Il fuoco di Evie Richards

Al secondo giro dei Campionati del Mondo di Cross Country-Mountain Bike, Evie Richards avrebbe potuto andare in crisi. Sarebbe bastato ascoltare quella voce che la annunciava in seconda posizione, dietro a Pauline Ferrand Prevot. Richards non vedeva già più la rivale e questa distanza avrebbe potuto metterla in crisi. Se solo avesse ascoltato quella voce. Invece l’ha sentita, certo, ma non l’ha ascoltata. C’è una sottile differenza.
«Normalmente avrei iniziato a pensare che ormai era finita - ha raccontato a Cyclingweekly - e avrei iniziato ad accusare la stanchezza. Questa volta ho fatto la mia gara, mi sono detta: “Se la riprendo, la riprendo. Altrimenti va bene così”». È importante il fatto che Richards abbia ripreso Ferrand Prevot e abbia vinto la maglia iridata, ma ancora più importante è il racconto di questa debolezza su cui spesso si è confrontata con la sua psicologa. Il coraggio di parlare delle proprie paure e delle proprie delusioni.
Una è abbastanza recente: l’Olimpiade di Tokyo. Quando Richards ha saputo che sarebbe stata rimandata al 2021, è stata delusa, ma anche fiduciosa perché c’era più tempo per lavorare. In quei giorni di attesa, però, si è sfinita, facendo di tutto, dai lavori in casa, appena comprata, a un allenamento molto rigido, al punto di non riuscire quasi più a scendere le scale. Qualcuno, vedendola, glielo ha chiesto: “Ma cosa ti stai facendo? Perché?”. Aveva bisogno dell’umidità e del fango per ritrovare se stessa.
Forse anche per questo, all’Olimpiade è arrivata stanca, distrutta mentalmente prima che fisicamente, e quando gareggi in queste condizioni in mountain bike, dice Evie Richards, sai che cadrai. Così è successo e ha concluso in settima posizione.
Poteva essere un sogno rovinato perché aveva sempre desiderato di andare alle Olimpiadi, fin da ragazza. Poteva ma non è stato così. Quando Richards è arrivata al ciclismo non aveva quasi mai visto una gara, non sapeva come fosse fatta una bici, dove mettere le mani in caso di foratura o di incidente meccanico, eppure, a soli venticinque anni, è diventata campionessa del mondo. Non si butta via tutto per una sconfitta perché, col tempo, Richards ha capito che la sconfitta non tocca il valore di una donna o di un’atleta. Accade e passa, come le vittorie, in fondo.
Sua madre le invia un messaggio prima di ogni gara. Non sappiamo cosa le avesse detto prima dell’Olimpiade, forse qualcosa che ha a che vedere con il cogliere ogni occasione per imparare ed essere felici anche se impari da sconfitto. Sì, perché ancora oggi Richards è orgogliosa del risultato di Tom Pidcock, suo connazionale, ed è certa che se ha vinto il mondiale è anche perché ha visto lui gareggiare e ha avuto la pazienza di guardare e imparare, nonostante si sentisse triste e scoraggiata. Anche prima del Mondiale sua madre le ha mandato un messaggio “Il cielo sopra di me, la terra sotto di me, il fuoco dentro di me” e ci viene da pensare che avesse visto bene dentro Evie perché, nonostante le sconfitte e le delusioni, quel fuoco non era ancora spento e aveva solo bisogno di nuova legna da ardere.


