Le Strade di Valter e Benoot
La Jumbo Visma fa notizia quando vince, la Jumbo Visma fa notizia quando non vince, figuriamoci alla Strade Bianche dove Attila Valter e Tiesj Benoot sono finiti nel mirino di critica e pubblico per alcune scene viste nel finale di gara e che hanno messo pepe alla discussione: esistesse ancora il “Processo alla Tappa” sarebbe stato uno dei punti principali su cui dibattere.
C’è stato un momento in cui il giovane ungherese Valter - stava benissimo, da Dio verrebbe da dire - rientrava sul primo gruppetto inseguitore di Pidcock, e fin qui non ci sarebbe nulla di male, non fosse che in quel gruppetto era presente Benoot che accoglieva il rientro del suo compagno di squadra, ben riconoscibile dalla maglia tricolore di campione nazionale, con un plateale gesto di disappunto.
La colpa di Valter sarebbe stata quella di fare da ponte tra il gruppetto Benoot e gli inseguitori che alla spicciolata faticavano su un tratto di sterrato in salita. E mica era finita qui!
La situazione pareva sfuggire di mano: a un certo punto i due sembravano aver interrotto il fresco idillio - per la prima volta si trovavano a correre assieme, nella stessa squadra e con la possibilità entrambi di cogliere il bersaglio grosso. Valter era dato da tutti alla vigilia come uno dei più accreditati outsider alla vittoria finale, Benoot, primo alla Kuurne-Bruxelles-Kuurne della domenica precedente, è uno che ha pur sempre conquistato una Strade Bianche qualche stagione fa.
Andando avanti con i chilometri, sembrava che nessuno dei due volesse sacrificarsi per l'altro nel tentativo di ricucire su Pidcock; iniziavano a scattarsi in faccia, o almeno questa l'impressione da fuori, giusta o sbagliata che sia, ma di certo pareva vederli andare poco d’amore, ancora meno d’accordo, e chi era al traguardo da subito ha notato i due discutere animatamente finita la gara.
Il giorno dopo, intervenuto in una trasmissione di Eurosport Ungheria, Valter ha spiegato il suo punto di vista. «Non ho mai tirato nel gruppetto dietro, sarebbe stata una mossa da ciclista dilettante. E si vedeva chiaramente in televisione! Gli altri non ne avevano e io sono rientrato da solo su Benoot». Spiega Valter, di non aver fatto caso al gesto di Benoot che «chiaramente ha frainteso la situazione. Non sono quel tipo di persona, noi non siamo quel tipo di squadra. È vero: si possono commettere degli errori, io posso sbagliare, ma in questo caso si sarebbe trattato di uno sgarbo da egoista, non di uno sbaglio». Niente malafede, quindi, nell'azione di Valter anzi sorpresa da parte sua per il fraintendimento di Benoot.
E sull’immagine dopo il traguardo Valter chiarisce: «Gli ho chiesto scusa per alcuni errori commessi in gara e lui mi ha detto che non c’era nessun problema che da un certo punto di vista è andata meglio così». Benoot veste i panni del filosofo come riporta Valter: «Se uno di noi due avesse vinto, mi ha detto Benoot, ora non avremmo degli sbagli da cui imparare».
Alla fine hanno terminato la gara 3° Benoot e 5° Valter, per molte squadre del World Tour il bicchiere sarebbe stato mezzo pieno, ma non per la Jumbo Visma, da qualche anno a questa parte costruita per vincere, per dominare. «E nemmeno per tutti i tifosi - aggiunge ancora il corridore ungherese che quest'anno punterà alle Ardenne e non disputerà alcun Grande Giro - come succede con Wout van Aert. Messo sempre in discussione e a volte persino preso in giro per i suoi piazzamenti, i suoi secondi posti, ma è uno dei corridori più forti del mondo e con un palmarès importante». È proprio vero che la Jumbo Visma, vittorie o sconfitte, fa sempre notizia.
Per Faulkner è ancora tutto possibile
C'è un momento, sulle pendenze arcigne di via Santa Caterina, alla "Strade Bianche", dopo oltre trenta chilometri di fuga solitaria, in cui per Kristen Faulkner è ancora tutto possibile. Lo sguardo è fisso in avanti, per immaginare Piazza del Campo, e per terra, per restare focalizzata su ogni metro, senza lasciarsi distrarre troppo da quel pensiero, non si volta quasi mai, anche se sente che, dietro di lei, la situazione è esplosa. Prima lo scatto di Demi Vollering, poi quello di Lotte Kopecky: il duo della SD-Worx va via troppo veloce, si avvicina sempre più e, se rientra sulla testa della corsa, su Faulkner, è evidente a tutti che non ci sarà molto da fare per l'americana.
L'ultimo momento in cui tutto può accadere è proprio quello in cui Kopecky e Vollering la braccano da vicino e Faulkner, pur davanti, percepisce che ne hanno di più, che possono superarla in qualunque momento e far scoppiare la bolla di un desiderio che è sospesa nell'aria da minuti e minuti. Sente le loro ruote che macinano strada e mangiano metri, secondi. Non ci si può voltare, il Campo è sempre più vicino. Le serve una forza di volontà incredibile per non girare la testa e non pensare di dare respiro alla fatica, anche quando è certa che, ormai, non ci sia più nulla da fare per la vittoria.
