Mad World

Chissà cosa avrà voluto dire quella ragazza che, all'ora del primo caffè, in un bar, poco distante da Como, ha fermato il barista mentre cercava una canzone. "È questa" ha detto ed è partita "Mad World" dei Tears for Fears. Ci abbiamo pensato mentre andavamo alla partenza de "Il Lombardia".
Davide Orrico è di Como, ci dice che è la sua prima volta, che non può fermarsi molto perché tutti lo chiamano. Per nome, tra l'altro. Una restituzione di identità, qualcosa che esula dal ciclista e riporta alla persona. Perché qui tutti lo conoscono così. Non ci dice che proverà ad attaccare, ma le tattiche non si rivelano mai a nessuno. "Si farà strada, vedrete" avverte qualcuno accanto a noi. Orrico si è fatto strada e di strada ne ha fatta: prima in fuga, poi di nuovo ad attaccare ai quaranta dal traguardo dopo essere stato ripreso. Vedi dal volto, vedi dalla sudorazione, dalle spalle che è alla corda ma non molla. E aveva ragione quella ragazza, la canzone è proprio quella, quella che ad un certo punto dice: "È qualcosa di strano, di divertente: i sogni di cui sto morendo sono i migliori che abbia mai avuto". Questa frase ritorna ogni volta in cui un uomo all'attacco si sposta a bordo strada, si fa sfilare. Muoiono sogni, i migliori che ci siano per un ciclista, ogni volta che finisce una fuga.

Vincenzo Nibali potrebbe dire lo stesso, lui che, quando ha provato ad allungare, ha ricordato l'ultimo attacco al Giro di Sicilia ma anche tutte le altre volte. Anche una Sanremo di anni fa, perché poi le salite sono mare verticale e pace se lì eravamo in primavera e qui il foliage scricchiola sotto le scarpe. Si è staccato poco dopo, non era giornata. Ma gli esseri umani hanno un preciso dovere: coltivare sogni, ma badare alla realtà. Nibali lo fa, proseguendo con dignità. Come fa Pinot che, alla partenza, mentre tutti applaudono Alaphilippe, il nuovo Campione del Mondo, gli si avvicina e gli dà una pacca sulla spalla. Fa strano: chi sta realizzando tutto ciò che poteva sperare e chi ha dovuto fare i conti con vetri rotti da rimettere assieme.
Tadej Pogačar nell'armadio di casa dei genitori ha un disegno di un ciclista che attacca una salita. Potrebbe essere lui mentre attacca dopo lo scatto di Nibali. Forse il modo migliore di coltivare un sogno in una famiglia di umili condizioni: appenderlo a un armadio per ricordarsene. All'interno dell'armadio perché la tua realtà devi comunque viverla e la sua non era quella di un ragazzo che potesse permettersi troppi grilli per la testa.

Fausto Masnada sogna come quell'artigiano che per la strada che porta a Bergamo espone oggetti di legno. Modella con umiltà ciò che vuole, con decisione, mettendosi a disposizione ed essendo a disposizione. Quando arriva a Colle Aperto con Pogačar, a noi viene in mente Charlie che a vedere "Il Lombardia" si è appostato in pianura perché la sua carrozzina non gli permette di scalare vette, anche se brevi e ci dice di salire a Colle Aperto "perché lassù oggi non senti nemmeno il tuo respiro dalla folla che c’è". Era vero, aveva ragione Charlie, che probabilmente non ci leggerà ma, se capitasse, vorremmo solo dirgli che il suo consiglio è stato prezioso e che lo ringraziamo perché da nomadi del ciclismo non sapremmo quasi nulla dei luoghi in cui capitiamo senza persone come lui.

Pogačar e Masnada hanno vissuto le stesse sensazioni, chi da una parte e chi dall'altra del sogno. Pogačar, che oggi conquista la sua seconda monumento dopo la Liegi, forse fermerà la radio su un'altra canzone. Masnada quella ragazza potrebbe capirla senza starci troppo a pensare perché ha perso proprio mentre immaginava una delle cose più belle che potesse mai desiderare.
Poi c'è chi non era pronto per i propri sogni, Roglič, e chi non ha scelto il momento giusto per farsi strada, Alaphilippe su tutti, che, in fondo, di quella pacca sulla spalla di Pinot aveva bisogno, come tutti coloro che stanno andando da qualche parte. Per viaggio, per sogno o per lavoro. Perché, tra tutti i sogni realizzati e quelli schiacciati dalla realtà, è proprio un mondo matto.


