacco necessario a vincere, nel tratto in erba. Quando sta per tagliare il traguardo un sorriso appare finalmente sulla faccia tonda da adolescente, quasi incredula, così acerba da vedere persino spuntare ancora qualche brufolo.
«Il fatto principale» dicono di lei i suoi tecnici «è che avendo cominciato a correre da pochissimo, nessuno conosce i suoi limiti». Un altro nome da appuntarci non solo per il prossimo inverno di ciclocross, ma prima o poi anche su strada. In Olanda la filosofia recente più che al bel gioco sembra virare spedito verso il concetto di vittoria. Almeno sulle due ruote.
Foto: Dion Kerckhoffs/PN/BettiniPhoto©2021
Il suono caldo del ciclocross
Il sottofondo che accompagna ogni evento a Ostenda ci piace immaginarlo con la voce calda di Marvin Gaye. Sembrerebbe quanto mai fuori luogo scomodare il cantante americano, non fosse che qui ci sono diversi ricordi legati alla sua presenza. Trent’anni fa, più o meno esatti, sbarcò da Southampton per cercare redenzione: i debiti lo stavano divorando, come la cocaina; ai ferri corti con moglie e con la Motown – la celebre casa discografica che lo aveva lanciato – Marvin Gaye trovò ispirazione e purificazione proprio in questa città nel nord Europa grazie all’aiuto di Freddy Cousaert, produttore musicale belga.
Chiuso in un piccolo appartamento vicino la spiaggia, osservando la schiuma del mare del Nord e i bagnanti intenti a prendere sole scavando buche nella sabbia per ripararsi dal vento, Marvin Gaye compose una delle sue più celebri canzoni “Sexual Healing”, che gli valse un grammy un anno prima di venire ucciso a colpi di pistola dal padre. Visse il suo momento di pace in questo posto freddo e grigio come solo un luogo affacciato sul mare del Nord può esserlo. Un posto nato per i pescatori, e che pochi chilometri più a sud, a Oostduinkerke per la precisione, vede ancora attiva la pratica della pesca a cavallo di piccoli gamberetti grigi chiamati “rikze garnalen” e che pare siano buonissimi da mangiare con la salsa rosa, oppure pastellati.
A poche centinaia di metri dalla partenza delle prove iridate di questi giorni, all’interno del Kursaal Oostende, edificio simbolo della cittadina belga, campeggia una statua in oro del cantante americano raffigurato mentre suona il pianoforte: è uno dei piatti forti del turismo del luogo e quando si è da quelle parti appare quasi d’obbligo farsi fotografare di fianco a lui, come fosse il Duomo a Milano o il Colosseo a Roma. Oppure, per entrare in argomento: sarebbe come cercare di farsi fare una foto con van der Poel o van Aert.
Schierati in attesa dello start di fronte all’Ippodromo, ecco gli artisti tanto attesi: abbondiamo di retorica, ma non si potrebbe fare altrimenti. D’altra parte: come chiamereste questi funamboli delle due ruote, capaci di guidare con tale tecnica tra i solchi sulla sabbia, abili a sprigionare forza e allo stesso tempo a prestare delicata attenzione nello stare in piedi, o a superare indenni il passaggio sul ponte al 21% di pendenza? O, “quasi come se nulla fosse”, a passare con tale leggerezza dal tratto iniziale della pista in cenere a quello in erba, capaci di scendere e poi di risalire al volo dalle loro biciclette?
Ma: “What’s going on”? Eccolo il caldo ritmo di Marvin Gaye in sottofondo, subito prima del via. Parliamo della corsa: cosa sta succedendo? Succede che Van Aert e van der Poel sono i due attori principali di questo spettacolo. Partono appiccicati e sembra possono esserlo fino alla fine dell’attesa ora di gara. Dopo centottanta secondi sono già da soli. Succede che Mathieu van der Poel è un organo caldo, di quelli che basta toccarlo un attimo per scottarti, mentre van Aert è una gran cassa che picchia sulla sabbia e quando è sul bagnasciuga sembra poter spostare, oltre che il suo avversario, anche le onde del mare. Quelle onde che si infrangono sulle ruote dei corridori e danno al quadro generale un tocco ai confini del reale.
I freni strombazzano a ogni curva come auto in centro all’ora di punta, mentre i due se ne vanno, salutano, non li rivedono più, e dopo un giro hanno già lasciato tutti gli altri distanti a fare un’altra corsa. Dietro Pidcock è un solista in mezzo a un’orgia fiamminga: proverà a rimontare, rimontare, giro dopo giro, per un attimo sembra farcela, sarà quarto alla fine, a un tiro da un incredulo Toon Aerts.
Ma davanti, di nuovo: cosa succede? La temperatura si alza, nonostante il freddo, ma l’atteso testa a testa dura pochi giri. Non si può sbagliare nulla: la sbavatura di uno, lancia davanti l’altro, la caduta di van der Poel sembra mettere le ali a quel ragazzo tutto testa e potenza con la marca di una bevanda energetica stampata sul caschetto.
Sono danzatori sulla sabbia, osano l’impossibile, sbattono sul terreno come se la loro fosse una danza tribale. E al terzo giro la temperatura è bollente. Van der Poel insegue a causa della caduta, van Aert e lì davanti che non si scompone, una sfinge, pochi secondi di vantaggio, poi d’improvviso vacilla. Van der Poel gli arriva sotto a una velocità che definiremmo doppia, quasi tripla avessimo gli strumenti per misurarla. Van Aert ha forato e viene superato dal rivale.
