La storia di Gaudu e Madouas

Il Tour de France di David Gaudu e Valentin Madouas è un insieme di immagini, ricordi, lunghe istantanee, infiniti momenti passati assieme. «È come lo Yin e lo Yang - ha raccontato Gaudu ai giornalisti dopo il traguardo di Parigi, riferendosi proprio alla corsa francese - può farti paura e trasformarsi in qualcosa di catastrofico, ma ti sa anche dare una felicità incredibile».
C'i sono attimi in cui si arriva stravolti come sul traguardo di Peyragudes. Gaudu è accasciato a terra con un asciugamano sul collo, quasi sfigurato dopo essersi lanciato a tutta per rosicchiare qualche secondo a Quintana, rivale per un posto nei primi cinque in classifica, in un interminabile sprint in salita. Qualche minuto dopo di lui arriva Madouas, compagno di squadra e amico; Gaudu gli prende la mano, se la porta sulla fronte e poi vicino alla bocca e gli dà un bacio.
È il suo modo per complimentarsi e rendere merito per quello che ha fatto Madouas (anche) quel giorno. Madouas è davanti in fuga, e, una volta staccato, diventa fondamentale nel supportare il suo compagno di casacca. «Devo ringraziare la squadra per come mi è stata vicina, ma in particolare devo ringraziare Valentin. Ogni volta mi salva il culo».
Madouas è così, un piccolo guerriero lo definisce Marc Madiot, colui che guida la Groupama-FDJ. Come chiamereste un corridore che, da neopro e più giovane al via, arriva 20° alla Strade Bianche? Era il 2018 e quell'edizione la ricordiamo per la pioggia e il fango e persino per la neve caduta il giorno prima: va in fuga (uno dei suoi motti è «Attaccare sempre!» mentre uno dei suoi riferimenti in gruppo è Nibali: «impressionante, fantasioso, formidabile per come si adatta a ogni situazione in corsa»), va in fuga tutto il giorno e rimane, fino alla fine, in scia ai migliori.
Ma la storia che raccontiamo è quella di entrambi, di Gaudu e Madouas e che parte da quando i due sono bambini, in Bretagna, e sono speciali per quanto vanno forte in bicicletta. "Le Telegramme" li definisce " le due pepite d'oro del ciclismo bretone".
Rivali («gli altri lottavano per il 3° posto, io arrivavo quasi sempre 2° e Valentin, quasi sempre, vinceva» ricorda Gaudu), se si può parlare di rivalità a quell'età, amici e poi inseparabili al Tour 2022. «Negli ultimi mesi ho passato più tempo con lui che con qualsiasi dei miei familiari» sempre Gaudu.
Se l'intreccio di Valentin, figlio di Laurent, 12° al Tour del 1995, con la corsa francese, parte da quando, ancora in fasce, insieme a sua mamma andava a trovare il papà corridore al villaggio di partenza, quello di Gaudu inizia nel 2008 quando i due, appena dodicenni, si sfidarono sulla Grand'Rue di Brest in un torneo di bici che in premio dava una divisa Cofidis e un biglietto per assistere all'ultima tappa del Tour de France a Parigi. Vinse (rarità) il più piccolo fisicamente («Gaudu era piccolo e fragile, mio figlio era già pronto, quadrato e potente» racconta papà Laurent), e quella differenza oggi è rimasta. Insomma, Gaudu vinse allo sprint, nella finale a due, e 14 anni dopo Valentin e David si ritrovano a sfilare per i Campi Elisi, stavolta dall'altra parte della barricata, a festeggiare il 4° posto in classifica dell'occhialuto scalatore e l' 11° del fedele compagno di squadra, premiato a fine corsa anche per essere stato "il miglior gregario della terza settimana".
«Una 4X4» definisce così Madiot Valentin Madoaus. «Per le mani - sostiene l'anziano team manager francese, vincitore di due Roubaix nel 1985 e nel 1991 - non ho mai avuto un corridore così completo». Quest'anno è finito sul podio del Giro delle Fiandre, quel giorno si faceva la corsa per Küng, ma nel finale Madouas stava meglio e piombò insieme a van Baarle sul duo di testa - van der Poel e Pogačar - cogliendo un incredibile podio. «Da lì si è come sbloccato dopo una stagione difficile», parola di David Han uno dei suoi allenatori. «Ma nessuno si sarebbe aspettato questo rendimento un salita. Ha dimostrato nella terza settimana di essere uno dei dieci migliori scalatori del Tour». Anche David, parlando del suo amico e compagno di squadra: «Me lo aspettavo davanti nelle tappe miste, ma quello che ha fatto in montagna è stato incredibile».
Il rapporto tra David e Valentin è fatto di ricordi, non solo strettamente legati al rendimento e ai risultati, non solo la mano portata sulla fronte e poi baciata, ma anche qualcosa successo quando avevano solo 9 anni: «Valentin attaccò e mi staccò. Lui primo, io secondo, ma ciò che mi rimane impresso ancora oggi fu il momento in cui tirammo fuori dalle tasche una merenda e ci fermammo a mangiarla davanti a un recinto pieno di animali. Poi siamo tornati a casa».
La storia di di Gaudu e Madouas è un insieme di immagini, ricordi, di lunghe istantanee, di infiniti momenti passati assieme. E altri ancora ce ne saranno da raccontare.


