Le idee che nascono in bici

«La maggior parte delle idee mi vengono quando sono in bici», ha raccontato qualche giorno fa Luis Ángel Maté, l'ultima, dice, gli è arrivata mentre si allenava sulla Sierra Nevada in preparazione alla prossima Vuelta.
Luis Ángel Maté da un paio di stagioni difende i colori della Euskaltel Euskadi, i colori mitici del ciclismo basco, quelli arancioni, dopo aver corso per una vita intera con la Cofidis e aver condiviso anche un'esperienza biennale con l'Androni di Savio.
Maté non è mai stato un ciclista qualunque, conosciuto più per le sue fughe in terra spagnola, che per le vittorie, più per la sua sensibilità fuori dal gruppo, che per qualche scatto bruciante, amato per la disponibilità con i tifosi e i compagni di squadra, per la sua affidabilità in corsa. Molti se lo ricordano anche come grande amico di Michele Scarponi, ad altri gli viene in mente di quando lo scorso anno al termine della Vuelta intraprese un viaggio particolare.
Ogni cambiamento parte da una piccola azione, ogni idea che può sembrare ininfluente, può essere di ispirazione per qualcun altro. Il classe '84 spagnolo nel 2021 decise di percorrere, subito dopo aver concluso la corsa a tappe spagnola - 16° Grande Giro portato a termine in carriera - 1000 km su due ruote da Santiago di Compostela, dove si chiuse la corsa, fino a Marbella. «Volevo semplicemente prendere la mia bicicletta e tornare a casa senza usare l'auto o l'aereo, usando soltanto le mie gambe, in armonia perfetta con me stesso e con quello che mi circonda». Non un'idea rivoluzionaria magari, ma un piccolo contributo che il corridore andaluso ha voluto dare al racconto («Tutto quello che ho - disse - me lo ha dato la bicicletta. Non il ciclismo, non il mio lavoro, la bicicletta pura e semplice attraverso cui sto imparando a conoscere il mondo e anche me stesso») e alla mobilità sostenibile, alla vicinanza con il territorio e l'ambiente: «Noi ciclisti abbiamo il privilegio di correre negli stadi più meravigliosi e imponenti del mondo, immersi dentro scenari unici. È nostro dovere cercare in qualche modo, in ogni modo, di prenderci cura di loro».
Fra una decina di giorni Maté, che, come scrive un giornale spagnolo, è "Soprannominato la Lince Andalusa non tanto per la sua vista particolarmente portentosa, ma più che altro per la sua astuzia, la sua capacità di vedere oltre l'ovvio», prenderà il via della Vuelta e, come detto, allenandosi in altura gli è venuto in mente di donare un albero per ogni chilometro che passerà in fuga nella corsa a tappe spagnola al Parco Naturale Los Reales della Sierra Bermeja. "Il mio ufficio, la nostra casa" ha definito quel posto, che è la Sierra Bermeja andalusa, ma in realtà Maté parla di ogni luogo.
La Sierra Bermeja lo scorso anno fu devastata da un terribile incendio attivo per 46 giorni e che distrusse oltre 10.000 ettari e costrinse circa 3.000 persone a lasciare le proprie case. Luis Angel Maté ha fatto partire la sua iniziativa donando 100 alberi (altri 100 sono stati donati dalla sua squadra e altri 100 dagli organizzatori della Vuelta), con l'obiettivo di sensibilizzare; noi ci auguriamo possa avere le gambe migliori possibili alla Vuelta per riuscire a scappare ogni giorno dal gruppo, e magari farsi venire in mente qualche altra nuova idea. Piccola o grande che sia non importa, si inizia sempre da qualche parte.


Bizzarrie del ciclismo lusitano

"Menos doping, mais vinho tinto", meno doping più vino rosso, prova a raccontarla così una ragazza che regge un cartello visto lungo la strada durante una delle prime tappe della "Grandissima", o meglio "A Grandissima", se volessimo dirlo in portoghese, il nome con cui è conosciuto la Volta a Portugal arrivata quest'anno all'edizione numero ottantatré e iniziata qualche giorno fa con il prologo di Lisbona.
La prova iniziale l'ha conquistata il più forte specialista contro il tempo portoghese, Rafael Reis, uno dei diversi corridori che assume un contorno quasi misterioso, perché spesso capita come, usciti da quel contesto, improvvisamente valgano di meno. Reis che di recente ha conquistato il titolo nazionale contro il tempo, dominando la prova davanti a Oliveira e Almeida, concedendo poi il bis ai Giochi del Mediterraneo.
Meno doping e più vino rosso, dicono i tifosi portoghesi che letteralmente impazziscono per la loro corsa di casa; meno doping, già, perché il ciclismo portoghese è nel caos. Alla vigilia, l'UCI ha ritirato la licenza alla squadra di riferimento del nord della regione, la W52/FC Porto, e secondo Cyclingtips senza questa squadra salteranno tutti gli accordi commerciali futuri per portare la corsa in alcune di quelle zone e, sempre come racconta la testata nordamericana, il capo dell'agenzia antidoping lusitana è stato minacciato con tanto di proiettile recapitato a casa; la W52/FC Porto è stata così esclusa dopo alcuni casi che hanno portato alla perquisizione e al ritrovamento di sostanze dopanti. Come spiegato da Cicloweb "sono stati sospesi per traffico di sostanze illecite e utilizzo di “metodi proibiti”"; un'indagine che va avanti da diverso tempo con arresti e perquisizioni di atleti e dirigenti del team. Altre squadre alla vigilia hanno dovuto fermare alcuni corridori e in un clima da crime story si è partiti lo stesso, nonostante si fosse arrivati non troppo lontani da una clamorosa cancellazione.