Il belga lo tiene a tiro ugualmente, tornata dopo tornata, dopo solco, dopo barriera, passaggio dopo passaggio verso la meravigliosa galleria veneziana, mentre alle spalle ci si lascia il mare del Nord tinteggiato sempre più di un colore cupo, quasi marrone.
Poco dopo metà gara, ogni piccola azione, ogni piccolo movimento, ogni piccola nota suona a favore dell’olandese; la sua taranta sulla sabbia lo infiamma, le curve sono come il bollente bacio di un innamorato, quello che era solo forza e talento oggi è anche acume e disciplina: otto secondi di vantaggio al quarto giro, tredici al quinto, ventidue al sesto, ventinove al settimo e penultimo.
Ora ci immaginiamo una musica che arriva da qualche parte, un po’ distante, sembra suonare un ritmo caldo: “Brother, brother, brother there’s far too many of you dying”. Accompagna l’ultimo giro di van der Poel, fa da cornice al breve rettilineo finale: van der Poel si inchina sul traguardo, mostra i muscoli, ritto verso un rito che lo porta al suo quarto titolo mondiale. Un successo reso ancora più grande da un grande avversario come van Aert che chiude a trentasette secondi.
P.S. Una postilla sulla divertente gara delle Under 23 femminile andata in scena poche ore prima: vince Fem van Empel, diciotto anni, che solo pochi anni fa giocava a pallone e sognava un giorno di vestire la maglia del Bayern Monaco. Quinta Francesca Baroni: un risultato di spessore, il migliore della spedizione azzurra.
Foto: Dion Kerckhoffs / BettiniPhoto © 2021
Si parte? (Ma si arriva?) - Tra maglie iridate (tre) e superstizioni
Come finisce, tutto prima o poi ha un inizio, logico meccanismo sul quale non serve nemmeno stare troppo a ricamare. Passano, ahinoi, le stagioni, scandite irrimediabilmente dagli eventi sportivi. Domani ci sarà una sorta di incrocio tra strada e cross, una sorta di fine che coincide con una specie di inizio: non chiamiamolo passaggio di consegne per carità, non lo è, ed è anche brutto da dire.
Nella sabbia belga andrà in scena l’atto principale – non quello conclusivo, ma ci siamo vicini – della stagione del ciclocross. Il Mondiale, a Ostenda, in Belgio, con quel tratto in spiaggia dove van Aert e van der Poel possono sprigionare potenza inaudita e più che pensare al gelo che arriva dal mare del Nord si prenderanno a biciclettate nei denti per l’ennesimo atto di una rivalità che parte da lontano nel tempo e che si riversa in strada e nel fuoristrada: il desiderio massimo, ma non diciamolo troppo ad alta voce, per questo 2021, sarebbe vederli contro sul pavè della Roubaix. Magari in una Roubaix (come un sogno) bagnata.
Tre a tre è il conto delle loro maglie iridate (tra gli élite), e, ironia della sorte, al via c’è un altro ragazzo che di titoli ne ha vinti tre, ma che ormai col ciclocross ha poco a che fare, Zdeněk Štybar. I tre oltretutto sono gli unici in gara ad aver vinto il mondiale nella massima categoria. In questa stagione del cross, Štybar, per “gli amici” Štiby, non si è mai visto, ma raccontava nei giorni scorsi di essersi allenato spesso in questo periodo con van der Poel, anche in mountain bike. Un privilegio. Ha aggiunto anche che è al via pagando tutta la trasferta di tasca sua e che invece di portarsi dietro venticinque coppie di ruote come ai (suoi) bei tempi, ne avrà soltanto sette. A proposito di numeri e di numeri tre: esiste una lista di terzi incomodi, anche abbastanza lunga e che difficile possa includere il ceco e lo diciamo con rammarico: stuzzica molto Sweeck su un percorso del genere, Pidcock è uno che sa esaltarsi nei grandi appuntamenti, ma il percorso potrebbe vederlo tagliato fuori, mentre occhio a Vantourenhout che è stato uno dei più continui in stagione.
Tra le ragazze al via oggi, andrà presumibilmente in scena il Festival della Pedalata Olandese, nulla di nuovo, nulla a cui non siamo abituati, chi si veste di arancione ha una certa affinità con le vittorie. Sorte simile domani nella gara delle Under 23, qualche nome extra c’è: Vas, che non è Vos e arriva dall’Ungheria, Kay, sono nomi che stuzzicano la fantasia anche in chiave vittoria, occhio a loro per un pronostico nederlandifferente. Un accenno pure alle italiane, Lechner e Arzuffi, tra le élite (oltre a Teocchi, Gariboldi e Persico): un risultato nei primi dieci per le due azzurre sarebbe un traguardo da sogno. Qualcosa simile si può sperare anche con il trio in campo tra le più giovani: Baroni, Casasola, Realini in rigoroso ordine alfabetico. Anche se questa sabbia è dura da digerire.
Ma domenica si apre – in un certo senso – la stagione del ciclismo su strada, un po’ stampo anni ’90 con il Gp d’Ouverture – La Marseillaise. Anni ’90 perché a quei tempi quando leggevi il nome di quella corsa sapevi che finalmente si alzava il sipario. Poi le cose sono cambiate, Australia, Sudamerica a dare il là e a spostare altrove l’attenzione; è vero che si è già iniziato a correre (pochissimo per la verità) anche quest’anno ma è altrettanto vero che dalla rumorosa e multietnica Marsiglia si proverà a dare uno scossone al freddo torpore di un ciclismo che non si sa quando sarebbe iniziato e non si sa quando finirà, né come continuerà.
Intanto per il momento corse su corse vengono spostate a maggio, altre cancellate e ci rivediamo nel 2022. Anche il calendario giovanile è ancora una volta martoriato e – quasi sotto traccia – perde appuntamenti su appuntamenti, ed è un mezzo disastro su tutti i fronti.
