La Promenade de Pogačar
Una giostra si affaccia sugli ultimi cento metri della Parigi-Nizza. Otto tappe, quasi millecento chilometri, alcuni dei migliori corridori del mondo, un paio di arrivi in salita e altrettante tappe molto mosse: il tutto per arrivare a un’attrazione per bambini. Non è l’unica giostra sulla Promenade des Anglais, ma sicuramente la più bella: ombreggiata da alcune palme e pini marittimi, piena di lucine e colori, sulla quale si può salire – sogno di un bambino dai lunghi capelli castani – col gelato in mano.
Due gemelle bionde, entrambe vestite con una minuscola giacchetta di jeans e le scarpine rosa, sono in sella a un cavallo bianco dalla sella celeste. La giostra si sviluppa su due piani: il primo a livello del terreno e un secondo, molto più piccolo e limitato, verso il tetto della giostra stessa, verniciato da scene frugali o nature morte. Si arriva al piano rialzato grazie a due scale di legno, che nella loro semplicità risaltano tra orpelli disposti ovunque. Non sono molti i bambini che si avventurano al piano rialzato: esso contiene molti meno animali e diverse sirene con la coda biforcuta, che spaventose si susseguono lungo tutto il perimetro della giostra. Solo un bambino siede da diversi minuti lassù e sembra divertirsi come un matto, da solo.
La Parigi-Nizza non è andata in modo diverso. Un solo corridore può abitare il piano rialzato di quella giostra che è il ciclismo: Tadej Pogačar ha di nuovo sbaragliato la concorrenza in una corsa a tappe di breve durata. L’ultimo insuccesso (per così dire, arrivò comunque sul podio finale) in questo tipo di corse risale al Giro dei Paesi Baschi nel 2021. Quest’anno ha preso parte a 15 giorni di corsa: sette vittorie, più due classifiche generali. Prima di Pogačar , l’ultimo corridore ad aver registrato nove vittorie prima di metà marzo fu Tom Boonen nel 2006.
Qualcuno lo chiama “il bimbo” per i lineamenti rotondi e il sorriso fanciullesco, ma il modo in cui ha distrutto la Parigi-Nizza non ha nulla di infantile o improvvisato. Disdetta la partecipazione alle Strade Bianche per cause logistiche, fa il diavolo a quattro già nelle prime due tappe, perlopiù piatte, dove riesce a prendere preziosi secondi di abbuono. Lavora ai margini perché sa che la Jumbo-Visma di Vingegaard è favorita nella crono-squadre: i calabroni vincono, ma senza dominare. Nel primo arrivo in salita della Corsa del Sole (è un soprannome meteorologico come La Primavera per la Milano-Sanremo: con essa torna la bella stagione) Pogačar scherza col resto del gruppo. È una salita da Pogačar , circa 7 chilometri al 7%, quelle che durano una ventina di minuti in cui lo sloveno sembra alieno.
È Vingegaard ad attaccare per primo. Se ne vanno in due, i soliti due. Il danese chiede il cambio, Pogačar non accetta, lo affianca per alcune decine di metri come a dire beh? Tutto qua? Poi si rimette a ruota, guarda la telecamera e sorride a bocca chiusa, quasi fosse a passeggio la domenica dopo pranzo. Vingegaard si spegne abbastanza presto e Pogačar batte Gaudu allo sprint.
Tre giorni dopo, sul Col de la Couillole, un momento significativo è ai –6. Vingegaard esce fortissimo da un tornante e rilancia l’andatura alzandosi sui pedali, ma appena si siede è Pogačar a fare la differenza. Nello stesso momento, in fondo a quel gruppetto, Aurélien Paret-Peintre cade: è una strana riproposizione, forse, dell’effetto farfalla nella teoria del caos. Il vento frontale consiglia a Pogačar di non insistere nell’azione, ma allo sprint di nuovo non ha rivali. È la messa in scena di un copione: glaciale nella programmazione, sovrabbondante e quasi eccessivo nell’esecuzione.