Si va avanti lo stesso per quella che è la festa del ciclismo portoghese, una corsa sentita dalle loro parti come, o forse anche più, del Tour de France e del Giro d'Italia, una corsa che fu un Grande Giro di tre settimane e che ora si corre in circa dieci giorni; che è nata prima della Vuelta a España e che ha avuto nell'albo d'oro il più grande corridore lusitano della storia, quel Joaquim Agostinho che l'ha vinta tre volte (recordman fino alle quattro vittorie di Chagas negli anni '80 e poi di Blanco più recentemente); quel Joachim Agostinho che morirà dopo aver investito due cani randagi in corsa (era la Volta ao Algarve del 1984), quel Joachim Agostinho, tanto brutto da vedere in bicicletta, quanto efficace, capace di chiudere due volte sul podio del Tour e di vincere pure un Trofeo Baracchi in coppia con Van Springel finendo davanti a Merckx (3° in coppia con un giovane Boifava) che al termine di quella gara venne insultato dalla folla al grido di "Droga! Droga!".
Joachim Agostinho era sgraziato come lo è il più forte ciclista portoghese di oggi, João Almeida: anche lui non fa della bellezza in bici il suo marchio di fabbrica, quanto l'efficacia. Almeida non ha mai corsa la Volta, e nei prossimi giorni sarà al via della Vuelta España in nome di un ciclismo che, purtroppo per loro, vede i migliori talenti (così è anche per Guerreiro, e così sarà per Morgado, segnatevi il suo nome), trovare slancio in campo internazionale emigrando altrove.

Ma la Volta a Portugal è questa: una corsa che di internazionale ha poco, hanno vinto praticamente solo iberici, tanto che in 82 edizioni si contano due successi italiani, Lelli e Serpellini, uno svizzero, uno britannico, uno danese, uno belga, uno polacco, uno russo e uno persino brasiliano e il resto diviso tra Portoghesi (59) e spagnoli (13, tutti arrivati dal 1999 in poi). Una corsa che lancia corridori che poi al di fuori di quelle strade - pensate ad esempio ad Alarcon o ad Antunes, nomi mitologici e vincitori di quattro delle ultime cinque edizioni - fanno fatica (eufemismo) a imporsi.
Una corsa che riesce a stupirti per alcune bizzarrie, come ad esempio il magnifico design del traguardo, due enormi braccia che reggono lo striscione d'arrivo; dove succedono cose al limite come il tifoso che scavalca, con un guizzo degno di un saltatore in alto di un'epoca pre Fosbury, le transenne, mentre il gruppo arriva a tutta velocità a giocarsi la volata - scopriamo, grazie a Leonardo su Twitter, che quello non era un tifoso, ma Candido Barbosa, vincitore di venticinque tappe in questa corsa, tra il 1999 e il 2010, altro nome che al di fuori di qui non si è mai imposto; oppure il capolavoro fatto dal corridore spagnolo Xavier Canellas, un gesto che è ormai leggenda.

Nella tappa di qualche giorno fa con arrivo in salita a Covilhã appariva attorno al suo nome la scritta DSQ, squalificato. Squalificato perché? Ha tagliato il traguardo - sorridente e divertito - con un cappello di paglia al posto del casco, sembrerebbe per protesta contro la direzione di corsa, per aver corso con un caldo quasi insopportabile. Tutto questo è Volta a Portugal.
Corsa difficile da non amare. Pensate all'uruguaiano Mauricio Moreira, che, vista l'esclusione dei W52 Porto, arrivava alla vigilia come il favorito assoluto. Forte in salita, si difende molto bene a cronometro, dotato di spunto veloce, attualmente, a poche tappe dal termine, è al secondo posto della classifica generale alle spalle del compagno di squadra Frederico Figuereido, altro mattatore assoluto quando si corre in Portogallo.
Un nome che potrebbe apparire esotico quello di Moreira, ma su cui qualche squadra del World Tour potrebbe scommettere per il prossimo anno, a patto di fidarsi delle stravaganti notizie che coinvolgono il ciclismo lusitano. Un circo meraviglioso, tra casi di doping e vino rosso, tra passaggi in mezzo agli incendi e caldo insopportabile. Una corsa da andare a seguire e raccontare almeno una volta nella vita.

