Pochi giri di parole: intervista ad Alessandro De Marchi

“Senza troppi giri di parole” potrebbe essere uno dei concetti che semplifica al meglio la chiacchierata con Alessandro De Marchi, friulano di Buja, provincia di Udine.

Senza troppi giri di parole potrebbe essere un marchio di fabbrica tipico delle sue zone e alla domanda «cosa c’è di friulano nel tuo modo di correre?» De Marchi è per l’appunto conciso, diretto: «La concretezza, il fatto di non voler mai essere troppo al centro dell’attenzione; il darsi da fare, il rimboccarsi le maniche, perché poi alla fine è questo quello che paga».

Senza fronzoli, e da subito lo mette in chiaro: «non è stata una stagione serena, felice; da salvare piccole cose, ma buone, come il fatto di aver corso un altro Giro, un’altra Vuelta, come il fatto che l’impegno mentale nelle difficoltà mi ha portato a imparare nuove lezioni che mi porterò dietro nel 2023. Ma a livello di risultati…»

Spiega, De Marchi, nel 2022 in maglia Israel PremierTech, come ormai si sia arrivati a «Un ciclismo che non ti aspetta più» e dove lui, 36 anni compiuti a maggio e dodici stagioni da professionista, si è trovato a inseguire. «Oggi devi essere perfetto, sempre competitivo: difficile pensare di andare alle corse e allenarti, pensando di sistemare qualcosa. Io ho avuto una primavera funestata da malanni - il Covid, la bronchite, problemi di stomaco - arrivati sempre nei momenti sbagliati, ovvero quando dovevo correre, e al Giro mi sono presentato in condizioni che definirei pessime, sempre con l’idea che correndo sarei migliorato, ma nel ciclismo di oggi non funziona più così. Non c’è spazio per recuperare correndo o per inseguire la condizione in gara».

Un ciclismo più intenso, più veloce, lo definisce, dove non c’è quasi più modo per costruire una carriera a piccoli passi e in modo graduale, dove i giovani che si affacciano oggi sono costretti a bruciare le tappe perché qualcun altro lo ha fatto prima di loro. «E questo impone ritmi molto più accelerati rispetto a qualche anno fa» aggiunge al suo pensiero.

Ritmi alti nel cercare di realizzare una carriera, ritmi diversi nel preparare una stagione: «Chi come me appartiene a un paio di generazioni fa è costretto ad adattarsi, a cambiare approccio nel modo di lavorare. Fare una mezza stagione brutta come l'ho fatta io diventa un macigno, ti taglia le gambe. In corsa c'è una marea di gente che andando forte ti fa finire in fondo al gruppo. Non puoi più permetterti errori madornali, perché poi non hai più molte possibilità di recuperare e di fare risultato». Da questo punto di vista, dice, uno degli errori è stato quello di aver corso troppe gare nel 2022: «Con il senno di poi dico che avrei potuto correre di meno, dedicando più tempo all’allenamento: lo scorso anno ho fatto un’ottantina di corse, forse un numero eccessivo».

Parlando dei cambiamenti in atto non si può non toccare gli argomenti che riguardano il diverso sforzo richiesto da tappe più brevi che si corrono a tutta dall’inizio alla fine, vedi un percorso del Tour che qualcuno, invece che “de France”, lo ha definito ironicamente “de l’Avenir”, e una diversa preparazione: «Sta diventando uno sport di velocità, di potenza, mentre prima ero uno sport di resistenza. Quindi tutto va gestito secondo questo approccio».

Racconta, De Marchi, l’importanza del ruolo di Raimondo Scimone, il suo procuratore, nel trovare un contratto per i prossimi anni, a fine stagione: «Nel momento di massima difficoltà, lui ha tenuto sempre la barra dritta. A un certo punto mi sono trovato in una situazione complicata riguardo al futuro: non è che mi sono svegliato un giorno e ho detto basta, semplicemente non arrivavano offerte concrete. Poi grazie a Scimone abbiamo trovato una sistemazione».

