Meglio Vingegaard o Pogačar?
Che colpa abbiamo noi
Ma che colpa abbiamo noi se non siamo riusciti a capirci niente di questo Tour. 'Ché tutto girava così veloce e la media record di sempre ne è testimone. 'Ché si partiva a razzo: boom, via a cinquanta all'ora. Così, giusto per prendere la fuga e alla fine le energie per scattare ce le avevano solo un paio di corridori, un paio di corridori e mezzo, per stare larghi. E in salita la storia era fatta di resistenza e logorii da pendenza asfissiante.
Abbiamo pensato a Pogačar vincitore, facile facile, alto in sella, se fosse uno scrittore sarebbe uno di quelli in punta di penna, talmente gli viene naturale districarsi, come un serpente nella roccia, nel mestiere di ciclista.
Che colpa abbiamo noi se Vingegaard ha superato ansie e paure («quando era ragazzo vomitava prima di ogni gara» racconta sua madre e quando vinse tappa e maglia al Polonia, primo successo tra i professionisti, «mi chiamò per dire che non aveva chiuso occhio tutta la notte» parole di uno dei suoi allenatori) e ha superato pure Pogačar, che alla vigilia metteva ansia e paura, e, anzi, lo ha dominato in maniera (quasi) totale.
Sorprendente Vingegaard, che al Giro della Valle d'Aosta di qualche anno fa, quando conquistò il prologo tutto in salita, disse: «Non sono adatto alle salite lunghe». Forse soltanto la Jumbo Visma sapeva che in qualche modo sarebbe andato così forte e lo ha messo nella condizione di non bluffare. E a proposito di bluff mancati, risuonano come principio assoluto le parole di Pogačar nei primi giorni: «Vingegaard è il miglior scalatore di questo Tour».
Che colpa abbiamo noi se loro, intesi i Jumbo Visma, hanno dominato; se hanno sacrificato Roglič che ha corso dieci giorni con le vertebre fratturate e si rendeva utile - se non decisivo - alla causa, nel giorno del Granon che resterà, quando descriveremo il Tour 2022, come quello de "la crisi di Tadej Pogačar".
Pogačar si è fatto ingolosire dal connazionale rivale senza sapere che ad attenderli i loro tifosi erano gemellati al traguardo, mescolati in mezzo a migliaia di camper. Poteva stare più cauto. Si è sentito forte, ha perso. Ci ha provato dal primo giorno, non ha lesinato, benedetto talento della natura. Si è mostrato umano nella retorica della sconfitta sportiva. L'anno prossimo non si farà trovare impreparato - il resto, però, dovrà farlo la sua squadra.
Che colpa abbiamo noi se Geraint Thomas, in arte G, ha guidato splendidamente fino a Parigi, ha superato lo scetticismo - quelli del sottoscritto che stravede per lui, ma non da vederlo sul podio. Ha superato avversari più giovani di un paio di lustri, ha trasformato un banale errore nella cronometro - ha corso con lo smanicato usato nel riscaldamento - nell'occasione di dare spettacolo fuori dalla corsa creando l'hashtag #wheresGsgilet con tanto di giochino da fare a ogni tappa (un tifoso diverso al giorno avrebbe portato alla frazione successiva lo smanicato, tenendolo al sicuro fino a Parigi). Pare che grazie all'idea di Lizzie Banks la giacchetta Ineos continuerà a viaggiare anche durante il Tour femminile.
Ha superato le gerarchie e al solito non si è morso la lingua nelle interviste: «La Ineos voleva fare di me un Sepp Kuss». A 36 anni ha fatto un piccolo capolavoro simile a quello di Richie Porte un paio di anni fa.
Che colpa abbiamo noi se abbiamo sottostimato la capacità di Wout van Aert di fare ciò che vuole con il ciclismo. " il corridore più forte del mondo" come lo definisce Simone Basso; supercombattivo del Tour, maglia verde che gli sta persino stretta e avesse vinto lui a Hautacam, avrebbe potuto conquistare pure quella a pois. Ha fatto la sua corsa, quella di Vingegaard, quella di tutti gli altri del gruppo. Quando ha deciso avrebbe vinto Laporte così è andata.
