Wout van Aert in un teatro di ghiaccio

Percorso? Bello e duro. Il contorno? Paura del freddo. Sensazioni che sono poi le parole più gettonate alla vigilia. "Tricky" è quella che usa più spesso Pidcock per definire un tracciato che, con i suoi 1261 metri d'altitudine resta unico nel panorama attuale della Coppa del Mondo di ciclocross. Per qualcuno è come guidare sulla sabbia, per altri sarà peggio che (sciare!) sulle uova.
Un freddo cane. Per chi corre e per chi sta a bordo strada dove le parole più gettonate in questo caso sono allitterazioni. «Alè alè alè, vai Wout». A momenti non si conosceva altro modo per esprimere i sentimenti.
Suggestivo, non c'è che dire. Un teatro di ghiaccio. Dove Wout van Aert inscena il suo monologo. In testa dal minuto numero nove e pochi secondi scarsi, fino all'arrivo. Gli altri erano già a Vermiglio quando ieri lui vinceva a Essen. Arrivava solo verso sera in Italia e in mattinata provava, tranquillo, la pista. Chi lo ha visto nelle prime ore del giorno, lo ha ammirato sereno bici in spalla, attento alle traiettorie (ma con piccola caduta), e poi via a memorizzare i punti più difficili.
Si adattava velocemente. Emblema del talento. Qualche sbavatura, ci mancherebbe altro, Vanthourenhout che prova l'allungo subito uscito bene dalla prima curva, ma van Aert prende confidenza, lo affianca, lo guarda per un attimo. Poi se ne va.
Nessun problema di concetto, solo qualche rischio su una bici che prova a tagliare in due la neve, a tratti dura, aggressiva, a tratti molla: avesse avuto gli sci ai piedi sarebbe stato tipo una Sofia Goggia, oppure il genio di Clement Noel che tra i pali stretti si accende a intermittenza come mostrato solo poche ore prima da tutt'altra parte. Con una carabina in spalla oggi van Aert avrebbe preso tutti i bersagli.
E in Val di Sole, teatro di ghiaccio per l'occasione e dove quel sole che sta nel nome lascia solo qualche scia e la fotografia si impregna di un blu intenso, si creano ambizioni importanti per il movimento (obiettivo Giochi Olimpici), ma si parla la lingua del fuoriclasse tutto muscoli, testa, tempra e spirito.
Capace di vincere in salita, a cronometro, in volata, nelle corse di un giorno, nel fango e oggi persino sulla neve. Trionfante, senza tentennamenti o quasi, davanti a Vanthourenhout e Pidcock autore di una superba rimonta.
La prossima volta, in caso, proviamo davvero a vedere come van Aert se la cava con un paio di sci ai piedi. Intanto qualcuno afferma, visto che van Aert va forte un po' dappertutto: in una giornata epica per il motorsport, vince il miglior motore delle due ruote. Non sarà un caso.

Foto: Giacomo Podetti


Come cristalli

Sembrerebbe sabbia, vista dall’alto. Magari di qualche spiaggia a ridosso del mare del Nord. Sono cristalli di neve, invece, a Vermiglio, in Val di Sole. Qualcuno racconta che ognuno abbia una forma particolare, diversa dagli altri, come le impronte digitali umane. Non ti aspetteresti biciclette da cross qui.
Se qualche giorno fa, vi avessimo raccontato la storia di Fem Van Empel, certamente vi sarebbe tornata in mente, vedendola davanti dall’inizio. Questa ragazza che giocava a calcio e provava qualunque ruolo perché le interessava correre, insistere. Il calcio l’ha lasciato perché ha capito che non tutti in campo davano il loro meglio, che c’era chi si risparmiava. Ha preso la bicicletta perché lì dipendeva tutto da lei. È stata una delle poche a riuscire, qualche volta, a saltare gli ostacoli in sella, senza scendere.
Non è facile con queste canaline che si formano tra la neve farinosa: c’è il rischio siano ghiacciate, puoi sprofondare, di certo sbandi, ne esci sbilenca, quasi scomposta, la prospettiva futurista di un corpo umano. Il sole qui arriva per poco tempo, il resto è ombra e luce biancastra che imbroglia.
Marianne Vos è quella di sempre, anche se ha un incidente meccanico e una scivolata che sembra impedirle di ritornare su Van Empel proprio dopo una rimonta incredibile.
Un brutto presagio come un malinconico tramonto, il sole che se ne va, poco dopo le due del pomeriggio. Dietro si continua a prendere la bici in spalla e rincorrere. Dopo cinque giri sembra di sentire il fiato che finisce e l’aria fredda che dalla bocca spalancata gela la trachea, si impossessa del respiro.
Vos e Van Empel arriverebbero allo sprint se non fosse per la neve o forse per un paletto in una curva che Vos non vede e frana a terra. Sembra infinito anche il tempo per rialzarsi qui, invece sono pochi secondi, quasi di agonia, perché scivoli e perché sai che l’altra se ne va.
Van Empel, a soli diciannove anni, vince davanti a colei che ha vinto tutto. Seguono Vos e Rochette, Eva Lechner è quarta, Alice Maria Arzuffi settima, Silvia Persico decima. C’è chi dice che Van Empel, dopo ciò che ha fatto, meritava la vittoria e chi sostiene che per quello che ha fatto Vos oggi è un peccato sia finita così. Forse sono vere entrambe le cose, com’è vero che, comunque vada, vince uno solo, giusto o meno che sia. Basta poco per una ciclista, dura e fragile come cristallo di neve.