Cinque istantanee dalla Val di Sole

I Mondiali di mountain bike in Val di Sole sono stati tante cose: le vittorie di due "grandi vecchi” come Schurter e Minnaar, le consacrazioni di Evie Richards e Christopher Blevins, la stupenda quasi-medaglia di Marika Tovo. Da giornate così frenetiche è difficile ricavare certezze; una forse: una rassegna iridata è di chi la vive. Queste cinque cose sì che me le ricorderò:
1. Due chiacchiere con Faranak Partoazar. È l’unica ciclista iraniana della manifestazione, nessuna federazione l’ha sostenuta nella trasferta e non ha alcuna carta di credito con sé. La incontro mentre sta lavando, asciugando e ingrassando la propria bici. Di meccanici neanche l’ombra, ma dal tendone di una famosa marca di lubrificanti per catena esce Robin, un californiano di origine iraniana. I due iniziano a parlare in persiano: è la prima volta per entrambi che possono ricordare la loro terra in un contesto del genere.
2. I colori. Daolasa è stata invasa da persone provenienti da tutto il mondo, con tante maglie diverse (la maglia della nazionale lituana di downhill sembra fatta con le bombolette da graffiti) e acconciature pazze (un rider neozelandese: chioma bionda e una cresta blu di dubbio gusto). Miglior abbinamento divisa-bici: l’azzurro e il bianco della casacca israeliana di Eitan Levi, che saltava le rocce sulla sua Trek rosa.
3. La professionalizzazione del downhill. Disciplina a sé stante, ad alto tasso di adrenalina e palesemente pericolosa, il downhill non consiste più nel lanciarsi alla cieca giù da una montagna pieni di birra, come poteva essere fino a vent’anni fa. Ora gli atleti sono seguiti da professionisti fin dall'adolescenza, si allenano di più e meglio, prendono sul serio quello che fanno. Queste cose le sostengono tanti atleti, ma anche due tecnici della Nazionale italiana, che - coi suoi tempi - ha dato più attenzioni al downhill. Sulla Black Snake, una di queste due persone chiede all’altra come sono andati alcuni atleti nelle prove. Sapendo di dover fornire un'analisi tecnica, la risposta è stata: «una scopa nel culo».
4. Al risparmio. È l’unico modo in cui tantissime persone possono permettersi di essere qui. Solo nei trecento metri che separano il parcheggio riservato ai media e il paddock, si vedono tende da campeggio, camper, famiglie intere che al mattino si lavano i denti nelle fontanelle pubbliche. È la vita che fanno anche atleti stessi: Izabela Jankova, vincitrice del titolo mondiale di downhill tra le juniores, si diceva pronta a fare la sua parte per guidare le sedici ore necessarie per tornare in Bulgaria. Lei farà il primo turno, così riuscirà a dormire la notte, mentre guida il padre. Svegliarsi un minimo riposata è necessario: il giorno dopo ci si deve allenare.
5. I tifosi. Tantissime persone hanno sostenuto gli atleti a fianco delle piste della Val di Sole. Facendosi a piedi la Black Snake, si può incontrare per esempio la famiglia di Giacomo. È un amante del downhill di oltre quarant’anni, che partecipa a varie competizioni riservate ai master, con la sua squadra, il Team Reunion. Si chiamano così perché si radunavano spesso assieme, ma - e questa è la storia più assurda che sentirete quest’anno - «un nostro compagno di squadra ci è andato veramente, a una gara di downhill all'isola Reunion. Ha detto che è semplice: si parte dalla cima di un vulcano e si arriva al mare. Non ha figli, può permettersi un viaggio del genere, non è sposato ed è matto come un caco: sai cosa ti dico? Ha fatto bene ad andarci».

Foto: Giacomo Podetti


Campionesse

Izabela Jankova cammina per la giungla mobile di Daolasa, tra un tendone l’altro. Alcuni stanno già sbaraccando, buona parte degli atleti del cross-country è in aeroporto, tanti non vedono l’ora di tornare a casa. Ma la domenica è il grande giorno del downhill e lei, Izabela, si è appena laureata campionessa del mondo juniores. Indossa la maglia iridata, quella particolarmente larga che si infila per la prima volta sul podio, e tiene in mano la minuscola bici che l’organizzazione fornisce come (curioso) premio.

Viene dalla Bulgaria e questo le crea diverse difficoltà: la federazione praticamente non esiste, è qui in camper col padre e un’amica austriaca e non ha nemmeno una squadra. Esatto: la campionessa del mondo – ha dato dieci secondi a tutte sulla Black Snake – non ha nemmeno una squadra. Spera che questa vittoria le dia visibilità, che qualche sponsor le consenta di ingaggiare almeno un meccanico.