Gp Marseillaise: ci sono sempre strane voci attorno a questa corsa, si parla di superstizione, e si sa che gli sportivi, i professionisti, ne sono sempre affascinati – proprio in senso etimologico, da fascino, fascinum – “maleficio”, oppure “amuleto a forma di…” e ci fermiamo qui. La si definisce “La maledizione della Marsigliese”. Si dice che chi vince questa corsa vivrà una stagione negativa. Lo scorso anno, per dire, primo fu Cosnefroy, poi in realtà è stato protagonista al Tour di tante belle fughe e di una buona stagione, ma il suo 2021 invece inizierà in ritardo per un problema al ginocchio.
Nel 2019 ha vinto Turgis che è l’ultimo superstite della dinastia di fratelli che hanno abbandonato il ciclismo giovani e giovanissimi. Jimmy si è ritirato a 29 anni, Tanguy, che pareva un talento super, a nemmeno 20 dopo aver ben figurato al Fiandre e alla Roubaix. Vichot che ha vinto nel 2017 si è ritirato quest’anno per problemi fisici legati all’overtraining.
A togliere ogni dubbio ci pensa tuttavia Bernard Hinault che nel 1982, terza edizione della corsa, vinse Marsigliese, Giro e Tour. Nell’albo d’oro figura anche Justin Jules che vinse qui nel 2013 e che nel 2008 fu condannato a 5 anni, poi ridotti a 3, di prigione per l’omicidio del patrigno. Justine una sera nel 2004 reagì fatalmente stufo di vedergli alzare le mani per l’ennesima volta su mamma e fratello. Il padre naturale di Justin invece era una buona speranza del ciclismo francese, nel 1984 vinse una tappa al Tour, due anni dopo morì a 26 anni in un incidente stradale. Ma queste sono storie sulle quali ci ritorneremo magari più avanti. Ora godiamoci nuovamente un po’ di ciclismo con van Aert contro van der Poel e speriamo persino che il destino possa farsi beffe della superstizione e che da Marsiglia in avanti (a proposito: Trentin e Vendrame tra i favoriti) si possa vivere una stagione di ciclismo. Avevamo scritto “piena di ciclismo” corretto e cancellato viste le ultime: a febbraio sta saltando una corsa dietro l’altra. Il problema è che poi svoltato l’angolo la stagione da marzo in avanti partirà a tutta. Si spera, almeno, perché non c’è molto altro da fare oltre che attaccarsi alle speranze. D’altra parte i tempi sono questi.
Foto: Nico Veereken/PN/BettiniPhoto©2021
Tutto il tempismo del mondo
Heinrich Haussler a quasi 37 anni correrà per la prima volta un mondiale di ciclocross, lo farà domenica difendendo i colori della nazionale australiana e ammette candidamente: «Spero di non farmi doppiare da Mathieu van der Poel. Se riuscirò a evitarlo per me sarà il più grande successo».
Ma quello che Haussler racconta – e anche come lo racconta – rispecchia il suo carattere, estroso, ma genuino, e anche il suo bizzarro talento: è uno che si fece battere alla Sanremo da Cavendish, superato al fotofinish sulla linea d’arrivo – era il 2009 – e che quando corre la Roubaix e il Fiandre lo fa guidando senza guanti e con risultati eccellenti.
Nella sua vita Haussler ha dovuto superare problemi di natura personale di una certa rilevanza, incidenti automobilistici causati dall’alcol, problemi fisici che sembravano irrisolvibili, e anche psicologici, ma oggi Haussler è cambiato e dice di sentirsi felice come un bambino nel prendere parte a questa esperienza e che si picchierebbe forte in testa per non aver scoperto il ciclocross vent’anni prima. Era il 2019 e lo convinse un amico e collega, Sascha Weber, che lo invitò a partecipare a una gara dalle parti di Friburgo, vicino dove Haussler vive. «Ho due gemelli di cinque anni. Se un giorno mi chiederanno di iniziare a pedalare, li manderò a praticare ciclocross».
Racconta che in questa stagione ha fatto tutto da sé, senza l’aiuto di un team, si è pagato da solo le trasferte, non ha uno staff o un camper al seguito, né un meccanico («Quando può la ragazza di Sascha Weber mi passa la bici di scorta, sempre che non sia impegnata a pulire la sua bici») , si sistema il mezzo da solo al termine di una gara o ricognizione, sentendosi come uno che lo fa per hobby in mezzo ai professionisti. «A volte mi fermo lungo il tracciato per osservare come si muovono van Aert e van der Poel». Resta ammaliato dalla loro maestria nello scegliere le linee, nel guidare la bici, nel prendere determinate traiettorie in discesa. «Sono due gladiatori: vinceranno tutto anche su strada».
Dice, Haussler, che fare ciclocross già lo scorso anno gli ha permesso di svolgere un’attività in strada di maggiore qualità grazie a quell’esplosività e reattività che solo il fuoristrada ti può dare e che i colleghi del ciclocross per lui hanno un motore superiore agli stradisti. «Pensavo fosse perlopiù qualcosa di tipicamente belga, un po’ di cross nel fango e ragazzi che non sarebbero capaci di fare granché su strada. E invece li ho visti da vicino: i migliori crossisti hanno un motore superiore alla maggior parte dei professionisti». E non parla solo dei soliti noti. «Per diventare un grande corridore devi passare da qui».