Che colpa abbiamo noi se ci piace Gaudu con quella faccia da Harry Potter francese e il suo lento recuperare passo dopo passo e arrivare al 4° posto, oppure Simmons che a 21 anni e più giovane al via, nel computo delle fughe viene oscurato solo da van Aert. Che colpa abbiamo noi se di volate ce ne sono state poche, meglio così, ma buone, come l'ultima a Parigi.
Che colpa abbiamo noi se l'Italia – al maschile – fa fatica, troppa, e ci rimangono solo i segnali mandati da Dainese, Bettiol e Mozzato, promossi con lo sguardo per tutti e tre verso un finale di stagione in maglia azzurra.
Che colpa abbiamo noi se un altro Tour è andato e l'unica cosa che possiamo chiederci resta: quanto manca alla prossima Grand Départ?
Infiniti
Rocamadour conosce da tempo l'infinito, qualcosa che ricorda Leopardi. Per quelle case affacciate su uno sperone di granito, a picco verso la gola del fiume Alzou. Poco fa, però, l''infinito di Rocamadour è stato qualcosa di diverso.
Quello di Filippo Ganna che "sedendo e mirando interminati spazi e sovrumani silenzi" ha corso a più di cinquanta all'ora. Il paesaggio non è di un ciclista, forse solo della sua visiera che lo riflette, come un'impressione, una pennellata. Di un ciclista è, invece, il rispetto di chi guarda e aspetta, per questo Ganna, appena conclusa la prova, ha detto che gli sarebbe spiaciuto non vincere, "perché in tanti credono in Ganna, sperano in lui". Ma per loro non è cambiato nulla e Ganna resta lo stesso anche se non ha vinto.
È “il cor che per poco non si spaura" di Jonas Vingegaard che è partito così veloce da rischiare di vincere non solo il Tour de France ma anche qui, vicino al Castello di Rocamadour. Perché Pogačar è un fuoriclasse e può succedere di tutto, anche se è difficile, anche se è quasi impossibile. Il tempo, però, non si misura solo con gli orologi, si esprime in desideri, volontà, per questo è la parte più irrazionale dei numeri.
La paura in una curva, vicino alle rocce, a pochi centimetri e poi gli ultimi metri, un respiro profondo e un pianto libero, un naufragare dolce in un mare che è altrove. In un abbraccio con la famiglia.
L'infinito è soprattutto di Wout van Aert. Sono infinite le sue gambe, i suoi muscoli, la potenza sprigionata, sono infinite le sue possibilità: in salita, in pianura, a cronometro. Da solo per scelta o da solo per obbligo, ma anche nel caos, nella confusione di una volata. Poi nei "sovrumani silenzi" di una galleria in cui non vediamo nulla ma immaginiamo tutto e anche di più.
"Quell'infinito silenzio a questa voce" va comparando van Aert mentre si affaccia alle transenne, appena sa di aver vinto la cronometro, e si fa vedere dal vincitore del Tour, dal suo compagno, da Vingegaard. Gli va incontro. La sua voce e quella del danese che ora è un grido, poche parole e di nuovo silenzio. Poco dopo si commuoverà anche lui, da solo, strofinandosi gli occhi e camminando più veloce per andare via. Due volti della vittoria, che è diversa ma è anche la stessa. Costruita col tempo e la pazienza, guardata da lontano e poi vissuta da dentro.
Rocamadour conosce l'infinito mentre qualcuno guarda gli sconfitti e ne riconosce l'umanità, li applaude. Accade anche con Pogačar. Perché sono giovani, perché c'è tutto il tempo per quel che oggi è mancato. Dalle porte di quelle case, ciò che sembra infinito, talvolta, è semplicemente futuro. E se l'infinito non è per gli uomini, il futuro sì. Il futuro è anche e più che mai di un ciclista.
Come quei due (ma non solo)
Come la trama di un film. Come l'esaltazione di un gesto. Come la resistenza in salita.
Come gli attacchi di Pogačar: ne ha provati sei sulle inedite pendenze del Col de Spandelles. Sei volte, e Vingegaard che gli risponde senza il minimo cedimento. Stringendo i denti, protetto dalla maglia gialla e nascondendo la sua fatica dietro gli occhiali. Avremmo voluto essere le gambe di uno per provare a staccare l'altro, avremmo voluto essere i pensieri di quell'altro per stare in scia a quell'uno.
Come le nostre idee, le nostre ispirazioni, fatte a pezzi nelle ultime due ore di tappa.
