Il sogno è nelle Fiandre

Ilaria "Yaya" Sanguineti ha un rapporto complicato con i sogni. Dice che a sognare è bravissima, precisa che custodisce sogni bellissimi, ma, allo stesso tempo, racconta di una sorta di pudore nei sogni: «Qualche volta penso di aver paura di sognare fino in fondo, perché ho paura di restare delusa. È brutto accorgersi che, in certi momenti, ti sforzi di rimpicciolire ciò che desideri per questo motivo, ma so che mi accade». Il sogno principale, quello di essere una ciclista, è nato per caso il giorno in cui da bambina ha visto tornare a casa suo fratello con una divisa da ciclista piena di colori. Lei voleva una divisa simile più che una bicicletta, fu suo padre a dirle: «Se vuoi la maglia, devi correre in bicicletta». Provocazione accettata, prima gara vinta e una crescita costante e graduale.

«A diciotto anni, magari, riesci a guadagnare duecento euro al mese e ti sembrano tantissimi, sebbene cosa puoi fare con quella cifra? Adesso, se sei brava, a quell'età puoi già avere uno stipendio che ti permetta di vivere da sola, dieci anni fa era diverso. Però, quando parlavo con gli amici, dicevo che avevo trovato un lavoro, che lavoravo e avevo uno stipendio, mi sembrava di essere cresciuta». Non è facile, prosegue Yaya, perché per la maggior parte delle persone il ciclismo non è un mestiere, non riescono a concepirlo come tale e per farlo capire è spesso necessario aggiungere spiegazioni: «La frase più comune è: "Ah sì, vai a divertirti”. No, è un lavoro, può anche divertire, ma resta un lavoro e certe mattine ripartire è proprio difficile». Ilaria Sanguineti per carattere è estroversa: la si vede spesso ridere e scherzare, così molti racchiudono in quelle risate il suo mondo. In realtà, c'è qualcosa che la fa spesso pensare: «Si tratta della consapevolezza in me stessa. Non sono molto capace di credere alle mie capacità, di riconoscermele. Probabilmente l'unica certezza che ho è che, quando sono l'ultimo vagone del treno, nelle volate, sono nel posto giusto. Però sono serviti anni per credere di "essere abbastanza" almeno in quel ruolo».

Volta Comunitat Valenciana Femines 2023 - 7th Edition - 4th stage Tavernes de la Valldigna- Gandia 113km - 19/02/2023 - Ilaria Sanguineti (ITA - Trek - Segafredo) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Dopo anni in Valcar, «una famiglia, in cui ho appreso che avrei potuto lanciare le volate», è tornata a rivestire quel ruolo in Trek. Il giorno in cui il suo procuratore le ha detto che Trek-Segafredo la cercava, ha ammesso candidamente: «Vado anche a portare le borracce, se mi vogliono». Ultima donna, come dice lei, della stessa velocista: Elisa Balsamo. Pensare che, quando avvenne il passaggio di Balsamo in Trek, fu proprio Elisa a dirle in una chiacchierata: «Chissà, magari, un giorno, ci ritroveremo». Si sono ritrovate, loro che hanno molti ricordi assieme e Sanguineti a questo tiene molto: a costruire ricordi condivisi anche fuori dal ciclismo. Per l'addio a Valcar, ad esempio, è partita per Santo Domingo con Chiara Consonni, Vittoria Guazzini, Dalia Muccioli ed Eleonora Gasparrini: «Credo sia uno dei ricordi più belli, perché quando pensi a quelle persone sai che non hanno fatto parte solo del tuo lavoro, ma hanno creduto in te anche per i giorni di vacanza».

Con Elisa Balsamo, poi, il rapporto è particolare: «Dopo la prima vittoria alla Volta a la Comunitat Valenciana, in camera, scherzando, mi ha detto: "Mi tratti sempre male". Quel giorno, in effetti, avevo davvero perso la pazienza, bonariamente ma l'avevo persa. Non mancavano ancora dieci chilometri al traguardo, quando ha iniziato a dirmi che eravamo troppo indietro. Me lo ha ripetuto qualche volta, fino a che: “Elisa, stai tranquilla e pensa solo a seguirmi". Beh, mi ha seguito e, devo dire la verità, quando l'ho vista partire come sa fare lei, ho avuto la certezza che avrebbe vinto. Lei non lo sapeva, io sì». Tra l'altro, a poco dal traguardo, Balsamo aveva affiancato Sanguineti e le aveva detto di stare male: «Bisogna preoccuparsi quando non lo dice. Se lo dice, è bene aspettarsi grandi cose». Un ruolo delicato quello di Sanguineti perché ha anche a che vedere con il saper instillare fiducia.

Volta Comunitat Valenciana Femines 2023 - 7th Edition - 2nd stage Borriana - Vila-Real 116km - 17/02/2023 - Elisa Balsamo (ITA - Trek - Segafredo) - Ilaria Sanguineti (ITA - Trek - Segafredo) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

«Magari pensiamo di passare a sinistra, sul rettilineo d'arrivo. All'ultimo momento, può capitare che io scelga di andare a destra. Se è così, faccio un cenno della testa verso destra e Balsamo deve seguirmi. Non è facile e, se non hai la certezza che la ruota davanti alla tua ti sta portando nella posizione giusta, puoi tentennare». Di certo c'è che l'ultima donna deve pensare per due, sia in termini di velocità che di spazi, e ogni scelta presa deve essere quella migliore per due cicliste, non per una. Poi ci sono i dubbi: tranquillizzare la propria velocista, ma anche gestire i propri timori.