Domenica avremo un motivo in più per seguire il mondiale di Ostenda, soprattutto perché quel motivo ha la faccia simpatica di Heinrich Haussler, tedesco d’Australia, che pare avrà a disposizione due meccanici mandati dalla sua squadra, la Bahrain Victorious, appositamente per sostenerlo. Peccato che, difficilmente lo vedremo inquadrato – in stagione il miglior risultato è stato un 47° posto e non c’è mai spazio per gli ultimi secondo la regia – ma di sicuro qualcosa di interessante da tramandare ci sarà.
Foto: Anton Vos/BettiniPhoto©2020
Tutte le domande di Lucinda Brand
Lucinda Brand ha raccontato spesso un pensiero che ha puntellato la sua mente mentre era in ricognizione sulle pietre della Paris-Roubaix. Ina Teutenberg e Steve de Jongh avevano procurato giusto qualche giorno prima le biciclette da utilizzare per la classica del Nord e quello era il giorno della ricognizione. Lucinda Brand viene da una “Piccola Venezia”, Dordrecht, nei Paesi Bassi, è questo in fondo. Una cittadina antichissima, costruita sull’acqua, con vicoli strettissimi e negozi che si intravedono da barche elettriche che percorrono il corso d’acqua. Tra porti antichi, ponti bui e case costruite sul fiume, tutto sembra scorrere lì, a pochi chilometri da Rotterdam. Sarà per questo che Brand sente così forte quella realtà tagliente tra Parigi e Roubaix e la descrive così bene, facendo filtrare parole dove prima non erano mai arrivate: «Come fa una bicicletta a non rompersi su queste pietre?».
E forse non c’è domanda migliore di questa per raccontare l’inferno del Nord. Pensiamo spesso che il problema siano le domande e la soluzione le risposte. Pensiamo che si racconti con le risposte e che le domande siano, al massimo, una richiesta di racconto. In realtà non è così o, per quanto, non è sempre così. Certe domande raccontano più di qualsiasi risposta. Le persone, molte volte, si possono capire meglio ponendo attenzione a quello che chiedono piuttosto che a quello che dicono. Sì, perché chiedere o chiedersi qualcosa è sempre più difficile, se non altro per le risposte che potresti darti.
Per esempio, lì, in mezzo alle pietre potresti risponderti che «no, la bicicletta non si rompe, ma tu sei già a pezzi e manca ancora troppo. Come arrivi al traguardo?». E, quando inizi a risponderti così, sei tu ad essere rotto in mille pezzi. Perché non è la domanda a bloccarti, è la risposta. La domanda avrebbe potuto darti la spinta che serviva. Quella spinta è nascosta nel sebbene. «Sebbene io sia distrutta, sebbene non sia forte come questo cavallo di metallo, arriverò al traguardo». Sono i nostri sebbene a renderci forti. In quel momento la tua realtà torna a scorrere: quando non hai paura di farti domande, puoi tornare a Venezia, a Dordrecht o su qualunque barca in un vecchio porto. Quella paura ti passa con gli anni e con le domande che ti arrivano tra capo e collo quando non te le aspetti. Quella paura ti passa anche grazie a chi non si preoccupa delle domande che farai ma delle risposte che saprai dare alle domande che ti verranno fatte. Per esempio grazie a un fratello. Quel fratello, per Lucinda, è Giancarlo. Il papà di Lucinda e Giancarlo era un ciclista professionista e Giancarlo vuole correre sin da bambino. Giancarlo inforca la bicicletta e corre. Eccome se corre. Lucinda lo vede e vuole imitarlo. Possiamo immaginarcela mentre chiede di poterlo seguire, di poter imparare. Succede tra fratelli e sorelle, un istinto di emulazione che è la più feroce dichiarazione d’amore: «Voglio assomigliarti».
Giancarlo fa sul serio, Lucinda inizialmente è più impacciata e, nei primi tempi, Giancarlo deve tornare indietro, deve aspettarla. Così, però, non è possibile proseguire. Giancarlo non può aspettarla sempre e Lucinda non vuole neppure chiederglielo. Il problema sono gli angoli, come sempre nella vita, il problema sono le curve. Non c’è molta scelta: se non vuoi frenare gli altri devi imparare a guardarli e avere il coraggio di credere che puoi seguire la loro scia. Avere la fantasia per immaginare tuo fratello che si volta e, vedendoti, ti dice: «Ah sei qui». Che è come dire: «Adesso possiamo davvero andare via assieme».
Giancarlo non si è chiesto cosa avrebbe potuto pensare Lucinda vedendolo andare via da solo, non ha avuto paura di quella domanda . Sapeva cosa avrebbe risposto alla sua domanda, al suo perché, e sapeva che Lucinda avrebbe capito, prima o poi. Bastava lasciar passare qualche curva e qualche brivido a mezz’aria sull’equilibrio. Vedete? Sono le domande che raccontano: il coraggio, la paura, le rincorse e anche le scivolate. Come quando Lucinda andò da papà e gli chiese di iniziare a gareggiare. Una domanda, una delle poche, fatte a cuor leggero, forse. Sì, perché c’è papà e le risposte di un padre non possono far male, no? No, le risposte di un padre non devono far male ed è appunto per questo che possono far male.
Un padre non deve preoccuparsi del male temporaneo, per quanto lo faccia soffrire, un padre deve preoccuparsi del male non guaribile, quello delle decisioni prese quando è ancora notte, quando non si vede abbastanza bene la strada, quando non è ancora tempo di decidere. Quelle decisioni, mascherate da felicità, sono terremoti dell’esistenza, te la distruggono. Per questo, quel giorno, papà disse no. «Se non ti alleni molto, non ti farò gareggiare». Lo disse per lei. Perché alle domande può anche esserci una risposta dolorosa e non è un dramma. Dopo aver chiesto saprai cosa fare e da lì dipenderà solo da te. Che fa paura, ma fa anche felici.