Addentrandosi nel paddock del Mondiale, Evie Richards è molto indaffarata nel tendone della Trek Factory Racing. Ieri nel cross-country ha vinto la sua prima medaglia d’oro tra le grandi e non è chiaro perché sia ancora qui. È in ciabatte e maglietta, di ciclistico ha solo i pantaloncini: sono quelli di campionessa del mondo di ciclocross U23. Sta chiedendo a tutti i meccanici se vogliono espresso o cappuccino, così corre di là (il gazebo della Trek è in realtà cinque gazebo diversi, in tutto lunghi una cinquantina di metri) e glieli porta. Immaginate la scena: la neo-campionessa del mondo che si divincola tra i comuni mortali per portare il caffè.

Valentina Höll è sostanzialmente l’opposto di Izabela Jankova. Viene da una delle nazioni in cui le ruote grasse sono una religione, l’Austria, ed è già un fenomeno mediatico. Da junior (nel downhill non esiste la categoria U23: nessuno riesce a spiegarsi il perché) ha vinto qualunque cosa più volte, mentre il primo anno tra le élite è difficoltoso. Sta parlando col massaggiatore della sua squadra quando si avvicina un bambino che, evidentemente non conoscendola, non le chiede un autografo, bensì se può allungargli la banana lì sul tavolo. La frutta avanzata viene distribuita tra i presenti e Valentina gli passa la banana con un sorriso.

Poco dopo sopraggiunge uno scooter, uno di quei cinquantini che fanno molto rumore e pochi chilometri all'ora. Chi lo guida, porta un casco da bici. Deve portare Valentina da qualche parte, le dice «dai sali», ma la giovane austriaca preferisce rispondere alle ultime domande dei giornalisti. Anche oggi non ha avuto una giornata brillante (è caduta e non è nemmeno entrata nella top-10), ma non vuole scomparire. È nelle sconfitte, e nell’andarsene in motorino, più che nelle vittorie, che si vede una campionessa.


Qualcosa di magico

Qualcosa di magico avvolge Nino Schurter. Lo si percepisce sempre: quando si passa davanti al gazebo della sua squadra, il Team Scott-SRAM, persone affacciate da mezz’ora gridano ogni volta che vedono un’ombra muoversi; quando online si legge il suo nome, scritto universalmente N1NO; quando viene annunciato di fianco a "nove volte campione del mondo" e questo rende tutti felici, al punto che si applaude come avesse vinto un atleta di casa.

Qualcosa di magico ha avvolto la prova di oggi di Marika Tovo. La sua famiglia e le persone a lei vicine si sono alzate alle cinque del mattino per arrivare puntuali in Val di Sole, fissare un cartello col suo nome, tifare più forte possibile. Mentre saliva per i tornanti dell’ultimo giro, sua madre li ha percorsi di corsa uno a uno per incitarla, facendosi largo tra il pubblico.

Qualcosa di magico passava nella mente di Evie Richards quando ha realizzato che nessuno l’avrebbe più presa. Davanti ai microfoni si copre la faccia, piange, abbraccia tutti. Si collega via telefono con qualcuno per dire i primi grazie, i primi ciao da campionessa del mondo: ha dato un minuto a tutte. Una volta ricomposte le emozioni, pronuncia un paio di frasi fortissime: «Quando sono felice, vado più forte. Durante il Covid è stata dura, ma dopo le Olimpiadi per la prima volta non ho dovuto fare la quarantena al rientro. Ho visto amici e famiglia, è stato bellissimo. Quando sono felice lontano dalla bici, in sella sono ancora più forte».

Qualcosa di magico avvolge tutte le persone che vivono nel bosco una gara di mountain bike. La polvere alzata dalle ruote dei corridori rende l’aria onirica. Se si è fortunati, i raggi di luce entrano trasversali agli alberi, creando un gioco di ombre e luci senza uguali. Le persone portano qualcosa con cui fare casino, una maglietta del fan club o portano semplicemente qualcuno a cui vogliono bene.