Non sapere più dove guardare. Come un tifoso che si esalta al loro passaggio. Come gli avversari che venivano superati uno a uno e si giravano, quasi meravigliati, attoniti, spettatori anche loro di quello che andava in scena. Come l'azione di un rivale che, superato da quei due, rovesciava la sua borraccia sul collo di Pogačar. Come uno sparpaglio di corridori sui Pirenei.
Come Wout van Aert che attaccava al chilometro zero, andava in fuga, veniva ripreso. Attaccava di nuovo, te lo ritrovavi nell'azione decisiva persino in lotta per la maglia a pois e poi a scandire il ritmo staccando colui il quale pensavamo - a inizio Tour - nessuno riuscisse mai a staccare. E poi quel gesto, l'esultanza sul traguardo, segno di una giornata perfetta.
Come Tibopinò che ci prova sempre, non importa se quelle gambe ci sono o non ci sono, mica è una magia, è un sentimento. È una prova, una sfida. Ma non è bastato. Come Gaudu che va su in progressione e raggiunge tutti - o quasi. Come Meintjes che attacca da lontano. Come Kuss, fatto apposta per le salite, o come Quintana che resiste e ci riporta indietro di qualche anno. Come Thomas che difende il podio, a 36 anni, in un ciclismo che ha le fattezze di due bambini e la misura della velocità estrema.
Come un'asfalto ruvido o che si impenna. Come una curva infida. Come Pogačar, di nuovo, che attacca anche in discesa. Come Vingegaard che rischia di cadere per stargli dietro. Come Pogačar, di nuovo, che cade in discesa. Come Vingegaard che lo aspetta e poi si stringono la mano. Come quei due, di nuovo, dopo il traguardo che si abbracciano, stanchi ma felici.
Come questo Tour, che non dimenticheremo, come quei due (ma non solo) e i pomeriggi roventi davanti al Tour.
PS Grazie per lo spettacolo.
Lâcher les chevaux
"Lâcher les chevaux" dicono i francesi. Liberare i cavalli, dare tutto superando ogni limite. Oggi, al Tour de France, abbiamo visto tradotto in atto il significato di quel pensiero.
Lâcher les chevaux, in uno sprint durato duecentocinquanta metri, ma che diciamo, in centoventinove chilometri a blocco; una cosa impensabile per qualunque essere umano, ma quando vedi in bicicletta questa generazione di ciclisti ti chiedi cosa sia umano o cosa sia super.
Su una lunga, dritta, infinita lingua d'asfalto a doppia cifra che arrivava su a Peyragudes, Pirenei, credevamo di sentire tuonare i fuochi d'artificio, ma si è solo intravisto qualcosa; si è sentito come un sibilo, che si infiltrava in mezzo alle urla del pubblico, uscire da quegli attrezzi a due ruote che parevano potersi spaccare da un momento all'altro a causa dell'energia inferta da quei due lì davanti. Digrignavano i denti Pogačar e Vingegaard. Vingegaard e Pogačar. Sempre loro, solo loro.
No, non c'è alcuna delusione a fine tappa, nemmeno se si dovesse pensare che quello lì in maglia bianca non riusciva ad attaccare quello lì in maglia gialla. Entrambi al limite, oltre il limite, mentre gli altri (quasi dispersi) messi ognuno per un angolo, ognuno dentro la propria fatica e i propri demoni, a seguire il proprio ritmo, a liberare i propri cavalli.
Lâcher les chevaux: come hanno fatto Mikkel Bjerg prima e Brandon McNulty poi. Li aspettavamo da inizio Tour, li aspettava Pogačar forse proprio in queste giornate qui da tutto o niente, e oggi, come se avessero deciso fosse il momento, hanno liberato i cavalli e li hanno buttati in strada, hanno distrutto il gruppo, e alla fine, insieme a McNulty restavano solo in due. I più forti di questo Tour, i più forti interpreti di una corsa a tappe di tre settimane, di un Tour de France che ogni giorno ci piace da impazzire.
Lâcher les chevaux, come ha fatto Quinn Simmons che finalmente sbarbato dimostra l'età che ha, che è quell'età che hanno tutti quelli che con un po' di talento vanno forte in questo ciclismo.