Foto: Vincent Kalut/PN/BettiniPhoto©2020
Dov'è la casa di Ceylin
Ceylin del Carmen Alvarado ha imparato a sentirsi a casa. Rafael, suo padre, viaggiò ben presto dalla Repubblica Dominicana verso l’Olanda ed il resto della sua famiglia lo raggiunse quando Ceylin aveva appena cinque anni. A quell’età, i ricordi sono ancora nebulose, semmai restano i colori e i profumi, e puoi “fare casa” qualunque luogo ti cresca. Però, se è vero che buona parte della personalità si forma nei primi anni di vita, le esperienze di quel tempo ti consegnano qualcosa che resta inciso in quello che sei. Papà è un ciclista e vuole che la ragazza impari a pedalare seriamente sin da giovanissima. «Lo sport che pratico non sarebbe stata la scelta più logica per il luogo in cui sono cresciuta. Io vengo da Rotterdam» – racconta a CyclingTips – «quante atlete professioniste provengono da lì? Credo solo io e Lucinda Brand». Cabrera è così distante, di lei nella fredda Olanda resta quasi solo la lingua; Alvarado parla ancora spagnolo fra le mura di casa. Ma a Ceylin non manca nulla o almeno così sembra. Fra le vie di Rotterdam come nella terra fangosa in qualche città al centro dell’inverno.
«Sono cresciuta in fretta. Quando sono arrivata io, atlete come Helen Wyman, Nikki Harris e Marianne Vos, avevano lasciato e questo mi ha aiutato, senza dubbio. Soprattutto, però, mi ha guidato la capacità innata che ho in me. Riesco a far mio qualunque tipo di percorso e quando questo accade mi viene naturale fare la mia gara. C’è una natura estremamente fisica in questo sport. Mi spiego?». Circostanze e possibilità, come terra e bicicletta. Perché per saper pedalare nel fango devi saperlo accarezzare, certo, devi saper scegliere la traiettoria migliore, caricarti la bicicletta in spalla e coprirti gli occhi dagli schizzi: in breve devi saperne accettare il potere e la forza. Altrimenti rischi di essere un Don Chisciotte alle prese con i mulini a vento. Ma devi anche essere capace di imporre la tua legge, di spingere quelle ruote più forte che puoi, di strapparle delle scie sbagliate come salveresti qualcuno dalle sabbie mobili. Se non ci riesci, torni a essere Don Chisciotte. Circostanze e possibilità come vita e tempo. «Ho le mie giornate nere e a volte sto male. Dall’esterno sembra mi riesca tutto facile, lo so. Lo faccio sembrare facile, ma non è facile. Da junior ho avuto molti problemi al ginocchio, febbri ghiandolari e polmonite». Quel sorriso, bellissimo, nascosto sotto quei ricci neri che la fanno tutta capelli non è circostanza, è volontà e resta anche quando la luce si spegne.
Alvarado, “facendosi casa ovunque”, ha imparato il valore della sincerità. La vita dei ciclisti è vita del mondo e al mondo che ti accoglie devi la verità di ciò che pensi. Diversamente non sono il mondo, la città, la terra o il fango, a non accoglierti, sei tu a non accogliere te stessa e non potrai sentirti a casa nemmeno per un attimo: «Mathieu van der Poel è pagato per correre o per dare spettacolo? Io sono pagata per correre o per far divertire? Io credo di essere pagata per fare la mia corsa ma so che, se faccio la mia corsa, il pubblico si diverte». Dritta al punto tanto da non sembrare una ragazza di ventidue anni: «Certo che il tema dell’uguaglianza e della non discriminazione sono questioni importanti. Come potrei dire di no? Personalmente, però, non ho avuto alcuna esperienza negativa, forse per questo non sento la necessità di parlarne ogni volta. Solo quello. Oggi il tema si sente in maniera particolare perché il ciclismo sta crescendo sempre più». Alvarado ricorda la sua prima bicicletta: «Non provengo da una famiglia benestante. La mia prima squadra noleggiava le nostre biciclette, così ho potuto iniziare a gareggiare. Ma, prima o poi, i genitori devono comprare una bicicletta per i loro figli e non tutti possono permetterselo: comprare una bicicletta costa molto di più rispetto a comprare un paio di scarpe da calcio. Il ciclismo è uno sport costoso e diventerà sempre più costoso. Le federazioni devono iniziare un lavoro dalla base».
Nel 2020 Ceylin del Carmen Alvarado ha vinto sia il Campionato Mondiale a Dubendorf che il Campionato Europeo a ‘s-Hertogenbosch e di questo bisognerebbe parlarne, questo rende bene l’idea di chi sia. Oppure no? Forse l’idea di chi è davvero Ceylin è racchiusa altrove e lì andiamo a prenderla. «Probabilmente chi fa ciclocross ha un alone meno professionistico rispetto a chi fa strada. Però io qui ho mio padre, meccanico, mia madre, soigneur, e mio fratello, al primo anno da under23. Loro sono i miei appoggi». Già, perché chi viaggia, alla fine, lo capisce. Casa può essere il luogo da cui parti ma più spesso casa è il luogo in cui vuoi tornare. Un luogo da lasciare lì, con ancora qualcosa da sistemare, per avere una buona scusa per farci ritorno. E, se non possiamo sempre scegliere da dove partire, abbiamo il dovere di scegliere dove tornare.
