Riuscirci comunque, crederci sempre

Qualche giorno fa, Cyclingtips ha scritto che meno dello 0,02% delle persone che vivono nei Paesi Bassi si chiama Taco: nei Paesi Bassi vivono circa 17,5 milioni di abitanti, il conto è presto fatto: 1300. E si chiama Taco proprio il vincitore della terza tappa del Giro d'Italia. Pensate che questo ragazzo, solo pochi mesi fa, avrebbe voluto smettere di correre in bicicletta. Già, pochi fronzoli per la testa e tanta serietà: serve un lavoro, se non può esserlo il ciclismo, si cercherà altro. Il suo mito è Graeme Obree, uno scozzese che è riuscito a battere il record dell'ora correndo su una bicicletta costruita con vecchie parti di lavatrici. Nulla a che vedere con quella di Taco e con i suoi studi sull'aerodinamica che lo hanno portato a vincere a Canale con soli quattro secondi di vantaggio sul gruppo.
Il motivo per cui siamo partiti da lui è semplice: perché la sua storia ciclistica avrebbe potuto finire ed invece continua che è un piacere. La sua squadra, la Intermarché-Wanty-Gobert Matériaux di storie simili ne conosce tante. Come non parlare di Rein Taaramäe, ad esempio. Lui è nato in Estonia, a Vandra. Oggi, quando si parla di Taaramäe si pensa ad uno scalatore. Peccato che nella sua nazione la cima più alta scalabile sarebbe una passeggiata anche per un velocista. Taaramäe ha fatto come molti suoi compagni tra Estonia, Lettonia e Lituania, si è spostato in Francia ed ha iniziato a correre lì, con le categorie amatoriali, pur di poter diventare un ciclista.

Forse anche la sua storia avrebbe potuto non esserci, ma lui ha creduto al contrario ed è qui, al Giro. Spesso in fuga.
Riccardo Minali, a fine novembre dello scorso anno, era ancora senza squadra e non sapeva spiegarselo. Diceva che, alla fine, è ben strano questo mondo. Magari quando sei in giornata buona non ti vede nessuno ed invece quando ti stacchi e non riesci a muovere i pedali sono tutti a guardarti. Lì si fanno un'idea su di te e poi fargliela cambiare è quasi impossibile. Anche perché cambiare idea costa fatica e l'essere umano è conservatore per indole. Poi la squadra l'ha trovata, in Belgio. Sì, perché anche Minali è in Intermarché.

Vi potremmo parlare di tanti altri, ma vi parliamo di Andrea Pasqualon. Lui che ci ha sempre creduto, più di chiunque altro. Qualche tempo fa diceva: “Se fossi un direttore sportivo scommetterei su di me”. Difficile restare così sicuri quando le cose non vanno. Lui ci è riuscito. Pasqualon lo ha fatto con il ciclismo e quando, nel 2017, è tornato a vincere, dopo due anni di digiuno, piangeva come un bambino. Lì ha capito che fermarsi sarebbe stato un errore.
E via, avanti così perché qui le storie si somigliano tutte e hanno a che vedere con la fame, la voglia di riscatto. Hanno a che vedere con ciò che provi quando rischiano di strapparti via ciò in cui credevi mentre stavi crescendo.

Valerio Piva, direttore sportivo della squadra, spiega che in Wanty si fa così perché non c'è altra possibilità, perché non c'è un uomo di classifica. Noi vorremmo dire che il mondo non si divide fra chi può far classifica e chi no. Il mondo, forse, si divide tra chi ha già lasciato perdere e chi non smette di provarci. Loro non hanno smesso ed alla fine ci sono riusciti.

Foto: Luigi Sestili


Storie di uomini semplici

Il racconto di oggi non è soltanto quello di una tappa. È il racconto di chi si sveglia al mattino con le gambe indolenzite, tanto da fare fatica a scendere le scale per andare a colazione, e poi c'è la riunione tattica, una bici da prendere, casco e mascherina, ci sono tutti i riti scaramantici e propiziatori, c'è da fare un giro per vedere che aria tira, e se c'è un po' di sole come oggi sopra Foggia al via, beh: respiro di sollievo.

La storia di oggi è quella di 177 corridori che partono verso Guardia di Sanframondi e si danno battaglia come non mai: dicevamo di quel respiro di sollievo?

Lo stradone che da Foggia porta a Campobasso è, appunto, uno stradone. Largo largo che il gruppo potrebbe viaggiarci di traverso, ma un leggero vento di fianco induce ai cattivi pensieri da subito.

