Un uomo solo (al comando)
Se volessimo usare un'espressione tipica o, ancora meglio, volessimo prendere in prestito una delle locuzioni più celebri della storia del ciclismo, diremmo: "un uomo solo al comando".
Ma chi scrive ha un certo rispetto per la tradizione e allora preferisce iniziare questo pezzo scrivendo: "Un ragazzo solo al comando".
Perché di questo si tratta: un ragazzo, poco più che ragazzino, nato nei primi mesi del 2000 che si fa scivolare addosso il tempo, tutto il tempo, che passa e lui appare andargli incontro. Mani basse, testa ficcata in mezzo alle spalle che - spiace contraddire la bonanima di Boskov - nel suo caso non è buona solo a portare cappello, ma anche casco aerodinamico, utile, come da definizione, a tagliare l'aria.
Un uomo solo al comando, anzi un ragazzo: c'è chi vorrebbe esserlo prima o poi come Tiberi alla sua prima cronometro individuale in un Grande Giro, ma non è quel giorno; c'è chi ci resta per un bel po' come Cavagna, che ride e fa segni eloquenti quando vede l'intertempo del suo giovane compagno di squadra che lo supera di parecchi secondi, come se quello lì vestito di rosso appartenesse a un'altra categoria; c'è chi lo è stato spesso al comando, magari non nelle crono, ma per tanto tempo e tante volte: Vincenzo Nibali, e fa male pensare che oggi è alla sua ultima cronometro in un Grande Giro, forse in carriera.
E allora quel tempo che passa oggi appartiene a Remco Evenepoel, vestito di rosso, solo, perché si è soli in bici, figurarsi in una cronometro, mentre spinge il 60x11, compatto sul suo mezzo, potente e dominatore come lo aspettavano in Belgio, come lo aspettavamo tutti, che lo cerchiamo, lo seguiamo, una sorta di stella da prima serata dalle sue parti, tanto che a volte fa persino storcere la bocca.
Quel tempo, presente e futuro, che appartiene anche a Carlos Rodríguez: la Spagna cercava un corridore vero, eccolo trovato. Un po' di invidia. Sana invidia, la stessa che si prova nel vedere Evenepoel, un uomo solo al comando, anzi un ragazzo che oggi è dominatore. Domani chissà, dopo la Sierra Nevada di quello che sta facendo il belga se ne potrà iniziare a parlare più serenamente, intanto strabuzziamo gli occhi e ci facciamo venire male alle gambe dopo averlo visto pedalare così.
Il giorno meno atteso
Sono quasi le tre del pomeriggio quando Marc Soler parte. Eccolo: il solito Marc Soler, un po' filibustiere, che prova un attacco sgangherato tutto spalle che si muovono a ritmo di pedalata in salita, e faccia da vecchio ciclista catalano, di quelli già in pensione e che ritrovi in bici sulle strade il sabato mattina.
Il gruppo pare in rimonta, quelli davanti, tanti che sembrano troppi, filano che è una meraviglia, e in mezzo si mette lui. Sono quasi le tre del pomeriggio e all'apparenza è uno di quei giorni lì, quelli superflui per farne una sceneggiatura, quei giorni dove non sarebbe potuto accadere nulla di che e invece.
Davanti succede che un monegasco (!) va a conquistare punti su punti sui gran premi della montagna di cui è disseminata la tappa dei Paesi Baschi con arrivo a Bilbao; un ragazzo, Victor Langellotti, chiamato all'ultimo momento dalla sua Burgos-BH, utile per sostituire il capitano, Madrazo, che si è beccato il Covid alla vigilia della partenza della Vuelta da Utrecht.
Per non far nascere rimpianti, Langellotti fa quello che avrebbe fatto l'occhialuto compagno di squadra che oggi sarà stato davanti alla tv a soffrire tra una partita di playstation (la sua grande passione) e l'altra e un attacco di Marc Soler. A fine tappa Langellotti vestirà quella maglia che fu di Madrazo qualche stagione fa per un paio di settimane e sarebbe superfluo dire che mai nessun atleta del Principato di Monaco ne aveva vestita una.