Foto: Giacomo Podetti


Ciclisti delle nevi

Da una decina di giorni, a Vermiglio, le ruspe di Flanders Classics coordinate da Chris Mannaerts spostano, compattano, rovesciano neve. Un gatto delle nevi grande quando un bilocale ha lisciato un minimo il fondo, ma fin dai primi minuti di prove libere si capisce che presto verrà rotto dalle biciclette, come una pista alle quattro del pomeriggio dagli sci.
«Il tracciato è diviso in due parti» spiega Mannaerts. «All’inizio c’è un tracciato più tecnico e poi dall’altra parte del fiume c’è una salita molto ripida. Sarà molto impegnativo perché è una linea retta verso la collina. Vedremo chi riuscirà a salire in cima e chi scenderà dalla bici. Questa sarà la chiave fondamentale in questa gara, insieme a chi sarà in grado di effettuare gli sforzi più volte».

Il manager di Flanders Classics, che organizza la Coppa del Mondo di ciclocross compresa questa nuova tappa in Val di Sole, ha ragione: il rettilineo verso quel muro atroce sarà il passaggio chiave della corsa. È lunghissimo, un centinaio di metri a occhio, e nelle prove è caduto un atleta su due.
Va ripetuto: è un rettilineo pianeggiante. Non dovrebbe essere così difficile. Il problema è anche il motivo per cui tutti gli occhi sono puntati su questo evento: la neve. Fa slittare le ruote, il ciclista perde aderenza, la bici scoda. Qualcuno ha dovuto appoggiarsi alle reti che confinano la pista, altre si sono rifiutate di non farcela e hanno provato più volte a uscire indenni da quel settore.

La beffa consiste nel fatto che, finito questo inferno ghiacciato, comincia un muro - sempre innevato - di cinquanta metri in cui si dovrà scendere e caricare la bici in spalla. La discesa, poi, è altrettanto insidiosa: lanciarsi a oltre 40 km/h giù dal versante di una montagna su fondo innevato non è esattamente una passeggiata.
Per le gare di domani, Wout van Aert, che oggi ha corso in Belgio - e ha vinto - e arriverà in Italia stanotte, ha le stesse certezze che hanno gli spettatori, già accorsi in massa per le prove del sabato: nessuna. «Non sono mai stato un re della neve» ha detto uno dei ciclisti più forti della sua generazione, che ha comunque fatto di tutto per esserci. La neve spaventa e affascina tutti.

