Per un pugno di metri
Un nutrito gruppo di corridori, ridotto infine a tre, c'ha provato fino all'ultimo. Ripresi a un centinaio di metri dal traguardo. Pedalatori di un certo spessore, superstiti di una corsa spumeggiante: Narváez - il primo a perdere la ruota nel lungo sprint finale - che sono già due anni che nel weekend di apertura delle corse del Belgio azzecca le fughe buone; poi Laporte, nuova testa nello squadrone Jumbo, oggi capitano in contumacia di van Aert; e van der Hoorn, corridore ormai di culto nei nostri tempi ciclistici, che abbiamo imparato a conoscere in modo più approfondito al Giro 2021 quando vinse la tappa di Canale; che aveva previsto a novembre di andare in fuga ieri; quel ragazzo dal volto buffo, che spesso, come ieri, corre senza occhiali, che qualche anno fa ha battuto van Aert e Merlier in una corsa in Belgio e poi decise di girare l'Europa con un furgoncino Volkswagen del 1982: tra i suoi obiettivi c'era quello di prendere appunti per conoscere alcuni tratti delle classiche più importanti, Strade Bianche compresa, che chissà, fra meno di una settimana, potrebbero ispirare il suo modo di interpretare la bici, sempre all'attacco e con una certa ammirazione per le strade impolverate.
Ma quel terzetto si è visto piombare addosso il gruppo con Jakobsen ed Ewan a tutta, aggiungessimo Philipsen troveremmo i tre velocisti più forti di questo bistrattato pianeta. Jakobsen è partito lungo dribblando le scie di chi, davanti a lui, man mano sembrava frenare contro una forza invisibile che potrebbe essere la somma di fatica e vento; una scelta ponderata quella di Jakobsen, «Partendo lungo e sfruttando la scia avrei preso più velocità dei miei avversari e così è stato».
Jakobsen che si vedeva, centimetro dopo centimetro, avvicinare e poi affiancare da Ewan. Poi il colpo di reni che per un pugno di centimetri premiava il corridore olandese della Quick Step, capace di riprendere in mano il filo con il successo sfuggito alla sua squadra ventiquattro ore prima alla Omloop Het Nieuwsblad, gara che li ha visti, anzi, non li ha mai visti realmente competitivi su quelle che abitualmente sono le loro strade. «Lefevere contrariato dopo la Omloop? Non saprei dirlo, ha parlato in dialetto West-Vlaams e io parlo solo l'olandese. A parte gli scherzi, non è stato un bel momento il suo discorso motivazionale, diciamo, ma di sicuro ha funzionato».
Jakobsen, la storia è nota, un anno e mezzo fa rischiò la vita in corsa, proprio durante una volata, proprio durante quella parte del suo lavoro che lui preferisce: «Questo è quello che so fare meglio: amo la velocità, mi hanno dotato di gambe veloci, ci si sente bene a correre per la vittoria». Dice che la pressione che deriva da avere una squadra che corre per lui lo motiva al massimo soprattutto se, come successo alla Vuelta e come successo ieri: «I miei compagni mi dicono che lavoreranno tutti per me, perché mi considerano il più veloce in gruppo».
E intanto che quel gruppetto di corridori, ridotti a tre dopo una corsa d'attacco, manda giù l'amaro in bocca per non essere riuscito a compiere un piacere che poi è un dovere, ovvero arrivare sulla linea del traguardo e vincere, Fabio Jakobsen guarda avanti: «Parigi-Nizza, intanto, poi per la Sanremo ancora non si sa, mi dovessero selezionare mi farò trovare pronto».
E magari anche lì conquistare tutto a suon di velocità. Fosse per una questione di metri o di centimetri cambierebbe poco, ciò che importa è far risuonare le fibre veloci che qualcuno gli ha dato in dono e poi magari apparire in foto, felice, sorseggiando birra, come successo qualche ora fa alla Kuurne-Bruxelles-Kuurne.
Quel mal di gambe dalla Francia fino a Ninove
Intanto, per iniziare, oggi appuntamento con un bel giro mattutino in bici. Buona idea sfruttare la giornata tutto sommato fresca, ma con il sole che già verso mezzogiorno saliva quasi a picco. Poi un pranzo veloce e preparazione per un sabato ciclistico totale: divano, birra gelata, se possibile, due dispositivi accesi perché da una parte la prima gara in Belgio dell'anno (Omloop Het Nieuwsblad), sul pavé, e basta dire pavé per accendere qualcosa: quattro lettere che raccontano il fascino di questo sport; dall'altra, in Francia, la Faun-Ardèche Classic che detta così saprebbe di poco, ma misurava il polso ad Alaphilippe e Roglič, tra gli altri, su un percorso duro, quasi montagnoso, più che vallonato.