Foto da: volta-portugal.com


Cosmopolitismo

Forse potrà sembrare qualcosa di poco conto. Come un gingillo di qualche tipo che, piazzato in casa, assume un significato solo per chi ce l'ha messo, perché gli fa venire in mente "quella volta in cui" o qualcosa del genere, pur non essendo particolarmente bello.
Leggendo "vittoria alla Vuelta a Burgos" c'è chi storcerebbe il naso, ma leggendo "vittoria alla Vuelta a Burgos" bisogna poi andare a interpretare lo spazio tra le righe o semplicemente ascoltare le parole di Sivakov: «Sono felicissimo, un successo mancava da troppo tempo. Ne avevo bisogno».
Arriviamo dalle settimane delle corse travolgenti al Tour de France, è vero, con una forza d'urto tale di emozioni che tutto il resto ci sembra sopraffatto da diventare così piccolo. L'eclettico gigantismo ciclistico di van Aert, il dinamico regolare rigorismo di Vingegaard, l'effervescente avanguardismo spavaldo di Pogačar, ingredienti che ci hanno riempito gli occhi e colmato le giornate di luglio. Di tutto luglio.
Poi è arrivata la Vuelta a Burgos - e altre corse d'agosto e altre ce ne saranno, per fortuna - ed è tornato al successo Pavel Sivakov. Non vinceva da tre anni esatti e in carriera ha vinto così poco da non crederci. Da ragazzo era un gioiello capace di splendere raccogliendo successi da prima pagina e quando cadeva - purtroppo cade spesso - si rialzava il giorno dopo per compiere l'impresa. Ci riferiamo a quel suo magnifico anno 2017 quando conquistò il Giro d'Italia Under 23, quello Ciclistico della Val d'Aosta e poi, quando si pensava potesse infilare una tripletta con l'Avenir, si accontentò (per modo di dire) di vincere in fuga da lontano la tappa di Albiez-Montrond.
Sivakov, che in quella stagione pareva un piccolo despota di quelli che fanno e disfano a proprio piacimento, alla Ronde de L'Isard - altra corsa a tappe di riferimento per la categoria - non passò un giorno senza attaccare da lontano: iniziò nella prima tappa - cancellata per condizioni meteo avverse; dominò la seconda con arrivo a l’Hospice de France lasciando Lambrecht a 1’17”; per finire l'opera da tramandare nella quarta frazione quando si prese il lusso di vincere come i dominatori del ciclismo passato. In maglia di leader attaccò in discesa a oltre cinquanta chilometri dalla conclusione vincendo davanti a Knox, Antunes e al terzetto belga Lambrecht, Cras, Vanhoucke con quasi un minuto di vantaggio; il settimo arrivò a oltre quattro minuti.
Vuelta a Burgos, corse a tappe, Pavel Sivakov e fuga da lontano. Uniamo i puntini. Ha attaccato da lontano per conquistare la classifica finale della breve corsa a tappe spagnola; ha attaccato, Sivakov, con quella mascella da divo dei film d'azione; è cresciuto, e che possa essere definitivamente esploso non è la breve (e piccola) corsa che ce lo deve dire, quanto forse quella più grande (la Vuelta, se lui ci sarà) tra un paio di settimane, o forse ce lo dovrà spiegare la INEOS se deciderà di fare di lui quell'atleta che abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare lontano da stratagemmi tattici volti a incatenarlo, ma lasciandolo libero di interpretare la corsa, magari attaccando un po' quando gli pare e sente, come il ciclismo di queste ultime stagioni, quello dei Pogačar, van Aert o van der Poel, ci sta insegnando.
Scorre il tempo, e noi ci sentiamo placidi sognatori a pensare una cosa del genere; scorre a volte lento come un temporale estivo che si avvicina e sembra non sfogare mai la propria forza sulla sua testa, scorre lenta la crescita di Pavel Sivakov, nato in Italia, prima russo e ora francese, cresciuto in una squadra svizzera e adottato da una inglese che ha spesso fatto dell'intransigenza tattica il suo mantra. Scorre il tempo di Pavel Sivakov, ma prima che possa schioccare le dita e dirsi già perso, lo attendiamo dove tutti pensavamo di trovarlo qualche stagione fa. In mezzo al mondo, in cima al mondo. Alla prossima Vuelta (Carapaz permettendo ) capiremo cosa sarà diventato, se uomo di classifica, se gregario di (extra) lusso, se attaccante ritrovato. L'importante però è vederlo di nuovo lì davanti.