Foto: Giacomo Podetti


Marco Villa guarda già a Parigi

«Forse l'idea di dover affrontare i detentori del record del mondo ha fatto tremare le gambe anche alla Danimarca» scherza Marco Villa, CT della nazionale azzurra su pista. Spiega così la medaglia d'oro olimpica nell'inseguimento, dopo cinque anni a dimostrare il valore del lavoro fatto. Villa, da uomo di sport, sa bene che la concretizzazione, in questi casi vale quanto la fantasia. «Nelle prove degli ultimi giorni i tempi delle nostre avversarie erano migliori, non so se sia stata tattica. La Danimarca, poi, negli ultimi due anni aveva quasi sempre fatto meglio di noi». Se dei timori potevano esserci, al quartetto sono sempre arrivati stimoli, risposte e razionalizzazioni. «Vero che i danesi si sono praticamente riportati sugli inglesi in semifinale, altrettanto vero, però, che hanno potuto sfruttare la scia. Lo stesso discorso vale per le qualifiche: molte squadre hanno avuto il vantaggio di potersi basare su dei tempi di riferimento. Ai ragazzi ho detto questo la sera prima».
Marco Villa ha da sempre le idee chiare: le analisi, per essere utili, vanno fatte prima. «In partenza eravamo in vantaggio e non era un caso: sulle nostre tabelle era previsto. Sapevamo che avremmo potuto perdere qualcosa nel finale. Uno era il punto: dovevamo restare dai sette ai nove decimi, perché quei tempi sono nelle gambe di Ganna». Poi gli azzurri hanno festeggiato come chi ha avuto ragione a discapito dei momenti difficili. «La caduta di Lamon durante le qualificazioni a queste Olimpiadi è stato uno dei momenti più difficili, oltre alla pandemia. Si è sempre in tanti e i posti sono pochi. Saremmo stati pronti anche lo scorso anno, lo abbiamo dimostrato».
Villa spiega, razionalizza, chiarisce e soprattutto chiede. «Dopo lo scratch a Elia Viviani ho detto solo: “Elia, cosa sta succedendo?”. Mi ha detto che le gambe c'erano, la testa no. Era stato irriconoscibile. La risposta se l'è data da solo, io non posso entrare nella sua testa o nelle sue gambe. La tempo race non è mai stata la sua gara, ha fatto un'eliminazione stupenda e una grande corsa a punti». Per questo il bronzo di Tokyo vale come l'oro di Rio, perché viene da un periodo difficile. Per questo, se parla di madison, il CT è certo che la coppia Viviani-Consonni abbia molto da dire. «Simone quella mattina non stava bene e una gara di sessanta chilometri non puoi improvvisarla. Sulla base delle circostanze non puoi costruire un'analisi per il futuro. Succede e basta».
Intanto, via verso Parigi 2024. «Il gruppo è rodato con uomini di esperienza, allo stesso tempo ho dimostrato che la strada per i giovani è sempre aperta. Si guardi Milan. È uno stimolo per loro e anche per gli altri perché se non si danno da fare sono sopravanzati». Ora basta chiacchiere, a Parigi mancano solo tre anni.


Cerchi nel carchi

Se c'è una cosa che riesce bene a Richard Carapaz è cogliere l'attimo. Se lo abbiamo definito tempo fa "il migliore al mondo per scelte tattiche e tempismo" oggi abbondiamo di sale: migliore dell'Olimpo.

Se ci dovessimo immaginare il Carchi, da dove arriva, in questo momento, forse non ci arriveremmo nemmeno vicino. Se ci dovessimo immaginare quando Carapaz tornerà a casa, allora ci aspettiamo una serie tv, un libro, un concept album, interamente dedicato al suo trionfo oggi, e alla sua celebrazione. Alla sua storia, alle sue origini, a quei visi solcati, la pelle di bronzo della gente di laggiù, dell'Ecuador, gente semplice e sguardi realistici che si tramutano in espressioni di sogni realizzati. Impensabili anche solo nel cercarli.

È vero: se c'è una corsa in cui il cuore è vicino alla maglia azzurra, più di ogni altra, quella è la gara dei Giochi e quando Bettiol si è staccato in preda ai crampi (di nuovo, ahinoi) abbiamo patito.
Ma se pensiamo a tre medaglie così: oro a Carapaz, argento a van Aert, bronzo a Pogačar, tre stupende medaglie addosso a tre corridori così, l'amarezza svanisce in un attimo.

Un attimo che ha trasformato una giornata olimpica in un'altra memorabile giornata di ciclismo 2021. Indimenticabile: per la resistenza di Bettiol finché ha potuto, il sogno accarezzato da McNulty, il talento esuberante e oggi persino sofferente di Pogačar, la forza straripante di van Aert e poi la magia. Quella di Carapaz. E da oggi se cercate i cerchi olimpici, date uno sguardo laggiù, nel Carchi, in Ecuador. Non ne resterete delusi, anzi. Potreste essere colti in pieno da una deflagrazione.