Che colpa abbiamo noi

Ma che colpa abbiamo noi se non siamo riusciti a capirci niente di questo Tour. 'Ché tutto girava così veloce e la media record di sempre ne è testimone. 'Ché si partiva a razzo: boom, via a cinquanta all'ora. Così, giusto per prendere la fuga e alla fine le energie per scattare ce le avevano solo un paio di corridori, un paio di corridori e mezzo, per stare larghi. E in salita la storia era fatta di resistenza e logorii da pendenza asfissiante.
Abbiamo pensato a Pogačar vincitore, facile facile, alto in sella, se fosse uno scrittore sarebbe uno di quelli in punta di penna, talmente gli viene naturale districarsi, come un serpente nella roccia, nel mestiere di ciclista.
Che colpa abbiamo noi se Vingegaard ha superato ansie e paure («quando era ragazzo vomitava prima di ogni gara» racconta sua madre e quando vinse tappa e maglia al Polonia, primo successo tra i professionisti, «mi chiamò per dire che non aveva chiuso occhio tutta la notte» parole di uno dei suoi allenatori) e ha superato pure Pogačar, che alla vigilia metteva ansia e paura, e, anzi, lo ha dominato in maniera (quasi) totale.
Sorprendente Vingegaard, che al Giro della Valle d'Aosta di qualche anno fa, quando conquistò il prologo tutto in salita, disse: «Non sono adatto alle salite lunghe». Forse soltanto la Jumbo Visma sapeva che in qualche modo sarebbe andato così forte e lo ha messo nella condizione di non bluffare. E a proposito di bluff mancati, risuonano come principio assoluto le parole di Pogačar nei primi giorni: «Vingegaard è il miglior scalatore di questo Tour».
Che colpa abbiamo noi se loro, intesi i Jumbo Visma, hanno dominato; se hanno sacrificato Roglič che ha corso dieci giorni con le vertebre fratturate e si rendeva utile - se non decisivo - alla causa, nel giorno del Granon che resterà, quando descriveremo il Tour 2022, come quello de "la crisi di Tadej Pogačar".
Pogačar si è fatto ingolosire dal connazionale rivale senza sapere che ad attenderli i loro tifosi erano gemellati al traguardo, mescolati in mezzo a migliaia di camper. Poteva stare più cauto. Si è sentito forte, ha perso. Ci ha provato dal primo giorno, non ha lesinato, benedetto talento della natura. Si è mostrato umano nella retorica della sconfitta sportiva. L'anno prossimo non si farà trovare impreparato - il resto, però, dovrà farlo la sua squadra.
Che colpa abbiamo noi se Geraint Thomas, in arte G, ha guidato splendidamente fino a Parigi, ha superato lo scetticismo - quelli del sottoscritto che stravede per lui, ma non da vederlo sul podio. Ha superato avversari più giovani di un paio di lustri, ha trasformato un banale errore nella cronometro - ha corso con lo smanicato usato nel riscaldamento - nell'occasione di dare spettacolo fuori dalla corsa creando l'hashtag #wheresGsgilet con tanto di giochino da fare a ogni tappa (un tifoso diverso al giorno avrebbe portato alla frazione successiva lo smanicato, tenendolo al sicuro fino a Parigi). Pare che grazie all'idea di Lizzie Banks la giacchetta Ineos continuerà a viaggiare anche durante il Tour femminile.
Ha superato le gerarchie e al solito non si è morso la lingua nelle interviste: «La Ineos voleva fare di me un Sepp Kuss». A 36 anni ha fatto un piccolo capolavoro simile a quello di Richie Porte un paio di anni fa.
Che colpa abbiamo noi se abbiamo sottostimato la capacità di Wout van Aert di fare ciò che vuole con il ciclismo. " il corridore più forte del mondo" come lo definisce Simone Basso; supercombattivo del Tour, maglia verde che gli sta persino stretta e avesse vinto lui a Hautacam, avrebbe potuto conquistare pure quella a pois. Ha fatto la sua corsa, quella di Vingegaard, quella di tutti gli altri del gruppo. Quando ha deciso avrebbe vinto Laporte così è andata.
Che colpa abbiamo noi se ci piace Gaudu con quella faccia da Harry Potter francese e il suo lento recuperare passo dopo passo e arrivare al 4° posto, oppure Simmons che a 21 anni e più giovane al via, nel computo delle fughe viene oscurato solo da van Aert. Che colpa abbiamo noi se di volate ce ne sono state poche, meglio così, ma buone, come l'ultima a Parigi.
Che colpa abbiamo noi se l'Italia – al maschile – fa fatica, troppa, e ci rimangono solo i segnali mandati da Dainese, Bettiol e Mozzato, promossi con lo sguardo per tutti e tre verso un finale di stagione in maglia azzurra.
Che colpa abbiamo noi se un altro Tour è andato e l'unica cosa che possiamo chiederci resta: quanto manca alla prossima Grand Départ?