Intanto Marc Soler rientra sul gruppo dei fuggitivi mentre da dietro quello dei migliori decide che oggi la fuga sarebbe potuta andare all'arrivo, dopo la polemica di ieri sulle moto che avrebbero favorito quelli dietro a discapito dei facinorosi davanti.
Marc Soler attacca di nuovo. Sono le 16.46. Marc Soler si materializza pochi minuti dopo alle spalle di Jake Stewart, veloce quanto un pilota di Formula Uno e sorprendentemente in avanscoperta in una tappa classificata di media montagna
Marc Soler riparte e resta solo. Sono passate da poco le 17. Scollina in testa con un vantaggio esiguo. Gestisce in discesa mentre da dietro sembrano farsi grandi così, talmente sono vicini. Agli occhi di Marc Soler, che si gira, e si gira, e si gira da farsi venire il torcicollo, saranno sembrati enormi.
L'ultimo chilometro lo viviamo con le stesse sensazioni di chi stava pedalando in quel momento con il numero 171 appicciato alla maglietta della UAE Team Emirates. Quello tra i protagonisti di un documentario sulla sua ex squadra, la Movistar; accusato di avere un carattere morbido, ma che poi aveva concluso una tappa del Tour de France con le ossa rotte e un'altra chiusa a decine di minuti dal gruppo, prima di ritirarsi, in preda al mal di pancia, solo qualche settimana fa.
Sembrano riprenderlo quelli dietro, quando mancano poco più di mille metri al traguardo che detta così sembra un'infinità; sembrano riprenderlo, alimentati dalla voglia irrefrenabile di distruggere il sogno altrui, ma poi rallentano in preda non si sa che e Marc Soler vince, con un numero che ne certifica il talento, riportando una vittoria in un Grand Tour in Spagna dopo 121 tappe consecutive. Non poteva esserci corridore più strano a interrompere la striscia.
Un gesto alla fine, anzi due. Prima il pollice in bocca con gli inseguitori sgranati dietro a giocarsi la volata per il secondo posto, e poi una sorta di liberazione.
Sui suoi gestacci passati e litigi, con annessi "vaffa" all'ammiraglia, sui suoi attacchi scriteriati, il suo carattere un po' così a detta di chi lo conosce bene, le sue vittorie e le sue debacle, ci si potrebbe aprire un capitolo intero, ma oggi è quel giorno lì, quello meno pensato, quello del nostro cavallo pazzo preferito, quello di Marc Soler, strano catalano.
Addio alle braccia
Lasciatecele scrivere ancora due parole su Fabio Aru e abbiate pazienza se ogni tanto sconfiniamo nel passionale. Oggi era la sua ultima tappa di montagna in carriera, e fa già effetto così a pensarlo, anche se troppo spesso, a volte troppo in fretta, si è intonato il de profundis alla sua carriera.
Quello che ha spinto Aru in questi anni, ma anche in queste settimane e in questi giorni, è stato l'amore per la bicicletta e la fatica, a prescindere poi dai risultati che, quando non arrivavano, a un certo punto gli sono stati rinfacciati.
Oggi Aru ci ha provato, ancora una volta, seppure senza risultato. È stato uno degli ultimi a cedere al ritorno del gruppo, alle spalle di un irrefrenabile Michael Storer.
Ancora una volta e per l'ultima volta, Aru ha scalato le grandi salite di una grande corsa insieme al gruppo, andando in fuga, provando a mettere il muso davanti per sentire il vento in faccia, la fatica opprimente, il gusto di sentirsi nuovamente in fuga, il piacere e l'ebrezza di stare davanti.
Quando Fernanda Pivano tradusse "A Farewell to Arms" di Hemingway, scrisse come quel titolo potesse essere tradotto non solo come "Addio alle armi", ma anche come "Addio alle braccia" intese come le braccia della propria amata. Similitudine ardita, è vero, ma oggi quello di Fabio Aru è stato l'addio alla montagna, almeno come corridore. Da lunedì per lui inizierà una nuova vita, ma oggi quella del corridore, che ancora gli appartiene per qualche giorno, se l'è goduta tutta, proprio come un abbraccio.