Una storia semplice quella di oggi: come quella che vede Bernal davanti nei ventagli a 165 chilometri dall'arrivo, gli dicono di fermarsi: "oh ma che ci fai qui?", forse non sanno che Bernal nei ventagli ci sta meglio di altri, e lui lì si è trovato non per caso o per dispetto, ma per vocazione.
Stuzzica il gruppo quell'azione, e ci vogliono settanta chilometri prima che gli animi si plachino e la fuga, quella giusta, riesca a partire.

E la tappa di oggi diventa così un racconto che scorre veloce, scritto sulla strada da nove corridori che, visto com'erano andati i primi chilometri, sembrano spaesati lì davanti. È il racconto di un Dante su una bici rosa nascosto dietro una curva, di cani senza guinzaglio lungo la discesa di Bocca della Selva, di case con le pietre sulle tegole, di nuvole scure in cima alla salita, di un gruppo che tira i remi in barca dopo aver esagerato con l'ultraviolenza per oltre un'ora, rimandando a domani l'appuntamento con la gloria.

E così c'è tempo per conoscere Gaviria, in fuga chissà, un po' per caso - la sua squadra oggi poteva puntare su altri - lui, velocista, qualche stagione fa sembrava dovesse dominare. Invece fa fatica, non vince più e cerca altre vie per il riscatto. Quando attacca su un tratto di leggera salita e poi cade due curve dopo in discesa, sembra di ritrovare nel mucchio la foto esatta che ritrae un lungo periodo in cui non gliene va dritta una.

E così conosciamo la storia di Arndt, veloce, ma non abbastanza per essere un velocista, forte sul passo ma non abbastanza per essere il più forte tra i passisti, ma che al Giro ha già vinto ed è uno spesso letale in fuga. La storia di Oliveira, per molti il favorito tra questi nove, di Gougeard che avrà attaccato cinquanta volte, di Campenaerts che il suo pezzo di storia, con il record dell'ora, l'ha già scritto, di Goossens, da Baal come il suo mentore Sven Nys, il più giovane davanti: negli anni ha superato ostacoli di ogni genere, fratture, problemi alimentari e che prende appunti dai maestri della fuga per ritagliarsi un giorno anche lui un posto nella storia.

Come Gavazzi che trascina con la sua esperienza la squadra e che in carriera vinse una tappa alla Vuelta ormai dieci anni fa: oggi, secondo, arriva a tanto così da un sogno.

La storia semplice di Carboni, che da Under 23 era uno su cui puntare, poi ha faticato a emergere, ma ha vestito per un giorno la maglia bianca al Giro. Racconta che la bici è sofferenza, che è divertente quando vinci «altrimenti può essere una brutta bestia». Non ha mai vinto, e oggi c'è mancato poco.

E infine c'è quella di Lafay, vincitore incredulo e incredibile, con quella faccia da bambino, il naso fine e le guance rosse. Va in bici da quando è nato, e dice che uno dei momenti più brutti della sua vita è stato quando ha passato cinque mesi senza toccarne una.

Il racconto di oggi si chiude così, con questi uomini che andranno a dormire con le gambe indolenzite, con le ferite sul corpo di Gaviria e la tristezza di Carboni, il sogno sfiorato del vecchio Gavazzi, quello realizzato dal giovane Lafay. Storie di uomini semplici in bicicletta come solo la bicicletta sa raccontare.