Ha provato a lasciare i cavalli anche Ciccone, ma quella maglia a pois resta salda sulle spalle di Geschke; lo ha fatto Madouas per Gaudu, oppure Pinot che sceglie, in perfetto stile Pinot, una giornata in cui per i fuggitivi non c'è storia, ma che lui sia davanti o dietro resta il più atteso. Il più amato.
Lâcher les chevaux, come ha detto Gaudu dal primo giorno. Ha paura di saltare e si gestisce fino a liberare quei cavalli nei finali di tappa e oggi in classifica attacca il primato che vale il posto del primo degli umani, dietro due scesi nel ciclismo per dare spettacolo, dietro Thomas che a 36 anni non molla mica, e dietro Nairoman, per definizione, capostipite di un universo supereroistico.
Ha liberato i cavalli nella sofferenza estrema Fabio Jakobsen, ultimo, dentro al tempo massimo per 17" e quell'idea di arrivare a Parigi (e vincere) che si avvicina. Domani permettendo.
Domani, eccolo l'ultimo atto - in montagna - per liberare i cavalli, per continuare a tormentarci guardando lo schermo e dire: "quando attacca Pogačar?", per ammirare lo spettacolo del Tour de France con il rammarico che poi tra pochi giorni sarà tutto finito.
Cinque cose sul Tour
Il Tour entra nell'ultima settimana. Calda e probabilmente le temperature incideranno su rendimento e risultati. Tre frazioni pirenaiche in crescendo, partendo da quella di Foix, arrivando su a Hautacam, passando per Peyragudes. Terreno per inventarsi qualsiasi cosa ci sarà. Poi una volata, la crono - bella lunga - e la passerella finale sui Campi Elisi.
LA FORZA DELLA JUMBO - Da misurare. Inscalfibili fino all'Alpe d'Huez poi è successo qualcosa che ha ingarbugliato all'improvviso il filo del destino. Nella tappa del Granon hanno messo in scena una tattica aggressiva andata bene, benissimo. Hanno fatto saltare (di testa e di gambe) chi pareva dovesse dominare quasi con un fil di gas la corsa. Poi hanno iniziato a perdere qualche colpo - a Mende, dove la sensazione era quella di una squadra in gestione delle forze - e a Carcassone dove più che perdere colpi, all'improvviso hanno perso due corridori, Kruijswijk e Roglič, mentre un terzo, Benoot è acciaccato. Fortuna loro che, come ha detto uno dei direttori sportivi di Pogačar: «La Jumbo possiede due squadre, una è rappresentata solo da van Aert». Da domani il belga, sin qui protagonista ineguagliabile di ogni tappa di questo Tour, se possibile dovrà dare fondo ancora di più a quell'incredibile motore arrivato a pieno regime nel mese di luglio 2022. Menzione per Kuss che nella prossima tre giorni dovrà svestire i panni dell'ottimo scalatore e diventare l'angelo custode di Vingegaard. Ce ne sarà bisogno.
RIBALTARE UN TOUR - E come si fa? La strada c'è, ma le forze saranno da quantificare. Vingegaard tra l'Alpe e Mende si è incollato alla ruota di Pogačar che ha fatto quello che poteva, scalate a tutta, scatti e progressioni, ma non è bastato. Terreno ce n'è e ci aspettiamo le fiamme sulla strada; ma dovranno inventarsi qualcosa anche a livello di squadra, una UAE che nelle ultime giornate è apparsa più compatta rispetto al solito, con Majka, Soler (anche se ancora ci chiediamo a cosa servisse la sua fuga a Mende) e McNulty attorno al fuoriclasse che gli fa da capitano. Loro dovranno inventarsi qualcosa, ma sarà poi il bambino in maglia bianca a finalizzare; quel bambino che pare non amare particolarmente l'alta quota - pagando sul Granon lo sforzo fatto sul Galibier, oltre all'ormai chiacchierata "crisi di fame" e alle energie consumate nel rispondere agli scatti di Roglič - e il caldo - prevista un'atmosfera da forno ventilato sui Pirenei che, per fortuna di Pogačar, non si avvicineranno nemmeno ai 2000m. Lo sloveno, croce a volte per il suo modo di interpretare le corse a tutta senza gestione delle energie, ma una delizia per noi che ce lo gustiamo, è un bene per questo ciclismo, un bene per lo spettacolo e farà di tutto, anche a costo di saltare (se va beh), per provare a ribaltare il Tour.