Qualcosa di magico avvolge la Val di Sole questi giorni. Potrebbe essere il Mondiale, certo, con tutte le maglie assegnate, il fascino dell’iride. Potrebbero essere tutte le diciassette medaglie d’oro assegnate, mai così tante. Potrebbe essere che – parafrasando Peter Sagan – se qualcosa deve proprio accadere, beh, se accade in un bosco pieno di biciclette è meglio.

Foto: Michele Mondini


Moto Continuo

La Black Snake ha bisogno di manutenzione. È la più affascinante e temuta pista del circuito di downhill, ma non si cura da sola. Un funzionario dell’Unione Ciclistica Internazionale, parlando metà spagnolo metà inglese, cerca di dare istruzioni a volontari del posto riguardo le fettucce che contrassegnano il tratto più difficile della pista: The Hell.
Appena dopo il primo intertempo il problema è di tutt’altra natura: il ramo di un pino a centro pista (sì, un ostacolo niente male) minaccia di staccarsi ed è a cinquanta centimetri dalla testa dei rider. In quel segmento, la traiettoria più seguita prevede un salto di circa tre metri, spiccando il volo da una roccia appuntita. Guardandolo da sotto si prende paura.
L’addetto alla pista affila l’accetta con un cacciavite, sta per sfruttare un momento di calma apparente per andare a potare l’albero. Ma eccoli che già scendono: bestemmia e indietreggia. Missione compiuta qualche minuto dopo, quando un paio di colpi ben assestati fanno cadere ciò che impacciava la vista dei rider.

Il finale della Black Snake è sabbia e polvere. Sono in due coi rastrelli per livellare le buche, togliere lo sporco non necessario. Attorno a loro, si sta assegnando la maglia iridata nell’E-MTB. La corsa femminile è stata dominata in lungo e in largo da Nicole Göldi, la più giovane in gara, nonostante un problema al motore elettrico all’imbocco dell’ultimissima salita. Cos’è successo lo ha spiegato lei stessa: «Mi si è spento. Per qualche secondo ho dovuto fare accendi-spegni-accendi-spegni, poi per fortuna il motore è ripartito». Osservata da fuori la scena stava per diventare drammatica: considerato il peso di una bici elettrica spenta, Göldi riusciva a malapena a pedalare.

Chi non si stanca mai è Ella Myers, una giovanissima ciclista canadese. Ieri nel cross-country juniores è arrivata nella top 30, risultato di cui è molto felice. Oggi tutto il Team Canada è con le gambe all’aria: chi si riposa in vista delle gare di domani, chi si riprende dalle gare di ieri. Lei proprio non ce la fa a stare ferma: ha risalito la Black Snake e incita i canadesi che escono a bomba dal cancelletto di partenza. «Scusami ti devo lasciare», dice dopo due chiacchiere «sono qui in Italia ancora per pochi giorni e non ce la faccio proprio a stare ferma».

Foto: Giacomo Podetti


Limiti

Salendo con l’ovovia di Daolasa, il sottofondo non è cicale o freni a disco. È più fastidioso e stride col resto del paesaggio. Sono i fischietti degli steward: quando passa un atleta, nelle prove generali del downhill, un sibilo ne annuncia l’arrivo. La Black Snake si sviluppa nel bosco sotto l’impianto e tra salti, rocce, paraboliche e radici si arriva in fondo distrutti.

Se si arriva. Ogni duecento metri circa, volontari della croce rossa assistono eventuali cadute. Mentre chiacchiero con la mental coach della nazionale italiana di downhill, Elisabetta Borgia, uno juniores austriaco vola per terra. Non si vede, si sente però: da terra si lamenta dal dolore. Uno steward perde qualche secondo di troppo a fissarlo e avvisa in ritardo il rider successivo dell’ingombro, tanto che quest’ultimo – un atleta svizzero – deve inchiodare e cade a sua volta.