«La volata, dall'interno, non fa paura, se la guardi da fuori, invece, sì. Vero che non sono abituata a credere in me, ma una certa autostima serve, anche solo per pensare di fare uno sprint. Di fatto, io faccio uno sprint potente, ma anticipato di circa trecento metri: il mio traguardo è lì. Ci sono giorni in cui le gambe non vanno, allora bisogna essere sinceri e parlarne. Si può lavorare prima, ci si può rendere utili nelle fasi preparatorie alla volata, ma è necessario dirlo. La tua velocista deve saperlo». Ilaria Sanguineti si muove nel gruppo e Elisa Balsamo la segue: se perde la ruota, se ha un qualunque problema, grida solo "Yaya" e entrambe sanno cosa fare. Sanguineti è "meno pignola" di Balsamo, questo fa bene ad entrambe, tuttavia si definisce "troppo testarda": «La testardaggine va bene, io, però, sono esagerata».
Fra le certezze, il fatto che lavorare per Elisa Balsamo la rende felice e che aiutare a vincere le restituisce qualcosa che altrove non trova: «Per la prima vittoria di Elisa Balsamo in Trek Segafredo, in questa stagione, ho pianto io, non lei. E se ci ripenso ancora mi sembra irreale: ritrovarsi e confezionare subito qualcosa di così perfetto».

Miron Ronde van Drenthe 2023 Women - Emmen - Hoogeveen 94km - 11/03/2023 - Ilaria Sanguineti (ITA - Trek - Segafredo) - Snow - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Con le domande, continuiamo a cercare quei sogni grandi e rimpiccioliti, quelli che non dice per paura di non esserne all'altezza, allora ci dice che vorrebbe partecipare all'Olimpiade, poi, però, cambia subito discorso, quasi per non pensarci troppo. «Tornando alla consapevolezza, credo che un passo importante sia stata la vittoria dell'anno scorso alla Dwars door het Hageland. Non tanto per la vittoria in quanto tale, quanto per quella frase detta dal mio direttore sportivo nella riunione del mattino: "Oggi facciamo la corsa per te, oggi vinci tu”. Essere riuscita a sostenere quella responsabilità ed essere riuscita ad ottenere il successo mi ha fatto bene».
Si torna un'ultima volta nei paraggi dei sogni e questa volta le parole raccontano tutto: «Vorrei portare Elisa Balsamo a vincere il Fiandre». Un gran bel sogno, non c'è che dire, un sogno che noi stiamo già sognando: al vento, a tutta verso il traguardo.


Il rumore dell'Inferno

Che rumore fa Tadej Pogačar che accelera sull'Oude Kwaremont e riprende tutti? Un suono simile a quello delle ruote che dapprima sfruttano la superficie centrale delle pietre, quella più consumata dal passaggio delle auto, per poi scorrere sulla linea laterale e, persino, sulla terra. Che rumore fa Mathieu van der Poel ancora nel gruppo, mentre alza la testa e si riporta sotto? Pensiamo al cambio che ingrana, a qualcosa che riporti a una variazione della situazione.
Un fruscio e qualcosa di più pesante. Suoni ricercati dall'orecchio e anche dalla vista, una sinestesia, una contaminazione dei sensi, perché quanto abbiamo sperato che quei due se ne andassero da soli? Quanto abbiamo controllato la posizione di Pogačar quando, poco dopo, a scattare sul Paterberg era van der Poel? Quanto abbiamo stretto i denti, quasi fossimo alla ruota dello sloveno, mentre van der Poel riusciva a stargli incollato per un sospiro al termine dell'ultimo Paterberg?
E non lontano da qui ci sono i Beffroi, le torri campanarie delle Fiandre, i loro carillon a scandire i momenti importanti per la città, i loro suonatori. Qui, invece, restano tutti i sognatori. Chi ha trasformato in un "cafè" un tronco di mulino e chi sognava di essere da solo sul Paterberg e non c'è riuscito. Poi quel numero sulla schiena di Laporte, il tredici, che dicono porti sfortuna. Alcuni lo mettono al rovescio, lui l'ha messo dritto e, nonostante la caduta in un fosso, era lì.

Ma Pogačar e van der Poel sfiniscono sia fisicamente che mentalmente, perché basta una leggera accelerata e gli altri sembrano fermi. Non possono fare altro, solo andare avanti, pietra dopo pietra. Meglio non guardare. Le ruote delle bici di Pogačar e van der Poel se ne infischiano delle pietre, scorrono veloci tra la gente che grida e non smette un secondo. Anche se tutto è passato. Il talento gasa, agita, come le nuvole nere sullo sfondo, nel finale, sbattute dal vento leggermente trasversale. E va via mentre inizia a piovere.
Il suono delle friggitorie, come l'olio bollente in cui tutto cuoce, sembra quasi portato via dall'aria che spostano i ciclisti. Un silenziatore, quel vento. Quasi fosse una foto, una delle tante nell'album di qualcuno. A fissare l'esatto momento in cui van der Poel, sul traguardo, capisce che è il momento di partire altrimenti è la beffa, un'altra beffa. A fissare quello in cui Pogacar resta intrappolato, dietro a van Baarle e Madouas, e finisce quarto, alzando le mani che ora pesano più di tutto e tornano a scendere come cade un peso.
Quel talento che può essere leggero o pesante. Leggero per van der Poel come per Kopecky, che hanno vinto, pesante per Pogačar come per van Vleuten che viene superata sulla linea d'arrivo, e non le capita spesso, intrappolata fra le tattiche di due compagne di squadra. La sicurezza in se stessi, certe volte, non serve a nulla. Certe volte, semplicemente non puoi. Forse avresti potuto muovendoti prima, partendo prima (ci ripenserà spesso Pogačar), forse nemmeno così. A noi viene in mente Marlen Reusser che, sotto la pioggia ghiacciata, stava quasi per andarsene, invece no. Anche la compagnia di Chapman non l'ha aiutata.
Che rumore fa tutto questo? Ora, all'Inferno, quello del Nord, sanno già la risposta, mentre i raggi di sole che spuntano dalle nuvole allungano le ombre degli atleti davanti a loro.


Siete pronti?