Sveglia presto, ricordi ed epiloghi azzurri

Mentirei se dicessi di avere un ricordo nitido e preciso della prima edizione dei Giochi vista: Seul '88. Chiudo gli occhi e vedo Gelindo Bordin che taglia il traguardo con il fisico come in preda a degli spasmi di fatica, si china, con una faccia che sembra un santo, e bacia per terra. Era mattina prestissimo, era la maratona. Gelindo Bordin che poi, scherzo del (mio) destino da appassionato, è cugino di Marco Canola vincitore di una tappa al Giro nel 2014.
Mi faccio più serio se ripenso invece al ciclismo olimpico: Barcelona '92, ricordo vivissimo di quel 2 agosto e della vittoria di Fabio Casartelli, così come è impossibile dimenticare Richard, Ullrich, Bettini, Sanchez, Vinokurov, Van Avermaet: ogni vittoria ben caratterizzata dai percorsi, dall'atmosfera, e dal fascino della frittura globale e totale dei Giochi.
Fascino. Ecco forse la parola che racchiude le settimane olimpiche e che stanotte (o mattina dipende dall'orologio biologico di ognuno) ci spingerà alla sveglia presto per vedere la prova in linea. Fascino dei Giochi: dove contano le medaglie, persino un terzo posto verrebbe accolto con entusiasmo. Fascino di un percorso che sale verso il Monte Fuji, roba da cartolina, poi sale verso il Mikuni Pass, roba da spaccarti le gambe, e arriva in autodromo. Fascino nel vestire la maglia della propria nazionale. Di sapere di avere a casa gente che magari non sa nemmeno chi sei, ma per una volta fa il tifo anche per te.
Imprevedibilità è il tormentone. Una corsa impossibile da leggere: farà caldo, ma soprattutto umido, ma è prevista anche pioggia e forse vento. Il percorso è duro, e nel ciclismo del 2021 non è che premia gli scalatori, premia corridori completi, da grandi giri (Pogačar e Roglič nomi ricorrenti), oppure quel fuoriclasse che è van Aert, che è un po' tutto. Ho provato a mettere assieme qualche nome e ne verrebbero fuori una trentina: sloveni, belgi, olandesi, francesi, spagnoli, canadesi, svizzeri, danesi, tedeschi, polacchi, sudamericani. Scegliete voi chi vi aggrada di più.
E mentiremmo tutti se dicessimo di non essere emozionati al pensiero della gara di domani. Sveglia puntata alle 4, e via. Colazione olimpica. Una volta ogni tanto si può, si deve, come quella volta a Seul, magari con un epilogo (azzurro) stile Barcelona o Atene.


Essere se stessi in pista: intervista a Elisa Balsamo

L'intervista con Elisa Balsamo parte da uno sguardo. Elisa fissa le compagne che girano all'interno del velodromo di Montichiari e cerca un'idea per rispondere alla nostra domanda. «La verità è che non riesco ancora a immaginare la mia Olimpiade a Tokyo. Sarà perché ci ho pensato spesso e ci tengo davvero molto, sarà perché manca ancora un po' di tempo e non ho la certezza di esserci, ma ad oggi mi sembra ancora qualcosa di irreale, di troppo bello per essere vero e non voglio illudermi». Le parole tornano a fluire libere quando si parla di orgoglio e questa ragazza, timida, che ancora abbassa lo sguardo quando ti incrocia, alza quasi spontaneamente il tono della voce, quasi a sottolineare il valore di ciò che è avvenuto. «Il ciclismo non è come l'atletica. Noi non qualifichiamo le singole atlete, noi qualifichiamo la nazione. È una responsabilità: quando ti avvii alle qualificazioni il problema non è se Elisa Balsamo parteciperà a quella manifestazione specifica, il problema è se l'Italia lo farà. Fa un poco paura, non lo nego».


