Estate bretone
L'estate bretone porta con sé un velo di malinconia sulle strade di Perros-Guirec, che sembra il nome di uno champagne o di una marca di orologi francesi invece è una città della Costa di Granito Rosa. Di prima mattina, la pioggia cade su un asfalto già scivoloso, si rabbuia il cielo e le ferite fanno più male. Anche quelle cicatrizzate. Ci avrà pensato Chris Froome che ieri si è aggrappato alle braccia di un massaggiatore per rimettersi in piedi: lui sa che le cadute possono capitare, con questa pioggia a fitte ancor di più. Non devi pensarci, altrimenti in sella non torni. E invece devi tornarci il prima possibile perché la paura si infiltra nelle ossa come l'umidità nei fari all'orizzonte e poi è troppo tardi.
Ognuno di quei fari ha una storia, forse pura leggenda, ma qui tutti le raccontano quelle storie, così sembrano vere. Anche la storia di Mathieu van der Poel e di Raymond Poulidor è raccontata da tutti in questi giorni. Forse anche troppo e forse, come per i fari, nessuno sa cosa si dissero tanti anni fa. Nessuno tranne Mathieu che ieri all'arrivo era sofferente. Non per il dolore ai muscoli o per l’amarezza della sconfitta. Per le promesse che si fanno e non si riescono a mantenere. Tante ne chiedono i nonni ai nipoti: van der Poel aveva promesso che avrebbe conquistato quella maglia gialla che a Poulidor era sempre sfuggita. Ci pensava, probabilmente da stanotte, perché quando prometti a chi non c'è più non puoi scusarti per la promessa, non puoi spiegare, devi solo accettare e guardare avanti.
La sua mente è sempre stata lì. Sin da quando è partita la fuga con un destino già segnato, perché al Mûr de Bretagne si attendono i grandi. Ci pensava mentre in gruppo si limava per prendere le posizioni di testa ed oggi sembrava davvero ci fosse una lima od una lama a sfiorare i corridori perché il gruppo si rimescolava come un puzzle e sulle scarpe degli atleti qualche striata ci sarà di certo. Una prova del rischio che ci si prende tutti i giorni, qualcosa che non si può spiegare razionalmente, perché è istinto puro, mestiere come quello dei falegnami o dei panettieri e delle loro botteghe che si aprono quando solo il mare sibila sulle coste.
Un primo scatto e la testa a guardare indietro, a sperare che il gruppo non fosse più lì, che non dovesse avere paura di Alaphilippe o di Pogačar. Una prova generale e poi, forse, lo sconforto, misto a rabbia, perché le cose ancora una volta rischiavano di non andare come avrebbe voluto. Una rabbia cieca, lucida, col groppo in gola per scalare un muro ed i muri sono verticalità senza dubbi, l'opposto di una bicicletta, di una ruota che gira.
Mathieu van der Poel che segue Sonny Colbrelli sull'ultima ascesa al Mûr de Bretagne non è solo un ciclista in cerca di gloria. Ha qualcosa in più, lo si vede da come spinge sui pedali. Siamo convinti che non ricorderà quasi nulla di quegli ultimi metri, che non avrà sentito quasi nessuna delle voci di coloro che gridavano il suo nome. Sì, perché le promesse fatte a chi non c'è più sono particolari anche quando vengono mantenute. Ti riportano alla mente il passato e, per qualche attimo, vorresti tornare nel passato, per tranquillizzare nonno, per chiedere scusa per ieri e per essere certo di aver fatto bene. Vorresti sentire solo quella voce. Per questo Mathieu van der Poel ha detto solo: "Ho pensato a nonno" e poi è scoppiato a piangere. Perché le mancanze opprimono il petto anche a promesse mantenute. Sì, quando sei felice, ma ti manca l’unica persona con cui vorresti esserlo.
Foto: bettini
L'urlo e il furore
Pomeriggio di Pasqua 2021. Mancano quattrocento metri al traguardo di Oudenaarde, Fiandre Orientali. Il cielo è leggermente velato. L'azzurro si butta nel bianco come avena che si mescola a una zuppa di latte. Sullo sfondo, dietro le transenne, non ci sono tifosi: si vede qualche albero spelacchiato, un po' di verde, segnali stradali che indicano divieto di transito, persino un bagno chimico. Ci sono solo due uomini davanti a giocarsi il successo: Asgreen e van der Poel. Gli altri arrancano e annaspano, si appoggiano a quello che rimane dentro: poco, ma quanto basta per sopravvivere. Si lanciano all'inseguimento o forse più a cercare la consolazione di un terzo posto.
Da un po' di chilometri ci si domanda: cosa deve fare Asgreen? Meglio secondo oppure niente? Cosa deve inventarsi il danese per battere van der Poel allo sprint? Deve aspettare Sénéchal nel gruppetto inseguitore?
Fase di studio, non c'è surplace. Lo speaker è concentrato, c'è silenzio. I telecronisti si schiariscono la voce, le pulsazioni, già alte, salgono ancora. Van der Poel è davanti, ma il suo sguardo è fisso sulla ruota anteriore di Asgreen, ben saldo sul sellino, che nasconde la sua sagacia dietro pesanti occhiali neri.
Trecento metri e lo sprint ancora non parte: "Esattamente come lo scorso anno quando van der Poel sconfisse Wout van Aert", ci si ripete. Duecentocinquanta metri: Asgreen ora si alza sui pedali, un movimento sciolto, come si è mostrato libero da inganni e costrizioni tutto il giorno, sempre attento e all'avanguardia ad ogni tentativo altrui, e a volte persino capace di offrirlo in prima persona, con quel suo fare statuario, le caviglie sottili e la potenza della dinamite danese.
Duecento metri: parte lo sprint. Van der Poel, maglia di campione olandese e calzoncini neri («Quando indossa calzoncini neri al posto di quelli bianchi vuol dire che non è in gran giornata» ripete ossessiva la stampa del suo paese di origine, a metà tra le mani avanti e la scaramanzia), sembra non avere il calcio d'inizio dei giorni migliori. Asgreen, nella sua maglia di campione danese con enorme croce bianca su campo rosso, lo affianca, ma van der Poel ha ancora mezza bicicletta di vantaggio. Ma torniamo all'inizio.