Succederà l'inevitabile, mentre l'acido lattico le morde i muscoli. Eppure Faulkner, terza al traguardo, continuerà con lo stesso sguardo, come se quel desiderio fosse intatto. Ed, in un certo senso, è intatto. Sì, i desideri spazzati via sono desideri da riprendere per mano per accompagnarli "alla prossima volta". Parlare di Faulkner, oggi, significa parlare di questa cosa qui: delle volte in cui abbiamo la forza di continuare a credere alla nostra pedalata, l'unica possibile, mentre gli altri ci passano in tromba e se ne vanno.
Foto: Sprint Cycling Agency
Terra e speranze
La brezza delle speranze ha iniziato a soffiare stamattina presto su Siena. Quando, per esempio, il portiere del nostro hotel ci ha chiesto se van Aert fosse a Siena per poi confessarci che, qualche anno fa, aveva avuto ospiti i suoi genitori ma non li aveva riconosciuti. La speranza che van Aert torni qui e che i suoi genitori si ricordino ancora di questo piccolo albergo, perché lui ricorda ancora tutte quelle domande che avrebbe voluto fare. C'è chi ha sperato nella pioggia fino a stamattina e ce lo dice con semplicità disarmante: «Con gli anni del tempo te ne freghi, quando arriva una gara di biciclette, però, torni a svegliarti e a guardare il cielo come facevi da bambino per la neve». Ma ci sono anche speranze più grandi, speranze talmente grandi che non stanno in un pezzo di ciclismo. Quella signora con due sacchetti pieni di cibo da mandare in Ucraina che grida a qualcuno: «Lascio questi da donare e vengo alle transenne, tienimi il posto!».
Per un ciclista o una ciclista la speranza è qualcosa di multiforme. La sera prima, ci dicono i più, si pensa agli sterrati: li hai già visti, certo e se non li hai potuti vedere hai telefonato a chi ha avuto questa possibilità per farteli spiegare ma la notte può cambiare le cose, basta così poco perché le cose non siano più come le immaginavi. La terra è refrattaria alle speranze, non ha appigli, non ha certezze. Basta il vento. Speranza significa appoggiare una mano sulle spalle, come Alaphilippe con Honorè. Proprio dopo quella caduta che ha capovolto la bicicletta e il corpo del Campione del Mondo, in quell'unico momento in cui non hai tempo di sperare. Alaphilippe che ha continuato a sperare che può significare anche aspettare, a patto di fare qualcosa. Inseguire nel suo caso, anche dando di spalle, inseguire Tadej Pogačar che «solo a vederlo andare via a cinquanta dall'arrivo, ti lascia senza speranze», ci dice un tifoso di Gianni Moscon a cui la speranza l'ha tolta la stessa bicicletta che è, in realtà, la prima possibilità di sperare per un ciclista.
Tutta la speranza delle compagne di Lotte Kopecky la vedi all'arrivo, quando, non vedendola quasi più, nell'insieme dei fotografi, allora le fanno arrivare la loro voce. La indicano a ogni nuova compagna che arriva: «Vai da lei», è questo il senso. Kopecky ha iniziato a sperare quando ha visto che van Vleuten, tanto forte, non la staccava, quando ha visto che, se anche perdeva qualche metro, rientrava. Lei da cui oggi sono corsi tutti, lei che, due anni fa, al Giro Rosa, ha vinto mentre tutti aspettavano van Vleuten, caduta malamente. Quasi la sua vittoria fosse solo un dato in più. Non siamo riusciti a contare i secondi in cui, mentre il suo staff la aiutava a coprirsi, guardava il centro della piazza, voltandosi appena sentiva il suo nome.
La speranza di Tadej Pogačar è uguale e diversa da quella di qualunque fuggitivo. Somiglia a quella del ragazzo in ginocchio su un pilone di Piazza del Campo solo per una foto dell'arrivo. «Me l'hanno chiesta e da qui si vede meglio» dice a chi gli chiede perché non si metta più comodo. Sembra facile essere Pogačar oggi, come sembrerà facile aver fatto quella foto a chi la riceverà. Devi aver sperato quasi come chi attacca a Monte Sante Marie per saperlo.
Pogačar che vince e si butta per terra con così tanta forza che a vederlo viene da chiedersi fino a che punto l'acido lattico faccia male e fino a che punto anestetizzi i muscoli. Pogačar che ha dominato quella terra, non l'ha subita, davanti a Valverde che, a quasi quarantadue anni, dopo una gara così, chiede il permesso di passare per andare alle premiazioni. Quanto ancora può sperare "Bala"?
Vedere Pogačar vincere così, per il ciclismo, vuol dire sperare, in fondo. Non solo in quello che ancora può vincere, ma in qualcosa che ti fermi lì, anche se c'è un vento freddo come in Piazza del Campo ed è quasi sera, e non ti faccia pensare ad altro. Almeno per qualche momento. Che ti tolga la nostalgia del ciclismo che è stato, perché puoi godere a pieno di quello che c'è. Perché è vero: la speranza da sola non cambia le cose, per un ciclista come per chiunque altro, ma, senza quella, nessuna bicicletta si muoverebbe mai, che le strade siano di terra o di asfalto. Le persone che arriveranno a casa a notte, oggi, sono certe di aver fatto bene a esserci. Noi anche.