Foto: BettiniPhoto


Ultimo uomo

Per Fabio Sabatini, quello iniziato sabato scorso a Torino è l'undicesimo Giro d'Italia. Eppure, a pensarci bene, di uguale non c'è praticamente nulla. «Sarebbe come paragonare il giorno alla notte. Il mio primo Giro è stato nel 2007, in Milram. Posso citarti ancora il treno a memoria: Petacchi, Velo, Sacchi e Ongarato. Il clima era diverso, c'erano ancora i treni dei velocisti. Ad oggi non c'è più una squadra che ne abbia uno definito. Forse è anche perché la dinamica dei punti UCI costringe le squadre a frazionare i compiti al loro interno. Noi eravamo al Giro solo per Petacchi. Ora, in Cofidis, ma vale per ogni squadra in realtà, ci sono tre uomini a supporto di Viviani per le volate e gli altri quattro che si giocano le altre tappe. Il treno che partiva ai tre chilometri dal traguardo non è nemmeno lontanamente replicabile».
Il lavoro di questi giorni al Giro, spiega Sabatini, è lavoro di esperienza per mettere il velocista nella migliore posizione. «Io tiro sempre le volate. Una volta lo facevo di potenza, ora di esperienza. Per Viviani ci sono io e c'è Consonni, per Gaviria ci sono Richeze e Molano. Solo la Deceuninck - Quick Step ha ancora un treno ben definito per Bennet ma perché loro lavorano così. Ricordo quando correvo lì, i meccanismi erano talmente fissati che era quasi impossibile sbagliare. La squadra partiva ai due chilometri, io ai quattrocento metri e mi spostavo ai duecento. Poi potevi vincere o perdere».
Un punto fisso resta: la fiducia. Non si diventa “ultimo uomo” dopo pochi anni di professionismo e questo è importante perché «puoi perdere il picco di potenza, quello che hai imparato, anche sbagliando, non lo perdi». Anzi, nel tempo, provi a metterlo a disposizione degli altri. «Simone Consonni è molto bravo ed essendo un ragazzo davvero intelligente capisce al volo ciò che c'è da fare, forse gli manca ancora un poco l'occhio. Non ci sono segreti particolari. Consonni, venendo dalla pista, è molto scaltro e riesce ad infilarsi in ogni varco del gruppo. Va bene, però non deve farlo quando pilota un velocista altrimenti lo costringe a fare continue volate per tenergli la ruota e, all'ultima volata, le gambe non ci sono più. Ma è giovane ed impara in fretta».
Anche la volata di ieri, aggiunge Sabatini, è stata basata sul riuscire a scegliere le scie giuste per essere nelle prime posizioni all'uscita dall'ultima curva. «Ora si lavora sempre più sull'anticipare la volata e per farlo è questa l'unica via». Crede che Viviani sia uno degli uomini più completi con cui gli è capitato di lavorare e, se pensa al passato, chiosa: «Gran parte di quello che ho imparato lo devo ad Alessandro Petacchi. Lui e Mario Cipollini erano maestri in tema di volate. Sono quegli atleti unici, inimitabili».
Quando gli chiediamo se sia soddisfatto del lavoro svolto sino ad oggi al Giro, Sabatini non ha dubbi: «Noi siamo venuti qui con l'idea di lavorare bene e credo che questo, per quelli che sono i nostri mezzi, lo stiamo facendo. Ci manca la vittoria, solo quello. Si sa, però, che, quando la cerchi troppo, non arriva. Magari, poi, incappi in una circostanza fortunata, ti sblocchi e da lì tutto scorre. Ogni giorno è il giorno buono. Ricordiamocelo sempre».

Foto: Luigi Sestili


Il grido di Ewan

Per tutto il giorno non abbiamo fatto che aspettare sonnacchiosi questa benedetta volata: un po' per il vento, un po' per una giornata di moderato (e anche meritato, dopo tutto il freddo preso ieri) relax in gruppo, e sembrava non arrivasse più.

Si parte sotto un lisergico cielo fatto di ombrellini rosa. Non c'è Pozzovivo e ce ne dispiace: ieri caduto e arrivato in ritardo, oggi si è svegliato con male al braccio.

SI prosegue e il cielo imita l'elettrica danza dei corridori: azzurro intenso al via e poi grigio, con le nuvole che si caricano di pioggia mano a mano che il gruppo “aumenta” la velocità.

Si parte dall'Abruzzo e si arriva in Molise: da Notaresco a Termoli. Il mare, specchio blu, sta perlopiù a sinistra, le montagne, verde scuro, sono una cornice a metà che delimita il contorno. Perlopiù a destra.

Fuggono dalla golconda del gruppo tre corridori di squadre Professional che timbrano puntuali il loro cartellino: Marengo, Pellaud e Christian. I primi due, habituè oramai della fuga in questo Giro, li conosciamo bene, come personaggi ben caratterizzati di un fumetto a cui ci siamo affezionati. Il terzo, invece, è un ragazzo inglese che arriva dall'Isola di Man. Su pista ha vinto diversi titoli nazionali nella madison in coppia con Kennaugh, prima, poi con Rowe e persino con Simon Yates, quest'ultimo qui per vincere il Giro, mentre Christian è qui per dare esperienza ai suoi giovani compagni, della giovane EOLO-Kometa. «L'età si avvicina di soppiatto» raccontava tempo fa. «Ieri avevo vent'anni, oggi trenta e mi pare assurdo tutto ciò».

Peter Sagan, non bada all'età, ma pensa all'estro e giocherella per qualche punticino al traguardo volante. Poco dopo cincischia rilassato con gli occhiali mentre scambia due chiacchiere con l'ammiraglia in favore di telecamera. Disteso più che affamato, non riuscirà a fare la volata che sognava.