E LA INEOS CHE FA? - Nel giorno di Mende, quando Pogačar provò ad attaccare che non era nemmeno l'ora di pranzo, lasciando indietro mezza Jumbo-Visma, racconta Geraint Thomas di come lo sloveno si sia avvicinato a lui per chiedere una mano. «I Jumbo sono a tutta, affondiamo il colpo» il senso delle parole del rivale. Questo lo abbiamo saputo dopo dalla voce proprio del gallese, ma in diretta chiunque ha pensato: è mai possibile che la INEOS con tre uomini in classifica non voglia provare ad attaccare la maglia gialla? Ecco, quello che chiediamo e speriamo non è tanto un'alleanza a tavolino quanto una INEOS che, dopo aver vinto una bellissima tappa con Pidcock, batta un colpo per provare ad acchiappare il Tour. In una corsa così spettacolare com'è stata fino adesso dal primo giorno, manca solo un'idea di questo genere a rendere tutto ancora più cinematografico. Certo, al momento l'atteggiamento è quello di chi pare voglia tenersi stretto la posizione che ha alle spalle dei due dominatori, con Thomas in linea per un podio e Yates per un piazzamento tra i primi sei - obiettivo che potrebbe bastare alla squadra britannica senza correre troppi rischi. Ma allo stesso tempo saremmo sorpresi che, con questa potenza di fuoco - non dimentichiamo Pidcock nei primi 10 al momento - si lasciassero sfuggire l'occasione di provarci in qualche modo, con un'azione ben congeniata.
ULTIME SPERANZE ITALIANE - Di Italia ne abbiamo vista poca, quella che abbiamo visto è apprezzabile perché consapevoli di cosa passa il convento, ovvero il movimento, nella corsa più importante del mondo. Vicinissimi a un successo ci siamo andati con Bettiol su tutti, c'è da chiederci se ci sarà ancora terreno per il corridore della EF, mentre Mende era perfetta per lui che ha mostrato, quando in condizione, di avere gambe, carattere, forza da primo della classe (un appunto da fare alla squadra: serviva sprecare tutte quelle energie per Uran?). Ganna benino, lavora molto e raccoglie quel che riesce, generoso in fuga, si è inchinato alla legge di Pedersen, ma dalla sua avrà una crono lunga, complicata, è vero, ma lui, quando c'è da mettere giù i cavalli contro il tempo, ci fa sempre divertire. C'è Ciccone, poi, che di carattere più che di gambe battezzerà una delle tre tappe pirenaiche - la maglia a pois? difficile, ma non impossibile visti i contendenti - mentre Caruso crediamo voglia mostrare qualcosa in un Tour sin qui decisamente sotto le aspettative - come tutta la Bahrain. Infine le ruote veloci: Dainese, ma soprattutto Mozzato hanno mostrato di saperci e poterci essere subito dietro l'élite della velocità. Tra Cahors e Parigi andranno ancora a caccia di piazzamenti.
AGGRAPPATI A PINOT - Eh sì, non lo dimentichiamo. Lo vogliamo fortemente come lo vuole fortemente tutto il pubblico francese che pare non aspettare altro. Ci ha provato due volte e due volte gli è andata male. Lui dice di stare benissimo e che anzi è deluso per i risultati - soprattutto il terzo posto a Mende - che non rispecchiano la sua condizione, quanto forse sono più figli di errori di valutazione e ritardi nell'effettuare la scelta giusta. Aggiustando tempo e modo Pinot avrà davanti a se tre belle chance per portare a casa una tappa, anche se già vederlo lottare con quella grinta e quelle ginocchia che sembrano a ogni pedalata colpirlo in faccia, è già bello. A lui non diteglielo però, perché conosciamo tutti il suo motto a proposito del vincere, e il suo interesse è quello di trasformarlo in qualcosa di concreto.
Imperfetti come l'Alpe d'Huez
È strano. Tutte quelle voci, quelle campane, quelle mani che battono, che si mescolano sui ventuno tornanti dell'Alpe d'Huez, se sentiti altrove non avrebbero nulla di armonico, sarebbero rumore. Invece lassù sono suono. Sarebbero rumore perché non c'è nulla di concorde, nulla di studiato, di preparato, perché ognuno improvvisa, si dicono cose diverse in lingue diverse. Si urla. Fra i tornanti che diventano colori, poi nazioni e sensazioni, invece, sono suoni per gli stessi identici motivi. Perché sono imperfetti.