Foto: Twitter/Trofeo Sven Nys
Un ragazzo buono per tutte le stagioni: Jakob Dorigoni
Il colmo per un ragazzo altoatesino che corre in bici e va forte nel ciclocross è non amare il freddo. «Più che non amare il freddo, vado più forte col caldo, ecco», ci racconta con disarmante semplicità e franchezza Jakob Dorigoni, ventiduenne di Vadena in provincia di Bolzano, un paesino con così pochi abitanti che probabilmente tutti si conoscono e tutti tifano per lui.
Proprio da quelle parti, a Nalles, si è corsa nei giorni scorsi una gara che ha avuto un’eco importante per come è riuscita a trasmettere quello che è il ciclocross, immagini di corridori che si davano battaglia in un campo ghiacciato, con la neve che gelava mani e piedi e il fango fin dentro le orecchie. Sofferenza, atroce realtà di uno sport crudo che mette a nudo e sposta i limiti. «Freddo, freddo, freddo, ricordo solo questo. Pozzanghere gelate e a ogni pedalata piedi inzuppati e sempre più freddi. A due giri ho mollato e sono salito nel camper. Ci ho messo ore per riscaldarmi: è stato bruttissimo. È una giornata che voglio dimenticare».
Ha iniziato a gareggiare presto, prestissimo. Aveva sette anni e ha provato ogni disciplina come fosse nato con due ruote al posto delle gambe e con in testa gli ingranaggi giusti, tanto da aver ancora memoria di quell’episodio ormai risalente a 15 anni fa. «Era un giovedì, eravamo usciti per un lungo. Poi c’è stata una gincana e da lì è iniziato tutto». E quando Jakob Dorigoni dice tutto, intende proprio tutto, tutto. «Ho praticato ciclismo su strada, prima, e poi mountain bike, ma da esordiente pure un po’ di pista. Il ciclocross invece è stata l’ultima specialità». L’ultima, ma non per questo la peggiore, direbbero gli inglesi, anzi. “Although the last, not least” spiegava il Re Lear parlando con la figlia Cordelia e definendola “l’ultima, ma non meno cara”. Tutt’altro; nel suo caro ciclocross Jakob Dorigoni ha assunto una dimensione a livello nazionale – sette titoli italiani conquistati in tutte le categorie, tre tra gli under 23 e uno tra gli élite di cui è campione in carica – ma anche internazionale. Quinto nel 2019 nel mondiale di Bogense tra gli Under 23 quando Iserbyt vinse davanti a Pidcock. «Il ciclocross mi piace perché le gare sono sempre varie, diverse, da una domenica all’altra quando magari ti ritrovi una volta a gareggiare nell’asciutto e al caldo, una volta al freddo nel fango, ma non c’è una specialità tra le due ruote che preferisco rispetto a un’altra. Da ognuna di loro prendo qualcosa. La mountain bike è la più dura, d’inverno mi diverto nel ciclocross: sforzi brevi e intensi, d’estate mi piace la strada». Gli piace fare “giri lunghi” precisa.
Nel 2021 ci sarà un cambio di prospettiva. Un’occasione presa al volo da Dorigoni che tornerà a correre proprio in mountain bike dopo qualche stagione, accettando la proposta del team Torpado Südtirol. «Ma no, non penso assolutamente a Tokyo» umile e sincero nel rispondere se per caso la sua scelta fosse dettata dalla possibilità di gareggiare ai Giochi Olimpici. «Intanto riprendiamo a divertirci con le ruote grasse, poi si vedrà. In Italia ci sono tanti atleti forti e meritevoli della maglia azzurra e io al momento non ci penso».
Se invece pensa agli anni di ciclismo su strada Dorigoni più che rammaricarsi ha una punta di amarezza per come è finito l’ultimo Giro Under 23, quello vinto da un altro corridore che dà spettacolo nel ciclocross, come Pidcock. «Stavo facendo una buona classifica generale, ma l’ultimo giorno sono caduto e mi sono dovuto ritirare. Però sono stati anni importanti, ho vinto delle corse, ma soprattutto il mio motore e la gestione delle corse è migliorata grazie all’esperienza maturata e grazie alla possibilità che ho avuto nel correre tre volte il Giro Under 23, una volta il Val D’Aosta e una volta la Ronde de l’Isard».
E a proposito di motore, a quei due lì, dinamitardi, – van Aert e van der Poel – ruberebbe la capacità di fare sforzi intensi per un breve lasso di tempo. «Loro due e Alaphilippe hanno questo che li differenzia da tutti gli altri. Forza esplosiva. Tengono l’ora di corsa molto bene perché sono resistenti, ma anche su strada i risultati arrivano grazie alla loro esplosività e resistenza nei periodi brevi». In cinque minuti di corsa ti mandano in tilt.
Per Jakob Dorigoni, van Aert è un maestro nel preparare le corse più importanti, mentre van der Poel «va forte sempre», raccontando quasi divertito, ma è cosciente che nel Ciclocross vince anche chi sbaglia meno. Giro dopo giro, traiettoria dopo traiettoria è fondamentale saper guidare, saper gestire le proprie forze. Che sia caldo, che sia freddo, estate, autunno o inverno a Jakob tuttavia basta pedalare. Nato non per la bici, ma praticamente in bici.