Buon Giro delle Fiandre a tutti, intanto. Oggi è quella giornata, la giornata. Quella che fa venire un po' di pizzicore nella pancia, quella che fa dire ai corridori che anche se sarà dura, sarà comunque uno spettacolo. Volerla fare, dire di averla fatta, sentire la folla che urla il tuo nome a pochi centimetri dalla faccia. Basta già questo.
I fiamminghi sono pronti da giorni, anzi da mesi, un rito sadico, che per loro è religione, organizzati per vedere in faccia i corridori faticare sui muri. Ci saranno fan club ovunque, tifosi da ogni parte del mondo, previste circa un milione di persone lungo il percorso, e si impazzirà per ogni essere vivente che passerà in bicicletta. Pazienza se mancherà van Aert, toglierà qualcosa alla contesa, è vero, ma quando arriverà il momento saranno grida di gioia e applausi dal primo all'ultimo. Senza distinzione.
Il tempo sarà quello di sempre, fiammingo: potrà cambiare repentinamente. Da un momento all'altro il cielo azzurra lascerà il campo a nuvole appesantite dal grigio. Le gambe saranno quelle di sempre: oliate in partenza per resistere al freddo, pronte a soffrire non appena la gara si accenderà.
Dove si accenderà? Non lo sappiamo, si faranno trasportare dal momento. Kruisberg/Hotond, Koppenberg, Taaienberg, oppure il circuito finale Oude Kwaremont-Paterberg prima di arrivare a Oudenaarde. Sarà la situazione a decidere, sarà un lampo che ispirerà i più forti.
I più forti chi sono? Tra gli uomini: Van der Poel, i Jumbo Visma (Benoot e Laporte) che senza van Aert forse saranno più liberi oppure chissà, più appesantiti dalla pressione. Pogačar, Asgreen, Mohorič, Turgis, Pidcock, Küng, Campenaerts eccetera. E tra le donne: van Vleuten, Kopecky, Longo Borghini, Vos e magari ci faremo ancora una volta sorprendere da Balsamo che da quando veste la maglia iridata sembra ancora più forte.
Bisognerà avere occhi dappertutto perché qui la strada fa paura e non ci sarà un momento in cui si potrà alleggerire la tensione. Saranno sollecitazioni ai muscoli, alle braccia, alla schiena. Sarà bellissimo, saranno le Fiandre nella loro massima espressione.
Siete pronti? Buon giro delle Fiandre a tutti. Anzi buona Ronde van Vlaanderen e che il casino abbia inizio.


L'altra Ronde nella più grande festa fiamminga

L'altra Ronde è quella di quattro ragazzi che si sono fatti 1.700 km in auto dall'Abruzzo. Li incontriamo ieri mattina nel bar del Museo delle Fiandre a Oudenaarde, stanno brindando, sono arrivati da poco e parlano del viaggio («Siamo partiti con il sole e arrivati con la neve, e sì che noi di neve in Abruzzo ne abbiamo quanta ne vogliamo») e della corsa che faranno il giorno dopo, ovvero oggi - per la verità a quest'ora saranno già partiti - la Ronde van Vlaanderen Cyclo. La competizione dedicata agli amatori.

Uno di loro ci racconta di averla già disputata nove anni fa, emozione indescrivibile ci dice, e afferma di essere così malato di ciclismo (ce lo dice in quanto cosciente di essere in buona compagnia) da aver organizzato il viaggio di nozze in Spagna in modo da farlo combaciare con il Mondiale di ciclismo a Ponferrada. Era il 2013.

Mentre una birra gli scioglie decisamente la lingua, ci racconta anche di essere tifoso sfegatato di Sagan e di non amare particolarmente - alleggeriamo così il racconto - Wout van Aert.
L'altra Ronde è quella di due tifosi danesi che amano l'Italia e girano con una borsa della spesa del Famila «We love Italy!» ci urlano. L'altra Ronde sono la quantità a dismisura di gente dalla Spagna - rigorosamente con bici Kuota - e dall'Italia. A volte quando li sentiamo parlare li confondiamo scambiando spagnoli per veneti e viceversa. Ci sono francesi in camper e tedeschi in golf. L'altra Ronde è un signore irlandese, Ash, che ci dà consigli su dove parcheggiare: «Vengo qui da nove anni e ormai questo posto lo conosco come fosse casa mia».

L'altra Ronde è un gruppo di ragazzi che arriva da Trento, uno di loro è orgogliosissimo della sua maglia Mapei «E venendo qui, l'abbiamo riportata a casa!» L'altra Ronde è un signore tedesco che ci chiede indicazioni su dove trovare il punto delle iscrizioni e dopo mezz'ora lo ritroviamo ancora a girare perché si è perso.
L'altra Ronde è quella di due coppie olandesi, decisamente in là con gli anni che ci raccontano fieri di aver scelto il percorso più lungo: partiranno all'alba da Anversa e percorreranno 257 km. L'altra Ronde è quella di un altro ragazzo, del Lago d'Iseo, che è arrivato qui con pullman organizzato, ma oggi sarà l'unico della sua compagnia al via della traccia più lunga: «Infatti tra un po' prendo, vado su da solo a dormire ad Anversa e gli altri li rincontrerò di nuovo qui ad Oudenaarde».

L'altra Ronde sono due che discutono su quanto l'organizzazione dell'evento può aver tirato su attraverso la quota delle iscrizioni, oppure gli australiani che stamattina han fatto razzia di banane a colazione in hotel. Sarà una giornata lunga, come lungo è stato il viaggio dall'altra parte del mondo.
L'altra Ronde è ognuno dei 16.000 iscritti alla Cyclo che, nonostante la neve caduta, il ghiaccio formato nella notte che renderà ancora più infame la forma da testa ossuta delle pietre dei muri fiamminghi, non vede l'ora di salire in bicicletta. Sanno che, comunque andrà, quello che hanno fatto non lo dimenticheranno mai. Sarà una meravigliosa fatica, sarà sentirsi parte anche loro di tutto questo.

L'altra Ronde è quella che si mescola alla Ronde dei professionisti. Di nuovo, ognuno dei 16.000 in gara oggi, domani sarà su queste strade ad assistere allo spettacolo che daranno i corridori. Dopo aver rappresentato loro lo spirito delle corse dei muri e aver acceso questi giorni di vigilia della più grande festa fiamminga.