Vogliamo parlare della piacevolezza dell'ascoltare e del vedere l'imperfetto: qualcuno che è già caduto, che si è già "sgualcito", che è già cambiato tante volte, che ha perso qualche illusione, non la speranza. È imperfetto Chris Froome perché se fosse stato quello dei tempi migliori non avrebbe avuto bisogno di andare in fuga per arrivare terzo e, anzi, non sarebbe proprio arrivato terzo. Il keniano bianco, oggi, sembra la lingua dell'Alpe, un rumore, in termini assoluti, che si fa suono. E quel suono lo capiamo tutti, è piacevole, confortante.
Giulio Ciccone che inizia l'Alpe d'Huez in testa, sui pedali, guardando verso l'alto non è molto diverso da lui. Ciccone dei rumori ha fatto suono più di una volta, delle cose belle nei momenti peggiori ci ha parlato giusto un paio di mesi fa a Cogne. Quanto peseranno quegli occhiali che Ciccone getta via quando vince? Ben poco, eppure strapparsi qualcosa di dosso ha molto a che fare con gli scalatori: quasi ad alleggerirsi, realmente o simbolicamente. Buttare via qualcosa, lanciarla, è liberarsi. Non si può fare con ciò che si è passato, si fa con quello che si ha addosso. Si resta imperfetti quando si soffre, ma liberi. Liberi di esserlo. Quando hai capito questo, sì, puoi scattare.
Il volto di Tom Pidcock che va verso il traguardo e vince porta ogni segno di questa sofferenza. C'è quel rumore a spingerlo. Ci avete fatto caso? Quelle voci vanno in sincronia con la corsa, sembrano accelerare quando la corsa accelera, rallentare quando si quieta. E i pedali di Pidcock, il suo corpo, quasi seguono quelle voci: c'è accordo. Cosa può diventare quel rumore? Non solo suono, anche sincronia che è muoversi allo stesso tempo, che è quasi musica. Un sottofondo adatto alle sue curve in discesa qualche tempo prima. Eppure era imperfetto. Era tutto imperfetto.
Anche Tadej Pogačar ieri è stato imperfetto in sella: ha perso, è stato sconfitto come mai lo era stato. Ha conosciuto un dolore che mai aveva conosciuto così e l'ha affrontato. L'ha affrontato sentendo male e poi ridendo, scherzando. Non è scontato quando non sei abituato. Quando, oggi, è scattato con Vingegaard alla ruota c'era qualcosa di diverso: la stessa forza, la stessa grinta ma un'altra leggerezza. Il permesso di perdere, di non essere perfetto e piacere lo stesso, forse ancora di più perché si assomiglia alla maggioranza delle persone che gridano, urlano, muovono quei campanacci a tempo perché si immedesimano. Sono e vogliono sentirsi come chi arriva qui in bicicletta. Non come l'atleta, come l'uomo.
Il suono dell'Alpe, la sua lingua, parla a tutti per questo motivo. Basta qualche secondo e capiamo tutti di assomigliargli più di quanto somigliamo a qualsiasi sinfonia.
Il Re Giallo
Quando Jonas Vingegaard attacca Tadej Pogačar sul Galibier, ad un certo punto, lo guarda. Sembra la restituzione dello sguardo dello sloveno alla Super Planche de Belles Filles: ora è solo. Scatta Vingegaard, scatta Roglič, ci riprova Vingegaard e ancora Roglič. Il Re giallo, quasi uno scacco impazzito, insegue prima l'uno e poi l'altro. Vede i corridori della Jumbo Visma compulsare le radioline, non sembra avere paura, ma certamente si chiede quale sarà la prossima mossa. Solo come si è soli sul Galibier, in ogni caso, e tutti pensano alla solitudine di Marco Pantani quando lì attaccò nel 1998. Ma la solitudine può ammalare, può indebolire, può lasciare nudo anche il Re giallo.