Di bicchieri bevuti, pieni o a metà, di cerchi che si chiudono

Tre momenti per raccontare Jasper Philipsen. Tre storie che raccontano il passaggio del ragazzo di Ham, dieci chilometri a sud di Mol, Belgio, da contenitore pieno di speranze per le corse di un giorno, attirato dentro al mondo belga come erede della tradizione degli uomini da pavé, a contenuto fatto a potenza capace di scontrarsi con Jakobsen, Ewan, Groenewegen o van Aert per capire chi è il più rapido al mondo quando si tratta di bicicletta, e quando quella bicicletta viaggia su strada, e possibilmente si arriva in volata.
𝗟𝗮 𝗳𝗼𝘁𝗼 𝗰𝗼𝗻 𝗧𝗼𝗺 𝗕𝗼𝗼𝗻𝗲𝗻
C'è stato un momento in cui Philipsen era considerato a tutti gli effetti l'erede di Boonen. Ed era lo stesso Boonen che alimentava quest'idea, parlandone sui giornali e nei programmi televisivi, allenandosi con lui, raccontandolo sui social. Nello sport, la così detta legacy è qualcosa con cui prima o poi nella vita, in molti fra quelli dotati di talento, ci si devono scontrare. Ci sarà sempre un nuovo Jordan, un nuovo Maradona, un nuovo Merckx. Se nasci a Mol, come Jasper Philipsen nel 1998, come Tom Boonen diciotto anni prima, e metti in campo caratteristiche di quel tipo - veloce, adatto alle pietre, un classicomane in soldoni - non puoi che essere considerato colui che proseguirà la tradizione. Conserva a casa, Jasper Philipsen, una foto scattata nel 2006: lui e suo fratello con in mezzo Tom Boonen, che in quella foto ha in mano una bicchiere di birra bevuto a metà. I due giovani Philipsen indossano la maglia di campione del mondo, omaggio al loro idolo, e Jasper solo da poco aveva iniziato a pedalare. «Preferivo il calcio, ma non sopportavo di stare in panchina». Poi Boonen lo battezza: prevede per Philipsen un futuro da cacciatore di classiche. E noi con lui.
𝗣𝗿𝗶𝗺𝗮 𝘀𝗯𝗼𝗰𝗰𝗶𝗮, 𝗽𝗼𝗶 𝗹𝗲 𝗹𝗮𝗰𝗿𝗶𝗺𝗲 𝗮𝗹 𝗧𝗼𝘂𝗿
Il suo approccio con i professionisti non è stato del tutto puntuale come quello impostato sulla sveglia. Lo si pensava da subito vincente e per certi versi fu così. Volata in Australia al Tour Down Under, quinto giorno di gara della corsa per lui, in maglia UAE (voluto fortemente da Matxin che disse: «Philipsen è un predestinato per le corse di un giorno»), vince per declassamento di Caleb Ewan. Per vincere davvero bisogna invece aspettare un anno e sette mesi, per vincere ancora più seriamente altre sette settimane: eccolo che sboccia alla Vuelta, conquistando davanti ad Ackermann la quindicesima tappa. Sarà al Tour de France del 2021, però, che sembrò arrivare il suo momento. Sei “podi” di tappa, scritto così, con la consapevolezza che nel ciclismo il podio di tappa esiste solo per parlarne tra amici, per riempire le pagine o a fini statistici. Per un velocista contano solo due cose ed entrambe iniziano con la lettera v: velocità e vittoria. Quelle con la lettera p, piazzamento e podio, non devono far parte del loro vocabolario. Tre terzi e tre secondi posti di tappa e l'ultimo, il più pesante, sugli Champs-Élysées. E ci sono lacrime e quella foto che farà il giro del mondo: lui seduto sul marciapiede, consolato, ma inconsolabile, con un calice di champagne in mano che non riesce a mandare giù perché la gola e gonfia dal dolore per aver perso un'altra tappa, quella che lui sognava di vincere da ragazzino.
𝗟𝗮 𝗰𝗼𝗻𝘀𝗮𝗰𝗿𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲
Saltiamo a piedi pari tutto quello che c'è stato dai Campi Elisi 2021, facendo finta che Jasper Philipsen sia cresciuto in maniera netta e conclamata conquistando, da agosto 2021 a giugno 2022, ben 10 corse, ma nonostante ciò ancora alla scoperta del suo mondo, alla ricerca di quella burrascosa pace che i velocisti ritrovano solo dopo aver tagliato un traguardo. E così arriva il Tour, pieno di storie e scorie, pieno di watt e velocità, pieno di prodezze e prodigi e lui ci si infila egregiamente, vincendo non una, ma due volte e prendendosi di potenza l'arrivo di Parigi, diciotto anni dopo Tom Boonen su quello stesso traguardo.
«Ho realizzato un sogno d'infanzia, il sogno di qualsiasi corridore. Non voglio parlare di rivincita rispetto alla passata stagione, ma vincere qui mi rimarrà per sempre e quel contrasto fa la differenza: un anno fa piangevo a fine tappa, oggi sono il più felice del mondo». A Parigi, Philipsen si beve un calice di champagne a Parigi per Philipsen si è chiuso un cerchio.