Riesce ad andare via davvero, invece, nell’ultima tappa, rapsodica altalena tra le colline attorno Nizza. Il Col d’Eze è divenuto, negli ultimi anni, l’ascesa finale tipica della Parigi-Nizza: a volte è stato addirittura sfruttato un altro versante per una cronoscalata. È una salita conosciutissima dai tanti professionisti che vivono in zona e ci si aspetta un attacco lì.
Chi sta mangiando ostriche nel privé all’arrivo posa la conchiglia per indicare il maxi-schermo, chi passeggia per la Promenade des Anglais anziché sedersi sulle famose panchine azzurre corre alle transenne per prepararsi al passaggio della corsa. Un uomo regge l’Equipe e il suo titolone a tutta pagina sul rugby (la Francia ha rifilato 53 punti all’Inghilterra a Twickenham) con una mano e con l’altra guarda la corsa con lo smartphone. Si sono svuotati The service course e il Café du cycliste, due ciclo-bar che vanno per la maggiore per la pausa a metà pedalata. Questa parte di Nizza, che sembra un po’ il lungomare di Rimini e un po’ il rinnovato e finto quartiere Isola a Milano, ecco anche questa Nizza trattiene il fiato per Tadej Pogačar sul Col d’Eze. Attacca.
Simon Yates lo vede partire, proprio al suo fianco, senza nemmeno che si alzi sui pedali. Non pensa nemmeno di accelerare per provare a stargli dietro. Con Gaudu, Vingegaard e Jorgenson prova a dare cambi, a inseguire con quanto ne ha, ma nemmeno quattro contro uno riescono ad avvicinarsi, a riprenderlo. Pogačar scollina per primo e la picchiata verso Nizza è perfetta: la giostra, la folla e la bandiera a scacchi attendono solo lui.
Un azzeccato paragone tra corse ciclistiche e circo fu portato avanti da Vasco Pratolini inviato al Giro d’Italia 1947. Il grande mattatore delle giostre, un Gino Bartali rinominato Buffalo Bill, non era in gran forma e le batoste che subiva da un Coppi lanciatore di coltelli avvolsero la corsa di un manto triste, decadente. È una sensazione simile a quella che traspare dalle parole di Romain Bardet dopo il dominio di Pogačar alla Parigi-Nizza: «Non continuerò a correre a lungo se ciò comporta esclusivamente dover prendere mazzate come questa». Eppure, ancora per diverso tempo su queste giostre si parlerà sloveno. È un circo, il ciclismo moderno: una esibizione attira tutto l’applauso del pubblico e gli altri attori sbirciano da fuori il tendone.
Foto: Aurelien Vialatte
Di sloveni ubriachi, peli e sorrisi
IL SORRISO DI TADEJ
Pare che gli americani abbiano calcolato la grandezza di un asteroide passato nelle scorse ore vicino alla terra con la misura di sessantanove alligatori: chi siamo noi per non misurare la capacità di dominare una corsa in Pogačar?
Verrebbe da dire, anche: “questo ragazzo, Tadej Pogačar, è irreale”. Come definireste il suo impatto con il mondo del ciclismo? Da quando è cresciuto definitivamente in questo microcosmo sembra aver deciso di mettere per iscritto un regolamento tutto suo, ispirato a una civiltà in cui il cannibalismo era un rito, rappresentante quasi unico di un ciclismo dove si vince senza fare prigionieri e se possibile lo si fa con il sorriso stampato sul volto.
Prima era il ciuffo sbarazzino, poi la linguaccia sul traguardo de Il Lombardia rivolta a Mas o forse a se stesso e ai suoi tifosi, emblema di un modo di interpretare questo sport che di divertente sembrerebbe avere poco, in realtà, soprattutto nel momento in cui lo stai praticando; poi c'è stato quel momento durante la Parigi Nizza in cui, prima di stroncare Vingegaard e lasciarlo sul posto come un maleducato farebbe durante una passeggiata, in un sentiero, con una cartaccia, si volta verso la moto ripresa e sorride.