Quando i tre vengono ripresi, inizia la battaglia delle posizioni tra le squadre del gruppo: capitani di classifica contro uomini di tappa, velocisti contro scalatori, gregari contro gregari, a riparare dal vento, a cercare spazi. L'entrata a Tremoli è come un liquido che si infila in un imbuto, il gruppo si allunga e si assottiglia prima della sparata finale.

Ci prova Albanese, ma chiude Oss, mentre Gaviria si ricorda di aver avuto movenze feline e tenta la sorpresa. Poi spunta Ewan come fosse un urlo cacciato da lontano, spara a tutta, si leva di ruota Cimolai, Merlier, Moschetti e Pasqualon che gli finiranno, nell'ordine, alle spalle, adagiati come possono alla ruota del piccolo australiano, respirando il fumo del suo motore.

Sgasa furioso Ewan, e nessuno lo può passare: mulina le gambe, e il suo urlo si propaga fino al traguardo: fanno due a questo Giro. Tappa e maglia (ciclamino). E se deciderà di arrivare fino a Milano, si fa dura per Nizzolo (oggi 12°), Sagan (14°) e Viviani (15°) provare a strappargliela.

Foto: BettiniPhoto


Ciò che resta ciò che è

Ginevra non voleva parlarci. Non perché fosse maleducata o sgarbata, semplicemente perché, dice lei, chi ha vissuto il terremoto preferisce non parlarne. «Non si parla del terremoto, chi lo ha vissuto non vuole ricordarlo. Non oggi, almeno». Inizia a piovere su Ascoli Piceno, il tempo di aprire l'ombrello e Ginevra riprende: «E poi il Giro d'Italia è una festa, non si va a una festa portando il proprio carico di problemi».

Già lo sapevamo, ma, dopo queste parole, abbiamo avuto, ancora una volta, la netta sensazione dell'inutilità dello scorrere del tempo di fronte a certe cose. Perché per Ginevra, come per molti altri, quando si parla del terremoto non è cambiato proprio niente, nonostante siano passati cinque anni. «Di quello che c'era, non è rimasto più nulla. Non credo ci sia molto da raccontare». La sua voce per un attimo diventa fredda, come chi non vuole scoprirsi, come chi ha paura di scoprirsi. «Sai il problema? Molti vengono qui, vanno in quelle zone, e ci portano la loro commiserazione per le case diroccate, i campanili dissestati, il paese che sembra essere fantasma. Non c'è nulla di peggio. Parlo per me: non voglio quella forma di pietà, non so cosa farmene. Mi imbarazza anche. Tirerei su quei mattoni con le mie mani se ne fossi capace, pur di non sentirmi più guardata così».

Del giorno in cui arriva il Giro, a Ginevra, piace una cosa. «Non ci sentiamo diversi, non ci sentiamo quelli che hanno perso tutto. Sarà perché si è in tanti, sarà perché c'è voglia di festeggiare ma non c'è tempo per quella compassione. Almeno oggi».

La parte più brutta sta nei dettagli, sta in quello che forse pochi possono immaginare. «Arrivi a detestare la natura perché, quando il terremoto ti ci butta in mezzo, capisci quanto può essere cattiva, quanto può far male. Per chi ha passato quel periodo stare in mezzo a un prato non significa ciò che significa per tutti gli altri. Per chi ha passato quei momenti finire in mezzo a un prato significa tornare lì. Ed il peggio è che non puoi fare niente, perché se torna, e spesso torna, il terremoto ti distrugge ancora. La casa dovrebbe essere il luogo dove sentirsi sicuri, per un terremotato la nuova casa è il luogo dell'angoscia, della paura».

Non sono qui, non sono sulle strade della tappa, ma Ginevra ha due bambini. Loro erano davvero piccoli quando c'è stato il terremoto e non hanno un chiaro ricordo di quei momenti. A loro è rimasto il resto, è rimasto quello che hanno sentito dagli adulti. «Tempo fa, li ho visti fare uno strano gioco. Uno contava e l'altro portava fuori dei giocattoli dalla cameretta. Quando ho chiesto cosa stessero facendo mi hanno risposto: “Così siamo veloci a salvare i nostri giocattoli preferiti se viene il terremoto”. Ora capisci perché non voglio parlarne?».

E noi forse possiamo solo dire: per fortuna che c'è il Giro. Per fortuna che il Giro è passato da qui.