E a chiudere (o quasi)... Il Lombardia

Se c'è una (grande) corsa di un giorno che si addice in maniera perfetta ai corridori da Grandi Giri quella è “Il Lombardia”, Giro di Lombardia come si chiamava un tempo. "Classica delle foglie morte" per via della stagione, banalmente, del foliage che caratterizza la sede stradale, persino - un tempo - "Mondiale d'autunno'' fino a quando proprio la rassegna iridata non ha iniziato a spostarsi più avanti, più in là, nel calendario.

Se c'è una corsa che per certi versi ha assunto meno prestigio rispetto alle altre “Monumento”, questa è, ahinoi, il Giro di Lombardia: nonostante si riveli poi sempre corsa dura, selettiva, spettacolare, temuta, amata, cerchiata in rosso, nel tempo è stata un po' snobbata (non è il caso di quest'anno); arriva a fine stagione (oggi per la prima volta pure una settimana dopo la Parigi-Roubaix) quando il gruppo ha fiato corto, gambe dimezzate, e poi quei cambi di percorso, che per qualcuno sono il tratto caratteristico, in verità fanno un po' perdere la bussola.
Se c'è una corsa che quest'anno avrà il tremendo compito di svegliarci dal sogno di una stagione ciclistica meravigliosa, segnando la fine (o quasi, perché per fortuna non è proprio finita finita, ancora qualcosina da gustarci ci sarà) del 2021, sarà il Giro di Lombardia.

Da Como a Bergamo in un un percorso diverso rispetto alle ultime stagioni quando l'arrivo sfiorava il Lago e dove Ghisallo, Sormano, Civiglio, San Fermo della Battaglia intorpidivano le gambe, smembravano il gruppo e poi lanciavano, solitari o sgranati, i corridori verso la vittoria.
Sarà meno selettivo il percorso di quest'anno? Può darsi, ma mai come nelle ultime settimane il gruppo ha mostrato la verità del più banale degli principi: sono loro a fare (dura) la corsa. E oggi ci aspettiamo una grande battaglia, visti i nomi al via.
Giro di Lombardia: da Gerbi (primo vincitore e ancora oggi il suo vantaggio di 40' resta il più grande distacco tra 1° e 2° nella corsa italiana) a Fuglsang, oltre un secolo di storia e così tanti episodi.

Scegliamo, per questioni di memoria e tempo, quella dell'anno scorso, un Ferragosto con Lomabrdia segnato da una selezione e da distacchi – per l'appunto - d'altri tempi (non come quelli dei pionieri) e da quell'immagine tremenda di una bici ferma sul muretto di un ponte lungo la discesa della Colma di Sormano. Evenepoel rischiava, e poi andava giù nel tentativo di seguire la ruota di altri scatenati. Abbiamo temuto il peggio.
Da lì ripartiamo: con il giovane belga che prova ad assorbire quell'esperienza anche se si proclama un po' stanco dopo l'impresa alla Coppa Bernocchi (sulla falsariga di van der Poel che dopo l'impresa alla Tirreno sotto la pioggia accusò la fatica alla Sanremo, oppure pretattica?); con la coppia slovena che parte in prima fila, Roglič decisamente più avanti di Pogačar, ma per ripeterci: scommettereste mai contro uno così? Noi no.

Con Alaphilippe che comunque vada la maglia iridata la porterà davanti in qualsiasi fase della corsa: afferma pure lui di non avere chissà che gambe, e magari in Quick Step hanno pronto Almeida all'ultima recita travestito da lupo prima di andare a infoltire il pacchetto corse a tappe della UAE dal 2022.
Da metà settembre in poi ha collezionato 3 vittorie, 4 secondi posti (tra cui l'Emilia) e un 3° pochi giorni fa alla Milano-Torino. In generale la costanza mostrata nel 2021 è degna di rilievo. Che sia lui il più in forma tra gli uomini di Lefevere? Unico dubbio la tenuta sulla distanza se proprio vogliamo trovare un “ma”. E poi gli Yates, più Adam che Simon che che per la verità si è visto poco di recente, Woods sempre temibile su questi percorsi, l'ultima corsa di Dan Martin, poi Gaudu che ci piace sempre, come Cosnefroy. E poi Valverde che non ha mai vinto una corsa per lui, il pacchetto di mischia Bahrain (Teuns, Mohorič), e tanti altri outsider.