Mattina di Pasqua 2021. Partenza del Giro delle Fiandre. Il cielo è lattiginoso. Un grigio chiaro come la bava di un cane. Fa freddo: corridori che indossano guanti e manicotti. Tutti si nascondono – dovere di sponsor – dietro occhiali di ogni genere, tranne Taco van der Hoorn, in fuga alla Sanremo e da aspettarselo in fuga anche oggi. Anni fa viaggiò per l'Europa con un furgoncino Volkswagen del 1982, battendo come un giovane studente i percorsi delle classiche belghe e italiane. Ci fu una volta in cui frantumò in volata un certo van Aert che ancora non era quello che conosciamo oggi. False speranze: Taco non attacca. In fuga ci vanno prima in quattro che poi diventano sette. Fra loro c'è Bissegger, talento elvetico: sarà l'ultimo a mollare sul Koppenberg a quarantacinque chilometri dall'arrivo. C'è Norsgaard, danese della Movistar, stessa squadra in cui corre sua sorella, lui sì già in fuga alla Sanremo e che raddoppia oggi. Ci sono Denz, uno dei nomi più belli del gruppo, Van Den Bossche, Paaschens, Houle. C'è Wallays: in una fuga che, chilometro dopo chilometro, assume margini preoccupanti, almeno per chi insegue. Wallays vince poco, ma benissimo, se giocasse a calcio sarebbe un falso nueve, sempre all'attacco ma con fantasia, e se la stagione fosse solo la Paris-Tours sarebbe quasi un cannibale.
Si passa con estrema velocità nei paesini dell'est delle Fiandre: case basse e storte, poca gente, porte e finestre che ti osservano con sguardi indisposti, di sbieco. Simboli quasi solo fiamminghi, insegne di pub e friggitorie. Striscioni dei fan club che salutano i propri beniamini. C'è un bambino avvolto in una bandiera più grande di lui e un altro su una pista ciclabile che prova un furibondo sprint su una bici da corsa per tenere il ritmo del gruppetto in fuga.
Ci riesce persino meglio, almeno per un po', rispetto a quelli dietro, col vantaggio che sale fino a toccare i tredici minuti. Nel frattempo una doppia squalifica per scorrettezze: per Fedorov che frena mentre è in testa al gruppo rischiando di combinare un macello e per Vergaerde che prova a colpirlo con una spallata.
Van Avermaet prima e Van Asbroeck poi si fermano a salutare moglie e figli. Si fora e si cambia la bici, si gettano borracce ai tifosi e per questo motivo Schär viene squalificato. Suo padre, oggi proprietario di un negozio di bici, in carriera ha vinto solo una corsa. Era il 1976, era la Setmana Catalana: sconfisse un certo Merckx.
Si procede senza troppi spasmi, cautela e progressione, con il Declercq Express che tira il gruppo e macina chilometri in testa, aiutato da due vagoni nostrani, Affini e Milan, che a conti fatti saranno i maggiori protagonisti per il ciclismo italiano, oggi - a eccezione di un buon Trentin, sfortunato per la foratura nel finale.
La prima delle due accoppiate Oude Kwaremont-Paterberg, a circa sessanta dall'arrivo, dà il via a un'ora e mezza finale di attacchi e contrattacchi. Di pulsazioni che salgono e di cuore in gola. Asgreen, van der Poel, van Aert e Alaphilippe sono i più in palla. Attaccano, chiudono, mangiano la polvere e tagliano l'aria. Con loro c'è pure un sorprendente Haller davanti, seconda giovinezza la sua, austriaco dai capelli lunghi, barba folta, grande tifoso dell'Arsenal. Da piccolo giocava ad hockey ma scelse il ciclismo: con quel fisico avrebbe pure potuto fare il rugbista. Con lui anche un rinato Teuns, da troppo tempo atteso su queste strade a questi livelli.
Ma la corsa di oggi è come un cubo di Rubik completato e dato in mano a un ragazzino. Ogni volta che te lo restituisce devi ricominciare da capo. Poi, come spesso accade in queste corse, in una fase di studio tra i sei - sui quali era rientrato anche il sempre presente Turgis - se ne vanno via i tre più forti oggi: Asgreen, van der Poel e van Aert. All'ultimo passaggio sul vecchio Kwaremont, cede anche il belga, gli altri due vedono Oudenaarde con un fastidio in meno e la storia di questo Giro delle Fiandre può tornare verso l'epilogo inaspettato.
Cento metri all'arrivo: Asgreen supera van der Poel. Sessanta metri all'arrivo van der Poel molla. Forse non bluffava, o almeno non così tanto. Scuote la testa, si inchina. Asgreen è un urlo di furore che colpisce le Fiandre orientali. Van der Poel è secondo, un enorme van Avermaet terzo davanti a Stuyven. Sesto van Aert, migliore degli italiani Bettiol, ventottesimo.
per Alvento Magazine - Alessandro Autieri
Foto: Vincent Kalut/PN/BettiniPhoto©2021
Giro delle Fiandre: ovvero giganti, inganni e stanchezza
Van Aert, van der Poel, (van) Alaphilippe: parliamo sempre di loro tre, è vero, ma d'altra parte è di uso comune definirli “the big three”. Al centro dell'attenzione però c'è anche una corsa, o meglio la Corsa, arrivata alla sua edizione numero 105.
La Ronde in programma domenica (diretta a partire dalle 09.55 circa su Raisport ed Eurosport) difficilmente mentirà sul vincitore e vedrà i tre citati favoriti, anche se i dettagli sul loro stato di forma e sull'avvicinamento a un possibile successo assumono una narrazione diversa rispetto al recente passato.
Van Aert o della forza. Arriva alla partenza di Anversa con una sola condizione: quella del favorito. Anversa, ma niente triangolare piazza del Grote Markt, nessun tentativo di assimilare immagini a quadri e affreschi come quelli all'interno della cattedrale di Nostra Signora, niente Municipio, né Palazzo delle Corporazioni a far da sfondo, niente statua di Silvio Brabone mentre sconfigge il gigante Druon Antigoon, niente tavolini (vuoti) dei caffè con i loro tendoni (chiusi). Bandiere poche, solo la tensione pre gara che si sposta sulla Steenplein, in riva alla Schelda («in questo momento più semplice dal punto di vista logistico, più pratico per tenere lontano il pubblico», spiegano gli organizzatori) che resta il punto di riferimento, sia nel suo silenzio assordante che nella capacità di essere, ora e sempre, come in un ciclo continuo, soprattutto quando nelle Fiandre si parla di intrattenimento a due ruote. Sullo sfondo in lontananza si vedrà un'altra statua: quello del Lange Wapper, gigante che popola i racconti folcloristici dei fiamminghi e che sarà semplice accostare metaforicamente a colui che poche ore dopo vincerà la Corsa.