Non è un racconto di fantascienza

Spesso, guardando le bici da cronometro, immaginiamo un mondo proiettato verso il futuro. Certo, se dovessimo pensare alla nostra epoca in quanto a progresso ci verrebbe da ridere, ma soprassediamo.
Proviamo allora a tuffarci dentro a un racconto di fantascienza, a immaginarci un pomeriggio a Copenaghen come se Copenaghen fosse, appunto, il mondo; come fosse la società a cui vorremo appartenere e che sogniamo, leggiamo, raccontiamo, proiettiamo: biciclette su biciclette, bicicletta da crono con quella loro forma aerodinamica tirata al massimo, e poi ciclabili, viabilità, bandiere, tifo. Ecco: immaginiamoci il Tour de France in Danimarca.
Nel tardo pomeriggio di oggi, tutto quello che stava intorno era stato cancellato, un po' dalla pioggia che all'improvviso anticipava chi da giorni studiava il tempo e faceva carte, stilava programmi; diventava parte della scenografia mutando forme, mescolando valori, aumentando le difficoltà, dilatando margini. Un mondo quasi perfetto, guidato da corridori che apparivano come imperturbabili esemplari scenici, nelle loro tutine colorate, che pennellavano le curve e si dilettavano nell'andare uno più forte dell'altro.
In questo mondo ideale, ma che in realtà vive di sottili anomalie, il più veloce in bicicletta vince e oggi, nella sfida contro il tempo che serviva a dare in pasto ai contendenti la prima maglia gialla, toccava prendere la scena non solo al più veloce, ma anche al più astuto, al più fortunato, a quello meglio equipaggiato, al più motivato, sì insomma a quella sorta di emblema che potremmo chiamare: l'uomo bici.
E in questo racconto di fantascienza ci si infilava Mathieu van der Poel che ammorbidiva le curve come stesse dipingendo la carena di uno shuttle diretto nello spazio, con tutta quella sequela di facce che oggi prendevano una posa seria, fermo sul trono del primo in classifica a guardare l'arrivo in successione dei suoi avversari.
Il climax prevedeva il suo momento intorno alle 5.30 del pomeriggio. Qualcosa in meno, non importa. Arrivava.
Arrivava Ganna, col suo bolide, che scalzava van der Poel dal trono, ma il tutto durava lo spazio di pochi secondi. Piombava van Aert ed ecco, abbiamo detto tutti: è fatta! Arrivava Pogacar, che distribuiva lo sforzo, senza prendere eccessivi rischi all'apparenza perché lui è così: una guida naturale che alza il suo livello con la pioggia e la strada bagnata. Arrivava dietro di pochissimo. Van Aert andava in maglia gialla.
"No, ma... cosa succede?"
Smetteva di piovere, perché negli ingredienti di un buon libro di fantascienza c'è anche il thriller. E la sfida spaziale tra quei quattro lì veniva bruscamente interrotta da Lampaert, come da un altro pianeta, con quei lineamenti leggermente a mandorla e le orecchie a punta. Dicevano in questi giorni come la Quick Step avesse schierato la peggiore squadra della loro storia al Tour e invece loro si presentano così. Con una gara perfetta, con il loro uomo bici del giorno, che piangendo a fine gara non credeva a ciò che aveva appena combinato.
All'improvviso, finito tutto, quello che stava intorno a Copenaghen riappariva. Case, palazzi, monumenti, bandiere. Lampaert in maglia gialla e chi lo avrebbe mai detto.
Ma il ciclismo è fatto così, non è perfetto come il mondo ideale che ci eravamo immaginati, non è un racconto di fantascienza. Anche se con quelle bici lì a volte ti vengono dei dubbi.