L'Italia si affida a diverse generazioni di corridori: c'è il vecchio, Nibali, l'esperto, Ulissi, ci sono i medi, per età ed esperienza: Moscon, Masnada, Rota e Formolo, e infine i giovani Aleotti e Bagioli, ma quest'ultimo sarà chiamato al lavoro sporco visto tutti i capitani che si porta appresso, ma chissà.

IL PERCORSO

Da Como a Bergamo quest'anno. Come detto almeno sulla carta è meno duro del pacchetto che porta il gruppo verso il Lago con le ascese in serie di Ghisallo, Sormano, Civiglio, San Fermo. 239 km con un inizio soft, Ghisallo solo simbolico (versante abbordabile) poi è vero: quando si sale si sale (Roncola, Berbenno, Dossena e Zambla Alta in successione), ma il punto clou è atteso sull'ultima salita: Passo di Ganda, il lato oscuro del Selvino con quei 4 km finali duri duri e lo scollinamento a 32 dall'arrivo: trampolino ideale.
Prima del finale lo strappo verso Bergamo Alta, suggestivo e impegnativo per lanciare chi ne avrà verso il traguardo che sarà da lì a poco. I favoriti li abbiano nominati e li mettiamo in fila come d'abitudine qui in seguito, ma occhio che come a volte accade (al Lombardia l'ultima volta fu il 2011 con la clamorosa vittoria di Zaugg) può spuntarla una sorpresa, oppure, in caso di marcamento fra i (diversi) big al via, anche un bel gruppo di seconde linee.
A noi in tal caso, così su due piedi, ci piacerebbe, partigianamente, vedere trionfare Masnada o Rota. Ragazzi di casa - in tutti i sensi - che vanno forte in questo periodo.

I FAVORITI DI ALVENTO

⭐⭐⭐⭐⭐ Roglič
⭐⭐⭐⭐ Pogačar, Evenepoel, A.Yates
⭐⭐⭐ Alaphilippe, Almeida, Woods, Gaudu
⭐⭐ Mollema, Champoussin, G.Martin, Higuita, Valverde, S.Yates, Rota, Masnada, Teuns, Powless
⭐ Moscon, Aleotti, Grossschartner, D.Martin, Pinot, Nibali, Bagioli, Tulett, Mohorič, Sivakov, Formolo, Hirschi, Bardet, Storer, Kron, Vingegaard, N.Quintana


A Liegi vince la fantasia

A Place Saint-Lambert, alla partenza della Liegi-Bastogne-Liegi, qualcuno ricorda Antoine d'Ursel, l'uomo che "tentò di truffare la Liegi", nel 1892, non proseguendo per Bastogne, ma restando lì, nascosto, nell'attesa del suo rivale Leòn Houa. D'Ursel perse, venne scoperto e fuggì in America, in preda all'imbarazzo. A Liegi resta anche qualcosa di Georges Simenon e del commissario Maigret, qualcosa di quello studio in cui lo scrittore si chiudeva, con del cognàc e delle pipe. Potresti immaginarlo ovunque, guardando verso l'alto di un edificio, dietro una finestra. Non c'è posto per strane idee.

Da Liegi a Bastogne e ritorno, ma da un'altra strada. Quella infarcita di côte, denti a mordere i muscoli. C'è la fuga, c'è anche un italiano davanti, Lorenzo Rota, ma le strade imbastite di case con tetti di ardesia, a cupola, a torretta, a ricordare i Castelli della Loira, non hanno pietà. Lui, Huys e Marczyński saranno gli ultimi fra i sette fuggitivi a cedere alla caccia del gruppo. Vliegen si bloccherà d'improvviso qualche metro prima, massacrato dai crampi, come un rantolo sordo. L'inizio dei saliscendi è una campana a morto per chi è in coda al drappello di testa come al plotone: atleti che si staccano, indolenziti dall'acido lattico, come tendini che si strappano, mentre davanti si buttano le prime carte.

Luis Leòn Sànchez e Omar Fraile scattano sulla Côte de Wanne, placcati dal gruppo. Anche Philippe Gilbert si farà vedere in testa sullo Stockeu, colle che ricorda una stoccata, qualcosa di rapido ma doloroso. Lui che, nei giorni scorsi, è andato dal suo macellaio, a Remouchamps, accanto a La Redoute a comprare una bistecca. Emozionato perché non gli capitava da tanto di essere a casa nei giorni prima della Doyenne. Sono graffi, niente più. Rosier e Desnié sono solo fatica, pura fatica, nelle gambe, in attesa di una corsa che scalpita, un purosangue nervoso che cerca di scrollarsi di dosso un fantino inesperto.