Foto: Luigi Sestili


La verità e l'immaginazione

Ma come la racconti una tappa del genere? Immaginatevela così: sole alla partenza, facce distese, maglie colorate e ben visibili. Ti aspetti una tappa difficile, arrivo in salita, parecchio dislivello, di quelle che si accendono solo nel finale e invece...

E invece... dal sole si passa alla pioggia nel tempo in cui scompare il segnale televisivo che poi riappare per poi sparire di nuovo. E poi quando ritorna siamo già in salita, sotto il diluvio che non molla, pedalatori irriconoscibili nascosti da mantelline tutte uguali, con il freddo che li rende omini di cartapesta, con il freddo che rimarrà impregnato nelle gambe, rimpastando i piani dei corridori di classifica.

Immaginatevi Gino Mäder e quegli ultimi metri di salita verso San Giacomo. La faccia scavata, la maglia rosso fuoco, il ghigno, le braccia congelate e il suo pensiero alle ultime pedalate di quella tappa alla Parigi-Nizza quando Roglič lo riprese sotto lo striscione dell'arrivo. Lo abbiamo spinto e sicuro lo avete spinto, lui non ha nemmeno la forza di esultare e noi esultiamo con lui.

Immaginatevi la Bahrain che stamattina si sveglia senza Landa e va all'attacco. Immaginatevi Mohorič, uno che andava talmente bene a scuola che fu premiato come uno dei migliori studenti sloveni quando era al liceo. Va talmente forte oggi che quando si butta in discesa stacca tutti. Mentre tutti gli altri hanno l'impermeabile, lui resta in maniche corte. E si fa in quattro per Mäder, e si fa in quattro nel segno di Landa.

Immaginatevi passare per i luoghi devastati dal terremoto, le case squarciate, il silenzio amplificato dalla pioggia e dalla luce scura. Immaginatevi il vento così forte in cima alla salita che butta giù tutta la struttura che regge lo striscione del Gran Premio della Montagna.

Immaginatevi quell'ammiraglia che prende in pieno Serry. Immaginatevi Ganna che, con l'aiuto del vento, demolisce il gruppo e tira tutti per 50 chilometri. Immaginatevi la sofferenza di De Marchi, che mentre stiamo battendo queste parole sui tasti non è ancora arrivato al traguardo (poi arriverà eh, a quasi venticinque minuti, ma arriverà) e abbandona la maglia rosa – la sua, una bella maglia rosa.

Quella maglia rosa che ora immaginate sulle spalle di un ungherese, Attila Valter, stamattina in maglia bianca, e stasera ancora più avanti. Un osso duro che impareremo a conoscere perché la sua storia non finirà di certo qui. E intanto stupisce anche a parole, mentre si immagina proiettato nel futuro: «Meglio di averla qui la maglia rosa, solo a Milano».

Immaginatevi Bernal che molla un altro colpo, Ciccone in formato alta classifica, Evenepoel che ha “qualcosa di speciale”, per prendere in prestito parole che non sono nostre.

Immaginatevi Yates arrivato qui da favorito e che arranca ammorbato dal freddo, oppure Almeida e Hindley sulla breccia solo pochi mesi fa, come d'incanto costretti a ripensare i propri piani.

Come quelli di Caruso, stravolti dalla caduta di Landa e da un Bilbao deluso e deludente. Per la prima volta avrà in mano carte che possono sembrare quelle giuste.

Immaginatevi Bettiol che un mese fa soffriva in Belgio ma oggi pedala bene in salita e si lancia all'attacco in discesa. Immaginatevi Martin, Vlasov, Formolo e Carthy, sempre lì, Nibali che non molla e Bennett invece sì. Cataldo che va in fuga perché è vicino alle sue terre, Mollema che va in fuga perché vuol vincere, di chi sia la terra non importa.

Immaginatevi Fortunato, uno che andava forte forte da ragazzo, si era un po' perso, ieri staccava il gruppo per una visita parenti, oggi invece quel gruppo lo vive in salita, arrivando in scia ai migliori.