Quando tutto cambia
Ci sono giorni in cui tutto cambia. Lo scenario, le sensazioni, le gambe. E allora inizi a salire (e poi inevitabilmente a scendere, e poi di nuovo salire) e c'è la pioggia che cambia tutto.
E ci sarebbe da raccontare di un'impresa. Perché partire a 61 km dall'arrivo non è che sia roba che si vede tutti i giorni, figurati in una Vuelta che sin qui aveva lasciato (un po') a desiderare.
E ci sono da raccontare gli opposti: come Roglič e Bernal. Sono loro che si cimentano nell'azione, che se non l'avete vista, cari lettori, vi invitiamo in qualche modo a rimediare.
Perché in salita si andava forte, ma c'era la pioggia che se ti alzavi di sella scivolava pure la ruota dietro. Perché mentre Roglič e Bernal andavano, Eiking saltava, ma non naufragava, cadeva persino in discesa, ma si rialzava: a cedere con onore non sono bravi tutti, lui lo è stato, come è stata un'audace maglia rossa.
E allora ci sarebbe da raccontare di Rochas che spinge forte per Martin per provare a inseguire una chimera rossa, ma mentre si risale verso i Laghi di Covadonga, salita simbolo della Vuelta, Martin, stoico e non ce ne voglia, si infrange. Ha dato tutto.
Ci sarebbe Poels che rischia tutto in discesa per Haig, una discesa che dava i brividi con tutte quelle foglie a terra; Mäder che più se ne mette dietro e più soldi darà in beneficienza; la Movistar che all'improvviso torna a essere la buona, cara, vecchia Movistar e non si sa bene cosa dovrebbero fare; Meintjes che non andava così forte da almeno mezzo secolo; Adam Yates con il viso solcato da pioggia e fatica che più che ricordare il gemello, sembrava il nonno; Kuss imbrigliato: il giorno che proverà a fare il capitano forse sarà meno forte di così. A sensazione.
Ci sarebbe da raccontare di quando a Roglič sudavano pure le sopracciglia in salita, che si è dovuto togliere gli occhiali e lasciava trasparire in mondovisione tutta la sua fatica. E poi il suo opposto, Bernal in maglia bianca che stamattina lo aveva detto: "Oggi ci provo: o tutto o niente". E oggi è andata così, c'ha provato, ciclisticamente così bello, poi è saltato, ma se la vittoria di Roglič ha un sapore particolare il merito è (anche) di Bernal.
E allora ci sono giorni in cui tutto cambia, la classifica, i protagonisti, da una curva all'altra, da un metro all'altro. Resta l'impressione di una giornata indimenticabile, grazie a Roglič e alla sua irresistibile accelerazione nel finale e ai 61 km di cavalcata. Grazie a Roglič e ai suoi opposti. A Bernal che cede, a Martin naufrago, alle crepe della nave di Eiking che non affonda.
Il cammino di Santiago o fare la prima mossa
Forse nemmeno Eiking immaginava di trovarsi alla vigilia dell'ultima settimana - o meglio, degli ultimi 5 giorni di corsa, in maglia rossa. In carriera fino adesso ha ottenuto come miglior risultato tra Giro, Vuelta e Tour un 77° posto proprio in Spagna nel 2016. E da una Vuelta fu cacciato per motivi disciplinari - era il 2017, ma questa è una storia che abbiamo già raccontato.
Forse Roglič, ma anche una Movistar di nuovo tirata a lucido come non si vedeva da tempo (ah, i cari bei vecchi tempi!), mai si sarebbero immaginati di dover inseguire un norvegese a cinque tappe dal termine. O comunque non Eiking, ecco.
Forse Mas e López hanno in serbo qualcosa per i due arrivi in salita che rimangono tra Lagos de Covadonga e Altu d'El Gamoniteiru, mentre Roglič ha un tesoretto niente male da spendere l'ultimo giorno nella crono di Santiago de Compostela; e non ci sarà Pogačar a fargli venire gli incubi, né si presume ci saranno avversari capaci di un clamoroso ribaltone come quello de La Planches des Belles Filles al Tour. «È il campione olimpico contro il tempo - si mormora in gruppo con fare sincero - chi mai potrebbe fargli paura?». Già.