Le bici da crono appartengono al ciclismo?

Su una bici da crono, Chris Froome ha consolidato gran parte dei suoi successi al Tour, ma non solo: ha conquistato tre medaglie di bronzo, due ai Giochi Olimpici e una al Mondiale.
Su una bici da crono Chris Froome, probabilmente, salvo smentite in questo 2022, ha messo fine a una carriera ad altissimi livelli, forse anche a medio-alti.

Chi se lo dimentica: era il 12 giugno del 2019 e Froome era in ricognizione della tappa a cronometro al Critérium du Dauphiné, che si sarebbe disputata nel pomeriggio. «Mi stavo soffiando il naso - raccontò qualche tempo dopo - quando all’improvviso una folata di vento ha travolto in pieno la ruota anteriore, mi ha fatto sbandare e sono finito contro un muretto». Storia nota il seguito, i brandelli in cui si era ridotto, il bollettino medico.

Di bici da crono e dell'uso che se ne fa, parla Froome nel suo canale YouTube dove ogni tanto fa capolino raccontando senza troppi peli sulla lingua alcune dinamiche legate al suo mestiere - seguitelo (https://www.youtube.com/channel/UC-Kpp0NLi-Y3d7rKWscjZ3A) perché ha sempre cose interessanti da raccontare, mostrandosi mai banale e perfettamente in linea con il personaggio che è.

Le bici da crono appartengono davvero al ciclismo su strada, si chiede Froome? «Non fraintendetemi: amo le crono - racconta nel video, dopo aver mostrato cosa gli piace fare per rilassarsi nel tempo libero.

In garage, in mezzo a, indovinate un po'? Un sacco di bici. Appese al muro la collezione di quelle a cui è più legato, le Pinarello con le quali ha vinto i Grandi Giri (e difatti se ne vedono con livrea rosa, gialla e rossa); in garage mentre fa un po' di manutenzione dopo un allenamento: «Quando ero ragazzo lavoravo in un negozio di biciclette e questo è quello che mi piace fare, questo è il mio piccolo spazio» racconta fiero. Così come si dice interessato all'evoluzione tecnica delle bici.

È appena rientrato da un giro, Froome, un allenamento su bici da crono. «Stavo riflettendo, stamattina, proprio sulle bici da crono. Premessa: amo le prove contro il tempo, sono arte, abilità, sono qualcosa che devi conoscere bene per essere un ciclista professionista. Una delle cose magiche dei Grandi Giri è proprio l'equilibrio tra scalatori e corridori che vanno forte a cronometro. Questo è uno degli elementi più interessanti delle corse a tappe. Solo che le bici da cronometro non sono pensate per essere utilizzate su strada. Se nel Tour è inclusa una cronometro, spesso si tratta di uno sforzo di un'ora. Sta diventando sempre meno comune, è vero, ma per essere pronto per un esercizio così, dovrai uscire con la tua bici da cronometro per simularla. Su quante strade è possibile guidare per un'ora senza traffico, segnali di stop, semafori, persone che ti attraversano la strada? Nel mondo reale da nessuna parte. E poi - prosegue il 4 volte vincitore del Tour, che arriva a questa riflessione probabilmente anche dopo quello che è successo a Bernal - quando sei su una bici del genere sei chino sulle appendici e non hai le mani sui freni: non è una cosa sicura! Un conto è farlo in gara, un altro è su strade normali aperte a tutti».