Dateci la Strade Bianche
L'attesa è tanta. E allora dateci una gran bella corsa tra gli sterrati senesi; una corsa sporca e brutale, una classica, questa è diventata in pochi anni, anzi pardon, una Classica: Strade Bianche la chiamano, che poi, quando arrivi su verso Piazza del Campo e superi lo strappo di Santa Caterina, di bianco non c'è rimasto più nulla, se non la faccia di chi magari sta zigzagando per portare la pelle al traguardo – van Aert 2018 insegna. Bianco, sì, forse come un cencio lavato, si potrebbe dire.
Dateci qualche nome di corridori su cui puntare: niente van Aert, né Bernal, né van der Poel, nemmeno, all'ultimo momento, Pidcock (4°, 3°, 1° e 5° nel 2021, annata e corsa irripetibile), però qualcosa di interessante c'è, vedremo a breve. Una di quelle gare che prova a ribaltare l'assioma: la corsa la fanno i corridori. No, è la Strade Bianche a fare i corridori, li strugge, li infanga, domani più verosimilmente li dovrebbe impolverare.
Insomma, dateci questi nomi buoni: van Vleuten e Pogačar, Alaphilippe e Longo Borghini, Vos e Valverde, e scorrendo le liste di partenza si potrebbero pescare outsider di ogni genere: Benoot, Wellens, Van Avermaet e ancora Blaak, Niewiadoma, Ludwig. E mica solo loro.
Dateci una corsa che si corre in Italia e per la quale gli italiani (perdonate la serie di bisticci) hanno sempre avuto una sorta di idiosincrasia difficile da spiegare: se restiamo al maschile un solo successo che fu una saetta (Moreno Moser) ma non fece breccia; poi qualche podio sparso qua e là, poi qualche sprazzo mollato su e giù, ma senza mai davvero essere protagonisti per un successo finale. Quest'anno Covi potrebbe essere il fattore giusto all'interno dell'UAE che schiera un solo capitano, di cui non serve dire nulla, ma vicino al suo nome ci sono 5 stelle.
Se ci limitassimo a raccontare la gara femminile, invece, anche qui troveremmo un solo nome italiano in sette edizioni: Elisa Longo Borghini, chi se non lei, domani, con addosso il tricolore, sarà il faro del movimento. Chi se non lei per provare a scardinare le difese olandesi che andranno all'attacco seguendo la loro idea di ciclismo totale. E dentro al quale ogni tanto si accartocciano.
Insomma, dateci le Strade Bianche, abbiamo voglia di ingoiare polvere, di soffocarci e lacrimare, di tifare da bordo strada, di aspettare in Piazza del Campo come quelli che sono lì già da qualche giorno. Di fare foto e incitare, di spingere da casa come quelli che simulano senza accorgersene un colpo di reni guardando una volata dal divano. Di soffrire per loro, a volte anche con loro. In questo momento della stagione non potremmo chiedere di meglio: appuntamento a domani allora, sin dal mattino o quasi.
I FAVORITI DI ALVENTO
⭐⭐⭐⭐⭐ Pogačar
⭐⭐⭐⭐ Alaphilippe
⭐⭐⭐ Benoot, Wellens, Valverde, Mohorič
⭐⭐ Covi, Fuglsang, Clarke, Cosnefroy, Gogl, van der Hoorn, Narvaez, Simmons
⭐ Kwiatkowski, Higuita, Rota, Vermeersch G., Moscon, Guerreiro, Asgreen, Pello Bilbao, Valgren, Kron, Lopez
⭐⭐⭐⭐⭐ Van Vleuten
⭐⭐⭐⭐ Longo Borghini, Vos
⭐⭐⭐ van den Broek-Blaak, Vollering, Niewiadoma
⭐⭐ Ludwig, Garcia, Moolman-Pasio
⭐ Spratt, Bastianelli, Persico, Leleivytė, Paladin, Chabbey, van Anrooy
Siena declina l'attesa della Strade Bianche
Se non avessimo già saputo che questi, a Siena, sono giorni particolari, lo avremmo capito quando, scendendo da un treno giunto in stazione con diversi minuti di ritardo, un ragazzo, mentre fissavamo la sua bici con tanto di bagagli fissati alla bell'e meglio, ha detto a qualcuno lì vicino: «Manca sempre meno». Certo non ha parlato di Strade Bianche ma a cos'altro poteva riferirsi?
Il fatto è che Siena è una città in attesa e se ne accorgerebbe chiunque. C'è qualcosa di strano nell'aria: quel guardarsi in giro con aria di cercare un ciclista , un'ammiraglia o un bus. Nei bar del centro un signore ci dice che è un'attesa particolare perché si rinnova ogni anno. Non a caso la parola che usa è appuntamento: «Credo sia parte di ciò per cui gli altri ci conoscono. Una sorta di parola chiave per capire di che città stai parlando. Di Siena si possono dire tante cose, però, quando qualcuno sa che vieni da Siena di solito ti chiede: "E il Palio?". Dopo poco tempo, segue: "E la Strade Bianche?"». Ci dice che succede perché ogni anno, più o meno nella stessa data, le persone sanno cosa accadrà qui intorno.
L'attesa dicevamo. Quella per cui ci si volta attenti al passaggio di ogni bicicletta. In certi casi capisci lontano un miglio che non si tratta di ciclisti professionisti, ma meglio controllare, non si sa mai. Perché, poi, anche i ciclisti in queste vie del centro si comportano come un pedalatore qualunque. A tratti devono zigzagare tra la gente e allora senti “op-op-op-op" che è poi un modo internazionale di segnalare il proprio arrivo. Potrebbero dire qualcosa nella propria lingua, sarebbe intuitivo il significato, invece dicono così e qualcosa significherà. Succede spesso, succederà anche domani.