Wout van Aert, e riprendiamo il filo: ha sofferto ad Harelbeke – della settimana belga la corsa che più si avvicina al Fiandre -, ma alla Gand-Wevelgem ha colto il primo successo in una grande classica del suo paese, inteso come Stato, nazione, e pareva una mancanza, se volete, un dato stonato nel suo palmarès già ricco in qualità più che in quantità. Si è parlato in abbondanza dell'opera di Nathan van Hooydonck, nome da pittore più che da santo, fondamentale compagno di squadra, e si è discusso dell'importanza della squadra anche domenica. Gliene servirà una più solida, è vero, ma fino a un certo punto: perché a un certo punto non si potrà bluffare, e con Oude Kwaremont e Paterberg come trampolino finale conterà soltanto quello che ognuno avrà dentro da trasmettere fuori: forza, potenza, cambio di ritmo, testa, energia: elementi che sembrano disegnati sulla sagoma del demolitore di pietre (RollingStone è copyright di altri) nato a Herentals, non troppo lontano da Anversa.
Van der Poel o dell'inganno. Subito un chiarimento: toni leggeri per definire quel prodigio di talento e istinto, di mulinate sui pedali da mettere alla prova la forza demolitrice di un fiume in piena. Alla Dwars door Vlaanderen a un certo punto si è staccato su una breve e ripida salitella: come se gli avessero levato il pane di bocca. Come se ce lo avessero levato a noi: c'è stato un attimo di silenzio e di costernazione nel tentativo di darci delle spiegazioni. Per qualcuno, ad esempio Eddy Planckaert, uno che al nord ha vinto qualcosina, è stato un mezzo bluff: «Bastava vederlo come pedalava nel finale sotto l'occhio della telecamera che lo aspettava. Smorfie da faccia distrutta: la sua idea è quella di togliersi di dosso il titolo del favorito assoluto».
La risposta del van olandese non si è fatta attendere: «Ma quale bluff: caldo, brutta giornata, non ne avevo, ma questo non vuol dire che non ne avrò al Fiandre» Nelle ultime ore ha aggiunto: «Sono un po' stanco. Forse sono arrivato un po' lungo con la condizione. Domenica il favorito sarà van Aert».
Insomma, il nipote di Poulidor e figlio di Adrie si cala sempre meglio nel ruolo di personaggio e ora inizia a giocare un po' di più con la sua immagine – a margine di tutto ciò, interessante considerazione di Walter Godefroot: «Mathieu per come corre ricorda più suo nonno che suo padre».
Intanto, dal Belgio, https://wiewintdekoers.be/, un sito che si occupa di prevedere i risultati delle corse ciclistiche partendo da dati basati su statistiche e prestazioni rielaborati da un'intelligenza artificiale, lo mette favorito assoluto (davanti a Van Avermaet, van Aert, Naesen e Stuyven). Fra poche ore scarteremo anche la caramella con la faccia dell'olandese sopra, scopriremo che sapore avrà e anche se questi ricercatori dell'Università di Anversa c'avranno preso.
Caldo e brutta giornata nei giorni scorsi anche per Alaphilippe. E stanchezza: «Sono un po' stanco, lo ammetto, il calendario italiano sta pesando sulle mie gambe». Il caldo è un po' il leitmotiv della corsa di mercoledì, ultimo capitolo di avvicinamento all'appuntamento che conta nel giorno di Pasqua e che a causa dello slittamento a ottobre della Roubaix, chiude in anticipo il blocco delle classiche sulle pietre.
Lampaert, quarto all'arrivo, quel caldo lo ha accusato in tutti i sensi, ma mai sottovalutarlo, van Baarle ha tirato fuori invece un numero da scuola d'élite e finalmente dopo tanto sbagliare i tempi il suo tempo è arrivato. Occhio anche a lui, ma stavolta è difficile lo lasceranno andare, anche se serviranno squadre solide e non solo le solite come nel caso della Quick Step (domani sarà Elegant e non Dececuninck e all'ultimo momento non schiera Štybar, fermato per un problema cardiaco), che dopo le meraviglie viste ad Harelbeke si è disfatta tra Gand e Waregem, ma ci giochiamo la dannazione eterna dell'anima su una corsa d'attacco e di testa da parte dei ragazzi di Lefevere.
Capitolo dedicato agli altri: numerosi, anche se il nuovo percorso difficilmente racconta bugie o storie di carneadi e sorprese, piuttosto può raccontare leggende di marcamenti e dispettucci, che è un po' uno dei paradigmi del ciclismo, fatto sta che da tenere d'occhio: Van Avermaet e Naesen, coppia AG2R che pare non prendersi troppo, i francesi Sénéchal, Turgis e Laporte (chi vi scrive pensa anche a Coquard), e poi ancora dal Belgio: Stuyven e Wellens, Benoot e G.Vermeersch. I tedeschi si affidano alle affilate speranze di Politt e a quelle un po' affievolite di Degenkolb, poi ancora la dinamite danese di Asgreen, Pedersen e Kragh Andersen (quest'ultimo mai troppo in palla per la verità a parte quel quasi colpaccio su via Roma a Sanremo) e quella norvegese di Kristoff, qui sette volte nei primi cinque su nove partecipazioni, con una vittoria, nel 2015, e due terzi posti nel 2019 e 2020. Ci sarà Sagan, scopriremo in che versione, mentre la Spagna si affida a Garcia Cortina e la Svizzera punta su Küng, uno che va forte, generoso, ma avrebbe bisogno di azzeccare i tempi giusti e di arrivare possibilmente da solo sfruttando il marcamento altrui.
Italiani: Trentin, Colbrelli e Nizzolo apparsi brillanti di recente saranno chiamati a una gara super per sperare in una top ten, Bettiol non è al meglio, ma da lui ci si può aspettare di tutto, in tutti i sensi. Ballerini, un po' in calo di recente, forse avrebbe spostato le sue mire sulla Roubaix, domani per lui sarà tutta esperienza utile.