E quindi Froome pone la questione: «Sono davvero necessarie le bici da crono nel ciclismo su strada? Eliminarle significherebbe, oltre a ridurre i pericoli, anche garantire condizioni di parità fra i contendenti. A fare la differenza potrebbe essere più l'abilità del corridore che il materiale, l'aerodinamica o le ore trascorse nella galleria del vento. Dobbiamo fare qualcosa: l'ironia della faccenda è l'UCI che sta escogitando diversi stratagemmi per ridurre i pericoli in corsa, come la posizione sulla bici in discesa, e questo sarebbe un passaggio facile da introdurre; qualcosa che avrebbe un impatto maggiore sulla sicurezza dei ciclisti. Siamo arrivati a un punto in cui bisogna pensare in modo più logico al nostro sport. Bisogna renderlo più sicuro. Certo, per me potrebbe essere uno svantaggio, ma bisogna pensare a un quadro più ampio e alla sicurezza dei corridori».

Qualcuno obietterà come Froome proprio grazie alle bici da crono ha arricchito il suo palmarès, d'altra parte lo specifica anche lui, ma si tratterebbe di guardare il dito e non la luna. E poi, chi meglio di uno che è sempre andato forte a cronometro potrebbe spiegarci il rischio nell'uso di questo mezzo sulle strade i tutti i giorni? Meriti sportivi o esperienza di Froome a parte, l'UCI ha il compito di ascoltare la voce dei diretti interessati, ponendo all'ordine del giorno la questione. Che poi l'opinione la diffonda un corridore così blasonato, non può che giovare a un'idea di cambiamento.

Foto: ASO/Gautier Demouveaux


Tour, infortuni e sofferenza: lo stallo alla messicana di Chris Froome

Soffrire, soffrire, soffrire. Scritto tre volte ma forse non basta. Quanta banalità all'apparenza - sembra sempre la solita solfa – dietro questa parola ripetuta come una nenia, ma è da qui, all'occorrenza, che parte ogni corridore.

D'altra parte cos'è il ciclismo se non atletismo, fantasia e sofferenza? Se vi siete mai allenati in bicicletta sapete di cosa parliamo, se avete mai provato a mettere vicino qualche chilometro magari condendolo con qualche salita, magari avete beccato la pioggia, magari vi siete districati su un tratto di lastricato, non potete che immedesimarvi in questo stereotipo.
Il soffrire per un corridore professionista con un passato importante è spesso finalizzato al tornare (o a provare) a essere quello che è stato, riassaporare la vittoria o arrivarci vicino. Soffrire per superare quella soglia, arrivare in cima e dire: ce l'ho fatta. Maledire – a tratti - quei momenti in cui si sale in bici, o si sceglie quel mestiere; ripensare al passato, gettare le basi nel presente per ricostruire il futuro, anche quando ti analizzi e pensi: ho quasi trentasette primavere, dove posso andare in un ciclismo dove si vincono i grandi giri appena superati i vent'anni?
Chris Froome riparte proprio da questi pensieri, si riempie d'orgoglio raccontando la propria sofferenza. Parole sue, testuali. La sofferenza l'ha messa al centro del discorso in una lunga intervista rilasciata a Cyclingnews nei giorni scorsi.

«La sofferenza - racconta Froome che tra 2011 e 2018 ha vinto 4 Tour, 2 Vuelta, 1 Giro - ha dato una nuova prospettiva alla mia carriera e alla mia vita». Dice che soffrire gli ha fatto capire quanto debba essere grato per i privilegi che ha vissuto e vive; che vuole sfruttare questa seconda occasione che ha avuto come ciclista professionista. «So che molti non lo capiscono – aggiunge - e questo mi dà ancora più forza per tornare al mio vecchio livello»
E riparte da una sorta di stallo alla messicana, cliché cinematografico che dagli anni '90 è stato riproposto in maniera assidua da Quentin Tarantino: Froome, infortuni, sofferenza e Tour de France come quattro temerari dal linguaggio un po' sboccato e magari dalla battuta piccante e fuori luogo e che si puntano la pistola addosso, l'uno verso l'altro, e sembra non ci sia modo di uscirne.