Nel 2023 De Marchi correrà, infatti, con il Team Bike Exchange, una squadra che ha cambiato molti corridori e si affaccia ambiziosa alla prossima stagione: «Dove ritroverò Pinotti (tecnico della squadra australiana, dove si occupa delle cronometro, la sua specialità prediletta quando correva NdA) con il quale sono stato prima in BMC e poi in CCC. Una squadra organizzata e con una storia importante alle spalle e che da subito mi ha fatto una proposta stimolante: andare al Giro a fare da chioccia a un gruppo di giovani».

Al Giro dove ci saranno tre crono, una che si correrà proprio in Friuli, al Giro dove ci sarà probabilmente pure Evenepoel. «Ma la sua eventuale presenza non sarà un mio problema». conclude, abbandonando per un attimo il suo modo posato di esprimere i propri concetti e lasciandosi andare a una mezza risata.

Lo abbiamo detto: Alessandro De Marchi non usa troppi giri di parole e nel 2023 vorrà far girare principalmente le gambe.


Unbound Gravel: tornare cambiati

Emporia è subito sembrato un universo parallelo all'interno degli Stati Uniti d'America. In realtà, appena toccato il suolo, Mattia De Marchi ci ha pensato: «Sono in America» e gli è sembrato strano, eppure bello. Certamente contrastante con quella sensazione di normalità che può affliggerti quando ti abitui a ciò che fai. Ad Emporia, l'abitudine non si è mai fermata: come avrebbe potuto fra tutti quelle persone che lasciano le proprie case per far spazio ai concorrenti dell'Unbound Gravel? Come avrebbe potuto scossa da quei clacson che per strada suonano ai ciclisti solo per salutarli, per dare il benvenuto?
Mattia De Marchi li ha sentiti e sono stati esattamente come la sua indole, qualcosa che bussa alla porta e ti ricorda perché lo stai facendo. «Inseguire Ten Dam probabilmente non è stata la scelta giusta e dovrei dirti che non lo rifarei. Invece no, lo rifarei perché facendo diversamente non sarei io. Avrei potuto piazzarmi meglio ma attendere non fa per me. E poi cosa avrebbero guardato tutte quelle persone che seguivano sulla grafica il puntino blu che mi rappresentava e speravano ce la facessi? Proviamo a pensarci». Ten Dam, quando lo ha visto, incollato alla sua ruota gli ha subito chiesto chi fosse e, sentendo il suo nome: «Mi ricordo di te a "The Traka", sei in gamba. Dai che facciamo all in».
Mattia, in quel momento, ha potuto solo sentire quelle parole, non vedeva quasi più nulla perché, la pioggia, faceva rimbalzare quella sabbia collosa sugli occhiali, rendendo impossibile tenerli: «Ad un certo punto, li ho tolti e quei granelli mi entravano negli occhi, facevano male, io, però, ero solo innervosito perché iniziavo a perdere le ruote, mi superavano. Al traguardo non vedevo quasi più nulla e lì ci ho pensato: "Mattia, ragiona: non vedi più e hai in mente solo la gara?". Per fortuna non era niente di grave e la vista è tornata, ma mi ha fatto riflettere». Certo, fa riflettere perché spiega cosa accade in quei chilometri in sella, il misto di sensazioni che ti estranea da tutto ma, alla fine, ti lascia lì, lucido e a contatto con gli altri, su quelle strade che cambiano repentinamente forma e direzione.
Boswell e Stetina non vanno all'attacco con lui e quando viene ripreso lo affiancano: «Bel numero». De Marchi non ce la fa più, è al gancio, ringrazia e stringe i denti. «Dai 320 chilometri dell'Unbound Gravel torni comunque cambiato, è questo il punto. L'esperienza resta e va oltre il risultato. Ciò che succede ad Emporia te lo ricordi appena pensi a questo sport». La conseguenza è un pensiero al mondiale gravel su cui sta riflettendo l'Uci: «Chiedo di pensarci bene, perché le gare che stanno organizzando sono solo gare, non c'è nulla di tutto questo. Ci si pensi, si studi ciò che accade negli altri paesi e ci si prenda tutto il tempo prima di organizzare un mondiale. Altrimenti, per sfruttare le opportunità che il gravel offre, rischiamo di snaturare quello che è. Non spetta a me decidere e ho pieno rispetto di chi lo farà, ad oggi, però, spero proprio che questo mondiale non ci sia».
Nel frattempo c'è un viaggio in Africa fra pochi giorni e diverse gare proprio lì. A Mattia hanno già detto che all'arrivo in aeroporto le persone affiancheranno i ciclisti e chiederanno cosa facciano con tutte quelle biciclette, perché in Africa questa abitudine manca. Lui sta pensando alla risposta da dare, a come spiegare ciò che accadrà: «Ho scelto di non aspettarmi nulla e di vivere questa avventura per quello che sarà. Ogni tanto, però, mi immagino i bambini che ci cercheranno e ci rincoreranno. Mi dico che sono fortunato e quel volo vorrei prenderlo il prima possibile. Anche adesso».