L'azione della Deceuninck-Quick Step e successivamente quella della Ineos frantumano il plotone una prima volta su La Redoute, una seconda volta sulla Côte de Forges, la più innocua all'apparenza, ma, dopo duecentoquaranta chilometri, le apparenze somigliano a miraggi: ingannano sempre.

Il nome Redoute deriva dal linguaggio bellico, significa fortino di guerra, luogo in cui mimetizzarsi e nascondersi. Qui è ancora possibile fingere. Poco più in là ogni imbroglio è scoperto e pagato a prezzo d'oro. Richard Carapaz riuscirà ad andare via così, grazie alla tattica di squadra, a tutta, testa bassa e denti talmente digrignati che quasi ti chiedi come facciano a non saltare sotto tanta pressione. Chi sbaglia, paga. Vale per l'Astana che dopo tanti attacchi resta a bocca asciutta quando l'attacco è quello giusto. Vale anche per lo stesso Carapaz che forse esagera nello scatto e quando partono Valverde, Alaphilippe, Woods, Pogačar e Gaudu non può che restare a guardarli, da lontano.

Siamo sulla Roche-aux-Faucons, salita che nel nome ricorda i falchi, per assonanza, loro che ghermiscono e portano via. Roglič è dietro, Schachmann anche, Kwiatkowski pure.

Ora la strada verso Liegi scorre veloce, prima perché in discesa, poi perché i cinque in testa spingono i pedali a gran velocità, sembrano non sentire la fatica, mentre provano a seminare il gruppo. Nel frattempo le squadre degli attaccanti rompono i cambi e favoriscono la fuga.

L'ingresso nell'ultimo chilometro è attesa, battito e respiro trattenuto. Gaudu si sposta a bordo strada, Alaphilippe si volta a destra e a sinistra, favorito in volata, Valverde è in testa, quarantuno anni oggi e ad un passo dalla quinta Liegi, come Merckx, alla sua ruota Woods, Pogačar pizzica la radiolina e si mette in ultima posizione. Valverde parte lungo, Alaphilippe sembra rimontarlo, è pronto al colpo di reni finale, Pogačar è un equilibrista che dal lato delle transenne si butta all'interno e lo supera sul traguardo. Al secondo posto il campione del mondo che ancora una volta viene beffato da uno sloveno, terzo Gaudu.

Vincono l'imprevedibilità e la fantasia di un ragazzo di ventidue anni che l'anno scorso ha vinto il Tour de France e che ancora riesce solo a immaginare dove può arrivare. Perché Simenon ed il suo Maigret lo sanno bene: a Liegi non si può barare, ma è concesso, anzi doveroso, inventare.

Foto: Peter De Voecht/BettiniPhoto©2021


Freddo ad aprile

Riprendiamo il filo dall'inizio, da marzo. Strade Bianche: corsa piuttosto divertente. Si era già in mezzo a una primavera che poi in realtà ha faticato ad arrivare. Si era a bocca aperta quel giorno, maschere di sabbia come un carnevale nel deserto, come quelli che se la sono giocata fino alla fine: van der Poel, Alaphilippe, Bernal, van Aert, Pidcock, Pogačar. Il meglio - o quasi - del ciclismo formato (inizio) 2021.

Si è passati dalla Milano-Sanremo e alla sua imprevedibile linearità. Corsa poco tirata, dove a stare in gruppo stai come in taxi, giustificata nella sua epica e pathos dal crescendo rossiniano da tappa pianeggiante di un Grande Giro e dal paradigma de "la tradizione non si tradisce" e con quel passaggio finale adrenalinico Poggio-su-e-Poggio-giù che tende un po' a viziare e ribaltare il giudizio. Chi scrive auspicherebbe se non altro un tentativo di rendere la corsa più varia. Lo fanno diverse grandi corse, motivi economici o meno, perché la Sanremo no?