Ma più che irriverenza c’è consapevolezza; è l’affrontare la vita e il ciclismo così, come piace a noi, lui stacca o batte allo sprint - perché è notevole lo spunto veloce - gli avversari, e prova a farlo da febbraio a ottobre. Quest’anno non vuole mancare l’appuntamento caldo del Tour de France, con un successo finale, ma occhio anche a ciò che avverrà a breve perché dal 18 marzo al 23 aprile ci sono tre momenti segnati in grassetto, iniziando dalla Sanremo di domenica dove sarà costretto a gestire meglio, rispetto al 2022, la sua idea di fratricidio - e siccome è una spugna lo farà - mettendo però giù corsa dura, forse pure durissima dalla Cipressa e gestendo gli attacchi, i suoi attacchi, sul Poggio. Magari non quattro, cinque di fila, ma uno ben assestato in uno dei punti focali sui quali si pone l'attenzione di tutti nella celebre salita prima della picchiata verso Sanremo.
A qualcuno non piace il suo modo, oppure giudica insipido il suo rapporto con la stampa, un po’ freddo e banale, ma la gloria per Pogačar si raggiunge tagliando il traguardo per primo e basta: la vera novità per la nostra generazione di appassionati e osservatori è quella di trovarsi di fronte a un corridore che può vincere qualsiasi tipo di corsa, come accaduto poche volte in un passato ormai lontano.
Quello che importa non è quale storia abbia alle spalle, ma quale starà per scrivere: quando attaccherà e come; cosa si inventerà per vincere, in un momento storico nel quale la concorrenza è agguerrita su ogni percorso e varia, e dove lui è l'unica costante.
Pogačar non lascia nulla agli altri né al caso come nella penultima tappa di montagna alla Parigi-Nizza dove: «È stata dura, la prima vera giornata dura dell’anno ed è andata come previsto». Ovvero gol di Pogačar e palla al centro. Aveva bisogno di faticare e ha faticato e ha vinto. In quel modo leggero che conosce solo lui.
E siamo a quota 9 successi a marzo 2023 ovvero più della metà di tutto il 2021 (13) e di tutto il 2022 (16). Una crescita numerica inarrestabile.
ALTRO SULLA PARIGI-NIZZA
C’è Vingegaard che rimbalza, solo che ora fa più rumore perché ha acquisito un nuovo status: lui è quello che ha battuto lo sloveno al Tour, che fa il capitano della squadra più forte e temuta, lui è quello che appare proprio il contrario del suo rivale e per tanti aspetti ed è interessante che la faccenda vada così: che se la sbrighi ognuno a modo proprio.
Perché se Pogačar c’ha quel sorriso stampato in faccia che lo si ama o ti irrita, Vingegaard, invece, è quello che dopo il Tour, travolto dalla popolarità e dallo stress, deve staccare e scappare, fino a quasi scomparire. È quello che non si pone al momento altri grossi obbiettivi a parte la grande corsa a tappe francese, pur correndo molto, per carità non entriamo nel dibattito; è quello che in bici pare un elemento freddo e distaccato mentre a fine gara si scioglie e cerca conforto al telefono parlando con sua moglie non appena finisce una corsa. È quello che nella prima tappa di montagna di questa Parigi Nizza ci prova, attacca, getta la sfida, ma si riduce a dare lo spunto a un Pogačar che forse, se possibile, è ancora più forte dello scorso anno. Vingegaard è quello che in Spagna solo pochi giorni prima faceva il Pogačar (ecco l'unità di misura) ma poi si stacca in Francia. «Andavano troppo forte per me» dirà in riferimento all’ultimo arrivo in salita quando, facendo l’elastico dietro Pogačar e Gaudu, riuscirà a rientrare salvo poi staccarsi durante lo sprint finale. Per luglio c'è tempo, avete voglia...