Unbound

Mentre l’UCI cerca di capire come, dove e quando fare un mondiale Gravel è opinione comune che Unbound sia la gara più importante al mondo quando si parla di strade sterrate.
Lo scorso weekend i più forti atleti gravel (e non) al mondo si sono dati appuntamento ad Emporia, Kansas, per darsi battaglia e celebrare un weekend di ciclismo e divertimento allo stato puro.
Circa 5000 i partenti, divisi su tre distanze di cui quella da 200 miglia (330 km) è indubbiamente l’evento principale del weekend. Al via nomi di spicco come Lachlan Morton, Nathan Haas, Peter Stetina ma anche outsider provenienti da altre discipline come Cameron Wurf e Ashton Lambie. Per la prima volta, anche un buon gruppo interessante di europei oltre al solito Laurens Ten Dam. Mattia de Marchi e Ivar Slik per fare due nomi.
La gara è stata durissima, complicata dai forti temporali che hanno trasformato le lunghissime strade dritte sulle colline in fiumi di fango nella seconda metà del tracciato. Mattia de Marchi e Laurens Ten Dam hanno provato il colpaccio da lontano, prima di essere ripresi e lasciare spazio a quello che restava del “gruppo”. In un finale strettissimo, ad avere la meglio è stato Ivar Slik: una prima volta quasi storica per un atleta europeo.
La festa è per tutti, perché per i più la vera sfida è portare a termine uno dei percorsi a disposizione, che sia quello da 200, da 100 miglia o da 350. Festa e show come solo in America si sa fare, con pubblico in partenza e all’arrivo degno di una gara World Tour. Poi domenica mattina tutto ritorna alla normalità di un modesto paesino di 25000 anime in mezzo ai campi e alle colline del Kansas.


Il divertimento per De Marchi

Che a De Marchi venga bene vincere con la pioggia è un dato di fatto. Pioveva (anche) qualche anno fa al Giro dell'Emilia. Pioveva a dirotto ieri sul traguardo - e per la verità su tutto il tracciato - della Tre Valli Varesine quando nella volata a due con Formolo («Beh volata è un parolone. Più che altro una moviola degli ultimi 200m» ci dirà scherzosamente) l'ha spuntata lui, il "Rosso di Buja", il "Capitano" come lo chiamano orgogliosi i ragazzi del Cycling Team Friuli, la squadra che lo ha lanciato, la squadra dove De Marchi resta simbolo e punto di riferimento, per carisma e dedizione, trasparenza e sensibilità, per il suo spirito di appartenenza.
Ha vinto poco in carriera (6 successi da professionista), ma benissimo: tappa al Delfinato, 3 tappe alla Vuelta e poi, per l'appunto, Giro dell'Emilia (era il 2018) e Tre Valli Varesine, ieri. Sta vivendo un finale di stagione dove, nonostante il brutto incidente al Giro d'Italia, sta correndo come meglio sa fare: da protagonista. Con la sua squadra di club e con la nazionale. Serio e affidabile, come direbbe lui: un agonista.
Su #Alvento16 lo avevamo intervistato. Un'intervista densa e ricca di spunti che ci ha dato la possibilità di far conoscere l'umanità di questo ragazzo classe '86 che raccoglie risultati importanti quando corre, ma che una volta sceso dalla bici ha tante, tantissime cose da raccontare, arguto e mai banale. E questa che riportiamo è davvero soltanto una minima parte:
«Ci si diverte di meno nel ciclismo? Dipende. Uno può continuare a divertirsi anche se le regole cambiano. Forse abbiamo perso la capacità di essere liberi nel modo di interpretare una corsa. Quando le tappe sono noiose, la responsabilità è nostra: siamo noi corridori a renderle così. I tempi sono cambiati, mi sta bene, ma dovremmo arrivare al punto in cui siamo noi a dirci chi se ne frega oggi corro anche per fare terzo. Quest'anno al Tour of the Alps mi sono trovato in fuga con Nicolas Roche: mancava talmente poco che avremmo potuto tranquillamente mollare, alla fine un secondo o un terzo posto a me e a lui cambia assolutamente niente, però abbiamo deciso di farci inseguire dal gruppo e divertirci, e credo che abbiamo anche fatto divertire. Siamo arrivati che eravamo emozionati come se avessimo vinto».