Non c'è pietà, non può esserci oggi: non per Barguil, in fuga dal mattino, non per Quintana, nemmeno per Bardet. Quella pietà non può essere scolpita sulle pietre del Col du Granon: duro, granitico, freddo. Forse davvero Pogačar non se lo aspettava, forse per questo scherzava nonostante il plotone della Jumbo Visma a fare il ritmo in testa. Per lui cambia tutto come cambia il tempo in montagna, quando Vingegaard riparte e questa volta gli sguardi sembrano non incrociarsi. Una provocazione, un'altra. Ma il Re giallo non risponde: probabilmente Majka davanti, a scortarlo, non era la preparazione di un attacco, era il tentativo di un bluff, di una difesa dopo tutti quegli scatti, quelle risposte a domande sospese.
È freddo lo sguardo di Vingegaard mentre sale, qualcosa che ricorda l'inverno danese. Ha caldo Pogačar, si slaccia la maglia, si scompone: vede Thomas attaccarlo, staccarlo. Vede molti corridori affiancarlo e superarlo con apparente facilità. Soffre, non gli vediamo gli occhi ma li intuiamo. Solo di quella solitudine che inghiotte. Svuotato, senza forze.
Solo come solo davanti è Vingegaard che vince, conquista la maglia gialla e rifila quasi tre minuti allo sloveno. Che pare impossibile perché Pogačar sembrava non poter andare in crisi, assomigliava a quelle pietre, quelle rocce, su cui piove da anni e anni ma restano così, sfregiate, ma immobili. Lo sloveno oggi è immobile perché sconfitto, col caldo che diventa freddo dopo l'arrivo quando si realizza che bisogna ricominciare da capo, attaccare, e che proprio adesso non si sentono le forze per farlo.
Parigi è lontana. Stanotte i sogni, gli incubi, i momenti di questa tappa che torneranno in mente. Domani l’Alpe d’Huez. Il Tour de France, intanto, ha un altro Re. Solo in vetta al Granon dove, oggi, un ragazzo venuto da lontano ha pianto.
La categoria dei Pogačar
Sembra tutto un gioco per lui ed è bello così. Lo sguardo di traverso mentre supera sul traguardo Vingegaard dice tutto: "C'hai provato, eh?".
"Sorrideva sempre", si dice. Così come saluta tutti quando scende in senso contrario rispetto all'arrivo. Compagni di squadra, «compatti e che si sono fatti in quattro per me», e tifosi con i cappellini gialli. «Qui all'arrivo c'era la mia compagna e la mia famiglia, oggi per me era un giorno speciale e ci tenevo». A fare bene, che poi per uno così vuol dire vincere.
Eppure. Eppure è come quando fai un gioco da bambino, ma vinci sempre e magari decidi che per una volta lasci agli altri il piacere del successo, ma niente, c'è dentro di te una scintilla, una miccetta sempre accesa, pronta a divampare. La differenza tra i corridori forti e quelli della categoria Pogačar.
Sembra quasi che Vingegaard su quel traguardo scattandogli in faccia abbia alimentato quel fuoco all'apparenza addormentato. Come avesse tirato dentro a Pogačar dei petardi. Come gli avesse dato una di quelle sberle che si dà a chi non riesce a risvegliarsi dal torpore. E quello ha reagito d'istinto.
Pogačar pareva controllare, ma non affondare il colpo, osservando Kamna da lontano, in progressione e con la testa leggermente abbassata per lo sforzo, spingeva forte, con i polpacci tirati, ma «Ero a tutta, è stata una tappa difficile [ma va! Nda], e ritengo Jonas in questo momento lo scalatore più forte del mondo». Già perché tu sai di appartenere a un'altra categoria.
Quello allora lo sorprende, ma non c'è scampo. La differenza è troppa con tutti su quasi tutti i terreni. Sempre. Anche se ti serve un metro, ti basta un metro per vincere in maglia gialla. Un altro capitolo, un altro successo e poi magari a fine carriera faremo i conti per capire a quale categoria appartenere. Al momento di sicuro a quella dei Pogačar.
Il sapore di quelle giornate lì
Succedono così tante cose nella "mini-Roubaix", come l'avevano presentata, che sembra difficile raccontarle tutte. Un po' sui generis una giornata del genere, è vero, ma solo per la nostra scarsa abitudine; manna del cielo una tappa così, per accendere un pomeriggio estivo passato a guardare il Tour de France e non riuscire mai a staccare gli occhi dal televisore.