E a proposito di luglio, status raggiunti e Tour de France: uno spettacolo vedere David Gaudu salito così tanto di livello da aver corso praticamente su quelli di Pogačar Un bel vedere per il simpatico scalatore francese che ora, da qui all'estate dovrà cercare di superare il tritacarne mediatico d'oltralpe che rimarcherà un fatto: “potrà un francese vincere il Tour tot anni dopo Hinault?”.
Volate, in breve: bene Pedersen che sembra avere ancora con un po’ più di margine di miglioramento rispetto al 2023 e sarà tra gli outsider più credibili nei prossimi quattro week end di corse che vedranno la bellezza di quattro grandi classiche del ciclismo imperdibili (18 marzo, Milano-Sanremo, 26 marzo, Gent-Wevelgem, 2 aprile, Fiandre, 9 aprile, Paris-Roubaix); bene Merlier che si conferma il più forte velocista al mondo in questo momento dopo un anno così così; benissimo Kooij ormai una realtà tra gli sprinter puri; tanto da imparare invece per De Lie e per il suo treno, un corridore con abilità innate nello sgomitare al Nord ancora molto poco a suo agio (lui e il suo treno) nelle volate di gruppo soprattutto quando c'è ancora parecchia freschezza in giro.
IL LEAD OUT DI VAN DER POEL
Parlare di volate di gruppo ci dà il giusto lancio per introdurre la Tirreno-Adriatico e prima di parlare di dominio sloveno anche qui, ecco un accenno a van der Poel che lancia perfettamente Jasper Philipsen nella tappa di Foligno dopo aver sbagliato tutto il giorno prima a Follonica facendo a pezzi chi gli stava a ruota e favorendo il lancio per Jakobsen.
Perfetto in terra umbra van der Poel: in un lead out che fa parlare perché arriva da uno dei corridori più amati dai tifosi e più forti del gruppo, perché lui sostanzialmente ha sempre fatto fatica in questo ruolo (e appunto il giorno prima…) ma come Pogačar, come tutti i fuoriclasse, ha un tratto distintivo che è la capacità di imparare subito dai propri errori e rimediare. E più o meno è simile ciò che accade nell’ultima tappa di San Benedetto del Tronto (a proposito, cari velocisti, massima stima per il vostro coraggio nell’affrontare arrivi di questo genere) anche qui pilota, con meno forza e meno precisione, ma è un bel vedere comunque, portando Philipsen e la sua squadra al successo numero due della stagione. Philipsen che batte Jakobsen per 2 a 1.
A proposito di Jakobsen: in questo inizio di stagione non sono mancate le vittorie, ma nemmeno i momenti in cui si vede che la paura prende il sopravvento. A San Benedetto del Tronto a un certo punto si rialza dalla ruota dei suoi compagni - invece loro perfetti nel portarsi davanti, ma appunto senza velocista al seguito. Normale dopo tutto quello che gli è successo, anzi per chi scrive resta come eccezione quello che è riuscito a fare negli anni dopo il grave incidente accorsogli al Giro di Polonia.
È stata una Tirreno Adriatico che ha vissuto sul vento contro e laterale che ha influenzato i finali di gara, soprattutto l’arrivo più importante, quello di Sassotetto; ha vissuto su un video che ha fatto il giro del mondo ciclistico e ci ha strappato un sorriso, soprattutto perché conseguenze non ce ne sono state, ma in realtà da ridere ci sarebbe poco nel vedere in diretta televisiva, mentre un corridore viene intervistato, un auto (dell’organizzazione?) che investe in pieno una bicicletta. Quel corridore, lo sapete tutti, è Ciccone, la bicicletta era la sua, e la reazione è un capolavoro di tempismo, tanto spontanea quanto empatica:c’è del genio nel salvataggio dello scattista abruzzese che riesce a censurare il finale di quella bestemmia entrando direttamente nella leggenda dei tormentoni di questo magnifico sport. Grazie Ciccone.
La Tirreno poi, ha vissuto momenti di dominio simili a quelli che avvenivano pochi chilometri più a nord ovest: uno sloveno su tutti anche qui, si tratta di Primož Roglič e anche qui di storie ce ne sarebbero da raccontare.