Foto: Per gentile concessione di Jakob Dorigoni
Una lezione di cross da Daniele Fiorin
Se vi capitasse di osservare Daniele Fiorin al lavoro, durante qualche gara di ciclocross, siamo sicuri che anche voi, come noi, rimarreste colpiti dal senso di ”cura” messo in campo da quest’uomo nei confronti dei suoi ragazzi. Daniele Fiorin è una guida, questo è importante sottolinearlo: «Cerco di trasmettere la mia esperienza in tema di interpretazione del percorso. Nel giusto o nell’errore, ci mancherebbe, non ho la presunzione di non sbagliare mai. Anzi, lo dico sinceramente: alcuni fra i miei ragazzi sono anche più bravi di me e possono permettersi di adottare soluzioni diverse da quelle che suggerisco. Io ho il dovere di indicare una o più chiavi di lettura del percorso. Può capitare che la traiettoria migliore sia adottata da qualcun altro, allora il ragazzo deve avere l’alternativa: il mio dovere è indicare le possibilità e le alternative». Daniele Fiorin monta in sella a una bici, si sposta da un lato all’altro del tracciato e con le mani indica ogni singolo ostacolo, suggerisce la strada da prendere, quando stare in sella e quando scendere e prendere la bicicletta in spalla. «I miei ragazzi hanno diverse età: l’impostazione cambia ma neanche troppo. Da giovanissimi è un gioco, successivamente subentra qualcosa di più tecnico. A me è sempre piaciuto lavorare sulle abilità motorie, mi sono focalizzato sul ciclocross e sulla multidisciplina quando ho visto che con il passaggio agli esordienti questi aspetti mancavano. Pensare che da ragazzo davo del ”pazzo” a chi praticava ciclocross d’inverno, li consideravo stacanovisti che non riposavano mai. In realtà, fatto nei dovuti modi e con i dovuti tempi di recupero, è un grosso aiuto sia dal punto di vista tecnico che condizionale».
La parola chiave Fiorin l’ha già usata, è “gioco”: «L’ho capito studiando all’ISEF. La vecchia concezione prevedeva che il ciclista potesse fare solo ciclismo: io, per esempio, ho imparato a nuotare a diciotto anni, non avevo quasi mai toccato una palla, ho imparato le basi del salto in alto e del salto in lungo. Tutto in un’estate, per l’esame di ammissione. Mi sono sempre detto che i miei ragazzi non avrebbero mai dovuto arrivare a quel punto: va bene l’impegno nel ciclismo ma deve essere affiancato dal divertimento e da altre esperienze sportive». Il cambiamento di approccio che Fiorin ha adottato in questi anni, coincide con un personale cambiamento: i primi allenamenti dei ragazzi venivano svolti durante la fase di defaticamento dei propri allenamenti. Parliamo infatti del periodo in cui anche lo stesso Fiorin correva. Successivamente una sorta di squarcio del cielo pirandelliano: lo studio lo porta a capire ciò che veramente è essenziale dare a questi ragazzi e a queste ragazze: «Come nelle gare si indicano le alternative alla traiettoria designata, così nel percorso di crescita bisogna fare in modo che sia sempre presente la possibilità di scelta. Proprio provando e scegliendo, sono nate atlete come Alice Maria Arzuffi e Maria Giulia Confalonieri. L’una specializzatasi nel cross, l’altra nella pista. Entrambe discipline che da noi vengono considerate assolutamente in subordine rispetto alla strada». Qui si tocca la radice del problema: «Si tratta di un fattore storico e di mentalità. Il primo dipende dal fatto che la nostra nazione ha sempre privilegiato il ciclismo su strada. Gli anglosassoni, pur arrivati dopo, ci hanno surclassato in quanto in grado di sperimentare ed innovare. A noi manca questa capacità. Il secondo è anche un problema dei tecnici: è più semplice insegnare quello che già sai. Per insegnare qualcosa di nuovo è necessario mettersi in gioco e magari imparare i fondamentali della pista già in età adulta. Io, ad esempio, non avevo esperienze nel ciclocross. Tutto quello che ho imparato, l’ho appreso da autodidatta, cercando di osservare con senso critico ciò che facevano gli altri e di ”rubare” ciò che credevo fosse giusto. Senza alcuna paura di chiedere spiegazioni».
Sara e Matteo sono i figli di Daniele e anche loro praticano ciclismo a trecentosessanta gradi, dal cross, alla pista, alla strada, alla cronometro: «Sono molto felice della loro passione ma devo ammettere che non è sempre così facile conciliare il ruolo di tecnico con quello di padre. Mi spiego meglio: come tecnico sono un punto di riferimento per i miei ragazzi. Tante volte i genitori mi chiedono di parlare con i loro figli per spiegare determinate cose. L’impatto che ha un tecnico è certamente diverso da quello che ha un genitore. Con i miei figli manca questo passaggio intermedio. Nell’ambito della squadra si sono dovuti abituare a non avere tutte le attenzioni che magari vorrebbero. Sai, talvolta per non agevolarli si finisce per penalizzarli. Questo mi spiace, davvero, ma forse potrebbe anche essere un bene. Se avranno la fortuna ed il desiderio che il ciclismo diventi il loro lavoro e passeranno in squadre importanti, dovranno abituarsi a essere trattati come ”uno fra tanti”: le troppe attenzioni genitoriali, in questo senso, sarebbero deleterie». Daniele Fiorin è franco. Sia nella chiacchierata con noi che con i suoi ragazzi: «La realizzazione personale dei miei ragazzi è la cosa che più mi interessa. Per questo ripeto sempre: la scuola e il lavoro vengono prima. Quando lavoravo con gli juniores, lo dicevo: “Se vi capita un lavoro che può sistemarvi, pensateci bene. Un conto è divertirsi con la bicicletta, l’altro conto è lavorare con la bici. A potersi mantenere grazie al ciclismo sono ben pochi”».