Continuando a scendere – la prova di cross-country femminile juniores è appena cominciata – si vede, sdraiato in disparte, lo svedese Oliver Zwar. Una persona lo sta toccando in tutte le giunture, caviglie e spalle, per verificare che sia intero. Un tecnico degli Azzurri, Simone Tartana, rivela che un discesista italiano ha cartellato (si dice così in gergo, quando si cade male) e gli è stata asportata la milza.

Sta arrivando la prima medaglia italiana in questi Mondiali. Lo si capisce dall’ottima posizione in cui Sara Cortinovis inizia l’ultimo giro – sembra addirittura possa attentare ai primi due posti, occupati da due francesi – ma soprattutto dall'entusiasmo delle sue amiche. Sono arrivate in zona traguardo con una bandiera e diverse trombette, sono di Bergamo ma in bici non ci vanno manco per sogno, pensano che Sara sia solare e testarda.
Cortinovis tenta lo sprint per l’argento, ma sceglie probabilmente la parte sbagliata, quella vicina alle transenne. Ha meno spazio ed è bronzo. Quando le chiedo della volata finale, è in pace con se stessa: «Sì forse ho sbagliato, ma ero al limite».


Sguardi, volti e staffette

Per ritirare gli accrediti c’è più fila del previsto. È il primo giorno in cui si assegnano medaglie ai Mondiali di mountain bike della Val di Sole e tanti sono arrivati al race village di Daolasa stamattina.
Sui cartelli un generico "accreditation" non definisce chi debba mettersi in fila per quali pass: il belga davanti a me non ne ha idea, la ragazza alle mie spalle nemmeno. È un’atleta, scopro nell’attesa: si chiama Spela Horvat e per la Slovenia parteciperà alla prova del downhill. Non è alta, ha occhi azzurri e ciglia curatissime. Corre in una squadra privata («I manage my own team») ma non si mette tra le favorite definendosi realista.
In attesa della prova iridata del Team Relay, prova generale del cross-country, notiamo l’iraniana Faranak Partoazar: sotto il casco ha i capelli raccolti e coperti, come vuole l’ershad. Si ferma per gonfiare una gomma al box americano, ma sul rock garden – una ventina di metri scoscesi nei quali si rimbalza sulle pietre – cade rovinosamente. Riprende la bici, sorride a tutti quelli che vogliono aiutarla, la porta su a spinta: vuole riprovare quel segmento. Ha uno sguardo fiducioso e concentrato e alla seconda volta trova la linea giusta, sulla sinistra, dove le rocce tendono meno trappole.

Il Team Relay, dicevamo. Dopo aver passato l’estate a vedere staffette in cui i vari atleti si passano un testimone (atletica leggera) o non si toccano proprio (nuoto), fa impressione notare come, per dare il là al proprio compagno di squadra, oggi basta toccarlo. In ogni modo, con qualunque grado di forza: chi finisce il giro passa a sinistra delle transenne, manata a chi sta dall’altra parte e via, si parte.
La prima e l’ultima frazione italiana, firmate da Luca Braidot e Juri Zanotti, sono di altissimo livello, il resto un po’ meno. Una staffettista, poco prima di partire, chiede a un membro dello staff italiano «oh ma dove siamo?». La verità, nonostante i tecnici facciano un ottimo lavoro nel tentare di rimanere positivi, è che siamo indietro.

Là davanti c’è la Francia, che dopo cinque staffettisti ha circa un minuto di vantaggio e il suo pedone migliore, il campione del mondo di cross-country in carica Jordan Sarrou, parte per ultimo. Quando arriva sul traguardo è bellissimo: non ha nemmeno una ruga di fatica sul volto.