IL PERCORSO
Più o meno lo stesso dal 2012, senza De Muur, tolto, poi rimesso, ma non ci sarà quest'anno ed è un torto non tanto alla storia di cui il ciclismo si fa spesso beffe, ma dal punto di vista tecnico una vera mancanza seppure nella sua versione a un centinaio di chilometri dall'arrivo. Da Anversa a Oudenaarde sono circa 254 chilometri, 19 muri (due in più dell'anno scorso) e sei tratti in pavè. Il finale è un mondiale sulle pietre, un circuito che prevede il doppio passaggio Vecchio Kwaremont-Paterberg che scatenerà la rissa finale. Se quei tre ne avranno potrebbe non esserci storia per gli altri. Ma anche alla Sanremo pensavamo andasse così e la realtà fu ben diversa.
I FAVORITI DI ALVENTO
⭐⭐⭐⭐⭐ van Aert
⭐⭐⭐⭐ van der Poel, Alaphilippe
⭐⭐⭐ van Baarle, Asgreen, Stuyven
⭐⭐ Kristoff, Sénéchal, Lampaert, Küng, Van Avermaet, Trentin, O.Naesen
⭐Politt, Turgis, Laporte, Wellens, Degenkolb, Nizzolo, Colbrelli, Matthews, Pidcock, Pedersen, Kragh Andersen, Benoot, Bettiol, Barguil, Livyns, D.Van Poppel, Vanmarcke, Madouas
Foto: Nico Vereecken / PN / BettiniPhoto © 2020
Viaggio al termine della notte
Dai Due Mari ci si sposta a Milano per poi tornare di nuovo verso il mare. Sembra un gioco, ma non lo è: la Milano-Sanremo è affare più che serio. Si cerca tra le righe un canovaccio differente, si discute come al bar, ci si piglia oppure si è totalmente in disaccordo, ma gli unici a poter far quadrare i conti sono sempre gli stessi.
Certezze, almeno, in un'epoca di incertezze: Alaphilippe, van Aert e van der Poel, favoriti anche qui, come alla Strade Bianche. Forse persino un po' di più dopo la luce emanata alla Tirreno.
Nel 2019 Alaphilippe fu primo sugli sterrati e poi alla Sanremo; nel 2020 è toccata una sorta simile a van Aert e dunque il 2021 può sembrare già scritto. Per cambiare quell'idea che tutti abbiamo fissi in mente serviranno diversi ingredienti. Ma quale idea? Van der Poel che scatta come un forsennato sul Poggio («Non penso al record di scalata, ma solo a tagliare il traguardo per primo» ha detto ieri) e poi vince, dopo che un gruppo di fuggitivi si sgancia in mattinata e viene ripreso strada facendo, col futuro segnato nelle stelle e con il coraggio ben descritto dentro di ognuno di loro.
Servirà un incrocio di destini discrepanti volti a cucinare una corsa dall'esito - solitamente - così incerto da far figurare una rosa di quaranta nomi tra i favoriti, ma che fa dello svolgimento lineare il suo marchio. Si sonnecchia per sei, sette ore e si sobbalza all'improvviso come un interminabile jumpscare di una pellicola horror. Ma domani potrebbe essere tutto diverso.
Se ci mettiamo un pizzico di freddo, come previsto, anzi tanto freddo, e forse magari un po' di pioggia chi lo sa (nelle ultime ore diminuiscono le possibilità), e il vento che potrebbe essere persino gelido, allora qualcosa potrebbe cambiare. Carte lanciate alla rinfusa in mezzo a una sala, margini tra potenti e abbietti che si fanno ancora più ampi o viceversa, valori che emergono a sorpresa.
Certo non si dovrebbe andare incontro a una Sanremo come quella del 1910 vinta da Christophe, altrimenti invitiamo chi ha una casa lungo il percorso di tenere acceso il caminetto per dare una mano ai corridori dispersi – anche se eventualmente ci sono i bus delle squadre; non si dovrebbe prospettare nemmeno qualcosa di simile al 2013. Gara sospesa, trasferimento in bus e poi parte finale come da tradizione in bicicletta.
Belletti rischiò di rimetterci le dita per il freddo, Haussler, per contro, corse senza guanti, ma lui è fatto così. Vinse Ciolek in una di quelle vittorie a sorpresa che appaiono di tanto in tanto negli albi d'oro delle grandi corse. Un suo compagno di squadra, Songezo Jim, raccontò di come per la neve a un certo punto si ritrovò a guidare la bici con gli occhi chiusi e di come, una volta arrivati, non riusciva nemmeno a cambiarsi gli indumenti per il freddo. No, in teoria non dovremmo ridurci a quello. Nonostante un inverno che tarda ad abbandonarci.
Lo scenario più plausibile diviene così l'attacco devastante - è il caso di dirlo - sul Poggio: van der Poel che parte, Alaphilippe e van Aert lo tengono a tiro leggermente sgranati l'uno dall'altro, e poi giù tutti e tre verso Sanremo, e gli altri a inseguire, ma occhio: la discesa del Poggio può far male.
Si sogna e si spera imprese da lontano: a costo di essere smentiti ci crediamo poco. La Rai ci crede di più e per la prima volta attaccheranno con la diretta dal chilometro zero. Manna dal cielo per i tanti fissati che si collegheranno sin dalla colazione (ore 9.15 circa), non vorremmo essere nei panni di chi quella trasmissione dovrà gestirla, né di qualcuno meno appassionato e capitato per caso a vedere le prime quattro, cinque ore di corsa.
Attacchi da lontano, si diceva. Beh, da lontano, s'intende qualche fiamma negli ultimi cinquanta chilometri, ma è più facile a quel punto vedere l'andatura che aumenta progressivamente: i tre Capi presi a tutta, una Cipressa che invoglia un gruppetto di corridori - andare via in solitaria con l'Aurelia tra Cipressa e Poggio sappiamo bene che rasenta la follia - ad anticipare una fine altrimenti già nota.