Ma non solo per questo i ciclisti sono come tutti gli altri. Un fruttivendolo racconta di quando tempo fa, qualcuno si fermò da lui a prendere qualche mela. Capiamo che non è appassionato di ciclismo, non ricorda il nome e nemmeno la squadra, ma ricorda benissimo di quelle mele «lasciate ai ciclisti della Strade Bianche». Come se queste persone avessero bisogno di sentirsi utili per i ciclisti che attraversano le loro città.
Aspettare ripetevamo. Come tutti coloro che si affacciano dai vari accessi di Piazza del Campo, danno un occhio e, se non scorgono nessuno, proseguono sulle strade a lato. Pensate il ciclismo cosa combina: si può anche aspettare a passare in Piazza del Campo per cercare qualcosa che ha a che vedere con la bicicletta. Anche se è presto, anche se non si può ancora vedere molto. Arrivano appassionati, lasciano la bicicletta appoggiata al muro, magari già sporca di terra e si siedono a bere una birra. Qualcuno parla in una lingua che non conosciamo ma ci suona familiare: qualche domanda e scopriamo che è fiammingo.
Ci sono sempre tutte le finestre che si affacciano e quei vetri da cui, ogni tanto, qualcuno guarda fuori e indugia, per esempio per quel signore con una bici d'epoca e un sigaro in bocca che intravediamo qualche secondo e poi scompare.
Per chi è in Piazza del Campo aspettare è aspettare un suono, un rumore, l'insieme delle voci «che quando c'è tanta gente non senti nemmeno la tua voce, puoi sgolarti come ad un concerto». Ci dicono così. L'attesa è diversa, ma neanche tanto, sugli sterrati, dove è un aereo nel cielo a far presagire l'arrivo del gruppo. Presagire sì, perché con quella terra che si alza avresti dei dubbi. Qualcuno ci dice che si aspetta "la nuvola" che altro non è se non l'insieme dei ciclisti.
L'appartenenza la senti quando ti dicono che sono andati a vedere qualche sterrato per intuirne le condizioni o quando li senti al bar parlare del tempo di sabato, quasi fossero loro a dover correre. Invece stanno solo aspettando. «Cos'è l'attesa?» chiediamo a una ragazza in tenuta da ciclista.
«Quella cosa per cui non vedi l'ora che arrivi la gara, ma, poi, ripensandoci speri serva ancora molto tempo perché, se arriva, finisce tutto». Questa è la voce del verbo aspettare in un giovedì pomeriggio, a Siena.
La natura dei fuoriclasse
Liberi scorrazzano i cavalli nei campi attorno a Colle Pinzuto. In tensione i corridori scavallano il penultimo settore in sterrato, frustrando gambe e frustando pedali. Con lingue in fuori e gote rosse, senza rispetto né riguardo per i sentimenti dei propri avversari. Senza avere nemmeno il minimo ritegno per le nostre coronarie: due ore finali di corsa come celebrazione assoluta. Da farti alzare dalla sedia, da far scomodare tutta una lista di aggettivi e di superlativi che dicono si dovrebbero lasciare da parte, ma che vengono in soccorso, mentre il cuore solo un’oretta dopo l’arrivo dei corridori inizia a rilassarsi. Spettacolare, meravigliosa, la definiamo così, in modo banale, ma senza orpelli. Una corsa bellissima figlia dell’interpretazione di una generazione di fuoriclasse.
Tutto attorno alla Strade Bianche 2021 è verde intenso, per la natura è stato un buon inverno e pare una giusta primavera. All’ombra fa freschetto il giusto, al sole si suda, a tratti c’è una leggera bava di vento che non dà fastidio, in altri momenti, invece, sembra nemica di chi va in bicicletta. Spira di lato, soffia impazzita, muove gli alberi che sembrano ossessi sbilenchi appesi un po’ per caso, un po’ per necessità.
Il verde spiritato si alterna a un giallo paglierino che sono campi, sì, ma è anche terra sabbiosa, argillosa, creta che a vederla fa quasi male agli occhi. Spuntano le prime timide fioriture; il cielo, stamane piombo fuso sulla testa di ciclisti e di senesi, ora è blu come avessero capovolto il mare. Le nuvole sono barche sparse di pescatori appiccicate a testa in giù e che in qualche modo provano a rientrare verso casa.
La polvere che nasconde i corridori è una coltre di nebbia lattiginosa che brucia i polmoni. Lo sterrato è battuto. Cani sparsi a bordo strada come spettatori; spettatori (pochissimi) che dialogano in toscano: «Eppure ai corridori gli garba» afferma uno. «Beh anche se un gli garbasse l’è la loro vita» risponde l’altro.
Brucano le bestie nei campi, bucano le gomme i corridori e arrancano, si fermano, bestemmiano, ondeggiano, in un tumulto di macchie colorate di squadre e sponsor. Inviati di stampa e televisioni in scampagnata solo apparente rincorrono auto e ciclisti, filmano, applaudono, salgono e scendono, si affrettano e annaspano. Si annullano le urla fino a una silente Piazza del Campo dove l’unico sussulto sono i rumori dell’attrito di ruote e telai, oppure della potenza di van der Poel che emana un suono che durerà nel tempo.