Poi c'è stato il Nord: quello fatto di pietre del Belgio. Purtroppo niente Francia, anche questa fredda primavera ci ha scippato la Roubaix. Abbiamo sognato alla Gand con tre italiani in lotta, ma abbiamo ugualmente gioito per la vittoria di van Aert.
Abbiamo assistito alle cavalcate di van Baarle (Dwars door Vlaanderen) e di Asgreen (Harelbeke). Ci siamo stupiti nel vedere van der Poel perdere il Fiandre proprio dal danese, e poi nel vedere Pidcock fare un boccone di van Aert al Brabante. Sembra una filastrocca.
E visto che gira e rigira i protagonisti poi sono sempre quelli: all'Amstel avremmo dato comodamente la vittoria a entrambi gli ultimi due citati, mentre alla Freccia Vallone Alaphilippe si riprendeva ciò che è suo in una primavera dove ha vinto sì, ma è apparso agonisticamente tiepido.

E ora? E ora siamo arrivati al termine di questo lungo, freddo, viaggio verso il Nord, verso fine aprile. Dalle pietre alle Ardenne, dal pavè alle côte. Con il cuore diviso a metà: si spezza all'idea che un'altra primavera (ciclistica, quella "reale" non parliamone nemmeno) è passata, si esalta all'idea che fra due settimane ci sarà il Giro.
Intanto Liegi-Bastogne-Liegi: la decana. Ci si immagina una sfida franco-slovena: Alaphilippe, Gaudu, soprattutto, Cosnefroy (non al meglio per la verità), Barguil, G.Martin, da una parte (quanta abbondanza la Francia sulle Ardenne, in pochi anni). E dall'altra Roglič - campione uscente e Pogačar (mettiamoci dentro anche Mohorič) pochi ma buoni capaci entrambi di vincere, di inventare ed esaltare.

Poi sia chiaro: il nuovo percorso, aperto a diverse soluzioni, è decisamente più spettacolare di quello col finale verso Ans che rimescolava le carte e rendeva spesso una lunga attesa verso lo strappo finale, e apre un ventaglio di possibilità di successo ai corridori più in forma più che a qualche outsider: l'eterno Valverde, il duro Schachmann, l'atteso Hirschi, il rampante Vansevenant, il gemello Yates, il mezzofondista Woods, il levriero Mollema, l'ingobbito Carapaz.

Per l'Italia, se proprio dobbiamo tirare dentro qualche nome, l'unico fattibile è Formolo.
Ma oggi ancora è meglio non parlarne, va così: aspettiamo tempi migliori, vacche grasse o talenti (ce ne sono) che diventano campioni. L'ultima “Doyenne” vinta risale ormai al 2007. A oggi ci tocca osservare, da posizione privilegiata, per passione, ma con la bocca sempre di traverso in una smorfia, osservando poi gli ordini d'arrivo con la bandiera tricolore parecchio indietro.

PERCORSO

Poco meno di 260 chilometri da Place Saint-Lambert, passando ovviamente per Bastogne fino a dove la strada è più clemente rispetto al ritorno verso Liegi. Dal 2019 non si arriva più (finalmente) ad Ans, anche se i punti chiave rimangono più o meno i medesimi. Intanto non c'è mai un metro di pianura, anche se i GPM segnati sono alla fine 11, in realtà se ne potrebbero contare in tutto il doppio. Dal km 164 (Cote de Mont-le-Soie) al km 245 con la Roche-aux-Faucons, quasi 80 km in cui non si respira con Wanne, Stockeu, Haute-Levée, Rosier, Desnié, Redoute e Forges. Dalla “Rocca dei Falchi” 13,4 km fino a Liegi.

I FAVORITI DI ALVENTO

⭐⭐⭐⭐⭐ Roglič
⭐⭐⭐⭐ Alaphilippe, Pogačar
⭐⭐⭐ Gaudu, Valverde, Schachmann, Vansevenant
⭐⭐ Carapaz, Barguil, Cosnefreoy, Hirschi, Woods, Mollema, Wellens, Teuns, Chaves, Benoot, A.Yates
⭐ G.Martin,  Formolo, Tulett, Vingegaard, Schelling, Konrad, Poels, Q. Hermans, Leknessund, Fabbro, Almeida, Konrad

Foto: A.S.O./Gautier Demouveaux


La tempesta perfetta

Piomba il gelo d’improvviso sulla Tirreno-Adriatico e piombano corridori che già da tempo segnano la storia. Piomba van der Poel: un po’ matto per come è scriteriato tatticamente, per come infiamma, per come non ha il minimo timore di far vedere quello che è. Attacca da lontanissimo: nei suoi geni scorre l’idea di un ciclismo che rifiuta tatticismi e preferisce lo scontro faccia a faccia.