E poi? Una Quick Step che gioca con Alaphilippe, ma magari in realtà punta su Ballerini e Bennett (forse unica squadra davvero dotata di piano A, piano B e piano C), Trek e Bora che giocano di fantasia per i loro fantasisti: uno che qui vinse a sorpresa tre anni fa, un altro che qui è sempre stato respinto. Entrambi però con poche speranze, francamente.
Magari spunterà qualcuno con una bella pedalata - peccato non ci sia Pogačar - che sconvolge lo status quo e anticipa: un bel gruppetto composto da corridori come Ganna, Küng, Schachmann e simili. Ci si spera, ma ci si crede poco. E magari dietro tutti si guardano perché nessuno vuole portare l'olandese in carrozza fino al Poggio per vedergli sfondare i pedali a quel modo, nessuno vuole accompagnare il belga in volata, ed ecco che l'azione vincente è servita.
Spunti ce ne sono tanti, potremmo stare ore a discutere di scenari diversi (magari qualche idea datecela voi) e outsider: la rosa di nomi dietro i tre è ricca di petali, ma anche di spine che riempiono di dubbi e tagli i pronostici. Godiamoci solo il lungo viaggio al termine della notte.
IL PERCORSO
Più noto e lineare che non si può. 299 chilometri, circa, città di partenza e arrivo conosciute. In mezzo niente Turchino per via di una frana ma Colle Del Giovo: nulla di che. Poi tutta pianura fino agli ultimi 50 chilometri: i tre Capi, la Cipressa, l'Aurelia col suo vento infido fino al Poggio per gli ultimi 20 minuti più folli che il ciclismo può offrire: Poggio sia in salita che in discesa e poi Sanremo, via Roma, traguardo di una corsa, la Classicissima, che sempre divide, ma che spesso risulta soddisfacente.
I FAVORITI DI ALVENTO
⭐⭐⭐⭐⭐ van der Poel
⭐⭐⭐⭐ van Aert, Alaphilippe
⭐⭐⭐ Vendrame, Laporte, Ballerini, Matthews
⭐⭐ Bennett S., Trentin, Kristoff, Cort Nielsen, Hofstetter, Démare, Nizzolo, Bouhanni, Aranburu, Schachmann
⭐ Viviani, Stuyven, Pasqualon, Sagan P., Bettiol, Colbrelli, Wellens, Degenkolb, Gilbert, Mohorič, Kwiatkowski, Ganna, Kung, Van Avermaet, Felline, Pidcock, Ewan, Garcia Cortina, Mezgec, Kragh Andersen, Bonifazio
Foto: Tommaso Pelagalli/BettiniPhoto©2020
La tempesta perfetta
Piomba il gelo d’improvviso sulla Tirreno-Adriatico e piombano corridori che già da tempo segnano la storia. Piomba van der Poel: un po’ matto per come è scriteriato tatticamente, per come infiamma, per come non ha il minimo timore di far vedere quello che è. Attacca da lontanissimo: nei suoi geni scorre l’idea di un ciclismo che rifiuta tatticismi e preferisce lo scontro faccia a faccia.
Piomba Pogačar che ha ventidue anni, ma corre come se ne avesse il doppio. Gestisce squadra e corsa come se non avesse fatto altro in vita sua. Come se già quando era in culla gli avessero detto: vai, gestisci, comanda e domina. Attacca quando c’è da attaccare – esattamente come ieri – sempre in piedi sui pedali, sempre saldo sui dorsali, forte col freddo, col caldo, col sole, con la pioggia. Forte e basta: un fuoriclasse.
Piomba van Aert che in una giornata dura, da gente dura, con gente dura lì davanti, si difende perché è un duro, perché va forte ovunque pure lui, ed è comunque terzo.
Piomba Felline: ce lo eravamo un po’ dimenticati eppure è lì davanti. Primo degli umani si dovrebbe dire. Piombano Fabbro, piccolo ma sempre più a suo agio in mezzo ai grandi, lui che grande vorrebbe diventarlo, e De Marchi, suo conterraneo e non sarà un caso. È il più vecchio tra i primi dieci ed è un piacere rivederlo e riscoprirlo, perfettamente disinvolto in un ordine d’arrivo da grande classica che mette assieme corridori di ogni tipo.
Dal cielo smette di scendere la pioggia, la strada è infida, il vento ti sposta, corridori bagnati fradici e infreddoliti, crisi improvvise, gerarchie ribaltate, il nuovo che rifiuta il vecchio, un modo di interpretare le corse che fa a cazzotti con quello del recente passato. Il disegno della tappa è quello che tutti bramiamo per passare una domenica pomeriggio chiusi in casa e godere di uno spettacolo difficilmente ripetibile, ma che forse, a pensarci bene, con questa generazione potrebbe diventare una meravigliosa abitudine.
Quando van der Poel parte mancano circa due ore di corsa e in pochi minuti si costruisce un margine che fa pensare a una “facile vittoria”. Forse una giacca, qualcosa, avrebbe dovuto metterla: è infreddolito e bagnato fradicio. Passaggio dopo passaggio sotto il traguardo la sua faccia si trasforma come una maschera di plastilina in mano a un bimbo: prima impassibile, poi sotto sforzo, poi corrucciato, alla fine distrutto. Un uomo lo insegue a piedi per qualche decina di metri come fosse quel ciclismo che ci siamo lasciati alle spalle due anni fa, quello della gente per strada e dell’entusiasmo che ti fa spingere ancora più forte.
Quando Pogačar parte invece è perfetto, non ha bisogno della spinta del pubblico, delle urla nelle orecchie, né di bandiere slovene. È perfetto nel tempo e nello stile, nel modo e nell’idea: quella di prendere più distacco possibile da van Aert e non lasciargli speranze per la cronometro di martedì.
Quando van Aert si getta sul passo, col suo passo, limita i danni, mentre davanti Pogačar quasi piomba su van der Poel – come Yates ieri su di lui. Ma non basta. Vince van der Poel, che non riesce a esultare e allora esultiamo noi per lui, secondo Pogačar, terzo van Aert, insomma sempre loro.
Insomma uno spettacolo, come ci sta abituando questa generazione di corridori che all’improvviso piomba sul ciclismo e fa la storia. Il punto sapete qual è? Che siamo solo all’inizio.
Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto
La natura dei fuoriclasse
Liberi scorrazzano i cavalli nei campi attorno a Colle Pinzuto. In tensione i corridori scavallano il penultimo settore in sterrato, frustrando gambe e frustando pedali. Con lingue in fuori e gote rosse, senza rispetto né riguardo per i sentimenti dei propri avversari. Senza avere nemmeno il minimo ritegno per le nostre coronarie: due ore finali di corsa come celebrazione assoluta. Da farti alzare dalla sedia, da far scomodare tutta una lista di aggettivi e di superlativi che dicono si dovrebbero lasciare da parte, ma che vengono in soccorso, mentre il cuore solo un’oretta dopo l’arrivo dei corridori inizia a rilassarsi. Spettacolare, meravigliosa, la definiamo così, in modo banale, ma senza orpelli. Una corsa bellissima figlia dell’interpretazione di una generazione di fuoriclasse.
Tutto attorno alla Strade Bianche 2021 è verde intenso, per la natura è stato un buon inverno e pare una giusta primavera. All’ombra fa freschetto il giusto, al sole si suda, a tratti c’è una leggera bava di vento che non dà fastidio, in altri momenti, invece, sembra nemica di chi va in bicicletta. Spira di lato, soffia impazzita, muove gli alberi che sembrano ossessi sbilenchi appesi un po’ per caso, un po’ per necessità.
Il verde spiritato si alterna a un giallo paglierino che sono campi, sì, ma è anche terra sabbiosa, argillosa, creta che a vederla fa quasi male agli occhi. Spuntano le prime timide fioriture; il cielo, stamane piombo fuso sulla testa di ciclisti e di senesi, ora è blu come avessero capovolto il mare. Le nuvole sono barche sparse di pescatori appiccicate a testa in giù e che in qualche modo provano a rientrare verso casa.
La polvere che nasconde i corridori è una coltre di nebbia lattiginosa che brucia i polmoni. Lo sterrato è battuto. Cani sparsi a bordo strada come spettatori; spettatori (pochissimi) che dialogano in toscano: «Eppure ai corridori gli garba» afferma uno. «Beh anche se un gli garbasse l’è la loro vita» risponde l’altro.
Brucano le bestie nei campi, bucano le gomme i corridori e arrancano, si fermano, bestemmiano, ondeggiano, in un tumulto di macchie colorate di squadre e sponsor. Inviati di stampa e televisioni in scampagnata solo apparente rincorrono auto e ciclisti, filmano, applaudono, salgono e scendono, si affrettano e annaspano. Si annullano le urla fino a una silente Piazza del Campo dove l’unico sussulto sono i rumori dell’attrito di ruote e telai, oppure della potenza di van der Poel che emana un suono che durerà nel tempo.
Fuggono i fuggitivi, si fiondano gli inseguitori, allungano i più forti, resistono i temerari. Scappano i primi con nomi pittoreschi e diverse storie da raccontare, ma magari sarà per un’altra volta. Sono Bevilacqua – e quanto ce n’è bisogno oggi – e Rivi; Walsleben, Zoccarato – grande da sembrare infinito – Petilli e Van der Sande – uno figlio di pizzaioli, l’altro di paninari – Ledanois e Tagliani.
La loro sorte è segnata, ma se ne fregano. Valli a capire e infatti li capiamo. In otto di loro hanno vinto tre corse tra i professionisti e se per Zoccarato e Rivi è anche normale – sono al primo anno – per Ledanois è un cruccio, lui che nel 2015 trafisse Consonni nel Mondiale Under 23. Walsleben, infine, serve a riequilibrare il karma: è il meno giovane davanti, non ha mai vinto in vita sua, ma corre in squadra con van der Poel.
Dura poco la loro sortita, il tempo di un sospiro, di un faticoso respiro. Di uno sterrato dietro l’altro. In gruppo si attacca: è nella natura di questa corsa. Folle, differente, affascinante e ammaliante, spettacolare, pericolosa, amata dai corridori. Casali, ulivi e campi ovunque, curve infide, salite indigeste, discese incontrollabili; dislivello e fatica da tappa di montagna, cadute e polvere, ristoranti, chiesette e scaramucce.
Sulle Sante Marie arriva il primo grido “che spettacolo! che corsa!”. Un gruppo di stelle in parata con van Aert che appare irresistibile. Vanno via Pidcock, Bernal, van Aert, van der Poel, Gogl – ribattezzato Van Gogl per l’occasione – Pogačar, Simmons, Geniets. Quest’ultimo cede, poi Simmons buca e non rientra più. Su Monteaperti tutto cambia: è sempre la natura di questa corsa, è ciò che più diabolico prepara il ciclismo. Van Aert sembrava il più forte ma si stacca (con Pidcock). Van Aert ha un cuore grande che potrebbe battere per tutti gli abitanti del pianeta e allora rientra per poi staccarsi di nuovo.
E su Le Tolfe cede pure Pogačar e ci ritroviamo con Bernal, Alaphilippe e van der Poel a giocarsi tutto verso Piazza del Campo. Il resto è storia nota, non è mai stata noia: van der Poel che vince, Alaphilippe secondo, Bernal terzo, van Aert quarto. Il modo in cui l’olandese ha vinto servirà per scomodare gli appassionati: “ma quanta potenza ha sprigionato van der Poel?” ci si chiederà.
Qualcuno dirà di avergli visto perdere un pedale nella penultima curva, altri che avranno visto schizzare scintille, volare schegge di sanpietrini. Altri ancora diranno di averlo sentito urlare al traguardo come mai prima. Le gote rosse, di nuovo, i muscoli in fuori. Una tattica perfetta. «Per vincere le gare importanti, devo iniziare a correre con la testa», raccontava alla vigilia. E lo ha fatto. Perché corridori così imparano da ogni dettaglio. È la natura dei fuoriclasse.
Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021
Il suono caldo del ciclocross
Il sottofondo che accompagna ogni evento a Ostenda ci piace immaginarlo con la voce calda di Marvin Gaye. Sembrerebbe quanto mai fuori luogo scomodare il cantante americano, non fosse che qui ci sono diversi ricordi legati alla sua presenza. Trent’anni fa, più o meno esatti, sbarcò da Southampton per cercare redenzione: i debiti lo stavano divorando, come la cocaina; ai ferri corti con moglie e con la Motown – la celebre casa discografica che lo aveva lanciato – Marvin Gaye trovò ispirazione e purificazione proprio in questa città nel nord Europa grazie all’aiuto di Freddy Cousaert, produttore musicale belga.