Fuggono i fuggitivi, si fiondano gli inseguitori, allungano i più forti, resistono i temerari. Scappano i primi con nomi pittoreschi e diverse storie da raccontare, ma magari sarà per un’altra volta. Sono Bevilacqua – e quanto ce n’è bisogno oggi – e Rivi; Walsleben, Zoccarato – grande da sembrare infinito – Petilli e Van der Sande – uno figlio di pizzaioli, l’altro di paninari – Ledanois e Tagliani.
La loro sorte è segnata, ma se ne fregano. Valli a capire e infatti li capiamo. In otto di loro hanno vinto tre corse tra i professionisti e se per Zoccarato e Rivi è anche normale – sono al primo anno – per Ledanois è un cruccio, lui che nel 2015 trafisse Consonni nel Mondiale Under 23. Walsleben, infine, serve a riequilibrare il karma: è il meno giovane davanti, non ha mai vinto in vita sua, ma corre in squadra con van der Poel.
Dura poco la loro sortita, il tempo di un sospiro, di un faticoso respiro. Di uno sterrato dietro l’altro. In gruppo si attacca: è nella natura di questa corsa. Folle, differente, affascinante e ammaliante, spettacolare, pericolosa, amata dai corridori. Casali, ulivi e campi ovunque, curve infide, salite indigeste, discese incontrollabili; dislivello e fatica da tappa di montagna, cadute e polvere, ristoranti, chiesette e scaramucce.
Sulle Sante Marie arriva il primo grido “che spettacolo! che corsa!”. Un gruppo di stelle in parata con van Aert che appare irresistibile. Vanno via Pidcock, Bernal, van Aert, van der Poel, Gogl – ribattezzato Van Gogl per l’occasione – Pogačar, Simmons, Geniets. Quest’ultimo cede, poi Simmons buca e non rientra più. Su Monteaperti tutto cambia: è sempre la natura di questa corsa, è ciò che più diabolico prepara il ciclismo. Van Aert sembrava il più forte ma si stacca (con Pidcock). Van Aert ha un cuore grande che potrebbe battere per tutti gli abitanti del pianeta e allora rientra per poi staccarsi di nuovo.
E su Le Tolfe cede pure Pogačar e ci ritroviamo con Bernal, Alaphilippe e van der Poel a giocarsi tutto verso Piazza del Campo. Il resto è storia nota, non è mai stata noia: van der Poel che vince, Alaphilippe secondo, Bernal terzo, van Aert quarto. Il modo in cui l’olandese ha vinto servirà per scomodare gli appassionati: “ma quanta potenza ha sprigionato van der Poel?” ci si chiederà.
Qualcuno dirà di avergli visto perdere un pedale nella penultima curva, altri che avranno visto schizzare scintille, volare schegge di sanpietrini. Altri ancora diranno di averlo sentito urlare al traguardo come mai prima. Le gote rosse, di nuovo, i muscoli in fuori. Una tattica perfetta. «Per vincere le gare importanti, devo iniziare a correre con la testa», raccontava alla vigilia. E lo ha fatto. Perché corridori così imparano da ogni dettaglio. È la natura dei fuoriclasse.
Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021
L'attesa della Strade Bianche
Se Elisa Longo Borghini fosse uno stato d’animo, sarebbe la leggerezza, quella di Italo Calvino, quella che consente di «planare sulle cose dall’alto, senza avere macigni sul cuore». Mancano poche ore alla partenza della “Strade Bianche” e lei è estremamente serena. «Voglio divertirmi come facevo da ragazzina, voglio godermela questa gara». Sarà per questa leggerezza, preservata nonostante i successi, le aspettative e anche gli anni che passano, che sentire Elisa raccontare gli sterrati senesi è un’esperienza da consigliare. «Ho anche vinto qui, ma il feeling che ho con queste strade non dipende da quello. Me la sono sempre immaginata come una classica del Nord staccata e accompagnata in Toscana. Quando sali sullo strappo di Santa Caterina, capisci cosa sia questa terra. Senti la storia, l’arte, la musica, è un’emozione rara».
Giorgia Bronzini, suo Direttore Sportivo, ci dice subito che deve ringraziare Elisa, poi continua: «Noi abbiamo anche corso assieme ed in queste situazioni è facile chiedere qualcosa in più e comportarsi in maniera diversa dalle altre atlete facendo leva sull’amicizia. Elisa chiede informazioni tramite mail come da protocollo di squadra, questo per dire della sua professionalità. Oggi lavoreremo per lei».
La variante principale considerata da Bronzini è quella legata al meteo. «Bastano poche gocce d’acqua e la situazione qui cambia repentinamente. Se pioverà la gara sarà più dura e molti disegni tattici potrebbero andare in fumo. Non so se per noi possa essere meglio o peggio, bisogna essere pronti ed elastici nel cambiare tattica. Sinceramente mi auguro solo che sia una gara aperta a più squadre. Una gara movimentata sin dall’inizio, per noi ed anche per il pubblico che ci guarderà da casa, non potendo stare in strada». Il punto cruciale? Elisa Longo Borghini non ha dubbi: Le Tolfe. «Probabilmente sembra assurdo detto da me, ma quel tratto di sterrato mi piace particolarmente. Lì me ne capita sempre qualcuna e spesso questo mi pregiudica la vittoria. Mi spiace, ma resta la bellezza. Sembra di essere in un’arena, la miccia si accende e la corsa esplode».