Il fatto è che ci aspettavamo una tappa difficile, è vero, ma oggi la verità ha superato l'immaginazione.
Foto: BettiniPhoto


Il riscatto di Jacopo Mosca

C'è un qualcosa di estremamente spontaneo nel modo di essere di Jacopo Mosca, qualcosa che nemmeno lui sa spiegare a fondo. Di certo, però, sa bene dove trovarne le radici. «A due anni e mezzo ho imparato ad andare in bici senza le classiche rotelle. Il motivo è molto semplice: le rompevo continuamente, così non me le hanno più messe. Un giorno sono uscito in cortile e ho provato a salire in sella, sono stato in equilibrio ed è andata bene. Qualcuno mi ha raccontato che da ragazzino ero scatenato e saltavo su e giù dai marciapiedi. Non lo so, ma potrebbe benissimo essere, vista l'indole». Sì, perché, alla fine, ciò che suo padre gli ha sempre ripetuto, in realtà apparteneva già a Jacopo. «Mi diceva che bisogna mettere il massimo dell'impegno in qualunque cosa si faccia. A prescindere dall'importanza di ciò di cui ti stai occupando, tu devi fare il massimo di ciò che puoi fare. Serve per non avere rimpianti. Serve per essere seri quando si prende un impegno».

Dice che la sua fortuna arriva con lo stage in Trek-Segafredo nel 2016 perché ha conosciuto l'ambiente e perché ha conosciuto Luca Guercilena. «Se guardi l'ordine d'arrivo del Tour of Britain di quell'anno, quando arrivai decimo, ti accorgi che fu un'ottima prestazione. Quelli che mi erano davanti erano nettamente superiori. Luca non mi prese in squadra, l'organico era al completo, ma quando mi salutò mi disse: “Questa volta è andata così, però tu insisti che nel ciclismo non si sa mai". Non sapevo che a quelle parole avrei ripensato spesso negli anni seguenti». Già, perché di lì a poco sarebbe successo ciò che succede di frequente nella vita. Non lo vorremmo, ma succede.

«Passai in Wilier, ne ero felice ed in quegli anni mi sembra anche di aver ottenuto buoni risultati. In ogni caso, ci ho sempre provato. Ancora oggi non me lo so spiegare, ma a fine contratto rimasi a piedi». Il periodo è difficile e a molti verrebbe quasi in mente di smettere. A Jacopo Mosca no. «Non ci ho mai pensato. Anzi, io volevo correre perché quello era l'unico modo per dimostrare che potevo ancora fare il corridore».
Quando firma il contratto per la D'Amico UM Tools, Jacopo Mosca sa bene che si tratta di una squadra Continental e che, per forza di cose, le possibilità sono minori, ma non gli interessa. «Dello stipendio non mi importava molto, prendevo i rimborsi delle gare e mi bastavano. Devo ringraziarli, se sono ancora qui è merito anche loro».

Umile, forse anche troppo. «Sono consapevole del fatto che il mio ruolo qui al Giro sia quello di aiutare gli altri a vincere. Io me la cavo su tutti i terreni, è vero, ma non eccello in nessuno. In volata possono battermi, in salita pure. Bisogna essere onesti con se stessi». Sarà, eppure c'è una fame particolare in ogni attacco di Mosca, una voglia feroce di dimostrare, di farcela. Qualcuno potrebbe pensare che venga dal periodo buio, lui smentisce.
«No, sono sempre stato così. Per fortuna ho preso il carattere da mio padre e sono un gran testardo». Di quel periodo, però, qualcosa resta davvero: «Credo sia qualcosa che proviene dalla mia famiglia. Ho imparato ad essere sereno e questo aiuta molto. Nel momento in cui le cose non sono andate bene, non sono mai rimasto solo, erano tutti accanto a me. Quando accade così, capisci che puoi davvero farcela».

Foto: Luigi Sestili


Attimi di gioia tra il dolore

Oggi forse non era il giorno migliore per appassionare qualcuno al ciclismo, ma che ci vogliamo fare: ogni Giro ha i suoi riti e i suoi appuntamenti fissi, e la Modena-Cattolica rappresenta bene l'interminabile brusio del gruppo compatto fino alla volata finale.

Almeno hanno scelto un bel posto con il mare e la spiaggia, per una di quelle giornate dove si stacca un po', ma dove devi tenere gli occhi sempre aperti, soprattutto perché il finale cittadino ha i suoi tranelli e poi succede come a Sivakov, Dombrowski e Landa che cadono e si fanno male - e speriamo bene, perché Landa non pareva proprio conciato benissimo.

Ricordo quella volta che mi innamorai delle due ruote e dei pedali, e di quel manubrio così strano quanto poi diventato evocativo: c'era Chiappucci che voleva conquistare il mondo provando imprese in salita, c'era Bugno che vinceva, c'erano la Marmolada e il Pordoi al Giro, ma c'erano anche quei pomeriggi estivi con un caldo che pareva definitivo e che non ti si sarebbe mai più scrollato di dosso.