Ma ci crede Froome. Ha intenzione di uscirne. Che ce la faccia o no, ha intenzione di fuggire come Mr Pink o Mr Blonde, col bottino in mano o come voleva una certa parte di narrativa messicana: con i soldi o con la vita. «Non c'è alcuna garanzia di poter vincere un altro Tour, dopo quello che è successo e quello che ho passato. Lo so, ma rimane il mio obiettivo. Questo è ciò che mi spinge a dare il 100%» riflette il corridore della Israel.

Da giugno 2019 a giugno 2021, dall'infortunio al Delfinato alla preparazione verso il ritorno al Tour, racconta di aver sentito finalmente la gamba ferita mettersi alla pari con tutto il resto del corpo. «L'incidente nella prima tappa di quest'anno però ha nuovamente ribaltato i miei piani. Non fossimo stati al Tour mi sarei ritirato. Ero ferito dall'anca fino al gluteo, sentivo tanto dolore fino alle costole». E invece ha stretto i denti, fino all'ultimo giorno: «Arrivare a Parigi è stata una vittoria personale fondamentale».

E quei giorni di gara a fine stagione sono diventati 68, mica pochi. Da questi numeri riparte come base per essere al meglio in vista del futuro.
Froome insiste e insisterà per provare a vincere di nuovo il Tour (sic): «Nel 2022, l'anno dopo, o l'anno dopo non importa. Ciò che conta è che continuerò a lavorare fino a quando non mi renderò conto che non sarà più possibile. Questo è ciò che mi fa salire sulla mia bici ogni giorno».

Questo è ciò che intende Froome per uscire dallo stallo in cui si trova. Questo è ciò che lo spinge ogni giorno a superare i limiti imposti dalla sofferenza. Ce la farà?

Foto: A.S.O./Bruno Bade


Qualcosa di speciale

Parigi? Van Aert. Vincere qui è come una classica, anzi una classicissima. Vederlo davanti così: uno spettacolo, qualcosa di speciale. Dopo aver vinto la tappa del Ventoux e la crono in mezzo alle vigne, la volata: pare si debba risalire a nomi tipo Merckx o Hinault per trovare qualcosa di simile. Roba da ubriacarsi.

Peccato non ci fosse la bolgia, nemmeno una bolgetta. A tratti pareva “28 giorni dopo” ambientato a Parigi a parte una timida avvisaglia di curva da stadio. Il gruppo? Quello c'era: una macchia colorata che brucia gli occhi, apparsi festosi, stanchi, vogliosi come dopo una sbornia.

È l'ultimo giorno di scuola e c'è sempre qualcosa di speciale da ricordare. È stato un anno - un Tour - faticoso. Da correre, da sopportare, da raccontare. Intorno si è cercato di incutere sospetti e infilarli ovunque, in corsa si è cercato in ogni modo di rendere tutto un po' speciale. Vincitori seriali, a volte casuali, fuoriclasse, dominatori. Oggi van Aert, uno che ha qualcosa di speciale, lo ribadiamo: uno spettacolo.

Il van Aert segnale è partito sui Campi Elisi: forza fatta a uomo-bici su ogni terreno. Montagna, pianura, i più attenti lo avranno visto comandare spesso anche in discesa, a cronometro. Volata, come oggi, a Parigi, dove ci si consacra. Classe pura, potenza. Watt, persino decibel. Van Aert: qualcosa di speciale. Con quella tendenza a farci godere.