Intanto Giorgia Bronzini pensa alle possibili rivali e lo fa analizzando le prove viste sino ad ora. «Se parliamo per valori assoluti non si possono non citare van Vleuten e van der Breggen. In gara, poi, possono esserci circostanze sfavorevoli per cui non si ottengono risultati, ma restano le migliori. Non si possono sottovalutare. Se invece vogliamo vedere le ultime evidenze, credo siano da marcare strette le atlete della SD Worx. Hanno una cadenza e una continuità non scontata considerando che siamo solo a marzo».
In ogni caso la “Strade Bianche” sarà una briciola di quasi normalità in un periodo in cui la normalità manca a tutti. «Sai, è ancora tutto strano – spiega Longo Borghini – però si sente che è primavera, che le corse si disputano nel loro periodo e questo un poco rassicura, ci fa pensare che le cose possono sistemarsi». Giorgia Bronzini è stata campionessa del mondo, ma è la prima a confessare che una stagione come quella appena trascorsa l’avrebbe vista in seria difficoltà. «Credo che dobbiamo guardarci negli occhi ed essere grate per il fatto che fra poco partiamo e abbiamo la possibilità di fare il nostro lavoro. Ci sono tante persone, tanti amici, che non possono farlo e sono distrutti. E non è solo un discorso economico, c’è di più».
L’indole diversa di Bronzini e Longo Borghini emerge sul finire della chiacchierata quando si parla di sterrato e di modi per affrontarlo. L’istinto di Elisa e la tattica ragionata di Giorgia si incontrano a metà strada. Longo Borghini parla da atleta navigata: «Sono abbastanza brutale in questo: io sullo sterrato pedalo, ma non so spiegarti il modo in cui pedalare. Mi viene naturale, lo faccio senza pensare troppo e i risultati arrivano. Potrei dire che è qualcosa di faticoso ma spontaneo». Giorgia Bronzini, invece, ha la visuale di un’ex atleta e ti racconta lo sterrato come se dovessi affrontarlo in prima persona. «Devi scegliere chi comanda. Vuoi essere tu a decidere che traiettoria prendere o accetti che sia lo sterrato a farlo per te? Se vuoi decidere, devi aggredire quella terra. Sicuro, deciso, ma non rigido. Se l’aggressività si tramuta in rigidità, la bici non va più avanti. I muscoli devono essere sciolti. In fondo, lo sterrato è una questione di equilibrio». Ora, però, basta chiacchiere, le atlete stanno per essere chiamate sul palco. Si parte!
Foto: Valerio Pagni/BettiniPhoto©2020
Cosa aspettarsi dalla Strade Bianche
Chiamatelo un po’ come vi pare: ciascuno ha il suo modo. Chiamatelo calcolo scientifico, oppure tifo, malattia, passione, persino common sense. Chiamatela attesa, bramosia o speranza, quella di vedere van Aert, Alaphilippe e van der Poel (scritti in ordine casuale) giocarsi fino all’ultima stilla di sudore la Strade Bianche.
Magari con un attacco sulle Sante Marie (non prima eh, ragazzi, mi raccomando, sennò ce lo perdiamo: inizio diretta tv o streaming ore 13.45 circa), intanto, per vedere che effetto fa sulle gambe degli altri. Fin dove lasciano il segno.
Vedremo chi emerge dalla polvere – o dal fango, se il tempo volge al brutto – e poi, se proprio non ci si vuole giocare tutto salendo verso Piazza del Campo, ecco che tra Colle Pinzuto e Le Tolfe, con quei nomi allegorici che solo in Toscana, il terreno c’è per il colpo risolutivo, e il contorno a ispirare non manca.
Mancherà solo la gente che non è poco anche se ci stiamo facendo la brutta abitudine. E poi: vogliamo riappropriarci del finale più degno e che solo una disattenzione generale – di corridori, di moto e di pianeti male allineati – ci ha tolto al Fiandre 2020? La risposta è una sola ed è ovvia.
Nel 2019 a Siena vinse Alaphilippe, lo scorso anno toccò a van Aert, mentre van der Poel ottenne un quindicesimo posto al termine di una giornata tutt’altro che da van der Poel.
In Belgio, pochi giorni fa, ha sgasato, si è testato, un paio delle follie delle sue, attacchi da lontano, poi piccole scaramucce con gli avversari, scelte strategiche forse non brillantissime nel finale della Kuurne-Brussels-Kuurne e persino un manubrio rotto a Le Samyn, ma, senza ombra di dubbio, pioggia o sole, caldo o freddo, strada bianca ben battuta – come si è visto dalle ricognizioni di questi giorni – oppure più carrareccia, beh domani è il favorito (assoluto) con qualche punto di margine sul francese e soprattutto sul belga che ancora in strada non si è visto in questo scorcio di stagione, ma dicono che in allenamento abbia fatto paura.
Poi certo, la gara non si ferma a loro tre: il cast è stellare e con Pogačar e Pidcock rischia di essere corale. Loro i favoriti a cinque, quattro e tre stelle e poi ci sono gli altri: Van Avermaet, Štybar, Wellens, Kwiatkowski, Fuglsang, Bardet, Madouas, ecc.
Si discute sulla carta, ma le contese non ammettono regole né copioni già scritti e quella carta qualcuno potrebbe anche prenderla e stracciarla, tanto più in una corsa così. Vedremo.