La lezione di Mattia De Marchi a Badlands

Pochi giorni dopo Badlands, a Rimini, un ragazzo ha avvicinato Mattia De Marchi solo per dirgli che gli sarebbe piaciuto essere come lui. «Gli ho risposto che poteva farlo: avrebbe dovuto solo allenare la mente più che il fisico ma poteva fare tutto ciò che avevo fatto io. Molte persone si fanno intimorire dall'idea di non essere all'altezza; sono sciocchezze. Un viaggio come questo lo consiglierei a chiunque. Non come ciclista, come uomo». De Marchi è certo che la sua vittoria in terra di Spagna, i 750 chilometri percorsi in 43 ore e 30 minuti siano solo una parte del racconto che Badlands merita. «Per esempio, vorrei raccontare che mi mangio ancora le mani per i tratti percorsi di notte, perché avrei voluto vedere quei paesaggi e giuro che ci tornerò. Non solo: potrei dire del rammarico che ho per essermi perso anche la paura del vuoto, le vertigini che ho da sempre, in un sottile tratto di deserto a precipizio nel nulla. Sono andato così veloce perché non me ne sono reso conto, altrimenti probabilmente mi sarei attaccato alla roccia per diversi minuti. È il prezzo da pagare per aver vinto».
Ora che è trascorso qualche giorno dal suo arrivo a Granada si rende conto di quanto Badlands sia stata la gara che non immaginava. Una gara assurda che a pochi chilometri dal centro ti porta in un deserto, poi in una palude e ancora in un deserto, fino al mare e di nuovo alla città. Una gara che ti fa scoprire la Spagna nascosta, quella silenziosa, dai contorni mai visti. «Immaginavo Girona o Barcellona e ad ogni curva mi chiedevo: e adesso dove finiremo? Discese tecniche, sterrati, salite ripide e chilometri nel nulla». Dopo tante gare, la gara in cui ha sconfitto una delle sue fobie: pedalare da solo la prima notte di una corsa. «Non so perché, l'idea mi ha sempre terrorizzato. Al tramonto ero a ruota di Sebastian, un ragazzo tedesco. Ero tranquillo, quando lui ha iniziato a staccarsi. Pur di non restare solo, l'ho anche aspettato: non arrivava. Non è stato facile ma ci sono riuscito. Ho superato una paura che altrimenti non avrei mai superato».
Il segreto, in fondo, non è così complesso. Mattia De Marchi lo dice a tutti, ciclisti e non: nei momenti difficili bisogna ricordarsi sempre che succederà qualcosa che cambierà la situazione. A lui è accaduto l'ultima notte. «Avrei dovuto arrivare intorno all'una, in realtà sono arrivato dopo le cinque. A un certo punto non volevo più pedalare, ero talmente stanco da non sentirmela più. Ha cambiato tutto un messaggio di Federico Damiani, compagno in Enough Cycling. Sono bastate poche parole rivolte al gruppo di Enough: “Guardate cosa sta facendo Mattia! Ci vorrà tempo prima di capire la grandezza di quello che ha realizzato”. È tornato il coraggio, è tornata la forza per pedalare».
Quella forza che è anche piacere. Mattia ne parlava pochi giorni fa con Alessandro De Marchi, suo cugino. «Alessandro ha ancora tanta fame, perché nessuno gli ha mai regalato nulla. Forse anche per questo ha capito che bisogna imparare a godersi la bicicletta senza aver sempre e solo la testa sulle tabelle. Altrimenti ti stanchi, ti stufi e smetti. I professionisti devono capire che liberare la testa fa bene come allenare il fisico». Anche a Mattia De Marchi capita di non aver voglia di allenarsi, allora prende la bicicletta da gravel e va sugli sterrati, nei boschi: basta staccare per qualche ora dalle strade d'asfalto, dalle auto e ci si rigenera. In autunno ha programmato un viaggio di due giorni proprio con Alessandro. «Ho provato anche a portare dei giovani ciclisti con me. Tornano a vedere il mondo e si stupiscono, così faccio notare che quelle cose ci sono sempre state, erano loro a non avere occhi per guardarle».
Anche per questo Mattia si sente fortunato, lui che ha sempre voluto essere un esempio e ci è riuscito. «Nelle fasi finali di Badlands ero rimasto senza cibo, aspettavo di arrivare in un paese per recuperare qualcosa. Ad un certo punto, in fondo a una strada bianca, noto un furgone rosso e una famiglia che mi chiama. Mi avevano preparato un panino e dell'acqua fresca. Avrò perso qualche minuto ma ho voluto fermarmi con loro. Capisci? In Spagna, qualcuno teneva così tanto a incontrarmi che è venuto a cercarmi in gara. È stupendo». Sì, perché come dice Mattia De Marchi, alla fine, tutto torna.