Nemmeno Martin, uno che fa dell'imprevedibilità il suo archetipo, che nella sua ciclosofia racconta: "pedalo, dunque sono", e che quando corre, corre spesso in coda, ma poi risale sempre, curvo sulla bici come se sembrasse dover cercare qualcosa per terra. Forse qualche risposta.
Dicevamo: nemmeno Martin (Guillaume, e alla francese, mi raccomando) probabilmente si aspettava di essere lì, secondo, grazie a una fuga, lui che in fuga ci sta sempre bene, che quella fuga da gentile concessione giorno dopo giorno si sta trasformando in pesante fardello per chi deve inseguire, e chi deve inseguire sembra non abbia forza/voglia/fantasia: eventualmente scegliete voi la parola giusta. A Mas non gli sono uscite benissimo in questi giorni: «Il percorso non era abbastanza favorevole da permettere una lotta tra i favoriti», verrebbe da pensare l'opposto, ma tant'è.
E forza, intesa come condizione, gambe, detto terra terra, fantasia, sembra ciò che manca totalmente alla Ineos in questo momento: Bernal fatica a rispondere agli scatti, Adam (Yates) qualche punturina la molla qua e là, ma ha provocato giusto un po' di bua - nulla di che. Carapaz si è fermato, Sivakov è ormai carbone da locomotora.
Spazio ci sarà per provare qualcosa dopo una settimana che ha raccontato belle storie - Cort Nielsen, Storer, Bardet, Majka, il confronto tutto adrenalina Jakobsen-Sénéchal, Aru eccetera - come in uno di quei romanzi di Kent Haruf dove sembra non succedere mai nulla, ma da cui non riesci proprio a staccarti. Però è lì su, dove si sogna la vittoria, ci si dimena e si dibatte, dove osano le aquile, che è stata calma piatta come una giornata al mare. È in classifica che ci si aspetta qualcosa: se non oggi, domani.
Il cammino verso Santiago è ancora lungo, ma non troppo: è tempo anche che qualcuno faccia la prima mossa. Il resto - magari quei fuochi d'artifici che aspettiamo da giorni - arriverà di conseguenza.
Foto: ASO/Luis Angel Gomez / Photo Gomez Sport
Il decalogo di Magnus Cort
Ai 350 metri dalla vetta del muro di Valdepeñas de Jaén, Magnus Cort Nielsen ha avuto ancora una volta la certezza di non essere uno dei tanti. Proprio mentre il mondo gli crollava addosso e la gravità sembrava la più bizzarra delle leggi. Magnus, dopo una giornata in fuga, contro tutto e tutti, era un corpo trascinato verso il basso, incapace di fare la più normale delle cose in sella a una bicicletta: andare avanti. A destra, poi a sinistra e di nuovo a destra per non cadere a terra. Lo sorpassano Roglič e Mas, lo sorpassano López e Haig, lo sorpassano ventiquattro corridori e passano quarantanove secondi prima che arrivi in vetta. Lo speaker inizia a incitarlo, lo stesso fa la gente. Un mondo che si capovolge e ti riempie di lividi quando sei il più vulnerabile e non te lo meriteresti. «È ingiusto» direbbero i più.
Magnus Cort ha imparato da troppi anni che imprecare è inutile. Da quell'isola aspra quasi quanto una strada che sale. A Bornholm, quarantamila anime, nel mar Baltico, c'era posto solo per l'immaginazione. La stessa che ha convinto il danese ad andarsene a sedici anni per fare il mestiere del ciclista.
Veloce, certo, non a caso vorrebbe somigliare a Peter Sagan, ma non solo. A Magnus piace complicarsi la vita e, col tempo, ha avuto la certezza che le migliori possibilità provengano proprio da lì. «Forse in condizioni normali non posso battere i migliori, ma esistono anche la pioggia, il freddo e il vento...». Quasi una provocazione, come le fughe dell'uomo del nord. Ha vinto tappe alla Vuelta, la corsa degli scalatori: quest'anno persino all'Alto de Cullera, proprio mentre Roglič lo stava raggiungendo, una settimana fa. «Ai 150 metri ho temuto, per fortuna non mi ha ripreso». Parole che sembrano quasi uno sberleffo a sentirle oggi.