Accanto a Elisa, su un tavolino, c'è un fumetto, Diabolik. Ci racconta che in realtà non è appassionata di fumetti, ma questo è un caso particolare. «Da bambina, nonno aveva sempre in casa diverse copie di Diabolik. Io amavo già leggere, così lo prendevo e lo sfogliavo. Non ho mai letto Topolino, per esempio. Però, appena capito in una stazione o in un'edicola e trovo Diabolik lo compro. Prima di arrivare a Montichiari ne ho comprate tre copie e ora mi manca solo questa da ultimare». L'altro volto dell'introversione, quello che ama il racconto, scritto se possibile perché la carta fa sentire sicuri. Balsamo spiega che un domani vorrebbe diventare giornalista, ancora prima però vorrebbe scrivere un libro e a questo pensa da quando era bambina. «Credo sia importante raccontare ciò che ci succede. Non possiamo sapere cosa stanno vivendo le altre persone, magari la tua storia le aiuta ad oltrepassare un momento difficile. Cerco spesso libri che raccontino storie vere, perché, alla fine, diventano il tuo esempio e ti fai forte ricordandoti ciò che hai letto. Sì, bisogna raccontare e prendersi tutto lo spazio che serve».

Non occorrono domande, perché è lei stessa ad aggiungere una parte di quella storia che tanto vuole raccontare. «Sono una perfezionista, ma, nonostante questo, non sono quasi mai contenta di me. Sarà un fatto caratteriale. Io dico sempre che la componente più importante del ciclismo sono le compagne e non è retorica. Per come sono fatta, senza loro al mio fianco, probabilmente avrei già smesso. Di sicuro non avrei ottenuto tutti i risultati di cui parliamo. Sento la necessità di qualcuno che mi sproni, che mi faccia capire che devo crederci, che quello che immagino può succedere». Così è accaduto al mondiale su pista, nel 2019, quando Balsamo non è stata all'altezza dell'atleta che avrebbe voluto essere. «Avevo sbagliato preparazione e sono arrivata stanca, così ho fallito l'obiettivo. Io penso molto, rimugino molto e quella delusione mi ha lasciato a terra per settimane. Poi è tornato l'entusiasmo, è tornata la voglia di provarci».
Elisa Balsamo racconta che in gara cerca spesso con lo sguardo Chiara Consonni. «Ci conosciamo da tanti anni e siamo completamente diverse ma c'è una chimica particolare fra noi. In corsa ci capiamo alla perfezione, siamo sintonizzate. Quando sono io a vincere, le prime braccia ad alzarsi al cielo sono le sue, poco dietro di me. Succede dai mondiali di Doha».

Per raccontarci meglio la corsa in pista, Balsamo ci mostra i suoi scarpini. «Vedi? Nelle discipline di gruppo, quando osservi le scarpe a fine corsa le vedi striate, sfrisate. È il contatto fra noi a renderle così. L'adrenalina non te ne fa rendere conto ma sfiori ogni manubrio. Molti mi chiedono se non mi fa paura l'idea di essere senza freni. Bene, se avessimo freni ci faremmo molto male perché ad ogni contatto l'istinto sarebbe quello di frenare. Invece sappiamo che per accelerare si scende nel lato basso dell'anello e per frenare si sale».

Sostiene che la nostra nazionale ha come punto a proprio vantaggio il fatto di praticare anche strada perché molti meccanismi si ereditano da lì. «Non a caso facciamo molto bene nell'omnium da quando non ci sono più prove individuali. Credo ci sia da lavorare sul quartetto e sulla madison. In quest'ultima serve molto la tecnica oltre alle gambe e questa si acquisisce col tempo. Un buono spunto può venire dalle atlete inglesi che sono molto brave in questo campo».

In fondo, Elisa Balsamo si sente sicura in ogni velodromo e trova la forza per fare anche ciò che, per insicurezza o timore, non farebbe nella vita di tutti i giorni. Questo è il suo segreto. «La prima volta che sono stata in un velodromo a Torino, dimenticandomi di non avere i freni, sono caduta, una brutta caduta. Mi faceva male dappertutto, ma sai qual è la prima cosa che ho fatto? Mi sono sistemata in fretta perché dopo pochi minuti sarebbe partita un'altra gara e non potevo perdermela nonostante tutte le sbucciature. Ci ho pensato parecchio e ho capito che, nonostante tutto, io sono proprio quella ragazza lì».

Foto: Paolo Penni Martelli


A chi importa chi era Knud Jensen?

Avete presente com'è Roma in piena estate? Il cemento sembra si sciolga sotto i piedi, lo smog, l'asfalto che bolle, il GRA, le auto che sfrecciano ovunque su e giù per la Cristoforo Colombo, l'altare della patria come un gigantesco panetto di burro che si sta squagliando su se stesso. Poi fai una visita alle Terme di Caracalla, sotto un sole così non è mai bello né passeggiare né pedalare, e quando la guida indica: «Quello era il Frigidarium!» ti ci butteresti dentro rischiando di farti arrestare.