Fiandre Bianche

Non bastavano le pietre, i muri, la competizione, il chilometraggio. Non bastava l'attesa: terribile compagna. Non bastava l'idea di una corsa dura, tremenda, altrimenti detta sporca, per fiamminghi. Non bastava il cielo nero o il fatto di correre al nord.

Stamattina i muri delle Fiandre si sono presentati imbiancati. Abbiamo il massimo rispetto per i corridori e quindi ci fa piacere che sia solo l'antivigilia e che domenica, in teoria, ma qui siamo in Belgio e con il meteo non si scherza, dovrebbe fare "solo" freddo. Allo stesso tempo il binomio Ronde-neve ha qualcosa di incredibilmente magico, poetico, epico. Qualcosa che solo il ciclismo ci sa dare.

A Oudenaarde, durante il giorno, le facce della gente erano arrossate dalle forti raffiche di vento. Dal cielo veniva giù ormai appena qualche fiocco. Tutto si muoveva fuori tempo, atmosfera gotica, spettrale, da nord Europa. Si stava bene solo con una birra in mano dentro a un locale. Fuori da quei bar, però, si sono visti migliaia di ciclisti che a turno andavano a ritirare il pacco gara per la corsa amatoriale che si terrà domani. Mentre nel frattempo sui muri della campagna intorno, qualche professionista effettuava la ricognizione.
Si è montato il traguardo e il palco delle premiazioni, e a destra la Schelda pareva ferma, immobile, di ghiaccio. Mentre le colline fiamminghe, intorno, restavano imbiancate.

Su e giù per i muri con in testa Wout van Aert

Sarà come sarà. Sarà comunque una festa, anzi la Festa, ma ugualmente per molti belgi l'antivigilia della Ronde assume per alcuni momenti i tratti dello psicodramma.
Salivo - rigorosamente a piedi - l'Oude Kwaremont, immaginandomi il bordello che ci sarà domenica dietro la transenne e il fracasso che faranno sulle pietre i corridori, quando arriva la notizia: "Wout van Aert ammalato, forse non correrà domenica".
C'è un ragazzo che mi sta facendo compagnia lungo uno dei muri decisivi della corsa e resta senza parole quando glielo dico. Una volta montato in auto per percorrere quello che sarà esattamente il finale di gara dall'Oude Kwaremont fino a Oudenaarde - con un passaggio obbligato anche sul Taaienberg - la radio parla di van Aert.
Entro in un bar e sento dire (o meglio: capisco solamente) "Wout van Aert, Wout van Aert, Wout van Aert".
A quel punto chiedo delucidazioni: ma di cosa staranno mai parlando! Fossi io ad avere le allucinazioni e capendo da quei discorsi solo qualcosa tipo "Wout van Aert". E invece è proprio così: non si fa che discutere di van Aert e della sua possibile assenza.
Decido così di chiudere il giro e tornare a godermi le strade che faranno i corridori domenica, nonostante il freddo - e mentre scrivo in questo momento, mattina di venerdì 1 aprile, nevica e c'è un forte vento.
Qui il clima cambia repentinamente, e in dieci minuti c'è la possibilità di apprezzare a pieno tutte le sfumature: ghiaccio, freddo, cielo grigio e poi di nuovo blu quando un forte vento decide di spazzare vie le nuvole.
Su internet si susseguono le "ultime notizie" con i commenti di esperti, direttori sportivi che seminano il panico sulla corsa e sulla tattica, giornalisti che parlano del dramma di una possibile assenza di van Aert.
C'è anche chi spera possa essere solo una sorta di pretattica, magari giusto un leggero raffreddore, e oggi proprio perché nevica, Wout, te ne puoi stare al caldo a ricaricare e ci vediamo domenica perché ci aspetta qualcosa di magico, una sfida che aspettiamo da almeno un anno, come qui aspettano ogni anno questa corsa.
Inutile sottolineare come anche io, anche noi apparteniamo alla categoria degli speranzosi. O sognatori oppure ingenui, fate voi.


L'urlo e il furore

Pomeriggio di Pasqua 2021. Mancano quattrocento metri al traguardo di Oudenaarde, Fiandre Orientali. Il cielo è leggermente velato. L'azzurro si butta nel bianco come avena che si mescola a una zuppa di latte. Sullo sfondo, dietro le transenne, non ci sono tifosi: si vede qualche albero spelacchiato, un po' di verde, segnali stradali che indicano divieto di transito, persino un bagno chimico. Ci sono solo due uomini davanti a giocarsi il successo: Asgreen e van der Poel. Gli altri arrancano e annaspano, si appoggiano a quello che rimane dentro: poco, ma quanto basta per sopravvivere. Si lanciano all'inseguimento o forse più a cercare la consolazione di un terzo posto.

Da un po' di chilometri ci si domanda: cosa deve fare Asgreen? Meglio secondo oppure niente? Cosa deve inventarsi il danese per battere van der Poel allo sprint? Deve aspettare Sénéchal nel gruppetto inseguitore?

Fase di studio, non c'è surplace. Lo speaker è concentrato, c'è silenzio. I telecronisti si schiariscono la voce, le pulsazioni, già alte, salgono ancora. Van der Poel è davanti, ma il suo sguardo è fisso sulla ruota anteriore di Asgreen, ben saldo sul sellino, che nasconde la sua sagacia dietro pesanti occhiali neri.

Trecento metri e lo sprint ancora non parte: "Esattamente come lo scorso anno quando van der Poel sconfisse Wout van Aert", ci si ripete. Duecentocinquanta metri: Asgreen ora si alza sui pedali, un movimento sciolto, come si è mostrato libero da inganni e costrizioni tutto il giorno, sempre attento e all'avanguardia ad ogni tentativo altrui, e a volte persino capace di offrirlo in prima persona, con quel suo fare statuario, le caviglie sottili e la potenza della dinamite danese.