Orica, Astana e Education First, senza rincorse, rispettando lo scorrere del tempo che riconosce la fatica, il sacrificio. Poi, nei momenti liberi, si prende una tenda, gli sci, si imballa la bicicletta e si parte in spedizione sui Pirenei. Oppure si torna a Bornholm, dalla famiglia, e si va in campeggio. Magnus Cort ha un decalogo di regole: usa solamente ciò che hai, impara una cosa semplice alla volta, rispetta le regole, non portare mai due cose uguali, quando fa notte guarda un film sotto le stelle e riposati su un materassino che hai già provato a casa. Soprattutto non partire mai con scarpe che tu non abbia già indossato: in mezzo al bosco non potrai cambiarle.
Ha in mente una spedizione sul Kilimangiaro e vorrebbe fare bene alle Classiche del Nord. Ci riuscirà? Chissà. Di certo Magnus Cort è riuscito a inventarsi una vita neanche lontanamente immaginabile. Per questo è Alvento, come chi vede ciò che manca e, invece di lamentarsi, lo inventa.
Foto: Jered Gruber
Quanto bene vogliamo a Damiano caruso?
Il cuore dell’Andalusia è terra secca, fatta di salite aspre, poca vegetazione, sole a picco sulla testa. E a fine agosto fa un caldo terribile. È terreno per imboscate e alla partenza da Puerto Lumbreras l’atmosfera è di quelle tese. Almeno tre della banda Ineos pronti ad attaccare Roglic. Manca solo la musichetta da western. Luogo designato per lo scontro: l’Alto de Velefique, salita durissima che conduce al traguardo.
Ma c’è qualcuno che se ne frega dei progetti degli altri, viene da Ragusa e si chiama Damiano Caruso. Da quelle parti non è meno secco e aspro l'ambiente d'estate. Parte con un gruppetto, con Bardet, Majka e Amezqueta, tra gli altri, sulle prime rampe del secondo colle, l’Alto Collado Venta Luisa. Poi in un tratto di falsopiano a metà salita rompe gli indugi e quando mancano 71 km all’arrivo, se ne va #alvento, da solo. Pedala bene Damiano, sembra quello del Giro. Regolare, ritmo altissimo. Passa per primo sul Venta Luisa, inizia la discesa e non molla. Il suo vantaggio sul gruppo della Roja supera i 5 minuti. La Jumbo non spinge troppo e Damiano ne approfitta.
Il caldo non da tregua. Quando attacca la rampa dell’Alto de le Velefique pedala bene, rilancia la sua Merida, maglietta aperta e bocca spalancata. Damiano è a tutta. Fa caldissimo, è secco tutto attorno. Probabilmente Damiano si sente come in Sicilia, quando pedalava da ragazzo. Lo aspettano 11 km e mezzo da fare fuori soglia. E mentre lui conta le gocce di sudore che cadono sull'asflato, ecco iniziare le sparatorie dietro di lui: Adam Yates prima, risponde Roglic, rientra Bernal. Ci riprova Carapaz, ma niente da fare. Ancora un allungo di Yates. Cedono tutti, cede anche Bernal. Se ne vanno Mas e Roglic, a tutta. Una serie di attacchi feroci. Ma Damiano è là davanti, sempre a maglietta aperta, sempre a bocca spalancata. E pedala sempre bene. E fa sempre un caldo maledetto.
Nessuno sconto per lui, alle sue spalle se le danno di santa ragione. Ma Damiano vede l’ultimo chilometro e a quel punto non molla più. Fa in tempo a chiudersi la maglietta, ad esultare come avesse segnato un goal in finale, a tagliare il traguardo con più di un minuto su Primoz Roglic ed Eric Mas.
Una giornata di ciclismo eroico, un Damiano Caruso d’annata, che sembra migliorare sempre di più. Maglia a pois di miglior scalatore da portare con orgoglio.
«Sono andato via da solo a 71 km dall'arrivo perché ho sentito che la Ineos voleva chiudere il buco e allora mi sono sentito di provarci da solo» ha detto subito dopo la gara.
Quanto ti vogliamo bene, Damiano!