La storia di Gaudu e Madouas

Il Tour de France di David Gaudu e Valentin Madouas è un insieme di immagini, ricordi, lunghe istantanee, infiniti momenti passati assieme. «È come lo Yin e lo Yang - ha raccontato Gaudu ai giornalisti dopo il traguardo di Parigi, riferendosi proprio alla corsa francese - può farti paura e trasformarsi in qualcosa di catastrofico, ma ti sa anche dare una felicità incredibile».
C'i sono attimi in cui si arriva stravolti come sul traguardo di Peyragudes. Gaudu è accasciato a terra con un asciugamano sul collo, quasi sfigurato dopo essersi lanciato a tutta per rosicchiare qualche secondo a Quintana, rivale per un posto nei primi cinque in classifica, in un interminabile sprint in salita. Qualche minuto dopo di lui arriva Madouas, compagno di squadra e amico; Gaudu gli prende la mano, se la porta sulla fronte e poi vicino alla bocca e gli dà un bacio.
È il suo modo per complimentarsi e rendere merito per quello che ha fatto Madouas (anche) quel giorno. Madouas è davanti in fuga, e, una volta staccato, diventa fondamentale nel supportare il suo compagno di casacca. «Devo ringraziare la squadra per come mi è stata vicina, ma in particolare devo ringraziare Valentin. Ogni volta mi salva il culo».
Madouas è così, un piccolo guerriero lo definisce Marc Madiot, colui che guida la Groupama-FDJ. Come chiamereste un corridore che, da neopro e più giovane al via, arriva 20° alla Strade Bianche? Era il 2018 e quell'edizione la ricordiamo per la pioggia e il fango e persino per la neve caduta il giorno prima: va in fuga (uno dei suoi motti è «Attaccare sempre!» mentre uno dei suoi riferimenti in gruppo è Nibali: «impressionante, fantasioso, formidabile per come si adatta a ogni situazione in corsa»), va in fuga tutto il giorno e rimane, fino alla fine, in scia ai migliori.
Ma la storia che raccontiamo è quella di entrambi, di Gaudu e Madouas e che parte da quando i due sono bambini, in Bretagna, e sono speciali per quanto vanno forte in bicicletta. "Le Telegramme" li definisce " le due pepite d'oro del ciclismo bretone".
Rivali («gli altri lottavano per il 3° posto, io arrivavo quasi sempre 2° e Valentin, quasi sempre, vinceva» ricorda Gaudu), se si può parlare di rivalità a quell'età, amici e poi inseparabili al Tour 2022. «Negli ultimi mesi ho passato più tempo con lui che con qualsiasi dei miei familiari» sempre Gaudu.
Se l'intreccio di Valentin, figlio di Laurent, 12° al Tour del 1995, con la corsa francese, parte da quando, ancora in fasce, insieme a sua mamma andava a trovare il papà corridore al villaggio di partenza, quello di Gaudu inizia nel 2008 quando i due, appena dodicenni, si sfidarono sulla Grand'Rue di Brest in un torneo di bici che in premio dava una divisa Cofidis e un biglietto per assistere all'ultima tappa del Tour de France a Parigi. Vinse (rarità) il più piccolo fisicamente («Gaudu era piccolo e fragile, mio figlio era già pronto, quadrato e potente» racconta papà Laurent), e quella differenza oggi è rimasta. Insomma, Gaudu vinse allo sprint, nella finale a due, e 14 anni dopo Valentin e David si ritrovano a sfilare per i Campi Elisi, stavolta dall'altra parte della barricata, a festeggiare il 4° posto in classifica dell'occhialuto scalatore e l' 11° del fedele compagno di squadra, premiato a fine corsa anche per essere stato "il miglior gregario della terza settimana".
«Una 4X4» definisce così Madiot Valentin Madoaus. «Per le mani - sostiene l'anziano team manager francese, vincitore di due Roubaix nel 1985 e nel 1991 - non ho mai avuto un corridore così completo». Quest'anno è finito sul podio del Giro delle Fiandre, quel giorno si faceva la corsa per Küng, ma nel finale Madouas stava meglio e piombò insieme a van Baarle sul duo di testa - van der Poel e Pogačar - cogliendo un incredibile podio. «Da lì si è come sbloccato dopo una stagione difficile», parola di David Han uno dei suoi allenatori. «Ma nessuno si sarebbe aspettato questo rendimento un salita. Ha dimostrato nella terza settimana di essere uno dei dieci migliori scalatori del Tour». Anche David, parlando del suo amico e compagno di squadra: «Me lo aspettavo davanti nelle tappe miste, ma quello che ha fatto in montagna è stato incredibile».
Il rapporto tra David e Valentin è fatto di ricordi, non solo strettamente legati al rendimento e ai risultati, non solo la mano portata sulla fronte e poi baciata, ma anche qualcosa successo quando avevano solo 9 anni: «Valentin attaccò e mi staccò. Lui primo, io secondo, ma ciò che mi rimane impresso ancora oggi fu il momento in cui tirammo fuori dalle tasche una merenda e ci fermammo a mangiarla davanti a un recinto pieno di animali. Poi siamo tornati a casa».
La storia di di Gaudu e Madouas è un insieme di immagini, ricordi, di lunghe istantanee, di infiniti momenti passati assieme. E altri ancora ce ne saranno da raccontare.