I PELI DI ROGLIČ
Non si può parlare sempre di contenuti tecnici, statistici, wattaggi, tattiche incomprensibili, corridori che dominano, giornalisti francesi che litigano su twitter, deve restare del tempo per Roglič che mostra fiero i peli delle gambe non depilati come ormai nemmeno più i ciclisti della domenica fanno (a parte chi scrive). Pare, si scoprirà dopo il primo dei tre successi di tappa consecutivi ottenuti nella corsa italiana, che lo sloveno della Jumbo Visma abbia fatto una scelta dettata dalla scaramanzia decidendo di non depilarsi fino al primo successo stagionale che è arrivato decisamente in anticipo rispetto alla tabella di marcia. Roglič, infatti, sarebbe dovuto rientrare alla Volta Catalunya nei prossimi giorni, ma dopo essersi testato in allenamento aveva deciso di correre la Tirreno con i risultati che tutti abbiamo visto. Tre tappe, la classifica finale, quella a punti e quella dei GPM.
Un Roglič che si dimostra ancora una volta pressocché imbattibile su certi arrivi - certo, la concorrenza sin troppo sorniona ne ha favorito l'esito - soprattutto quando c’è da sprintare in un gruppetto dopo una salita: siamo convinti che così non basterà per vincere il Giro, ma potrebbe avere ancora margine per migliorare. Ancora Rogla, poi, protagonista nel dietro le quinte come si può vedere da questo siparietto e dall'occhio lucido.
Se quest’anno la corsa non ha lanciato troppi spunti dal punto di vista tecnico, ha lasciato i veri fuochi d’artificio per altri momenti, il contorno, tra bestemmie, peli e sloveni ubriachi dopo le premiazioni, ha raggiunto picchi incredibili.
E IN CHIAVE SANREMO?
Qualcuno si è nascosto o per meglio dire ha fatto dei lavori che torneranno utili più avanti: le sgasate di van der Poel in versione pesce pilota, le tirate di van Aert ad Osimo che hanno fatto arrabbiare pure Alaphilippe e ancora Ganna in alcuni finali di tappa, vanno in questo senso, mentre qualche dubbio resta sulla condizione di Bini Girmay, corridore che in Via Roma potrebbe arrivare a braccia alzate, ma che alla Tirreno non ha convinto fino in fondo - seppure un 3° e un 4° posto sono buoni risultati, ci mancherebbe. Probabilmente anche lui ha preferito nascondersi soprattutto negli arrivi più tortuosi, per poi farsi vedere solo nel momento giusto. Spesso nella Classicissima è quello che conta, a meno che non ti chiami Mohorič e vai in giro per il gruppo a canticchiare e a dire che in discesa stacchi tutti. Ma lo abbiamo detto: il ciclismo è pieno di gente forte, sì, ma anche meravigliosamente folle e geniale.
Foto in evidenza: ASO/Aurelien Vialatte
Il Fauniera al contrario
«Meno cose hai, più emozioni vivi»: è questa la prima frase che ci dice Davide Rivero parlando di bicicletta e di viaggi. Sarà perché le emozioni che ha vissuto il 12 settembre del 2020 sono nate proprio da una situazione di privazione: sì, la pandemia da Covid19 aveva reso impossibile disputare la Gran Fondo Fausto Coppi, a cui Davide partecipava dal 2016, migliorando ogni anno il proprio risultato. La sera dell'ufficialità, leggendo la mail che lo comunicava, Davide l'aveva detto ad un'amica: «Sai cosa faccio? Il Fauniera, quest'anno, lo pedalo al contrario». Vi togliamo subito ogni dubbio, non era un modo di dire: Rivero intendeva proprio pedalare all'indietro tutta la salita del Colle Fauniera.