Una di quelle tappe da "Lasciami stare! c'è il Tour de France!". Squilla il telefono? "Vai tu a rispondere, non vedi che oggi c'è il pavè?" Una di quella giornate da empatia con i corridori: facce stravolte e visi impolverati con il segno degli occhiali, la bava incrostata di terra; una di quelle giornata da mani e gambe che faranno così male che le scorie se le porteranno dietro in questi giorni fino al riposo di lunedì. Che lavoro avranno da fare i massaggiatori stasera!
Succedono tante cose: proviamo in ordine sparso. Si cade sin dal chilometro zero: è solo il preludio. Van Aert poi va giù, recupera, sembra impaziente, rischia di tamponare un'ammiraglia; quando è in gruppo non pare riuscire mai a rimontare la testa perché davanti si prendono i settori a tutta velocità: diventerà essenziale, quasi superbo, infine, il suo lavoro nel ricucire il più possibile il distacco da quel fuoriclasse epocale che ancora una volta ha dimostrato di essere Tadej Pogačar.
Succedono tante cose, e alzi la mano chi non ha sentito in bocca il sapore di quelle giornate lì. Alla vigilia qualche corridore lo diceva: «Chi guarderà la gara da casa oggi si divertirà... noi un po' meno».
Succedono tante cose: una fuga che va all'arrivo con dentro Magnus Cort Nielsen, quattro fughe su quattro tappe e le energie che nel finale lo abbandonano; Neilson Powless che arriva a pochi secondi dalla possibilità di vestire la maglia gialla (che, a proposito, nonostante tutto resta sulle spalle di van Aert, lui solo sa come, lo sanno le sue gambe, lo sa il suo motore, la forma e la classe); Edvald Boasson Hagen che non vince da tempo immemore e poi quando leggi che di corse ne ha conquistate ottantuno ti chiedi, «ma dov'ero finito?» perché la maggior parte ti sembra di averle perse per strada.
C'è Taco van der Hoorn, uno dei più amati del gruppo e non potrebbe essere altrimenti; Alexis Gougeard che qualche stagione fa prometteva proprio in questo tipo di contese e Simon Clarke. L'australiano che quando parla ha l'accento toscano.
Succede che dopo una giornata così, fatta di cadute rovinose, ritiri, forature, incidenti, con quasi venti chilometri di pavé, quello infame della Roubaix, diviso in undici settori che lasceranno il segno, fanno la volata dai milletrecento metri: Powless anticipa e sembra possa vincere lui, poi sembra stia vincendo Boasson Hagen, poi invece no è van der Hoorn, ma Clarke lo anticipa di pochi millimetri. Clarke, che pochi mesi fa era rimasto senza squadra dopo la chiusura della Qhubeka, pensava quasi al ritiro, ma oggi «dopo vent'anni che corro in Europa, realizzo il mio sogno. Ancora non ci credo, ho i crampi e male ovunque, ma ho bisogno di vedere il replay dell'arrivo».
Succede che una balla di fieno messa a protezione, invece di proteggere distrugge: ostruisce la carreggiata e Roglič, Paperino al Tour de France, ci finisce addosso, e a finire potrebbe essere il suo Tour, vista la spalla lussata. Succede che Vingegaard ha un problema meccanico, cambia una bici, ne cambia un'altra, poi prova a salire su quella di van Hooydonck ma sembra un bambino che prova a scalare la bici di un gigante.
Succede che Pogačar, un bambino, ma un gigante, dà spettacolo. Sembra nato (anche) su queste strade, un corridore da 9/9,5 su tutti i terreni, che ha messo il ciclismo - è solo suo quel ciclismo - su un altro livello, quello dei nomi che resteranno nella leggenda. Tiene la ruota di Stuyven, uno dei corridori più solidi da queste parti, dopo aver corso ogni settore in testa, senza squadra, scegliendo la ruota giusta e la traiettoria migliore
Succede che van der Poel ha qualcosa che non va, poteva essere la sua tappa e invece arrancava mestamente «Senza gambe» racconta. Succede di tutto, poi sembra non succedere niente, ma non ditelo a chi oggi era in bicicletta: stasera dovranno fare i conti con i dolori e le ferite. O forse sì, che a loro alla fine fa anche piacere. Lo ha detto Simon Clarke a inizio stagione: «Voglio godermi un altro anno in gruppo. Correre in bici è molto più divertente che stare seduti in ufficio». Fatti di pasta strana i corridori.