E gli italiani? Generazione di corridori che hanno maturato una sorta di intolleranza a ghiaia, balze e biancane senesi. Unico vincitore Moreno Moser, figliol prodigo di un’intera discendenza e che poi ha preferito fare altro. Pochi pure i podi, anche quando la corsa era appena nata (era il 2007, vinse Kolobnev) e i nomi alla partenza non erano quelli dei migliori come accade oggi, o meglio domani. Lo scorso anno gran bella gara di Formolo e Bettiol, ma non bastò: d’altronde come si poteva battere van Aert? E andare forte a loro potrebbe non bastare nemmeno domani. Gli altri: Ballerini potrà tenere i migliori sugli strappi? Difficile. Brambilla può essere un nome spendibile per un piazzamento a ridosso del podio; da Rosa, Conca e De Marchi ci si aspetta più un attacco da lontano, come i due fratelli Bais che vederli in fuga assieme sarebbe come una saga familiare. Assenti per diversi motivi possibili protagonisti: Nibali, Ulissi, Moscon, Bagioli e Trentin – così come Sagan e Schachmann. Complesso immaginarsi il tricolore sventolare in alto, salvo un miracolo che di questi tempi è meglio riservare per altro.
IL PERCORSO
Pittoresco, piuttosto e anzichenò, come esclamava il Lord H.G. Wells di Dylan Dog. Da Siena a Siena, 184 chilometri di corsa, circa. 63 di sterrato suddivisi poco democraticamente in 11 settori e finale sullo strappo che porta in Piazza del Campo. Primo punto chiave Sante Marie (o Settore Fabian Cancellara) e il lungo tratto in su e giù una volta scollinati con ancora diverso sterrato e qualche curva difficile.
Per dare alla corsa un credito ulteriormente leggendario di quello che si è costruito in sole 14 edizioni ci vorrebbero quei 50 chilometri in più, inutile nasconderlo. A dividere ulteriormente quelli forti da quelli ancora più bravi. Corsa che, tuttavia, premia corridori completi, che siano grangiristi o classicomani, pietraioli o ardennisti: non fa differenza, qui negli anni sempre – più o meno – vincitori ben attrezzati.
I FAVORITI DI ALVENTO
⭐⭐⭐⭐⭐ Alaphilippe, van der Poel
⭐⭐⭐⭐ Van Aert
⭐⭐⭐ Pogačar, Pidcock
⭐⭐ Fuglsang, Van Avermaet, Bardet, Wellens, Kwiatkowski, Brambilla, Madouas, Mollema
⭐ Formolo, Ballerini, Venturini, Vendrame, Stybar, Bettiol, S.Yates, , Almeida, Küng, Mohorič, Asgreen. Clarke, Bernal
Foto: Paolo Penni Martelli
Percezioni
Quante modalità ci sono affinché l’essere umano possa percepire il circostante? I sensi, certamente: vista, udito, olfatto, tatto e gusto. Sono qualcosa di particolare i sensi, a metà tra intelletto, anima e una certa meccanicità. Il senso, infatti, seppur teoricamente connotato da un qualcosa che sfugge al nostro intelletto, in realtà, almeno per come vive la società moderna, è molto legato all’intellettualità. Tendiamo a controllare i sensi, a filtrarli, provando a capire dove vanno a parare, forse anche per evitare di smarrircisi. Forse, e ripetiamo forse, come uomini saremmo anche più “simili” ai sensi e alle sensazioni, per quanto l’intelligenza umana sia in grado di fare cose spettacolari. Li freniamo, li controlliamo, per sentirci sicuri. Come se non sapessimo che il cervello mente e spesso ricostruisce una parziale verità. Talvolta anche solo per paura. Sì, perché anche la paura è molto mente.
Capita, poi, di trovare qualcuno che assomigli così tanto alle sensazioni, che le viva così intensamente, che non le rifugga, qualcuno che sia sensazione. Francesca Baroni è così. Le chiediamo se le vibrazioni degli sterri senesi non la spaventino: «Le vibrazioni della bicicletta per me ormai sono una cosa normale. Ho un problema di udito e per comprendere le parole delle persone osservo il labiale. La mia bicicletta la conosco perfettamente, non sento i suoi rumori con le orecchie, li sento attraverso le vibrazioni. Una vibrazione strana per me significa che la bicicletta ha qualcosa che non va. I meccanici guardano, controllano e trovano il problema. Le vibrazioni sono una sorta di udito. Un mio modo per sentire. Non mi creano problemi. Il resto sta tutto nel pedalare forte». Lei, solitamente, fa cross con il team Guerciotti e alla sua prima Strade Bianche osserva: «Lo sterrato percorso con la bici da strada è tutta un'altra cosa rispetto allo stesso in bici da cross: le gomme sono lisce e più strette rispetto ai tubolari che solitamente si usano nel cross e anche le pressioni da tenere sono diverse. Il secondo e il terzo settore mi piacciono molto. Il rischio di forature è sicuramente maggiore. La paura di non essere all’altezza quando affronti qualcosa di nuovo c’è sempre. Però c’è anche la speranza di esserlo».
Francesca ha un qualcosa di Siena: lentiggini e capelli che sfumano su un rosso che tanto richiama la Toscana. Fra simili ci si capisce: « Mi ha fatto emozionare. La Strade Bianche, è sempre stato un mio sogno e finalmente lo ho realizzato, grazie al team Servetto Piumate Beltrami. Mi sono messa alla prova. Credo dovremmo farlo sempre». Del resto, glielo hanno detto anche i suoi genitori, quando la hanno accompagnata in stazione a Viareggio: «Fieri di te sempre. Ricorda: la gara finisce allo striscione di arrivo, non si molla mai». Valigie in mano e si sale a bordo. Via.