Chiuso in un piccolo appartamento vicino la spiaggia, osservando la schiuma del mare del Nord e i bagnanti intenti a prendere sole scavando buche nella sabbia per ripararsi dal vento, Marvin Gaye compose una delle sue più celebri canzoni “Sexual Healing”, che gli valse un grammy un anno prima di venire ucciso a colpi di pistola dal padre. Visse il suo momento di pace in questo posto freddo e grigio come solo un luogo affacciato sul mare del Nord può esserlo. Un posto nato per i pescatori, e che pochi chilometri più a sud, a Oostduinkerke per la precisione, vede ancora attiva la pratica della pesca a cavallo di piccoli gamberetti grigi chiamati “rikze garnalen” e che pare siano buonissimi da mangiare con la salsa rosa, oppure pastellati.
A poche centinaia di metri dalla partenza delle prove iridate di questi giorni, all’interno del Kursaal Oostende, edificio simbolo della cittadina belga, campeggia una statua in oro del cantante americano raffigurato mentre suona il pianoforte: è uno dei piatti forti del turismo del luogo e quando si è da quelle parti appare quasi d’obbligo farsi fotografare di fianco a lui, come fosse il Duomo a Milano o il Colosseo a Roma. Oppure, per entrare in argomento: sarebbe come cercare di farsi fare una foto con van der Poel o van Aert.
Schierati in attesa dello start di fronte all’Ippodromo, ecco gli artisti tanto attesi: abbondiamo di retorica, ma non si potrebbe fare altrimenti. D’altra parte: come chiamereste questi funamboli delle due ruote, capaci di guidare con tale tecnica tra i solchi sulla sabbia, abili a sprigionare forza e allo stesso tempo a prestare delicata attenzione nello stare in piedi, o a superare indenni il passaggio sul ponte al 21% di pendenza? O, “quasi come se nulla fosse”, a passare con tale leggerezza dal tratto iniziale della pista in cenere a quello in erba, capaci di scendere e poi di risalire al volo dalle loro biciclette?
Ma: “What’s going on”? Eccolo il caldo ritmo di Marvin Gaye in sottofondo, subito prima del via. Parliamo della corsa: cosa sta succedendo? Succede che Van Aert e van der Poel sono i due attori principali di questo spettacolo. Partono appiccicati e sembra possono esserlo fino alla fine dell’attesa ora di gara. Dopo centottanta secondi sono già da soli. Succede che Mathieu van der Poel è un organo caldo, di quelli che basta toccarlo un attimo per scottarti, mentre van Aert è una gran cassa che picchia sulla sabbia e quando è sul bagnasciuga sembra poter spostare, oltre che il suo avversario, anche le onde del mare. Quelle onde che si infrangono sulle ruote dei corridori e danno al quadro generale un tocco ai confini del reale.
I freni strombazzano a ogni curva come auto in centro all’ora di punta, mentre i due se ne vanno, salutano, non li rivedono più, e dopo un giro hanno già lasciato tutti gli altri distanti a fare un’altra corsa. Dietro Pidcock è un solista in mezzo a un’orgia fiamminga: proverà a rimontare, rimontare, giro dopo giro, per un attimo sembra farcela, sarà quarto alla fine, a un tiro da un incredulo Toon Aerts.
Ma davanti, di nuovo: cosa succede? La temperatura si alza, nonostante il freddo, ma l’atteso testa a testa dura pochi giri. Non si può sbagliare nulla: la sbavatura di uno, lancia davanti l’altro, la caduta di van der Poel sembra mettere le ali a quel ragazzo tutto testa e potenza con la marca di una bevanda energetica stampata sul caschetto.
Sono danzatori sulla sabbia, osano l’impossibile, sbattono sul terreno come se la loro fosse una danza tribale. E al terzo giro la temperatura è bollente. Van der Poel insegue a causa della caduta, van Aert e lì davanti che non si scompone, una sfinge, pochi secondi di vantaggio, poi d’improvviso vacilla. Van der Poel gli arriva sotto a una velocità che definiremmo doppia, quasi tripla avessimo gli strumenti per misurarla. Van Aert ha forato e viene superato dal rivale.
Il belga lo tiene a tiro ugualmente, tornata dopo tornata, dopo solco, dopo barriera, passaggio dopo passaggio verso la meravigliosa galleria veneziana, mentre alle spalle ci si lascia il mare del Nord tinteggiato sempre più di un colore cupo, quasi marrone.
Poco dopo metà gara, ogni piccola azione, ogni piccolo movimento, ogni piccola nota suona a favore dell’olandese; la sua taranta sulla sabbia lo infiamma, le curve sono come il bollente bacio di un innamorato, quello che era solo forza e talento oggi è anche acume e disciplina: otto secondi di vantaggio al quarto giro, tredici al quinto, ventidue al sesto, ventinove al settimo e penultimo.
Ora ci immaginiamo una musica che arriva da qualche parte, un po’ distante, sembra suonare un ritmo caldo: “Brother, brother, brother there’s far too many of you dying”. Accompagna l’ultimo giro di van der Poel, fa da cornice al breve rettilineo finale: van der Poel si inchina sul traguardo, mostra i muscoli, ritto verso un rito che lo porta al suo quarto titolo mondiale. Un successo reso ancora più grande da un grande avversario come van Aert che chiude a trentasette secondi.
P.S. Una postilla sulla divertente gara delle Under 23 femminile andata in scena poche ore prima: vince Fem van Empel, diciotto anni, che solo pochi anni fa giocava a pallone e sognava un giorno di vestire la maglia del Bayern Monaco. Quinta Francesca Baroni: un risultato di spessore, il migliore della spedizione azzurra.
Foto: Dion Kerckhoffs / BettiniPhoto © 2021
Si parte? (Ma si arriva?) - Tra maglie iridate (tre) e superstizioni
Come finisce, tutto prima o poi ha un inizio, logico meccanismo sul quale non serve nemmeno stare troppo a ricamare. Passano, ahinoi, le stagioni, scandite irrimediabilmente dagli eventi sportivi. Domani ci sarà una sorta di incrocio tra strada e cross, una sorta di fine che coincide con una specie di inizio: non chiamiamolo passaggio di consegne per carità, non lo è, ed è anche brutto da dire.