Sessant'anni fa non era poi così diverso. Avete presente Roma, 26 agosto 1960, gara che dà il via ai diciassettesimi Giochi Olimpici? Vi ricordate di Knud Jensen? Avrebbe compiuto 24 anni da lì a pochi mesi, veniva da Århus, Danimarca, e faceva il muratore. In realtà preferiva pedalare e non sappiamo se per questo si sposò con la nipote di Henry Hansen, leggenda del ciclismo danese, due volte campione olimpico ad Amsterdam nel 1928. Fatto sta che era dilettante e quindi a fine mese doveva portare a casa qualcosa, e allora lui, muratore e ciclista, un connubio folle di fatica e masochismo, di giorno lo trovavi a piallare, di pomeriggio a pedalare e nemmeno con scarsi risultati.

Si presentava la mattina della 100 chilometri a squadre con un interessante curriculum: aveva appena vinto il titolo di campione dei paesi nordici, e la sua Danimarca aveva buone carte da podio dietro le inarrivabili Italia e Germania – unita, ma con un quartetto tutto DDR.
Ma a Roma, nel 1960, una nuvola nera passava come un presagio: pochi mesi prima dei Giochi, tornando a casa da un concerto, perse la vita Fred Buscaglione schiantandosi contro un furgoncino che trasportava sanpietrini. Il 26 agosto 1960, prima di ritornare sul traguardo-partenza di Viale dell' Oceano Pacifico, fu il turno di Knud Enemark Jensen.

Faceva caldo, quel giorno, da sgretolare i sassi. 33 gradi al mattino e lungo via Cristoforo Colombo - "una strada che non rivela mai nulla, dove correre diventa una sorta di facoltà automatica che l'atleta è in grado di ripetere per un tempo impossibile da calcolare" scrisse Jacques Goddet, direttore de L'Équipe - si arrivò a oltre 40. Intorno nulla a dare un po' di refrigerio, fronde dove nascondersi o aspettare una bava di vento che ti rinfreschi o dia sollievo; solo gruppi di tifosi e curiosi, militari a far da sicurezza, enormi pennacchi futuristici a reggere bandiere di ogni nazione, e sullo sfondo il Velodromo Olimpico dell'EUR che appariva come una navicella atterrata in mezzo al deserto – e infatti come arrivata, se ne andò: inutilizzato dal '68 e demolito nel 2008.

E che routine la 100 chilometri a squadre! Prova a cronometro massacrante e spettacolare; per molti il sunto dell'esercizio fisico e tattico sulle due ruote - e perciò scomparsa per fare posto a scialbe e inutili trovate, l'ultima: la staffetta mista a cronometro! Su quello stesso asfalto che bolliva, Bikila Abebe, un paio di settimane dopo, avrebbe vinto a piedi nudi la Maratona dei Giochi, facendo anche lui su e giù per l'interminabile Colombo, la via più lunga d'Italia e in alcuni punti anche la più larga.

Si racconta di come quel mattino Jensen si fosse lamentato di non stare bene: ma tant'è, si partì ugualmente. Si va al macello, non c'è un dio a cui appellarsi, non c'è conforto, se non in quello della fatica che ti corrode i muscoli fino all'osso. Non ci sono motti decoubertiani; verranno solo aggiunti tanti, troppi dettagli dopo il suo incidente, che se ne discute ancora oggi – ad esempio se l'allenatore avesse dato o meno del Roniacol ai suoi corridori. E insomma succede che faceva così caldo che a fine corsa 31 corridori furono colpiti da un malore, e alla squadra danese non andò meglio. Il primo fu Jørgensen: iniziò a stare male da subito e si staccò. Il quartetto divenne un terzetto. Forse fu quello a salvarlo – fu portato di fretta in ospedale - e la mano tesa che decise di strapparlo al suo destino, divenne uno schiaffo che fece ruzzolare a terra pochi chilometri dopo il povero Jensen. «Mi sento male!» il suo urlo, e un compagno di squadra gli buttò acqua fresca addosso reggendolo per una maglietta. Giusto il tempo di lasciarlo andare e qualche centinaia di metri dopo Jensen cadde a terra. Colpì violentemente la testa – rigorosamente protetta solo da un cappellino. Frattura del cranio: venne trasportato, dopo diversi minuti d'attesa, in una tenda allestita in un ospedale militare. C'erano 50 gradi lì dentro: disidratazione, frattura del cranio, arresto cardiaco. Jensen morì lì: “Questo solo capì. Di essere caduto nella tenebra. E nell'istante in cui seppe, cessò di sapere”.