Piomba Pogačar che ha ventidue anni, ma corre come se ne avesse il doppio. Gestisce squadra e corsa come se non avesse fatto altro in vita sua. Come se già quando era in culla gli avessero detto: vai, gestisci, comanda e domina. Attacca quando c’è da attaccare – esattamente come ieri – sempre in piedi sui pedali, sempre saldo sui dorsali, forte col freddo, col caldo, col sole, con la pioggia. Forte e basta: un fuoriclasse.

Piomba van Aert che in una giornata dura, da gente dura, con gente dura lì davanti, si difende perché è un duro, perché va forte ovunque pure lui, ed è comunque terzo.

Piomba Felline: ce lo eravamo un po’ dimenticati eppure è lì davanti. Primo degli umani si dovrebbe dire. Piombano Fabbro, piccolo ma sempre più a suo agio in mezzo ai grandi, lui che grande vorrebbe diventarlo, e De Marchi, suo conterraneo e non sarà un caso. È il più vecchio tra i primi dieci ed è un piacere rivederlo e riscoprirlo, perfettamente disinvolto in un ordine d’arrivo da grande classica che mette assieme corridori di ogni tipo.

Dal cielo smette di scendere la pioggia, la strada è infida, il vento ti sposta, corridori bagnati fradici e infreddoliti, crisi improvvise, gerarchie ribaltate, il nuovo che rifiuta il vecchio, un modo di interpretare le corse che fa a cazzotti con quello del recente passato. Il disegno della tappa è quello che tutti bramiamo per passare una domenica pomeriggio chiusi in casa e godere di uno spettacolo difficilmente ripetibile, ma che forse, a pensarci bene, con questa generazione potrebbe diventare una meravigliosa abitudine.

Quando van der Poel parte mancano circa due ore di corsa e in pochi minuti si costruisce un margine che fa pensare a una “facile vittoria”. Forse una giacca, qualcosa, avrebbe dovuto metterla: è infreddolito e bagnato fradicio. Passaggio dopo passaggio sotto il traguardo la sua faccia si trasforma come una maschera di plastilina in mano a un bimbo: prima impassibile, poi sotto sforzo, poi corrucciato, alla fine distrutto. Un uomo lo insegue a piedi per qualche decina di metri come fosse quel ciclismo che ci siamo lasciati alle spalle due anni fa, quello della gente per strada e dell’entusiasmo che ti fa spingere ancora più forte.

Quando Pogačar parte invece è perfetto, non ha bisogno della spinta del pubblico, delle urla nelle orecchie, né di bandiere slovene. È perfetto nel tempo e nello stile, nel modo e nell’idea: quella di prendere più distacco possibile da van Aert e non lasciargli speranze per la cronometro di martedì.

Quando van Aert si getta sul passo, col suo passo, limita i danni, mentre davanti Pogačar quasi piomba su van der Poel – come Yates ieri su di lui. Ma non basta. Vince van der Poel, che non riesce a esultare e allora esultiamo noi per lui, secondo Pogačar, terzo van Aert, insomma sempre loro.

Insomma uno spettacolo, come ci sta abituando questa generazione di corridori che all’improvviso piomba sul ciclismo e fa la storia. Il punto sapete qual è? Che siamo solo all’inizio.

Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto


Su, verso Prati di Tivo, si arriva e si vive

Mentre passa una parte del gruppo c'è un signore che esclama: «Io qui a Prati di Tivo ci vivo, mica ci arrivo!» e i corridori sfilano alla spicciolata sotto la sua finestra. Mattia Bais, invece, vive la fuga: ogni volta ricomincia da capo come fosse il Giorno della marmotta in bicicletta. In mattinata spiegava: «Oggi non scappo, ci proverà un mio compagno di squadra». Accendi la televisione e per contro te lo ritrovi davanti con nove minuti di vantaggio e quattro matti come lui che su a Prati di Tivo ci vogliono arrivare il prima possibile, prima o dopo il gruppo dei migliori non importa, ciò che conta come sempre non è la caduta, ma l'atterraggio.

Bernal e Pogačar sono i più attesi. Hanno rispetto, sentono rispetto, trasmettono orgoglio e talento. Pozzovivo, uno che corre in bici da quando i due non erano ancora nati, afferma: «Battere Pogačar e Bernal? Ma per me già stare alla loro ruota è un successo» e su verso Prati di Tivo proviamo a scrutare la sua sagoma, che ben presto si dissolverà.