Alla base di tutto cosa c’è? «L’importante non deve essere il risultato in termini assoluti. Quello può essere condizionato da vari fattori: un infortunio o una circostanza sfortunata, ad esempio. Bisogna lavorare sulla prestazione e provare a migliorare se stessi, non il risultato. Come? Come si faceva a scuola quando si lavorava sulla resistenza, nella corsa ad esempio. Devi pensare ai cento metri davanti a te, certe volte anche meno, raggiungerli e poi ripartire da lì. Così riesci a mantenerti positivo, così riesci ad arrivare al traguardo. La stessa cosa accade quando scali una salita: devi pensare al tornante successivo, non al Gran Premio della Montagna in vetta. Altrimenti rischi di scendere dalla sella e ritirarti. Se ti focalizzi solo sul risultato, sarai molto più portato a smettere non appena questo risultato dovesse non arrivare o non arrivare più». Sarà per le sue capacità tecniche, sarà per la sua capacità di far leva sui giusti stimoli, sarà per come riesce ad entrare nella testa dei suoi ragazzi o per quella cura, scevra da giudizi, che mostra ad ogni gara, ma di Daniele Fiorin parlano tutti bene: «Un allenatore, un tecnico, soprattutto con i giovani, deve essere un educatore. Non riesco a immaginare un modo diverso per interpretare questo ruolo. Quando si entra nei meccanismi psicologici, è utile ribadirlo: non sono uno psicologo e, sicuramente, avrò sbagliato diverse volte e diverse volte ancora sbaglierò. Però provo a prendermi cura del benessere psico-fisico dei miei ragazzi. La mente, spesso, è molto più importante delle caratteristiche fisiche. Se si inceppa qualcosa a livello mentale, si inceppa tutto. Serve molta attenzione».
(Crediti foto in evidenza: Fabiano Ghilardi)
Di Eva Lechner e della libertà
Ci piace ricordare chi notava una profonda similitudine tra uomini e cavalli: «Il cavallo avrebbe una tale forza che, se non intendesse sottomettersi, nessuno riuscirebbe a domarlo. Ad un certo punto però si arrende e accetta questa sorte. Noi siamo così: l'uomo, per natura, è indomito ma deve vivere e vivere con gli altri e per questo cede. Noi crediamo a tante cose di cui in realtà non sappiamo il vero significato, ci crediamo perché ci sono indispensabili per continuare ad esistere in questa società». Ci piace ricordarlo perché parlare di Eva Lechner, in fondo, significa parlare di questo: «La mia è una continua ricerca di libertà. I cavalli rappresentano perfettamente questa libertà di cui mi nutro come pane. Già da ragazza li amavo e ne avrei voluto uno ma i cavalli costavano troppo e in famiglia non potevamo permetterceli; avevamo un pony. Il giorno in cui lo abbiamo venduto è stato il giorno della mia promessa a me stessa: "Quando sarò grande, mi comprerò un cavallo!" Quel giorno é arrivato nel 2009 quando ho comprato il primo cavallo: oggi ne ho cinque». E non è il solito discorso, tanto vero quanto inflazionato, legato alla bicicletta che fa sentire liberi. Non vi stiamo raccontando solo di questo. La libertà nella storia di Eva Lechner ha qualcosa in più. Perché Eva Lechner della libertà ha capito qualcosa in più.
La libertà di Lechner è una libertà densa. Colma di tutto ciò che le appartiene ed anche di ciò che, apparentemente, ne è l'opposto. Di rinunce, ad esempio, che non sono quasi mai l'opposto della libertà, anche se all'inizio possono sembrarlo. Sono il suo prezzo, semmai, ma questo è il senso della conquista: «La mia famiglia non aveva molte possibilità economiche e all'inizio usavo la bicicletta di mia sorella. Per avere una bicicletta tutta mia, una mountain-bike, quell'estate andai a lavorare. Era una Giant argento con la marca scritta in blu. Avevo sedici anni». Perché la libertà, in fondo, a parte la bellezza, l'importanza, non ha molto di diverso da tutte le altre cose che possiamo desiderare nella nostra vita. Vive di un delicato gioco di equilibri come ogni fatto, qui. Forse sembra differente perché scorre in ogni dove, la si può cercare ovunque, la si può inventare o "costruire" ovunque, e gli uomini, nella loro tracotanza, la bramano ansiosamente e la vorrebbero tutta, ma proprio tutta, senza nulla in cambio. Eva Lechner potrebbe raccontare di tutto questo ed in un certo senso lo fa.
«La mia quotidianità è anche una quotidianità di rinunce. Vado poche volte al cinema e vedo poco i miei amici. Mi dispiace? Certo che mi dispiace. Dico di più: certe volte mi sveglio al mattino e avrei voglia di fare tutto tranne che di uscire in bicicletta. In inverno fa freddo, spesso piove, magari non stai bene o hai preoccupazioni che ti tolgono energie. Lì devi lottare con te stesso. Devi dirti che questa è stata una tua scelta, che oggi è il tuo lavoro e hai il dovere di continuare a farlo al meglio senza lasciarti influenzare da tutto quello che ti frulla in testa. Questo dovere, per te, è ancor più forte perché questo lavoro lo hai scelto, cercato, voluto. Perché, alla fine, sai che quando riesci a varcare la soglia di casa e inizi a pedalare ti torna in mente il motivo per cui lo fai. Torni a sentirti bene, meglio di prima, e sei sicura che scelta migliore non avresti mai potuto fare». Una libertà totale sarà difficilmente possibile e forse gli uomini, indomiti per natura, continueranno a soffrirne e a dibattersi come cavalli con le redini al collo e l'anima altrove, in qualche prateria ai confini dell'azzurro. Per l'uomo sarà però sempre possibile la libertà di scegliere ciò che vuole diventare, consapevole di tutto ciò che questa scelta gli toglierà ma fiero di quello che questa stessa scelta gli porterà. Perderà qualcosa ma avrà qualcos’altro. Del resto non esiste prateria che non si disperda nell'orizzonte.
Foto: Bettini