A grappoli

La guida alla città di Saint-Émilion che poi non è una città, ma un paesino, ci racconta di un gioiello incastonato nel cuore dell'Aquitania.
Ci racconta passaggi in mezzo a vigneti sacri per la gente del posto, un flash impercettibile per i corridori che impiegano circa 35, 36, 37 minuti per percorrere la distanza che li porta da Libourne a, per l'appunto, Saint-Émilion.
Instancabile monotonia quella della cronometro: l'abbiamo raccontata in tanti modi, oggi è un gesto tecnico, sì, ma affaticato, dolce e profondo come il suono del sax. Noioso: per una classifica ormai congelata.
Ha maschere che paiono fantascientifiche, disegnate da Carlo Rambaldi, che riflettono, deformando, la lunga fila doppia del pubblico che non si perde nemmeno un centimetro della corsa. Chiede e ottiene sacrifici; il penultimo, forse l'ultimo sforzo, per la verità: domani sarà tutta discesa (fino a Parigi).
Oggi è un tic-tac, un su e giù, un pim-pum, un verde brillante, un vociare continuo a bordo strada. Un viaggio in mezzo a odori acri di frutta bruciata dal sole, una lisergica epopea. Ecco: oggi è la giornata ideale da passare a bordo strada e vedere il Tour. Una tenda, un cappellino, una maglia a pois, una bandiera. Per spingere Latour e Armirail, farsi un bicchiere nonostante il caldo.
Sperare che possa vincere Kueng, e invece nemmeno oggi è la sua giornata. E allora ci sta benissimo che sia davanti a tutti un fuoriclasse completo come se ne vedono di rado, van Aert, che in una crono al Tour ha rischiato di lasciarci la carriera e oggi rinfresca il suo piacere, che è anche il nostro che lo apprezziamo così tanto.
Ma è un festival per tutti, con quelle bandiere, camper e gazebo, la gente che si spella le mani e si scortica la gola quando passa Alaphilippe, che non ha la maglia di campione del mondo, ma sarebbe impossibile non capire che è lui, dietro quel pizzetto, le spalle ondeggianti da far venire il mal di mare.
Diamanti di talento a grappoli schizzati velocemente in mezzo ai vigneti: un luogo perfetto per appassionati di fotografie, un luogo perfetto per consacrare Vingegaard e per vedere Pogačar gestire e (praticamente) vincere il Tour.


Tricorno

Che forza devastante gli sloveni. Che forte, devastante Matej Mohorič, campione nazionale di Slovenia. Se vanno così forte ci dev'essere qualcosa da studiare, da prendere a esempio. Da capire. Nei muscoli, nella testa, nello stile di pedalata, nei geni, nella fame.
Sergio Tavčar ci raccontava, nemmeno troppo tempo fa, che sì, vanno bene tutti i discorsi antropologici, sociali, strutturali, ma per trovarti con talenti di questo genere nella stessa epoca sportiva, beh c'è anche una discreta dose di... fortuna - non disse proprio così, ma ci capiamo.
Beh, fortunati loro ad avere un corridore come Pogačar che a 22 anni e qualcosa sta per vincere il secondo Tour in fila, infrangendo record; che hanno uno come Roglič che non stiamo qui ad elencare successi avuti e sfiorati; che hanno Mohorič che per passare da talento a campioncino ora insegue un successo pesante (Mondiale 2021, magari, lui così bene abituato ai titoli mondiali) dopo i due al Tour 2021.
Slovenia, che in due Tour de France ha vinto più tappe di Italia, Francia, Belgio e Spagna messi assieme (per la verità Italia e Spagna sono a quota zero tra 2019 e 2020).
E oggi Mohorič vince una tappa mica facile. In mezzo a suonatori di muscoli caldi, predoni della fuga. Venti scalmanati che hanno preso le strade tra Mourenx e Libourne e l'hanno messa a ferro e fuoco. Come fosse il giorno del giudizio hanno avuto il via libera per scatenare l'anarchia - per la verità c'è voluto un po', prima che suonasse il gong capace di liberare watt e scrollare teste e gambe.
È partito di schianto e hanno solo visto allontanarsi l'imponente sagoma bianca, con quella schiena perfettamente parallela al terreno appartenente allo studente migliore del liceo del suo paese, nazione che come simbolo ha il Monte Tricorno.
Resiste, dà tutto, zittisce sul traguardo, gasatissimo, in un gesto che sta facendo infuriare, ma che derubrichiamo come dato dalla rabbia figlia della carica agonistica. Quel che resta è il gesto atletico. Forte, devastante Matej Mohorič.


Cuori infranti

È già nostalgia. Di Pirenei che si allontanano e di tutta quella gente sul Tourmalet. Di pendenze e sudore. Ma non ditelo ai corridori che hanno sofferto, seppure a un'andatura costante, e con sprazzi di moderato ottimismo, almeno a vedere Geoghegan Hart che non sorrideva mentre faceva il ritmo. No, a un certo punto rideva proprio.