Era il Tour e aspettavi la volata e avevi decine di tappe come quella di oggi. Aspettavi Cipollini e Abdujaparov, uno maestoso ed eccentrico, l'altro il suo perfetto alter-ego, sempre al limite, a volte anche oltre, goffo da vedere ma simpatico, almeno per quel nome esotico che trovavi scritto in mille modi differenti.

Eterni piattoni passati a fare zapping senza una vera ragione tra Antenne 2 (all'epoca si riusciva a vedere nella provincia di Milano, non ricordo il perché) e Raitre; stavi in ansia per la cadute e che quasi sempre coinvolgevano un uomo di classifica, guardavi il gruppo spuntare dietro campi di girasole, o ridicole coreografie con trattori travestiti da leader delle varie classifiche, biciclette giganti, tifosi coi trampoli e, forse già all'epoca, tra la folla c'era quello vestito da diavolo e diventato poi una sorta di icona delle estati francesi.

Oggi, anni dopo, l'attesa di una volata al Giro è più simile all'agonia che a un gioco per ragazzi incantati davanti alla tv. Stamattina scriveva Gabriele Gianuzzi: "Il piattone viene in soccorso dei lavoratori e li lascia tranquilli. Liberi di lavorare senza l’assillo del “chissà cosa starà succedendo”. Perché la risposta è molto semplice: non sta succedendo assolutamente niente. " Difficile dargli torto.

Difatti per oltre tre ore non succede nulla, derubricando il timido tentativo di Marengo e Tagliani prima e di Pellaud, Gabburo e Gougeard poi, a uno stiloso esercizio di gambe che girano, con sponsor ben in vista. Ma ieri han preso freddo e pioggia e sono saliti, oggi c'è il sole e fanno un giro verso il mare con vista sulla spiaggia di Cattolica: pareva dovuto.

Prima dello sprint, che vince Ewan (e sono 4 al Giro) su Nizzolo (e sono 11 podi senza vittoria) e Viviani, oggi perfettamente pilotato da Consonni, ma svuotato di energie dopo ieri, la caduta di Landa che ci lascia in apprensione. Tra i dolori nella gioia finisce il suo Giro, per una carriera che si arricchisce degli ennesimi "se e ma".

E domani si torna a salire, dove più che le cadute potranno fatica e distacchi.

Foto: Luigi Sestili


Come la terra del Friuli

COME LA TERRA DEL FRIULI
[Giro Alvento - Giorno 6]

Alessandro De Marchi l'aveva detto qualche tempo fa, in un'intervista a Bidon: «Al Friuli e ai friulani devi entrarci dentro, conoscerli bene. Una volta che sei dentro hai una visione completamente diversa». Non vale solo per la terra, vale anche per gli uomini e la fatica, vale per gli attaccanti ed i gregari. Vale per lui che è uomo di terra, di fatica, attaccante e gregario. Tutto assieme.

Così c'è molto altro oltre quello sguardo indiavolato sulla «salita dei matti», impastato di lentiggini e sudore, oltre quel ghigno di rabbia e di sofferenza, a denti stretti, a pochi metri dal traguardo di una tappa d'altri tempi tra Piacenza e Sestola. Ci pensava dal mattino De Marchi, pensava che sarebbe potuto succedere ma così no, così non l'aspettava. Perché? Perché tante volte non era andata bene ed «alla fine ti abitui anche a quello». Ha avuto paura perché quando le cose te le immagini, rinunciarci è sempre più difficile. «Temevo che franasse tutto, temevo di restare a mani vuote come tante altre volte».

C'è orgoglio visto che il “Rosso di Buja” ha iniziato a correre a sette anni, ora ne ha trentacinque e «potete immaginare cosa c'è in mezzo».
Per esempio, in mezzo, c'è quella sera in cui andò da Davide Cassani che lo aveva convocato per un ritiro della nazionale e, non riuscendo a vincere da tempo, chiese: «Cosa devo fare per essere un azzurro al mondiale?». Disarmante e disarmato con la semplicità che ti lascia l'aver sofferto. Già, perché De Marchi è passato professionista a venticinque anni e rischiava di non passare: si chiedono numeri, vittorie e lui dava spettacolo ma non riusciva a vincere. Se li ricorda quei giorni, se li ricorda bene.

Forse intendeva proprio questo quando ha detto: «Mi sento fuori posto con questa maglia». Intendeva che poi ciò che ti accade ti segna sempre e tutte le volte in cui ci hai provato e non ci sei riuscito bruciano, anche se non lo dai a vedere. Perché non è giusto, perché tanto chi non ti conosce non capirebbe.