Foto: Michele Mondini


Il fascino di Tom Pidcock in un giardino giapponese

Un percorso così bello e curato nei minimi dettagli, un giardino giapponese. Elementi rifiniti da sembrare uno di quei diorama che ti appioppavano in qualche progetto complicato a scuola. Dicevi di averlo fatto tu, ma invece era tutta opera di tuo padre ingegnere e tua madre artista - benedetti genitori.
Un vincitore così giovane e ricco di fascino da sembrare uno di quegli attori brutti ma tremendamente carismatici, tipo Jeff Goldblum o Willem Dafoe.
Uno sconfitto di giornata oggi, parafrasando Philipp K. Dick, "più umano dell'umano", che ieri nessuno osava dirlo, mentre oggi in coro "non si improvvisa la mountain bike". Un errore, un peccato che lo rende così tremendamente tenero che lo vorresti strapazzare e dirgli con dolcezza, "Mathieu: sarà per la prossima volta". Si farà serio e incazzoso dopo oggi e di sicuro, forte com'è, ci riproverà fra tre anni a Parigi.
Un vincitore perfetto nella gestione, ormai superstar in miniatura, giapponese nel gestire e sfidare i trabocchetti del tracciato, iperviolento nel suo strapotere quando accelerava nei tratti in salita. Irresistibile e versatile come quegli attori brutti di cui sopra, in scala ridotta e forse per questo così a suo agio in quell'ambientazione creata ad hoc per esaltare le doti degli specialisti delle ruote grasse.
A tratti iconoclasta in un mondo rigido, con quell'orecchino sul lobo sinistro, lui che sulla bici sembra un bambino che sfugge agli ordini di casa: semplicemente affascinante Tom Pidcock.
E infine due parole per il terzo arrivato, lo spagnolo David Valero Serrano che finisce così forte che se invece di 9 giri ce ne fossero stati che ne so, altri 9, avrebbe forse vinto per dispersione. Se Pidcock è il fascino, lui, nei giorni di Olimpia, è stato un maratoneta.


Per la storia

Domani alle ore 8 ci sarà da divertirsi. Domani alle 8, mentre noi, comuni mortali, saremo schierati davanti a cappuccino e brioche, oppure avremo appena varcato la soglia dell'ufficio, o staremo facendo zapping con le occhiaia per la sbornia olimpica. Insomma, domani alle ore 8, segnatevelo: Mathieu van der Poel, che a differenza nostra di comune non ha nulla, proverà a fare ancora una volta la storia delle due ruote.
Mountain bike, XCO, inseguendo l'oro olimpico, nell'anno in cui ha conquistato la sua quarta maglia iridata (tra gli élite), la sesta in totale nel ciclocross. Eventualmente: nessuno come lui. E per alzare l'asticella c'ha messo vicino una bella maglia gialla qualche settimana fa al Tour, sia mai che in futuro, magari un figlio o un nipote viene fuori ancora più forte e lo possa superare. Intanto mettiamo giù più record possibili - avrà pensato.
Non sarà facile per uno che di comune non ha niente se non due gambe (ma che gambe), due occhi, due braccia (e pure lì...), dorsali corazzati, polmoni che potrebbe soffiare via tutti i problemi della terra se solo volesse.
Beh, insomma, a parte le esagerazioni: domani ore 8, ricordatevi che si fa la storia delle due ruote, segnatevi l'orario da qualche parte che poi venite a dire che nessuno vi aveva avvertito.
Certo: facile non sarà come averlo scritto o pensato. Schurter, campione in carica, tre medaglie olimpiche, otto titoli iridati, forse il più grande di sempre di questa disciplina, avrebbe qualcosa da ridire e sul circuito (molto tecnico, su e giù senza respiro), lo farà.
Idem Sarrou, che pochi giorni fa si è fatto male proprio allenandosi nel circuito di Izu, ma è il campione mondiale in carica, e poi Avancini, Flückiger, Koretzky. E poi Tom Pidcock, un altro che sfugge la normalità come fosse un problema che non lo riguarda. Un altro che, anche solo finendo sul podio, potrebbe fare la storia di questo sport.
Gli avversari sono grandi e van der Poel vorrà dimostrare di essere ancora più grande. Sì, domani alle ore 8 ci sarà da divertirsi.