Meglio Vingegaard o Pogačar?

Al tempo, non proprio un secolo fa, ma quasi, quando il ciclismo veniva raccontato da chi seguiva la corsa sulla strada in posizione privilegiata definendosi a tutti gli effetti suiveur, la domanda che ci si faceva era: ma è meglio Bartali o è meglio Coppi?
Era una questione vera, un problema reale, nodo gordiano di ogni italiano. Era il 1940 e quell'Italia stava per entrare in guerra, ma era il 1940 e Coppi, ventenne o poco più, aveva da poco conquistato il Giro, diventando fenomeno di massa e alimentando il dualismo con Bartali.
Siamo alla retorica, sia chiaro, "mantello di porpora" come la definiva, a proposito di quel tempo, Vergani, e, altolà, nessun paragone con il passato; siamo all'enfasi, all'esaltata provocazione, all'ispirazione che ci fa domandare in questo caso: chi è meglio tra Vingegaard e Pogačar?
Fino a tre settimane fa non ci sarebbe stato nemmeno modo di fare il paragone. Più completo lo sloveno, capace di andare forte nelle gare di un giorno, come in quelle a tappe, capace di salire sul podio in tutte le grandi corse di tre settimane a cui ha preso parte, come solo Hinault e Binda prima di lui.
Predestinato, veloce di gambe e di spirito, una guida della bicicletta che non teme confronti. Ma, direte voi, il Tour de France lo ha vinto quell'altro.
Quell'altro che si chiama Vingegaard, di cui ormai conoscete la storia e il soprannome - Il pescatore; di cui ormai abbiamo imparato a capire come almeno in Francia sia stato lo scalatore più forte del gruppo, meglio ancora di Pogačar.
Quindi ci riproviamo: è meglio Vingegaard o Pogačar? Qualcuno direbbe van Aert, lapalissiano dopo questo Tour.
Aspettiamo il prossimo capitolo della loro sfida che - speriamo - potrà caratterizzare il prossimo decennio. Perché di questo ci alimentiamo, suiveur di ogni età, appassionati, lettori, autori, ciclisti, anche quelli della domenica. Meglio Vingegaard o Pogačar? Chi se ne frega, non c'è nessun nodo gordiano da sciogliere, né campanili, né un popolo che si divide in due: ognuno ha i suoi gusti e a noi ci piacciono entrambi per ciò che di differente trasmettono.
Intanto, però, non vediamo l'ora di rivederli di nuovo contro. Affannati tra tattiche rischiose e squadre dimezzate; indaffarati nel cercare di staccare l'uno o di incollarsi alla ruota dell'altro. Tra botte in salita e complimenti al traguardo.
Intanto, almeno per il Tour de France è 1-1. Per il resto si vedrà.