Duecento metri: parte lo sprint. Van der Poel, maglia di campione olandese e calzoncini neri («Quando indossa calzoncini neri al posto di quelli bianchi vuol dire che non è in gran giornata» ripete ossessiva la stampa del suo paese di origine, a metà tra le mani avanti e la scaramanzia), sembra non avere il calcio d'inizio dei giorni migliori. Asgreen, nella sua maglia di campione danese con enorme croce bianca su campo rosso, lo affianca, ma van der Poel ha ancora mezza bicicletta di vantaggio. Ma torniamo all'inizio.

Mattina di Pasqua 2021. Partenza del Giro delle Fiandre. Il cielo è lattiginoso. Un grigio chiaro come la bava di un cane. Fa freddo: corridori che indossano guanti e manicotti. Tutti si nascondono – dovere di sponsor – dietro occhiali di ogni genere, tranne Taco van der Hoorn, in fuga alla Sanremo e da aspettarselo in fuga anche oggi. Anni fa viaggiò per l'Europa con un furgoncino Volkswagen del 1982, battendo come un giovane studente i percorsi delle classiche belghe e italiane. Ci fu una volta in cui frantumò in volata un certo van Aert che ancora non era quello che conosciamo oggi. False speranze: Taco non attacca. In fuga ci vanno prima in quattro che poi diventano sette. Fra loro c'è Bissegger, talento elvetico: sarà l'ultimo a mollare sul Koppenberg a quarantacinque chilometri dall'arrivo. C'è Norsgaard, danese della Movistar, stessa squadra in cui corre sua sorella, lui sì già in fuga alla Sanremo e che raddoppia oggi. Ci sono Denz, uno dei nomi più belli del gruppo, Van Den Bossche, Paaschens, Houle. C'è Wallays: in una fuga che, chilometro dopo chilometro, assume margini preoccupanti, almeno per chi insegue. Wallays vince poco, ma benissimo, se giocasse a calcio sarebbe un falso nueve, sempre all'attacco ma con fantasia, e se la stagione fosse solo la Paris-Tours sarebbe quasi un cannibale.

Si passa con estrema velocità nei paesini dell'est delle Fiandre: case basse e storte, poca gente, porte e finestre che ti osservano con sguardi indisposti, di sbieco. Simboli quasi solo fiamminghi, insegne di pub e friggitorie. Striscioni dei fan club che salutano i propri beniamini. C'è un bambino avvolto in una bandiera più grande di lui e un altro su una pista ciclabile che prova un furibondo sprint su una bici da corsa per tenere il ritmo del gruppetto in fuga.
Ci riesce persino meglio, almeno per un po', rispetto a quelli dietro, col vantaggio che sale fino a toccare i tredici minuti. Nel frattempo una doppia squalifica per scorrettezze: per Fedorov che frena mentre è in testa al gruppo rischiando di combinare un macello e per Vergaerde che prova a colpirlo con una spallata.

Van Avermaet prima e Van Asbroeck poi si fermano a salutare moglie e figli. Si fora e si cambia la bici, si gettano borracce ai tifosi e per questo motivo Schär viene squalificato. Suo padre, oggi proprietario di un negozio di bici, in carriera ha vinto solo una corsa. Era il 1976, era la Setmana Catalana: sconfisse un certo Merckx.

Si procede senza troppi spasmi, cautela e progressione, con il Declercq Express che tira il gruppo e macina chilometri in testa, aiutato da due vagoni nostrani, Affini e Milan, che a conti fatti saranno i maggiori protagonisti per il ciclismo italiano, oggi - a eccezione di un buon Trentin, sfortunato per la foratura nel finale.

La prima delle due accoppiate Oude Kwaremont-Paterberg, a circa sessanta dall'arrivo, dà il via a un'ora e mezza finale di attacchi e contrattacchi. Di pulsazioni che salgono e di cuore in gola. Asgreen, van der Poel, van Aert e Alaphilippe sono i più in palla. Attaccano, chiudono, mangiano la polvere e tagliano l'aria. Con loro c'è pure un sorprendente Haller davanti, seconda giovinezza la sua, austriaco dai capelli lunghi, barba folta, grande tifoso dell'Arsenal. Da piccolo giocava ad hockey ma scelse il ciclismo: con quel fisico avrebbe pure potuto fare il rugbista. Con lui anche un rinato Teuns, da troppo tempo atteso su queste strade a questi livelli.

Ma la corsa di oggi è come un cubo di Rubik completato e dato in mano a un ragazzino. Ogni volta che te lo restituisce devi ricominciare da capo. Poi, come spesso accade in queste corse, in una fase di studio tra i sei - sui quali era rientrato anche il sempre presente Turgis - se ne vanno via i tre più forti oggi: Asgreen, van der Poel e van Aert. All'ultimo passaggio sul vecchio Kwaremont, cede anche il belga, gli altri due vedono Oudenaarde con un fastidio in meno e la storia di questo Giro delle Fiandre può tornare verso l'epilogo inaspettato.

Cento metri all'arrivo: Asgreen supera van der Poel. Sessanta metri all'arrivo van der Poel molla. Forse non bluffava, o almeno non così tanto. Scuote la testa, si inchina. Asgreen è un urlo di furore che colpisce le Fiandre orientali. Van der Poel è secondo, un enorme van Avermaet terzo davanti a Stuyven. Sesto van Aert, migliore degli italiani Bettiol, ventottesimo.

per Alvento Magazine - Alessandro Autieri
Foto: Vincent Kalut/PN/BettiniPhoto©2021


Philippe Gilbert non è soltanto una scritta sull'asfalto

Destino straordinario quello di Philippe Gilbert. Corridore fuori dall’ordinario. Saltellava sulla Redoute quando era ancora giovane, anche se gli dicevano di non farlo: quella salita lì è troppo dura per un ragazzo, era il monito. Costante. Ma vi è un legame così stretto tra Gilbert e quella salita che sull’asfalto trovavi già scritto: “Philippe Gilbert” e lui doveva ancora diventare professionista. Era la Liegi del 1999, Philippe, nato nel 1982, non era manco maggiorenne, e sulla Redoute si sfidavano Frank Vandenbroucke e Michele Bartoli. Attaccarono entrambi, affiancati, appaiati, mentre per terra sotto le loro sagome si ripeteva quel nome ancora sconosciuto. Spianarono i quasi due chilometri di côte guardandosi, in un testa a testa come sfida di nervi labili, quegli stessi nervi che poi mandarono all’aria la vita del fuoriclasse all’epoca in maglia Cofidis. Vinse Frank quel giorno – staccando Boogerd ben dopo il tentativo sulla côte simbolo della corsa belga – e per dodici lunghi anni fu digiuno per i corridori di casa.