Tormento senza estasi

A una media di circa 37 km/h e in sella a una bicicletta, Bagno di Romagna è parecchio lontana da Siena. Se poi vai giù dopo quattro chilometri diventa un calvario.

Sono passati pochi minuti dal via, forse sei o sette, massimo otto, quando Marc Soler cade. Sbatte la schiena e si rialza, come fa un ciclista quando assaggia l'asfalto, e chi va in bicicletta sa di cosa parliamo. La telecamera si ferma a lungo su di lui, mesto, con un compagno di fianco, arriva l'auto del medico, persino l'ambulanza, si tocca la schiena, ha male dappertutto. Qualche gesto plateale che fa parte del personaggio.
Chi ha visto il documentario sulla Movistar uscito un paio di anni fa si è fatto un'idea di lui. Talentuoso quanto bizzoso, quando si accende in salita è tra i più forti, e il Tour de l'Avenir vinto non fu per caso.

Due anni fa, durante la Vuelta, mentre il gruppo saliva verso Andorra, Soler era davanti in fuga e assaporava il successo. L'ammiraglia lo richiamò: «Dietro Valverde e Quintana hanno bisogno di te», Soler si girò mandando tutti a quel paese, volarono insulti quel giorno e in quelli successivi. Soler è un tipo difficile da tenere a bada.

A questo Giro era tra i pretendenti a un buon risultato, tanto che l'altro ieri, tra uno sterrato e l'altro, aveva dato un'accelerazione in testa al gruppetto dei migliori, pagando poi nel finale di corsa.

Soler è sempre lo stesso, forte ma volubile, è quello che vinse al Romandia un paio di settimane fa esultando polemicamente col dito davanti alla bocca, lo stesso che ieri è caduto e si è rialzato nonostante il dolore. È cambiata solo la prospettiva in questo Giro dopo una rincorsa al gruppo che stava diventando un'agonia.

E ieri il suo tormento si è chiuso dopo 50 km di telecamera fissa sul suo malessere. Lascia il Giro, mancando l'ennesima occasione per dimostrare chi è.
Il ciclismo, tra le sue peculiarità, è uno sport che dà poco e toglie molto. Ripido in salita come in discesa: una bilancia della giustizia falsificata. Pensate a De Marchi: a un certo punto lo abbiamo visto riverso sull'asfalto. Chi ha mandato in onda le immagini è stato penoso ancora più che impietoso, lo diciamo senza morderci la lingua: era proprio necessario indugiare come l'occhio di un avvoltoio? Era proprio così utile farlo senza sapere nulla sulle sue condizioni?
De Marchi solo qualche giorno fa ha vestito il sogno di una vita per un corridore italiano: la maglia rosa. Ieri è stato trasportato in ospedale con botte e fratture, e quelle immagini non le avremmo mai volute vedere, noi, figuriamoci le persone più vicine a lui. Quelle immagini non sarebbero mai dovute andare in onda almeno fino a notizie rassicuranti avvenute.