Che colpa abbiamo noi

Ma che colpa abbiamo noi se non siamo riusciti a capirci niente di questo Tour. 'Ché tutto girava così veloce e la media record di sempre ne è testimone. 'Ché si partiva a razzo: boom, via a cinquanta all'ora. Così, giusto per prendere la fuga e alla fine le energie per scattare ce le avevano solo un paio di corridori, un paio di corridori e mezzo, per stare larghi. E in salita la storia era fatta di resistenza e logorii da pendenza asfissiante.
Abbiamo pensato a Pogačar vincitore, facile facile, alto in sella, se fosse uno scrittore sarebbe uno di quelli in punta di penna, talmente gli viene naturale districarsi, come un serpente nella roccia, nel mestiere di ciclista.
Che colpa abbiamo noi se Vingegaard ha superato ansie e paure («quando era ragazzo vomitava prima di ogni gara» racconta sua madre e quando vinse tappa e maglia al Polonia, primo successo tra i professionisti, «mi chiamò per dire che non aveva chiuso occhio tutta la notte» parole di uno dei suoi allenatori) e ha superato pure Pogačar, che alla vigilia metteva ansia e paura, e, anzi, lo ha dominato in maniera (quasi) totale.
Sorprendente Vingegaard, che al Giro della Valle d'Aosta di qualche anno fa, quando conquistò il prologo tutto in salita, disse: «Non sono adatto alle salite lunghe». Forse soltanto la Jumbo Visma sapeva che in qualche modo sarebbe andato così forte e lo ha messo nella condizione di non bluffare. E a proposito di bluff mancati, risuonano come principio assoluto le parole di Pogačar nei primi giorni: «Vingegaard è il miglior scalatore di questo Tour».
Che colpa abbiamo noi se loro, intesi i Jumbo Visma, hanno dominato; se hanno sacrificato Roglič che ha corso dieci giorni con le vertebre fratturate e si rendeva utile - se non decisivo - alla causa, nel giorno del Granon che resterà, quando descriveremo il Tour 2022, come quello de "la crisi di Tadej Pogačar".
Pogačar si è fatto ingolosire dal connazionale rivale senza sapere che ad attenderli i loro tifosi erano gemellati al traguardo, mescolati in mezzo a migliaia di camper. Poteva stare più cauto. Si è sentito forte, ha perso. Ci ha provato dal primo giorno, non ha lesinato, benedetto talento della natura. Si è mostrato umano nella retorica della sconfitta sportiva. L'anno prossimo non si farà trovare impreparato - il resto, però, dovrà farlo la sua squadra.
Che colpa abbiamo noi se Geraint Thomas, in arte G, ha guidato splendidamente fino a Parigi, ha superato lo scetticismo - quelli del sottoscritto che stravede per lui, ma non da vederlo sul podio. Ha superato avversari più giovani di un paio di lustri, ha trasformato un banale errore nella cronometro - ha corso con lo smanicato usato nel riscaldamento - nell'occasione di dare spettacolo fuori dalla corsa creando l'hashtag #wheresGsgilet con tanto di giochino da fare a ogni tappa (un tifoso diverso al giorno avrebbe portato alla frazione successiva lo smanicato, tenendolo al sicuro fino a Parigi). Pare che grazie all'idea di Lizzie Banks la giacchetta Ineos continuerà a viaggiare anche durante il Tour femminile.
Ha superato le gerarchie e al solito non si è morso la lingua nelle interviste: «La Ineos voleva fare di me un Sepp Kuss». A 36 anni ha fatto un piccolo capolavoro simile a quello di Richie Porte un paio di anni fa.
Che colpa abbiamo noi se abbiamo sottostimato la capacità di Wout van Aert di fare ciò che vuole con il ciclismo. " il corridore più forte del mondo" come lo definisce Simone Basso; supercombattivo del Tour, maglia verde che gli sta persino stretta e avesse vinto lui a Hautacam, avrebbe potuto conquistare pure quella a pois. Ha fatto la sua corsa, quella di Vingegaard, quella di tutti gli altri del gruppo. Quando ha deciso avrebbe vinto Laporte così è andata.
Che colpa abbiamo noi se ci piace Gaudu con quella faccia da Harry Potter francese e il suo lento recuperare passo dopo passo e arrivare al 4° posto, oppure Simmons che a 21 anni e più giovane al via, nel computo delle fughe viene oscurato solo da van Aert. Che colpa abbiamo noi se di volate ce ne sono state poche, meglio così, ma buone, come l'ultima a Parigi.
Che colpa abbiamo noi se l'Italia – al maschile – fa fatica, troppa, e ci rimangono solo i segnali mandati da Dainese, Bettiol e Mozzato, promossi con lo sguardo per tutti e tre verso un finale di stagione in maglia azzurra.
Che colpa abbiamo noi se un altro Tour è andato e l'unica cosa che possiamo chiederci resta: quanto manca alla prossima Grand Départ?


Una grande classica a Parigi

È come una grande classica: i velocisti si fanno del male sulle montagne pur di arrivare qui e sfidarsi. Quando ascolti le loro interviste, e sono ancora ragazzi, ti dicono quasi sempre: «La corsa che vorrei vincere? Lo sprint sugli Champs-Élysées».
Basta poco, solo avere questo nel bagaglio tecnico: fibre da velocista, una potenza particolare da esprimere sui pedali, resistenza - ricordate le montagne di cui parlavamo prima o le medie folli di queste tre settimane? - e di conseguenza qualcosa rimasto nel serbatoio; per finire pelo sullo stomaco, tanto pelo sullo stomaco, per buttarsi in mezzo a tutto quel casino.
Guarda caso, le caratteristiche che riassumono al meglio Jasper Philipsen, a conti fatti il velocista numero uno di questo Tour. Si sente l'urlo della gente, a Parigi, tantissima gente. Su quei sanpietrini dove la bici balla, solo loro sanno come fanno a controllarla. Ci si consacra su quel rettilineo, sull'Avenue des Champs-Élysées, ma prima si brinda e si festeggia, una passerella e poi una lunga kermesse, fatta di strane idee, come quelle che hanno in testa alcuni corridori che vorrebbero rovinare la giornata a quei velocisti rimasti.
Bandiere danesi ovunque, a Parigi, gente appesa ovunque, a Parigi, per vederli passare, battaglia per la posizione e qualche fuori programma - ma nemmeno troppo. Van Aert che si concede la prima giornata libera di questo Tour e nessuno ci avrebbe scommesso, ma in queste settimane i colpi a sorpresa non sono mai mancati. Non sprinta per la maglia verde (vinta da giorni, ormai) e nemmeno all'arrivo, concedendosi il proscenio insieme ai suoi compagni di squadra, insieme a Vingegaard che, roba quasi da non crederci solo pochi mesi fa, vince il Tour de France.
L'attacco di Pogačar con Ganna a sei chilometri dall'arrivo serve solo a scaldare i cuori, a farci sussultare, la volata finale invece a stravolgerci l'umore. Vince Philipsen, oggi il miglior velocista del mondo, su un traguardo che vale una grande classica. Su un traguardo che chiude un Tour che non dimenticheremo mai.