L'autopsia, inizialmente, parlò di morte per frattura del cranio per la caduta causata da un colpo di calore, poi negli anni si sono susseguiti giochi politici e mediatici atti a manipolare e strumentalizzare la scomparsa del ragazzo – la sua morte macchiata dall'uso di anfetamine e tutt'ora mai accertata resta al centro di una controversia. Il CIO si premunì nel far passare la vicenda come “emblema della lotta alle sostanze proibite” e il caso di Jensen come quello del “primo morto per doping nella storia”. Sette anni dopo si istituirà la prima vera commissione antidoping, ce ne vollero otto, da quel misfatto, per effettuare i primi controlli: una battaglia tra doping e antidoping che diventa una vera macchina fabbrica denaro e che prosegue fino ai tempi nostri. Ancora oggi, studi compiuti sulla morte del ragazzo e documenti della Wada si contraddicono. Martire oppure mito: come se poi importasse davvero al fine di capire chi era Knud Jensen.

Per approfondire che cosa si dice ancora oggi sulla morte di Knud Jensen: "The truth about Knud: revisiting an anti-doping myth"

https://www.sportsintegrityinitiative.com/the-truth-about-knud-revisiting-an-anti-doping-myth

Foto: https://www.sportsintegrityinitiative.com


Dai Paolo! Dai Paulinho!

Uno è Paolo (Bettini), l'altro è Paulinho (Sergio). Uno è affamato, l'altro, a sentire la telecronaca della Rai, sembra quasi lì per caso. Un turista che sceglie la Grecia come meta estiva e vaga in preda ai vapori dell' ouzo e al sapore divino delle costolette. Oppure uno spettatore accaldato che insegue a torso nudo i suoi idoli.
Uno è un grillo, l'altro una sfinge del galio. Uno è un lupo, l'altro un buon segugio che fiuta il momento giusto, la ruota giusta, la schiena più ammiccante tra trenta o più. Uno è un fuoriclasse, l'altro un comprimario - «ma non sottovalutarlo», gli ripete Ballerini in corsa. Era Atene, era la Grecia, era il 14 agosto del 2004. E faceva un caldo che sembra di sentirlo ancora oggi.
Uno attacca, l'altro risponde. Il Licabetto che sovrasta Atene è lontano dal traguardo, ma nemmeno troppo. Dai Paolo! Attacca Paolo! Scatta su quella salita non irresistibile ma che alla lunga fa male. Non avrai mica voglia di usare la funicolare? Non pensare a Ullrich, fa paura solo a se stesso. E quel Valverde, poi? Gli stai insegnando il mestiere e da te imparerà come si fa. Gilbert, invece, è ancora un bambino. E Vinokourov? Ha occhi piccolissimi che sembrano due fessure, parla in un idioma incomprensibile, tutto suo. Lo hai mai sentito quando prova a dire qualcosa in italiano? Non puoi avere paura di lui. Dai Paolo! Fatti beffe di loro, non crederai mica che se loro avessero la possibilità di staccarti ti lascerebbero vincere? Sono soldati del Re, tu un brigante: ti salterebbero in groppa e ti riempirebbero di calci e pugni fino a farti scendere dalla bicicletta.
E così Paolo va e Paulinho pure. Uno è un mito da narrare davanti a un fuoco – due coppe del mondo (ma quanto era bella?), una Milano-Sanremo, due Liegi, poi arriveranno due mondiali – l'altro è un simpatico aneddoto da raccontare al bar davanti a una (due, tre...) pinte di birra.
Dai Paolo! Attacca su quella salita creata per sbaglio dall'ira di Atena; la tua ira è calcolata, quella di Ballerini invece è tattica sopraffina – si racconta di quante ve ne siete dette, ma tra toscani, amici, colleghi, grandi corridori, accade.
Dai Paolo, mancano mezz'ora all'arrivo e nessuno ci sta capendo nulla. In televisione parlano di Azevedo (già!) più che di Paulinho: “non potevi trovarti compagno migliore” - ti avremmo voluto gridare noi, da qui. Lo facciamo a distanza di anni e di chilometri, facendo finta che ancora nulla sia successo. Forza Paolo, forza anche te, Paulinho: dai una mano finché puoi. Il Portogallo non è mai stato così in cima al mondo – all'Olimpo? - di una corsa in bicicletta.
Dai Paulinho, dai Paolo: c'è un caldo che ti si appiccica addosso come una seconda pelle. Dai Paolo, supera l'ultimo chilometro, non fermarti che il surplace ha gli artigli neri come un granchio di ferro, rispondi alla volata di Paulinho che sembra fatta giusto per far spaventare tutti a casa, o come per dire: “Guardate che c'ero anch'io”. Occhio: dietro il gruppo rinviene. C'è Axel Merckx che vuole portare nella famiglia “Il Cannibale” l'unica medaglia che manca.
Non ascoltare quello che dicono in sala stampa: da non sapere chi fosse, Paulinho è diventato: “ un corridore temibile allo sprint!” Dai Paolo, affiancalo, superalo, gioisci. Che il tuo trionfo è pure nostro.
Giusto il tempo di capire e di staccare le mani dal manubrio, salutare la tribuna con un gesto impercettibile, mostrare un accenno di pallidi muscoli e sfoderare una bocca a forma di o per lo stupore, il giubilo. Uno è medaglia d'oro, l'altro è argento. Dai Paolo! Dai Paulinho! L'eco si sente fino a qui, fino a oggi.