Ieri è stata la tappa del calvario e dell'agonia: Bagno di Romagna è davvero lontana da Siena. Naesen cade mentre cerca di mettersi una mantellina; Goossens cade, batte il fianco destro e si ritira, Dowsett chiude il suo tormento poco dopo quello di De Marchi, sconfitto dai dolori allo stomaco. Masnada dà una risposta alle contro prestazioni dei giorni scorsi e abbandona per un problema al ginocchio. E poi ancora lo strazio di vedere Petilli, Ulissi e Tesfazion soffrire in discesa e staccarsi. E poi un altro ritiro, quello di Mäder. Pochi giorni fa vinceva la tappa il giorno dopo la caduta con ritiro del suo capitano Landa, prendendosi una rivincita su quel finale strappacuore della Parigi-Nizza. Per la sua squadra un tormento continuo. Bello il Giro d'Italia, è vero, formidabile sport il ciclismo. Ma quanto patire.

Foto: Luigi Sestili


Sogni e bevute in un'imperfetta primavera italiana

Si va all'attacco. Alla follia. Allo sbaraglio. Una tappa che pareva giocata in seconda serata. Buia, coi decadenti tratti di un'imperfetta primavera italiana. Acqua tutto il giorno, la maglia rosa che tira il gruppo, il segnale televisivo che scompare per un po' e rischia di rovinarci una tappa che per ore è un lento attendere il finale, e poi si risolve come fosse lo spettacolare arrivo di una classica, tra strappi inconcepibili, freddo cane e pioggia.

Si risolve con la longilinea fisionomia di Joe Dombrowski, uno ritenuto forte, ma troppo estroso per il ciclismo, amante delle macchine e delle bevute nei boschi con gli amici, che ha prodotto una birra dubbel invecchiata nelle botti di rum e che porta, più o meno, il suo nome: Dombrewski.

Si risolve con la faccia lentigginosa di Alessandro De Marchi che stasera farà volentieri a cambio della sua maglia color vino, con quella più appariscente Rosa. Anche lui produttore, però di vini che portano il marchio “Rosso di Buja”, il suo soprannome.

Si risolve con un Ciccone che va (forte) verso Sestola, dove si fece conoscere; con Landa che attacca e poi si attenua, con Bernal che fa le prove per vedere come stavano gambe e schiena, con un Carthy magro da far paura ma che non soffre il freddo, con le forme perfette in bici di Vlasov, che punti deboli sembra non ne abbia.

Si risolve con la cifra di Yates, oggi accorto, forse troppo: tutti lo pensavano lì davanti e invece cede il passo, seppure in modo quasi impercettibile: d'altra parte 11'', cosa sono? Da dopodomani lo aspettiamo nella versione gemello forte.

C'è la cifra di Evenepoel che è già davanti, mentre il suo compagno di squadra – ancora per poco – Almeida soccombe ai riti che lo vogliono separato in casa. C'è la cifra indecifrabile di Bettiol: mai te lo aspetteresti lì, dopo aver sofferto per tutta la primavera e oggi chiude con i migliori di classifica; o quella di Moscon, forte da non crederci, quasi da lustrarsi gli occhi.

E c'è la cifra di un Giro che regala sogni arditi: ieri a Taco, oggi a Taaramäe, che prova a scacciare gli incubi della Vuelta 2009 quando si piantò in salita dopo essere stato tutto il giorno in fuga (come oggi). Verso Sestola sbaglia i tempi, quella volta sbagliò a montare i rapporti fermandosi in lacrime a bordo strada.

C'è la cifra di Fiorelli che sfiora un sogno a 27” dal vincitore, lui che battagliava il secondo giorno tra i folli delle volate, e oggi arriva dove nessuno se lo sarebbe mai aspettato. C'è quella di Nibali, eterno lì davanti, quelle deludenti di Buchmann e Sivakov, e un po' sottotono di Masnada.

E poi di nuovo ecco la cifra del vincitore, Dombrowski, uno di quei tanti passati professionisti con la fastidiosa nomea del ”predestinato”, tanto che fu il Team Sky a prenderlo. Vinse il Giro dei giovani, conquistò Gavia e Terminillo, e alla prima serata con la squadra inglese non sfuggì al rito di iniziazione: ubriaco, fu costretto a inscenare uno spogliarello. Oggi per lui prima vittoria in carriera lontano dalla sua America.

Alla salute, Giro. Da domani altre storie.

Foto: BettiniPhoto