Guardare indietro, guardare avanti

Si parte dalla fine, non è una cronistoria. Dallo scatto a poche centinaia di metri dal traguardo di Cristophe Laporte, lì dove non batte il sole, dove la strada fa una curva e fa male perché sale leggermente; Laporte che fa il vuoto, e pensa a stamattina a quando van Aert, che guarda avanti e vede, gli fa: «Oggi corriamo per te». Si guarda indietro, Laporte, per un attimo. C'è l'affanno, le gambe imballate del gruppo. Per lui è delizia, per gli altri è horror vacui da riempire in qualche modo.
Si parte da quello scatto di Laporte che raggiunge e supera chi era rimasto per strada a intralciare l'opera; guarda indietro e poi davanti, e dà alla Francia quella gioia che mancava, quella che Pinot con le sue gambone in salita non era riuscito a regalare.
Si torna indietro a van Aert. Anche oggi fa un po' quello che gli pare e guida Vingegaard davanti sbrogliando gli enigmi di tutte quelle rotonde. Eroe di casa Jumbo Visma, van Aert, sulla bocca di tutti dopo aver portato a spasso il gruppo per venti giorni o poco più; un po' eroe anche di Francia, oggi, che se avesse voluto chissà, avrebbe potuto vincere, ma ha scelto così: lanciare verso il traguardo Laporte. «Glielo dico sempre: non hai nemmeno idea di quanto tu sia forte».
Si torna indietro, a quando Pogačar, così per sfizio, per dispetto, per gusto, per essere semplicemente Pogačar e usare il Tour de France come un parco giochi, prova un attacco e forse non sa nemmeno lui bene il motivo, se un motivo ci deve essere, oppure perché la sua centralina è sempre programmata per dare spettacolo e far parlare di lui - per la cronaca si getta in volata e chiude quinto. Per la cronaca a fine tappa lui è lì che se la gode dispensando sorrisi e complimenti a tutti.
Si torna ancora indietro alle facce dei velocisti che hanno faticato per arrivare fino a oggi, a quella di Pedersen ammalato, a Jakobsen che sfida il tempo massimo per esserci, una sfida che non è nulla rispetto a quella che ha dovuto superare: entrambi guardano avanti, ma non troppo, sognando un epilogo diverso a Parigi.
Si resta indietro a farsi domande: cosa spinge un corridore a farsi centinaia di chilometri in fuga sapendo di essere ripreso? Simmons, Mohorič, van der Hoorn e Honoré, non hanno una risposta, ma sembrano creati per stare assieme e andare avanti.
Si guarda avanti, a Wright che comunque vada esce dal Tour consapevole della sua dimensione di corridore, a Stuyven che si fa in quattro per tutti, che ha talento ed eleganza e sembra un modello in bicicletta cosparso di olio abbronzato. Entrambi arrivano a tanto così, ma bisognava fare i conti con quello che voleva van Aert.
Si guarda avanti, infine, a Philipsen che per fortuna l'altro giorno ha vinto, perché anche oggi è arrivato secondo, oppure a Dainese, che dopo il Giro cerca la consacrazione al Tour, e sì, lo possiamo dire, che bel corridore abbiamo trovato. E sì lo possiamo dire, al Tour de France 2022 non ci si annoia davvero mai.


Il paradosso di Simon Geschke

Il paradosso di Simon Geschke è arrivare a tre Gran Premi della Montagna sui Pirenei dalla possibilità di vincere la maglia a pois, perderla, ma avere comunque il dovere - per regolamento - di indossarla fino a Parigi.
Ieri a fine tappa non teneva le lacrime. Liberato e affranto. Affaticato già sul primo strappo non riusciva a resistere ai migliori che andavano in fuga e poi, nonostante il grande lavoro della squadra sull'Aubisque, dove gli servivano i punti necessari, forse, chissà, per vincere - ricordiamo anche il salto di catena il giorno prima costatogli una manciata di punti fondamentali - si staccava definitivamente anche dal gruppo maglia gialla, capendo che non sarebbe stata più quella giornata immaginata alla vigilia.
A 36 anni, Geschke è arrivato vicino al punto più alto - almeno simbolicamente - della carriera, dopo aver vinto pochissimo, ma bene: un solo successo nel World Tour, proprio al Tour de France. Era il 2015, la tappa arrivava a Pra-Loup e lui, con la più classica delle azioni di anticipo che definiremmo "la fuga nella fuga", vinse per distacco, attaccando in un tratto di falsopiano, davanti a Talansky, Uran e Pinot.
Dopo le lacrime, ieri, ha spiegato così: «Indossarla fino a Parigi non sarà la cosa più bella, potessi scegliere correrei con la mia divisa, ma questo è il Tour e i nove giorni che ho vissuto in maglia a pois sono stati lo stesso un sogno per me».