Nella sabbia belga andrà in scena l’atto principale – non quello conclusivo, ma ci siamo vicini – della stagione del ciclocross. Il Mondiale, a Ostenda, in Belgio, con quel tratto in spiaggia dove van Aert e van der Poel possono sprigionare potenza inaudita e più che pensare al gelo che arriva dal mare del Nord si prenderanno a biciclettate nei denti per l’ennesimo atto di una rivalità che parte da lontano nel tempo e che si riversa in strada e nel fuoristrada: il desiderio massimo, ma non diciamolo troppo ad alta voce, per questo 2021, sarebbe vederli contro sul pavè della Roubaix. Magari in una Roubaix (come un sogno) bagnata.
Tre a tre è il conto delle loro maglie iridate (tra gli élite), e, ironia della sorte, al via c’è un altro ragazzo che di titoli ne ha vinti tre, ma che ormai col ciclocross ha poco a che fare, Zdeněk Štybar. I tre oltretutto sono gli unici in gara ad aver vinto il mondiale nella massima categoria. In questa stagione del cross, Štybar, per “gli amici” Štiby, non si è mai visto, ma raccontava nei giorni scorsi di essersi allenato spesso in questo periodo con van der Poel, anche in mountain bike. Un privilegio. Ha aggiunto anche che è al via pagando tutta la trasferta di tasca sua e che invece di portarsi dietro venticinque coppie di ruote come ai (suoi) bei tempi, ne avrà soltanto sette. A proposito di numeri e di numeri tre: esiste una lista di terzi incomodi, anche abbastanza lunga e che difficile possa includere il ceco e lo diciamo con rammarico: stuzzica molto Sweeck su un percorso del genere, Pidcock è uno che sa esaltarsi nei grandi appuntamenti, ma il percorso potrebbe vederlo tagliato fuori, mentre occhio a Vantourenhout che è stato uno dei più continui in stagione.
Tra le ragazze al via oggi, andrà presumibilmente in scena il Festival della Pedalata Olandese, nulla di nuovo, nulla a cui non siamo abituati, chi si veste di arancione ha una certa affinità con le vittorie. Sorte simile domani nella gara delle Under 23, qualche nome extra c’è: Vas, che non è Vos e arriva dall’Ungheria, Kay, sono nomi che stuzzicano la fantasia anche in chiave vittoria, occhio a loro per un pronostico nederlandifferente. Un accenno pure alle italiane, Lechner e Arzuffi, tra le élite (oltre a Teocchi, Gariboldi e Persico): un risultato nei primi dieci per le due azzurre sarebbe un traguardo da sogno. Qualcosa simile si può sperare anche con il trio in campo tra le più giovani: Baroni, Casasola, Realini in rigoroso ordine alfabetico. Anche se questa sabbia è dura da digerire.
Ma domenica si apre – in un certo senso – la stagione del ciclismo su strada, un po’ stampo anni ’90 con il Gp d’Ouverture – La Marseillaise. Anni ’90 perché a quei tempi quando leggevi il nome di quella corsa sapevi che finalmente si alzava il sipario. Poi le cose sono cambiate, Australia, Sudamerica a dare il là e a spostare altrove l’attenzione; è vero che si è già iniziato a correre (pochissimo per la verità) anche quest’anno ma è altrettanto vero che dalla rumorosa e multietnica Marsiglia si proverà a dare uno scossone al freddo torpore di un ciclismo che non si sa quando sarebbe iniziato e non si sa quando finirà, né come continuerà.
Intanto per il momento corse su corse vengono spostate a maggio, altre cancellate e ci rivediamo nel 2022. Anche il calendario giovanile è ancora una volta martoriato e – quasi sotto traccia – perde appuntamenti su appuntamenti, ed è un mezzo disastro su tutti i fronti.
Gp Marseillaise: ci sono sempre strane voci attorno a questa corsa, si parla di superstizione, e si sa che gli sportivi, i professionisti, ne sono sempre affascinati – proprio in senso etimologico, da fascino, fascinum – “maleficio”, oppure “amuleto a forma di…” e ci fermiamo qui. La si definisce “La maledizione della Marsigliese”. Si dice che chi vince questa corsa vivrà una stagione negativa. Lo scorso anno, per dire, primo fu Cosnefroy, poi in realtà è stato protagonista al Tour di tante belle fughe e di una buona stagione, ma il suo 2021 invece inizierà in ritardo per un problema al ginocchio.
Nel 2019 ha vinto Turgis che è l’ultimo superstite della dinastia di fratelli che hanno abbandonato il ciclismo giovani e giovanissimi. Jimmy si è ritirato a 29 anni, Tanguy, che pareva un talento super, a nemmeno 20 dopo aver ben figurato al Fiandre e alla Roubaix. Vichot che ha vinto nel 2017 si è ritirato quest’anno per problemi fisici legati all’overtraining.
A togliere ogni dubbio ci pensa tuttavia Bernard Hinault che nel 1982, terza edizione della corsa, vinse Marsigliese, Giro e Tour. Nell’albo d’oro figura anche Justin Jules che vinse qui nel 2013 e che nel 2008 fu condannato a 5 anni, poi ridotti a 3, di prigione per l’omicidio del patrigno. Justine una sera nel 2004 reagì fatalmente stufo di vedergli alzare le mani per l’ennesima volta su mamma e fratello. Il padre naturale di Justin invece era una buona speranza del ciclismo francese, nel 1984 vinse una tappa al Tour, due anni dopo morì a 26 anni in un incidente stradale. Ma queste sono storie sulle quali ci ritorneremo magari più avanti. Ora godiamoci nuovamente un po’ di ciclismo con van Aert contro van der Poel e speriamo persino che il destino possa farsi beffe della superstizione e che da Marsiglia in avanti (a proposito: Trentin e Vendrame tra i favoriti) si possa vivere una stagione di ciclismo. Avevamo scritto “piena di ciclismo” corretto e cancellato viste le ultime: a febbraio sta saltando una corsa dietro l’altra. Il problema è che poi svoltato l’angolo la stagione da marzo in avanti partirà a tutta. Si spera, almeno, perché non c’è molto altro da fare oltre che attaccarsi alle speranze. D’altra parte i tempi sono questi.
Foto: Nico Veereken/PN/BettiniPhoto©2021