A spezzare quel sortilegio Gilbert, oppure semplicemente “Phil” come da un certo punto in avanti trovavi scritto su quelle strade: non serviva più specificarne il cognome: d’altra parte avrebbe messo vicino, un po’ alla volta, successi in tutte le corse di un giorno più importanti al mondo. Tutte tranne una, come sapete. Phil, Philippe, Gilbert, eccetera: un peso quel nome, un marchio che ha sempre legato valloni e fiamminghi, che ha sempre emozionato italiani e francesi e spagnoli e olandesi. Difficile pensare a un corridore più tifato in gruppo negli ultimi dieci, quindici anni.

Filippo di (e da) Remouchamps, un paesino proprio ai piedi, più o meno, della Redoute. Ruvida erta d’asfalto quella côte, che quando si arrampica interseca senza pietismi un tratto di autostrada: brutta da vedere, sì, una volta pure così efficace nel selezionare il ristretto novero dell’élite ciclistica verso il finale di corsa, ma poi negli anni trasformatasi in fotografia del greggepecorismo che per un lungo periodo ha influenzato il gruppo. Invece che vedere scattare e sgranare, eccoli tutti aperti in fila lungo la sede stradale a immaginarsi una selezione che man mano arriva la salita dopo, poi la salita dopo, poi ancora la salita dopo, fino all’arrivo. Fino a quando poi han cambiato il finale della Liegi – per fortuna.

Adolescente come tanti altri, è stato. Con un padre che voleva diventare corridore e che trasmette la passione ai figli. Corrono tutti, ma arriva solo Philippe. Parte dal Belgio, dopo aver entusiasmato in una corsa Under 23 in Francia, attaccando a un centinaio di chilometri dal traguardo in mezzo al vento, e Marc Madiot (team manager già all’epoca della Française des jeux) lo strappa alla concorrenza delle squadre di casa. «Ho preferito la Francia per sentire meno pressione» racconterà spesso Gilbert.

Ma intanto in quella Remouchamps una piazza porta il suo nome, così come un’ala del Museo della Bicicletta – situata ai piedi delle Grotte di Remouchamps e fortemente voluta da Christian Gilbert, fratello di Philippe e assessore alla cultura della cittadina belga. Un’importante corsa che si disputa da quelle parti è stata ribattezza “La Philippe Gilbert Juniors” (nel suo albo d’oro vittorie di Pidcock nel 2016 ed Evenepoel nel 2017), quando vinceva lui, vinceva tutto il paese. Di fan club in giro per il mondo se ne perde il conto, di tifosi che si asserragliano lungo quelle salite, il giorno de “La Doyenne”, non basterebbero giorni per contarli tutti. “Philomani” li chiamano. A fine “Doyenne”, la decana delle classiche, ovvero la Liegi-Bastogne-Liegi, per esteso, e che negli anni ha perso molto del suo fascino antico, si organizza sempre una grande festa in suo onore. Uno stand, magliette. gadget, balli, musica, salsicce e birra. Eroe per i valloni che dai tempi di Criquielion – e di Magritte -aspettavano un figlio della loro gente per guardare negli occhi i fiamminghi.

Ha vinto una Liegi (una soltanto, è il caso di dirlo) da favorito e dominatore. Era il 2011: decadi che passano. Sconfisse i due fratelli Schleck nella volata verso Ans. Volata via senza storia. Quando ha conquistato il Fiandre (2017), lui che per un lungo periodo si è sentito tagliato fuori dalle corse sulle pietre a causa pare anche di una difficile convivenza in casa BMC, lo ha fatto come un matto. Attacca lontano dal traguardo, poi 55 chilometri in solitaria con 8 muri ancora da affrontare. «Ci vuole coraggio per fare quello che ho fatto. Sì mi sono sentito davvero pazzo», disse appena tagliato il traguardo, la bici tirata su in aria, tutti prostrati davanti alla sua classe.

E poi il 14 aprile del 2019 il colpo alla Roubaix, cercato, ma inaspettato. Il paradosso vuole che ancora per questa primavera, la seconda consecutiva stramaledetta primavera, c’è il rischio che il suo resterà l’ultimo nome scritto nell’albo d’oro della Regina delle Classiche, lui che delle classiche è di sicuro stato un Re. Quattro Amstel, un Fiandre, una Roubaix, una Liegi, una Freccia Vallone, svariate tappe tra Giro, Tour e Vuelta, un Mondiale, una Freccia del Brabante, due Parigi Tours, due Lombardia, una Strade Bianche, un San Sebastian, un Gp de Quebec, due Het Volk, due titoli nazionali – uno in linea e uno a cronometro. Allora gli mancherebbe e probabilmente gli mancherà, solo la Sanremo per eguagliare Van Looy, Merckx e De Vlaeminck, belgi come lui, prima di lui, ma deve fare i conti con il tempo che passa.