Senza voler urtare la sensibilità di nessuno ammettiamo che oggi Pogacar sembrava fresco come il pesce del magazzino dove lavorava Vingegaard prima di diventare corridore a tempo pieno; freddo come il cuore degli Ineos quando davanti scattava Gaudu, rinfrancato, ma arrivato fuori tempo massimo all'appuntamento con il successo. Voleva vincere, Gaudu, per il suo capitano, che da queste parti - Tourmalet 2019 - pensava di scrivere l'inizio della storia, ma fu solo un capitolo di quelli da cui trarre aforismi da usare al massimo nelle citazioni con una bella foto a corredo, e al quale non ha potuto mai dare un lieto fine. Niente da fare per Gaudu: Ineos imperterrita col suo ridondante trenino.

E oggi scrittura lineare: Tour banale quanto rincuorante in questo senso, almeno sappiamo cosa aspettarci da questo mondo. Un mondo che sarebbe più brutto senza Alaphilippe che non ha di certo le gambe migliori, ma ci prova. Sempre. Senza Woods e Poels che si battono (inutilmente) per i punti della maglia a pois, che tanto quella si sapeva sarebbe finita sulle spalle di quel fenomeno lì.

E cos'altro aggiungere al racconto di un Tour che ci ha fatto vedere sui Pirenei un dominatore dal ciuffo ribelle e dall'infallibilità dell'uomo senza nome di quel famoso western all'italiana.

Rimane qualche bella diapositiva: il temperamento astratto di Gaudu che a dieci dall'arrivo sembrava ripetersi "che faccio? vado o resto?", o L'Equipe in bocca a Latour prima della discesa, la sofferenza di Uran, la stasi di Mas, il talento di Vingegaard, i ricordi di Valverde, l'andatura un po' gaglioffa di Danielmartin.
Diapositive e premi. Ce ne fossero altri Pogačar li avrebbe presi: tappa, maglia a pois, maglia gialla, rossa, nera, a strisce, premio produttività. Di sicuro, non ce ne vorranno le anime fredde, anche il nostro cuore, rapito dall'azione di uno splendido dominatore.


Ecce Homo

Può Pogačar vincere senza dominare? Risposta semplice a domanda ambigua: oggi sì. Perché gli basta uno scatto sul traguardo per poi rischiare di strapparsi di dosso la maglia gialla dalla gioia, lassù, sul Col du Portet, dove la nebbia nasconde sullo sfondo l'assidua imponenza dei Pirenei. Per poi distendersi, stravolto, in una posa dove sembra stare lì a prendere il sole e a godersi ogni momento della sua vita.

Semplice la risposta, vero? Perché far sembrare tutto semplice è il paradigma dei fuoriclasse; perché ai tre dall'arrivo sembrava su una Graziella in ciclabile, gli mancavano solo la busta della spesa attaccata al manubrio e la ragazza di fianco, ma di fianco aveva un danese (forte, sorprendente) e un ecuadoriano (furbo, scaltro, ma non forte quanto vorrebbe).

Perché dopo aver fatto sfogare Carapaz in quell'ultimo assalto all'arma bianca ha deciso di vincere - e ha vinto. Perché sul suo volto la fatica si nasconde bene, mentre quello dei suoi avversari è tutto un compendio di stregua resistenza a volte malcelata.

Come il bel profilo di Perez che si trasforma da acqua e sapone a quello dell'ecce homo: da pulito come piace alle ragazze, a sconvolto come un martire, cercando l'impresa nel giorno più importante per i francesi. Che spingono Gaudu, finalmente un bel Gaudu. Che senza una giornata orrenda come quella sul Ventoux oggi lotterebbe per ben altro.

Perché il viso di Uran è quello scavato dalle intemperie: più che un ciclista sembra non abbia fatto altro che tirare su palle di fieno nei campi per tutta la vita. Perché la faccia di O'Connor non si è praticamente mai vista, se non quando chiude quinto al traguardo. Mentre Mas all'arrivo sembra sorridere, col cerotto sul naso come Casiraghi a Euro '96. Ma non è un sorriso: è solo un ghigno di fatica.
E allora si ritorna alla domanda iniziale: si può vincere senza dominare? Dipende, oggi Pogačar lo ha fatto, ma solo perché come i fuoriclasse fa sembrare tutto semplice. Non una bella notizia per gli altri, per chi lo segue, invece, vederlo vincere, un discreto piacere.