Su, verso Prati di Tivo, pensiamo di affidarci al profilo inconfondibile di Nibali, nemmeno lui qui vive, ma vinse: era il 2012, un tiro di schioppo a guardarsi indietro, un'epoca fa a vedere giovani ragazzi che cambiano le gerarchie del ciclismo. Come Fabbro, settimo al traguardo, migliore degli italiani (con l'intenzione di esserlo sempre più spesso quando la strada sale) e proveniente dalla stessa squadra che ha lanciato Bais - il Cycling Team Friuli. «Ieri sono stato fortunato a non cadere. Cosa significa? Che la ruota magari gira per il verso giusto». E oggi la ruota ha girato.

Su verso Prati di Tivo non vive nemmeno Ciccone, seppure abruzzese, teatino, corridore regionale; Adriano De Zan avrebbe cadenzato magnificamente "en-fant-du-pa-ys" e così lo avrebbe definito.
Parte ai -10,8 chilometri dal traguardo, ma un Ganna dal cuore di ghiaccio e dalle gambe di acciaio, lo riprende - sfuma subito Ciccone. Sul cuore di ghiaccio si scherza, sia chiaro, questioni di squadre, di tattiche, di normali svolgimenti di corsa, ma se parliamo di anime glaciali riguardatevi il finale di oggi della Parigi-Nizza: Roglič che bracca Mäder, in fuga tutto il giorno, a meno di cinquanta metri dall'arrivo, lo supera e vince. Mäder di stizza lo manda a quel paese.

Si sale e ci si affatica - sapeste che novità - fa caldo, quel bel caldo primaverile, ma su, ancora più su, verso i 1450 metri di Prati di Tivo tira vento e intorno si vede la neve. Parte Bernal con Pogačar: un fuoco di paglia. Parte da solo Pogačar qualche chilometro dopo: un incendio che accende la corsa. Dietro si arrabattano, gli avversari si agganciano ad ogni granello di energia per salvare il salvabile. Saltano Thomas e Bernal, Nibali era già saltato prima, ma van Aert no, con quella maglia blu come il mare, si difende e sarà nono e ancora in piena lotta per vincere la Tirreno-Adriatico. Landa è sempre lì, ma non basta, fa sempre un po' rabbia e un po' tenerezza - arriva quarto battuto allo sprint da Higuita.
Simon Yates rinviene talmente all'improvviso (avrà pensato sicuramente Pogačar: "eh questo da dove arriva?") che ancora qualche centinaia di metri e magari riprende il giovane sloveno. Ma la regola è chiara, quello è il traguardo. Lì, sotto lo striscione, termina la sfida.

E mentre Pogačar esulta, con quelle gambe possenti, e un ciuffo di capelli che gli esce dal casco, il signore che vive su a Prati di Tivo è soddisfatto: sono arrivati tutti. Chiude la finestra sulla corsa e sa che anche oggi è stato un bel giorno, perché una bella corsa gli è passata sotto casa.

Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021


La natura dei fuoriclasse

Liberi scorrazzano i cavalli nei campi attorno a Colle Pinzuto. In tensione i corridori scavallano il penultimo settore in sterrato, frustrando gambe e frustando pedali. Con lingue in fuori e gote rosse, senza rispetto né riguardo per i sentimenti dei propri avversari. Senza avere nemmeno il minimo ritegno per le nostre coronarie: due ore finali di corsa come celebrazione assoluta. Da farti alzare dalla sedia, da far scomodare tutta una lista di aggettivi e di superlativi che dicono si dovrebbero lasciare da parte, ma che vengono in soccorso, mentre il cuore solo un’oretta dopo l’arrivo dei corridori inizia a rilassarsi. Spettacolare, meravigliosa, la definiamo così, in modo banale, ma senza orpelli. Una corsa bellissima figlia dell’interpretazione di una generazione di fuoriclasse.

Tutto attorno alla Strade Bianche 2021 è verde intenso, per la natura è stato un buon inverno e pare una giusta primavera. All’ombra fa freschetto il giusto, al sole si suda, a tratti c’è una leggera bava di vento che non dà fastidio, in altri momenti, invece, sembra nemica di chi va in bicicletta. Spira di lato, soffia impazzita, muove gli alberi che sembrano ossessi sbilenchi appesi un po’ per caso, un po’ per necessità.
Il verde spiritato si alterna a un giallo paglierino che sono campi, sì, ma è anche terra sabbiosa, argillosa, creta che a vederla fa quasi male agli occhi. Spuntano le prime timide fioriture; il cielo, stamane piombo fuso sulla testa di ciclisti e di senesi, ora è blu come avessero capovolto il mare. Le nuvole sono barche sparse di pescatori appiccicate a testa in giù e che in qualche modo provano a rientrare verso casa.