Gilbert smuove, ma forse ha smosso definitivamente ormai, non ce ne voglia. A 38 anni, quasi 39, si farà da parte e smetterà a fine 2022. Oltre al logorio del tempo che scalfisce ci sono tanti infortuni pure gravi, pure recenti. È vero: ci piacerebbe giocare proprio con quel tempo e plasmarlo a nostro piacimento. Ci piacerebbe prendere il Gilbert dello scatto devastante di Anagni al Giro 2009, oppure quello dell’attacco su quel sottile capezzolo sopra Valkenburg quando si lanciò verso l’iride, e proiettarlo per una sfida alla pari con van Aert, van der Poel, Alaphilippe, ma non è possibile. Non ci sono armi né sotterfugi, né capacità di sottrarsi al destino e al tempo. Rimane solo la capacità di chiudere gli occhi e immaginarsi ancora quella scritta sull’asfalto della Redoute: “Philippe Gilbert” oppure semplicemente “Phil” e via di nuovo, tornare indietro e ricominciare tutto da capo come un attacco folle a cento chilometri dall’arrivo di una grande corsa. All’infinito.

Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2018


Essere Mathieu van der Poel

Spesso c'è tutto in un grido. Il grido di Julian Alaphilippe che a trentacinque chilometri dal traguardo frana rovinosamente a terra dopo che col gomito sbatte violentemente contro la moto della giuria. C'è la disperazione nel viso di quest'uomo, nel suo corpo che, senza l'appoggio delle braccia, non riesce a girarsi, a mettersi supino e si dibatte in un'impossibilità atroce. Nessuno riesce a capire, almeno in un primo momento: lo sguardo vaga cercando una risposta a quel dolore. Il motociclista della giuria si avvicina, quasi a chiedere scusa, quasi a voler porre rimedio. Non è più possibile ormai. Quando errore c'è, bisogna pensarci prima, dopo è tardi, è inutile. In realtà prima bisogna pensarci anche quando non c'è errore perché basta poco, pochissimo, per cambiare sorte alle cose e alle persone. Cade Julian, cade e con lui frana tutto. Si è rialzato molte volte e tornerà a rialzarsi ma oggi no e a lui serviva essere in sella oggi. Del resto possiamo discutere noi, del resto parleranno le corse. Resta quell'immagine al suolo, come un castigo degli Dei alla fantasia e a quella forza del continuo provare, del continuo inventare, che tanto piace agli uomini. Wout van Aert e Mathieu van der Poel si voltano di scatto appena sentono il rumore della caduta, le grida del francese. Si guardano, proseguono, non possono fare altro: devono proseguire. E la gente, i tifosi, vivono un contrasto di sensazioni, come il viandante su un mare di nebbia di Caspar David Friedrich. Vorrebbero essere lì, vorrebbero essere su quelle strade ma non possono. L'immedesimazione è l'unica via per essere proiettati, almeno per qualche istante, nella realtà sensoriale di una gara che sta diventando un duello di spada e fioretto. I pochi tifosi che si affacciano dai cancelli gridano forte, più forte che possono e, chiudendo gli occhi e ascoltando, per qualche secondo ci si può pure inventare che le cose non siano cambiate così tanto.

Svanisce tutto, come quel silenzio ritorna e non si può fingere di non sentirlo. Il silenzio è attorno, non nel gruppo che d'improvviso si risveglia e accende un folle inseguimento, non nella testa di van der Poel e van Aert che pullula di pensieri. Alberto Bettiol, ieri, ha raccontato di essere bravo a giocare a scacchi e ha ricordato come il Fiandre assomigli a una partita a scacchi. Negli scacchi prevale l'attendismo, le partite possono proseguire per ore e le mosse possono essere così sottili da sembrare ininfluenti. Probabilmente sono già passati tanti chilometri, troppi, quando Bettiol si mette in testa al plotone e forza l'andatura stringendo i denti. In molti fanno così, come se quel ghigno potesse sfogare una rabbia repressa, un dolore ancestrale che è l'unica spinta per cercare di arrivare al traguardo, per non cedere a quella voce che tutti abbiamo dentro e che ci suggerisce la via più facile. Non la migliore, la più semplice. Davanti quei due, van der Poel e van Aert, trovano l'accordo e vanno via che è una meraviglia. Loro, i due rivali, i più attesi, quelli che tutti stamattina hanno guardato con una peculiare attenzione. Come a dire: "Vi teniamo d'occhio". E quando si è tenuti d'occhio è tutto più difficile ma i campioni sono chiamati anche a questo, oneri ed onori. Loro lo sanno e si prendono la responsabilità della gara come giganti che reggono sulle spalle un pianeta parallelo. Qualcuno teme qualche tatticismo di troppo, teme che sprechino quel vantaggio gettandolo al vento d'ottobre che spazza le pietre e la natura che inizia a sonnecchiare nell'inferno del nord.

Qui il fuoco e le fiamme sono di freddo e brina. Qualcosa che sembra rallentare il circostante, quasi a lasciarlo immutato, come in una fotografia. Come all'ultimo chilometro di una qualunque gara, ma questa non è una gara qualunque, in cui la velocità, le spallate ed i cambi di direzione al millimetro sono preceduti da una calma ansiosa. Quell'attesa che mischia euforia e timore per poi gettarseli alle spalle in una frazione di secondo. L'attimo in cui decidi che il tuo tempo è giunto e ti scordi di ogni pensiero antecedente. Così è l'ultimo chilometro di van der Poel e van Aert: una sensazione di infinito che si sprigiona dall'arco e dura fino alla linea finale ed anche oltre. Prima uno a tirare davanti e uno a inseguire dietro, poi uno sulla destra e uno sulla sinistra, entrambi prima seduti e poi sui pedali, entrambi con la testa che sembra assecondare quella volontà di supremazia. Un "sì" riaffermato continuamente. Una certezza che non c'è ma pretende di avverarsi. Sulla linea, van der Poel e van Aert, arrivano assieme e si lanciano in un colpo di reni che tende e affina ogni linea del loro corpo di atleti. L'incertezza è un respiro strozzato, un calcio alle illusioni, un ricordo e un augurio. Sono quei secondi, una manciata, che pesano più delle ore a tremare su quella sella, quei secondi in cui anche i campioni perdono quella invulnerabilità che solo apparentemente li caratterizza e tornano uomini che guardano lo staff nella speranza di un assenso, che ascoltano le voci sul traguardo immaginando di sentire il loro nome. Vince Mathieu van der Poel: è il grido, l'altro grido, in cui c'è tutto. Per l'ennesima volta, tutto uguale e diverso. Come uguali e diverse sono quelle lacrime che non hanno il tempo di cadere a terra, trattenute dalle sue mani che chiudono gli occhi. Quegli stessi occhi che, ora, non hanno bisogno di vedere, che forse non hanno neanche voglia di vedere, che vogliono stare così fra quelle mani. A liberare un sentimento straripante, sciolto e trattenuto lì, vicino. Quello di Mathieu van der Poel che oggi, a venticinque anni, ha vinto il Giro delle Fiandre.