Quando ci dice che i suoi eroi sono i suoi genitori, ci scuotiamo un attimo nonostante a Siena ci siano quasi quaranta gradi. Un brivido, un’emozione. Un momento in cui l’intelletto non può intromettersi e le viscere tornano al primordiale. Finalmente. Perché, alla fine, tutti noi abbiamo avuto nei nostri genitori degli eroi. Anche se non lo diciamo. Anche se da grandi, magari, ci vergogniamo di ammetterlo. Non dovremmo. Ce lo ha detto anche la corsa, la corsa di oggi. Punto e basta.
Foto: Francesca Baroni
L’è seria la faccenda
«Scegliere il tratto di sterrato in cui vedere il passaggio, l’è come scegliere dove mangiare la Ribollita. Non si fa a caso». Così ci spiega un signore sulla settantina, a pochi passi da Via dei Montanini, a Siena. Nicola Dini, massaggiatore alla Bardiani Cfs, racconta: «Se pensi alla Toscana pensi a strade affiancate da tante conifere, a una macchina che passa e alla nuvola di terra che si alza. Pensi a queste strade contadine. Sono bianche, contornate di rossastro. A un Bolgheri: un nostro vino, muscoloso, forte. Spartano, direi. Pensi al sapore robusto di un cinghiale in umido. Non a un’orata con un filo di limone. Rendo l’idea?». Sì, perché la creta senese è diversa da qualunque altro sterrato marchigiano o friulano: «Il nostro è uno sterrato fermo, mi spiego? Compatto. Per assurdo è anche più facile da affrontare». Dini è toscano, anzi è proprio senese. Vincenzo Albanese, invece, è di Oliveto Citra ma, vivendo in Toscana da anni, non ha dubbi: «La Strade Bianche è la gara più importante che abbiamo qui da noi. C’è una sorta di fierezza nell’essere toscani, no? Questa gara rappresenta la toscanità, come la rappresenta un Montepulciano, un Chianti, un Brunello di Montalcino o un Sassicaia. Il Palio di Siena. L’è tutto qui, direbbero da queste parti». Quindi oggi cosa farai? «È dura. Ma tutti vorrebbero vedermi lì davanti. Il bello è che è difficile anche provarci. Mettiamola così: provo a provarci».
Nicola Dini ha massaggiato i corridori ieri pomeriggio, giusto un’ora: «Il massaggio del giorno prima è un massaggio normale. Oggi al termine della corsa sarà diverso, massaggeremo zone che raramente tocchiamo: il collo, i muscoli scaleni, l’avambraccio, persino le dita. Quelle sollecitazioni sono tremende. Io ho provato a fare qualche tratto con i ragazzi: credimi, non riuscivo a curvare. Loro vanno, tu li guardi». Dini si fida delle sue mani e dei muscoli dei ragazzi. La sua è una consapevolezza artigianale, come quella dei panettieri quando fanno il pane. Fare è un verbo artigiano, un verbo sincero.
«Mazzucco era tesissimo, secondo me non ha dormito stanotte. Forse così è troppo ma l’adrenalina serve. Quando li vedo troppo rilassati, quasi con aria di sufficienza, mi arrabbio: avete una occasione, sapete quante persone vi guardano? Lo sapete? Sentitele. Sentite quello che andate a fare». Albanese conosce bene le strade di cui parliamo: «Mi ci alleno sempre. Ho tanti ricordi. Conosco gli angoli e le insidie più nascoste di quella ghiaia. Eppure secondo me ci farà più male il caldo: voi non avete idea della canicola in mezzo a quella polveriera. Sessantacinque chilometri di terra. Sessantacinque».
L’albergo della Bardiani Cfs è a circa quaranta chilometri dalla Fortezza Medicea. Una bolla per evitare il contagio. Poi un’altra bolla: la camera dei massaggi. «Quando entriamo da quella porta- ci dice Albanese- entriamo in un altro mondo. A parte. Bisogna eliminare le tossine che si accumulano in corsa. Se non venissi massaggiato dopo la corsa di oggi non potrei nemmeno pensare di correre lunedì». Dini guarda ogni corridore al suo ingresso e aspetta che sia il ragazzo a decidere come gestire quel tempo: «Qualcuno vuole parlare, altri scherzare. Qualcuno parla della gara e dei dettagli tecnici, altri di faccende personali, qualcuno vuole dormire. Un vincitore avrà i muscoli più tesi e sarà più difficile da massaggiare, diverso per un ragazzo che è stato tranquillo in gruppo. Fare un buon lavoro vuol dire rispettare ciò che desiderano. Passo tanto tempo con loro nei ritiri, la sera, la mattina presto, il pomeriggio sul lettino dei massaggi. Quel tempo è il mio più grande maestro. Quel tempo mi permette di conoscere l’uomo. Il corridore viene sempre dopo l’uomo».
Verrebbe da dire che quel signore di Via dei Montanini aveva ragione: non si fa a caso. Già, perché poi non vi abbiamo detto che la conversazione non è finita con quella affermazione. È finita con una domanda proprio mentre noi sorridevamo per il paragone ardito: »Non l’è da ridere. L’è seria la faccenda. Se sbagli dopo averci riflettuto, capirai anche il motivo dell’errore. Se sbagli perché hai provato a caso darai la colpa agli altri. Lo capite?». Sì e capiamo anche la prudenza di Albanese che oggi proverà a provarci. Ed è giusto così.
Foto: Claudio Bergamaschi