«Era un modo per comunicare la necessità di cambiare prospettiva, rispetto alla pedalata, ma più in generale rispetto a molte cose che la quotidianità ci presenta. Talvolta, l'unica via per sopportarle è leggerle diversamente da ciò che la società indica come lettura predefinita». Davide Rivero abita a Valgrana e il Fauniera è la salita di casa, quella che ha percorso decine e decine di volte, quella che, anche quella sera, è certo di conoscere in ogni metro: nel verde vivo della vegetazione e negli squarci ad ogni cambio di direzione. Prova a pedalare al contrario nel cortile di casa, come faceva da bambino, dalla nonna, e vede che ne è ancora capace, che dovrà allenarsi, ma si può fare. Ne parla con gli amici e l'entusiasmo viene declinato in varie forme: nella curiosità, nell'interesse, nella sorpresa e anche nell'incredulità.
Fino al giorno in cui ad ascoltare questo progetto è il suo preparatore, un giorno che avrebbe dovuto essere come tanti, invece, è stato il più difficile e, allo stesso tempo, il più facile di tutti gli altri: «Mi ha messo davanti al fatto che non sarebbe stato come lo immaginavo, ha smorzato quell'entusiasmo e, per un momento, sono stato davvero vicino all'idea di lasciare perdere. Era tardi, ero nervoso, non potevo fare altro, così sono uscito in bicicletta, pedalando al contrario a Montemale, più per sfizio che per quel progetto che, ormai, sembrava allontanarsi».
Lo vedono molti automobilisti che stanno percorrendo la stessa strada, ancora oggi si chiede cosa abbiano pensato, però ci confessa che quasi nessuno gli ha suonato il clacson o si è lamentato. Lo guardano negli occhi, cercano di capire: «Credo sia il contatto visivo a impedire la lamentela. È più difficile suonare a una persona che hai visto negli occhi: quando siamo di spalle, possiamo essere chiunque, diventiamo anonimi, il volto restituisce identità e, nel momento in cui conosci l'altra persona, anche per una frazione di secondo, sei portato a fare più attenzione. Basta un sorriso per disinnescare». Questa scena si ripeterà per molto tempo, perché, proprio in quella pedalata, Davide troverà il motivo per percorrere davvero il "Fauniera al Contrario".
Si tratta di Luca Cucchietti che, quel giorno, incontrandolo, gli dice solo: «Ma che fai? Sei folle?». I due già si conoscevano: Luca pedala in handbike, dipinge, ha molte passioni e un'idea: «Davide, vengo io con te sul Fauniera: ci copriamo le spalle reciprocamente». Il fine sarà solidale: raccogliere fondi per diffondere lo sport tra ragazzi diversamente abili.
Sì, il cambio di prospettiva è anche qui: la visuale dell'uno, completa la visuale dell'altro. «L'unico modo che avevo per riuscire a salire era fidarmi delle indicazioni di Luca, dei suoi occhi, perché ai miei era bastato vedere il Fauniera capovolto, per non riconoscerlo quasi più». Ancora oggi, pensandoci, gli sembra assurdo: quel luogo che era convinto di conoscere perfettamente, in realtà, gli era totalmente estraneo, percorso di spalle. Si torna all'attenzione, a quello su cui la mente umana si focalizza, a quello che memorizza e restituisce. Si torna al fatto che, quando si toglie qualcosa, in realtà, si aggiunge sempre.
«Se il rapporto con Luca è ancora forte, è proprio perché, in quei momenti, essendo affaticati, stanchi, abbiamo dovuto essere più veri che mai. Quando togli le sovrastrutture, resta quello che veramente sei, stai raccontando la tua verità e la verità, può piacere o meno, ma resta». Fra le verità c'è l'attesa, la preparazione, che è la parte più forte, quella in cui si inizia a vivere la festa, intesa come condivisione. Perché, già da prima di quel 12 settembre, in città se ne parla, le persone chiedono e ognuno vede qualcosa di diverso in quell'idea: «Credo sia giusto così, sia bello così. Per me festa significa proprio condivisione. È festa quando tante persone, che non si conoscono, sono accomunate da qualcosa, e per questo si incontrano, si parlano, pranzano assieme o condividono un tratto di prato del Fauniera per aspettare. Forse non si sarebbero mai incontrate, non si sarebbero mai guardate negli occhi, invece hanno un motivo per farlo, per sentirsi unite».