Foto: Bettini


Un senso di Fiandre

Nelle Fiandre capisci cos'è l'empatia, quella fra cielo e terra. In questo nulla di strade disseminate fra brulle colline, aspre come un taglio nella pelle, addolcite malinconicamente solo da un pallido sole che fugge e rifugge e da quella luce, fredda, che ricorda un bagliore d'autunno anche agli albori della primavera. Qual è la luce delle Fiandre? Quella foschia che lascia solo sognare le distese azzurre del mare del nord. Un oltre che pare irraggiungibile, mentre tutto è avvolto dalla foschia. C'è il vento che spazza così forte quelle terre che ti chiedi come faccia a non spezzarsi nulla, dentro e fuori. Come facciano le cattedrali, maestà nel vuoto, a restare lì impassibili: quanto freddo c'è fra le loro vetrate? Quanto cielo è rimasto fra le guglie ed i pennacchi? Già, perché qui il cielo si abbassa e ti resta addosso. Sarà per quelle nuvole sbattute dal vento che perdono in un attimo il loro cupo grigiore per riscoprirsi bianche, candide. Sarà per quella bruma che seppellisce tutto. Cardarelli diceva che il mare odora quando è sepolto dalla bruma. Non solo il mare, tutta la natura ed anche queste vie ortogonali a disperdersi chissà dove. Se hai il coraggio di respirare a pieni polmoni, quell'aria, a tratti gelida, ti porta dentro ciò che vedi. A dir la verità, qualcosa ti resta appiccicato lo stesso, anche bardato: è nelle ossa che la bruma fa il nido. Lì cade senza far rumore e viene assorbita. L'empatia, nelle Fiandre, è questo: un richiamo continuo.

L'empatia nelle Fiandre è ciò che prova un milione di persone che si riversa nelle strade, in queste strade, per vedere il passaggio della Ronde van Vlaanderen. Questi uomini e queste donne «dai desideri limitati, dall'esistenza modesta; calmi, misurati, freddi, flemmatici, in una parola "fiamminghi", come se ne incontrano a volte tra la Schelda e il Mare del Nord», diceva Jules Verne. Loro, per natura, rispecchiano ciò che c'è e, forse, soprattutto ciò che non c'è. I luoghi che viviamo ci plasmano, ci afferranno o ci respingono. Forse per questo chi arriva nelle Fiandre, chi arriva al Giro delle Fiandre, vuole toccare quella terra, quelle pietre, e ci mette le mani, ci si sdraia sopra, qualcuno ci appoggia anche le orecchie. Perché chi non vive qui, non riesce a capacitarsi di quello che accade e cerca una risposta, la cerca ovunque, aspetta una rivelazione. Questa umanità sente qualcosa e brulica, si accende e vive di una vita in festa in quei giorni. C'è la birra, in quelle bottiglie dalle marche variegate e in quei bicchieri di plastica, appoggiati a terra, accanto alle transenne dove lo sguardo sceglie la sua regia. Ci sono musica e voci che non si seguono in scia, ma si rimpallano ed in alcuni momenti sembra il caos. In alcuni istanti non senti nemmeno la tua voce e ti chiedi dove sia, se, per caso, a forza di gridare e di incitare chiunque, sia finita, si sia addormentata come accade a qualche bambino di pochi mesi che riesce a dormire anche in questo "inferno". Si incita davvero chiunque, dal professionista all'amatore, all'anziano signore che su una vecchia bici non percorre più di cento metri fra quelle pietre sgangherate, ma lo fa qui e questo basta. Li si incita urlando il nome, il numero, un colore che li caratterizza od un soprannome che si inventa al momento e che ricorda una loro caratteristica. Che insomma li fa sentire al centro per qualche secondo, accolti. Perché il mistero delle Fiandre è anche in questa loro accoglienza che diviene urgenza di farvi ritorno.

Quelle pietre sono diverse. Non sono piane ma hanno forme strane, strambe. Una caratteristica è comune: una sorta di bombatura sul dorso. Le linee che si arrotondano dovrebbero suggerire pacatezza, tranquillità, come una discesa, come qualcuno che accompagna. Invece no. Quelle pietre a "cappello di prete" sono le spine dell'inferno. Devi trovare l'equilibrio e mantenerlo perché basta una minima sbandata per cadere o per essere costretti a mettere il piede a terra. Quelle pietre conservano il dolore di una processione triste. Fanno male quanto la terra che si alza ovunque e si confonde con la foschia. Vedi solo qualche bandiera con i leoni rampanti, gialla e nera, e preghi che la cantilena dei muri dai nomi multiformi, finisca presto perché senti male ovunque. Ti accorgi di ogni minima parte di te in questo inferno. Se pensi a Karel Van Wijnendale, il giornalista che a questa corsa pensò per primo, ti sembra un uomo nato per far soffrire altri uomini, quelli che lui definiva Flandrien per questo spirito votato al martirio. Perché non ne puoi più e non trovi una buona ragione per essere ridotto come sei ridotto in questo momento. Le ragioni, però, nella vita arrivano sempre dopo e certe volte è anche meglio evitare di cercarle. Non devono per forza esserci, non tutto deve avere un senso. E questo forse un senso non lo ha ma esiste ed è così spietato, reale, brutale da essere bello.

Foto: Bettini