Oggi – così iniziamo la partita a carte scoperte – non so proprio che scrivere. La giornata di ieri è cominciata in un luogo inatteso: casa mia. Ero lì perché la sera del giorno di riposo ho partecipato al rosario di un amico, un vecchio compagno di squadra. La sua morte, inattesa e tragica, ha gettato nello sconforto me e tutti coloro – davvero tantissime persone – che gli volevano bene.
Già il giorno di riposo stranisce, ma eventi del genere srotolano dai veli in cui la Corsa rosa avvolge chiunque la frequenti. Ho dunque chiesto ai miei compagni di viaggio di raggiungere autonomamente il Bondone: io sarei arrivato nel primo pomeriggio. Sono arrivato in cima che non sapevo nulla o quasi della tappa, né mi interessava granché. Avevo la testa da un’altra parte.
Guidando per le rampe del Bondone, osservavo gli occhi delle persone che, felici, pedalavano sull’ultima asperità di giornata in attesa dei corridori. Vorrei essere chiunque di loro, pensavo. Che non fossi esattamente centrato me lo fa capire con sonore suonate di clacson il furgoncino della Bardiani dietro di me: in un paio di tornanti ho rallentato fino a far spegnere il motore e il plotoncino di ammiraglie alle mie spalle non ha gradito.
Quando sono arrivato in cima, ho sbagliato direzione per dirigermi al quartier tappa e, in un attimo, mi sono trovato a due chilometri dalla sala stampa e dal suo buffet. Poco dopo si è messo a piovere. No dai, non è possibile. La prendo tutta, afferro due panini al volo, doppia cipolla, uno lo mangio l’altro si bagna. Arrivo finalmente davanti ad un televisore che mancano dieci chilometri.
Sono stati, finora, i dieci chilometri più belli del Giro d’Italia. Senza accorgermene, la Corsa rosa mi ha portato via, tra i lupi e gli orsi del Bondone, sotto le acque del Garda, tra gli amici miei a Traversetolo. E forse è questo, tutto ciò che chiediamo al Giro: di prenderci per mano, ogni tanto, e di condurci in una delle ultime città della fantasia.