Il venerdì sera, 11 settembre, piove forte, diluvia, ma il sabato non c'è una nuvola, è la classica giornata di fine estate, mentre Davide e Luca, al mattino, iniziano la loro sfida. Davide pedala su una Cinelli del 1987, la più vecchia che ha, perché non ammortizzando è più stabile. Luca è lì, a coprirgli le spalle, a raccontargli ciò che sempre aveva visto. Un viaggio che durerà più di 30 chilometri, circa 1900 metri di dislivello, due ore e quaranta minuti: il tutto in mezzo a tanti ad aspettarli, a pedalare con loro.
«In vetta eravamo stanchi, felici, ma anche dispiaciuti, svuotati. Era finita, l'avevamo fatto, restava un ricordo. Succede sempre così: l'emozione più intensa è nell'immaginare ciò che sarà, quando, invece, quel che aspetti è passato non sai più a cosa pensare, qualunque cosa non ti basta. Ad oggi, penso sia stata una delle più belle giornate della mia vita. Credo sia l'altro volto che ho dato alla bicicletta, che per me era molto legata ai numeri e alle prestazioni. C'è un prima e un dopo nel mio rapporto con il ciclismo: il "Fauniera al Contrario" è lo spartiacque».
Non è finita qui, anche se così parrebbe. Davide Rivero, oggi, corre a piedi, la bicicletta è rimasta e non potrebbe mai lasciarla, forse anche per quel giorno di settembre, ma la sua attività sportiva ha cambiato focus. Mutare prospettiva, unire due sguardi diversi, gli è servito proprio a questo: «Spesso, quando qualcosa finisce, lo copriamo con la malinconia o la dimenticanza, invece dovremmo portarlo con noi, salvandolo da tutto il resto, proprio per l'importanza che ha avuto, per quanto ci ha fatto felici. Pedalare al contrario ha salvato la mia bicicletta».
Il questionario cicloproustiano di Marta Cavalli
Lo chiamano questionario proustiano, ma in realtà Marcel Proust non scrisse le domande: divennero famose le sue risposte poi trovate in un cassetto e pubblicate su una rivista letteraria. Quel manoscritto, come racconta Rivista Studio, è stato battuto all'asta qualche anno fa per centoduemila dollari. È diventato una sorta di "genere giornalistico" e noi lo chiameremo cicloproustiano, perché alcune domande verteranno più sul nostro sport preferito e inizieremo da Marta Cavalli, di mestiere corridore.
Il tratto principale del tuo carattere?
Umiltà
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Serietà
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Sincerità
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Lealtà
Il tuo peggior difetto?
Essere troppo testarda
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Cucinare
Cosa sogni per la tua felicità?
Di non lasciarsi ostacolare dalle difficoltà
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Che l'inverno durasse per sempre
Cosa vorresti essere?
La miglior versione di me stessa
In che paese/nazione vorresti vivere?
Austria
Il tuo colore preferito?
Blu
Il tuo animale preferito?
Aquila
Il tuo scrittore preferito?
Non ho uno scrittore preferito
Il tuo film preferito?
Avatar
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Sfera Ebbasta
Il tuo corridore preferito?
Mark Cavendish
Un eroe nella tua vita reale?
Il mio coach Flavien
Una tua eroina nella vita reale?
Mia mamma
Il tuo nome preferito?
Andrea
Cosa detesti?
Non vedere riconosciuti i meriti
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Erode
L’impresa storica che ammiri di più?
L'allunaggio di Neil Armstrong
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
La fuga solitaria in Yorkshire (Campionati del Mondo) di Annemiek van Vleuten
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d'Italia
Un dono che vorresti avere?
Teletrasporto
Come ti senti attualmente?
Ottimista
Lascia scritto il tuo motto della vita
Crederci sempre, arrendersi mai