La polvere che nasconde i corridori è una coltre di nebbia lattiginosa che brucia i polmoni. Lo sterrato è battuto. Cani sparsi a bordo strada come spettatori; spettatori (pochissimi) che dialogano in toscano: «Eppure ai corridori gli garba» afferma uno. «Beh anche se un gli garbasse l’è la loro vita» risponde l’altro.
Brucano le bestie nei campi, bucano le gomme i corridori e arrancano, si fermano, bestemmiano, ondeggiano, in un tumulto di macchie colorate di squadre e sponsor. Inviati di stampa e televisioni in scampagnata solo apparente rincorrono auto e ciclisti, filmano, applaudono, salgono e scendono, si affrettano e annaspano. Si annullano le urla fino a una silente Piazza del Campo dove l’unico sussulto sono i rumori dell’attrito di ruote e telai, oppure della potenza di van der Poel che emana un suono che durerà nel tempo.

Fuggono i fuggitivi, si fiondano gli inseguitori, allungano i più forti, resistono i temerari. Scappano i primi con nomi pittoreschi e diverse storie da raccontare, ma magari sarà per un’altra volta. Sono Bevilacqua – e quanto ce n’è bisogno oggi – e Rivi; Walsleben, Zoccarato – grande da sembrare infinito – Petilli e Van der Sande – uno figlio di pizzaioli, l’altro di paninari – Ledanois e Tagliani.
La loro sorte è segnata, ma se ne fregano. Valli a capire e infatti li capiamo. In otto di loro hanno vinto tre corse tra i professionisti e se per Zoccarato e Rivi è anche normale – sono al primo anno – per Ledanois è un cruccio, lui che nel 2015 trafisse Consonni nel Mondiale Under 23. Walsleben, infine, serve a riequilibrare il karma: è il meno giovane davanti, non ha mai vinto in vita sua, ma corre in squadra con van der Poel.

Dura poco la loro sortita, il tempo di un sospiro, di un faticoso respiro. Di uno sterrato dietro l’altro. In gruppo si attacca: è nella natura di questa corsa. Folle, differente, affascinante e ammaliante, spettacolare, pericolosa, amata dai corridori. Casali, ulivi e campi ovunque, curve infide, salite indigeste, discese incontrollabili; dislivello e fatica da tappa di montagna, cadute e polvere, ristoranti, chiesette e scaramucce.

Sulle Sante Marie arriva il primo grido “che spettacolo! che corsa!”. Un gruppo di stelle in parata con van Aert che appare irresistibile. Vanno via Pidcock, Bernal, van Aert, van der Poel, Gogl – ribattezzato Van Gogl per l’occasione – Pogačar, Simmons, Geniets. Quest’ultimo cede, poi Simmons buca e non rientra più. Su Monteaperti tutto cambia: è sempre la natura di questa corsa, è ciò che più diabolico prepara il ciclismo. Van Aert sembrava il più forte ma si stacca (con Pidcock). Van Aert ha un cuore grande che potrebbe battere per tutti gli abitanti del pianeta e allora rientra per poi staccarsi di nuovo.
E su Le Tolfe cede pure Pogačar e ci ritroviamo con Bernal, Alaphilippe e van der Poel a giocarsi tutto verso Piazza del Campo. Il resto è storia nota, non è mai stata noia: van der Poel che vince, Alaphilippe secondo, Bernal terzo, van Aert quarto. Il modo in cui l’olandese ha vinto servirà per scomodare gli appassionati: “ma quanta potenza ha sprigionato van der Poel?” ci si chiederà.

Qualcuno dirà di avergli visto perdere un pedale nella penultima curva, altri che avranno visto schizzare scintille, volare schegge di sanpietrini. Altri ancora diranno di averlo sentito urlare al traguardo come mai prima. Le gote rosse, di nuovo, i muscoli in fuori. Una tattica perfetta. «Per vincere le gare importanti, devo iniziare a correre con la testa», raccontava alla vigilia. E lo ha fatto. Perché corridori così imparano da ogni dettaglio. È la natura dei fuoriclasse.

Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021