Ne ha sentite di parole Alessandro De Marchi. «Il mondo certe volte ti chiede l'impossibile e non accetta il fatto che in quel momento non puoi riuscirci. A Filippo Ganna consiglio di fregarsene». Non che sia una dote il menefreghismo, ma è l'unica possibilità per salvarsi, talvolta.

De Marchi che ascolta Ludovico Einaudi, Bob Marley e Bruce Springsteen, che è sinfonia e rock, chitarra e metallo. Che crede nelle idee e meno nelle ideologie, che porta un braccialetto per ricordare la tragedia di Giulio Regeni, friulano come lui, e si stupisce quando gli chiedono il perché: «Non c'è nulla di politico, solo la sofferenza di due genitori che cercano la verità: da padre e marito non vorrei trovarmi in una situazione così». Lui che è padre e marito: «E la vittoria la dedico a me stesso e a mia moglie Anna».

De Marchi che da ieri è maglia rosa e dalla felicità stava quasi per piangere.

Foto: Luigi Sestili


Sogni e bevute in un'imperfetta primavera italiana

Si va all'attacco. Alla follia. Allo sbaraglio. Una tappa che pareva giocata in seconda serata. Buia, coi decadenti tratti di un'imperfetta primavera italiana. Acqua tutto il giorno, la maglia rosa che tira il gruppo, il segnale televisivo che scompare per un po' e rischia di rovinarci una tappa che per ore è un lento attendere il finale, e poi si risolve come fosse lo spettacolare arrivo di una classica, tra strappi inconcepibili, freddo cane e pioggia.

Si risolve con la longilinea fisionomia di Joe Dombrowski, uno ritenuto forte, ma troppo estroso per il ciclismo, amante delle macchine e delle bevute nei boschi con gli amici, che ha prodotto una birra dubbel invecchiata nelle botti di rum e che porta, più o meno, il suo nome: Dombrewski.

Si risolve con la faccia lentigginosa di Alessandro De Marchi che stasera farà volentieri a cambio della sua maglia color vino, con quella più appariscente Rosa. Anche lui produttore, però di vini che portano il marchio “Rosso di Buja”, il suo soprannome.

Si risolve con un Ciccone che va (forte) verso Sestola, dove si fece conoscere; con Landa che attacca e poi si attenua, con Bernal che fa le prove per vedere come stavano gambe e schiena, con un Carthy magro da far paura ma che non soffre il freddo, con le forme perfette in bici di Vlasov, che punti deboli sembra non ne abbia.

Si risolve con la cifra di Yates, oggi accorto, forse troppo: tutti lo pensavano lì davanti e invece cede il passo, seppure in modo quasi impercettibile: d'altra parte 11'', cosa sono? Da dopodomani lo aspettiamo nella versione gemello forte.

C'è la cifra di Evenepoel che è già davanti, mentre il suo compagno di squadra – ancora per poco – Almeida soccombe ai riti che lo vogliono separato in casa. C'è la cifra indecifrabile di Bettiol: mai te lo aspetteresti lì, dopo aver sofferto per tutta la primavera e oggi chiude con i migliori di classifica; o quella di Moscon, forte da non crederci, quasi da lustrarsi gli occhi.

E c'è la cifra di un Giro che regala sogni arditi: ieri a Taco, oggi a Taaramäe, che prova a scacciare gli incubi della Vuelta 2009 quando si piantò in salita dopo essere stato tutto il giorno in fuga (come oggi). Verso Sestola sbaglia i tempi, quella volta sbagliò a montare i rapporti fermandosi in lacrime a bordo strada.

C'è la cifra di Fiorelli che sfiora un sogno a 27” dal vincitore, lui che battagliava il secondo giorno tra i folli delle volate, e oggi arriva dove nessuno se lo sarebbe mai aspettato. C'è quella di Nibali, eterno lì davanti, quelle deludenti di Buchmann e Sivakov, e un po' sottotono di Masnada.

E poi di nuovo ecco la cifra del vincitore, Dombrowski, uno di quei tanti passati professionisti con la fastidiosa nomea del ”predestinato”, tanto che fu il Team Sky a prenderlo. Vinse il Giro dei giovani, conquistò Gavia e Terminillo, e alla prima serata con la squadra inglese non sfuggì al rito di iniziazione: ubriaco, fu costretto a inscenare uno spogliarello. Oggi per lui prima vittoria in carriera lontano dalla sua America.

Alla salute, Giro. Da domani altre storie.

Foto: BettiniPhoto