L'oro di Casartelli

Barcelona, Giochi Olimpici del 1992. Si fa la storia: Christie, Sotomayor, Settebello, Magic Johnson, Michael Jordan, Larry Bird, Dream Team. In mezzo a loro Fabio Casartelli.
Barcelona, Sant Sadurní d’Anoia per la precisione. È il 2 agosto. Prova in linea di ciclismo su strada da disputare in mezzo ai soffocanti vigneti che producono il Cava, lo spumante spagnolo. Fabio Casartelli è giovane, spumeggiante per l'appunto; come tutti i giovani è anche bello e pieno di speranze. Come tutti i suoi coetanei più che preoccuparsi del futuro si occupa del presente e il presente, quel giorno, significa Giochi Olimpici.
Dilettanti, perché quella fu l'ultima edizione: dal 1996 via libera ai professionisti. Durante la stagione Casartelli è uno dei migliori in Italia e di conseguenza è una dei tre selezionati per la prova olimpica. Su di lui molti scommettono come futuro cacciatore di grandi classiche. La Sanremo è tagliata per lui, si dice. E il tracciato olimpico, severo ma non troppo, ricco di saliscendi, dominato dall'afa delle campagne catalane e dal bollore di un asfalto così chiaro da accecarti, è fatto su misura per il corridore cresciuto nella provincia di Como. E in gruppo non lo sanno, o meglio, scelgono diversamente marcando Gualdi e Rebellin.
È una corsa che si rivela lineare come da protocollo. Coltello tra i denti, cadute, carneadi alle prime armi. A poco più di un giro dal termine si decide tutto. Casartelli rientra nel gruppo davanti; ha il fiuto per cogliere il momento buono, perfetto gioco di squadra con Gualdi e Rebellin - uno che ancora oggi pedala in gruppo. Davanti restano in tre; stringono un tacito quanto paradossale accordo, come fosse il finale di un racconto di Raymond Carver. Una medaglia sarebbe arrivata in ogni caso e difatti sul traguardo, mentre Fabio Casartelli sprinta e conquista l'oro, Dekker, secondo, e Ozols, terzo, alzano le braccia al cielo ammaliati dall'idea di un podio olimpico. Nel gruppo dietro, tra gli altri, chiudono Zabel e Armstrong.
Dopo aver tagliato lo striscione a braccia alzate, Casartelli è assalito dai tifosi; gli strappano la maglia dalla gioia tanto che salirà sul podio con quella di Gualdi.
Abbiamo pianto quel giorno per Fabio Casartelli, piangeremo ancora per lui tre anni dopo. Quella, purtroppo, è una storia che non avremmo mai voluto conoscere, né vivere, né raccontare. Ovunque rimbalzi il suo ricordo, rubando la chiosa a Roberto Perrone: “Fa buona strada, Fabio”.