Praticamente una sfida, se avessimo sovrapposto i due schermi, tra pietristi e liegisti, tra puncheur e scalatori, tutta una serie di neologismi che inquadrano bene il ciclismo.
Torcicollo, a farci compagnia, un po' per l'esercizio in bici, gratificante per carità, perché quando arrivi a casa e ti senti le gambe indolenzite, sei soddisfatto oltremodo, questione di chimica, un po' perché non è mica facile girare la testa per un paio di ore di qua e di là: di qua Roglič e Alaphilippe attaccano a turno, di là gara lineare per un'ora abbondante e c'è il rischio di addormentarsi non fosse per l'adrenalina in corpo e per quelle punture di spillo che ti arrivano al cuore (no, il giro in bici stavolta non c'entra) dato dalle immancabili cadute.
Poi la corsa si accendeva in Belgio, finalmente, in modo naturale: muro dopo muro, le gambe fanno male, mentre in Francia McNulty partiva in progressione e tutto solo si involava verso la vittoria.
Ma torniamo nelle Fiandre, in mezzo a quelle case dove almeno una volta nella vita abbiamo pensato che sarebbe carino viverci anche solo per un giorno; tra quelle strade dove abbiamo pensato che almeno una volta nella vita ci piacerebbe pedalare. Ripartiamo dal Muur, o da qualche muro prima con Benoot che se ne fregava del mal di gambe, ma attaccava fungendo da appoggio a van Aert - quanto è mancato un corridore così lo scorso anno al belga?
Poi ecco il Muur, "abitato di Geraardsbergen" (citazione dovuta), Kapelmuur, oppure detto anche, diamo sfoggio delle nostre conoscenze: il Muro di Grammont, che più che separare i vincitori dai vinti rimescolava le carte e continuava a indurire le gambe. Infine il Bosberg. Accoppiata mitica se ce n'è una, Muur-Bosberg.
Quando van Aert partiva (sul Bosberg) dalla nostra bocca usciva un: "è fatta!", e allora per un attimo ancora uno sguardo sull'altro schermo per notare come entrambi scuotevano le spalle danzando sulla bici: l'azione di McNulty era efficace in salita, tutta gambe, quasi studiata a tavolino grazie a una condizione che da inizio stagione non sembra vacillare; l'azione di van Aert erano watt che si sfracellavano sulle pietre come quando il campione belga mostra la sua forza nel ciclocross. Van Aert andava, eccolo, "è fatta!" e lo rivedevano al traguardo.
A fine corsa la telecamera si soffermava su Mohorič e Colbrelli (2° alla prima gara stagionale, niente male, piaciuto molto sul Berendries quando si è riportato su van Aert, Pidcock, Narvaez e Benoot); Mohorič sembrava dire, allargando le braccia, "quello lì oggi era troppo forte, abbiamo fatto tutto il possibile".
Già, perché le gambe di van Aert se facevano male, facevano male appena - e comunque meno delle nostre - questa l'impressione, mentre si involava verso Ninove tutto solo e ad attenderlo moglie e figlio.
Arrivano le pietre: chi c'è c'è
«Non ci sarà Julian: questo è un gran peccato» racconta Kasper Asgreen, vincitore di Harelbeke e del Fiandre nel 2021, alla vigilia della Omloop Het Nieuwsblad. Il danese afferma di come il suo grande obiettivo sarà la Roubaix e quindi ci sarà tempo per parlarne.
E arrivano le pietre domani, così all'improvviso da non accorgersene; in Belgio il manto di erba e fango muta forma in asfalto e ciottolato. Dossi diventano muri, le bici prendono una forma ancora più aggressiva; il numero competitivo di nazioni in gara aumenta esponenzialmente anche se alla fine saranno loro, belgi soprattutto, ma anche olandesi, a voler prendere in mano il gioco che non è un gioco, rappresentati da due delle squadre più forti del circondario.
Non ci sarà Julian che sta per Alaphilippe: un annetto fa ci provò (quasi) letteralmente in ogni modo, ma rimbalzò - per modo di dire, è vero: non era il miglior Alaphilippe possibile. Indurì le gambe degli avversari spianando la strada per uno sprint di sessanta corridori che permise al compagno (di squadra, in quel senso) Davide Ballerini, brillante, veloce, talentuoso, di conquistare il successo più importante in carriera: nemmeno lui ci sarà domani ed è un gran peccato, ma è l'epoca del Covid e le starting list stanno diventando spesso un terno al lotto.
Non ci sarà Mathieu van der Poel, mamma mia quante volte ne stiamo parlando, sembra che lo mettiamo in mezzo più oggi che è assente che ieri quando era presente, ma che ci volete fare. Poi per il resto, più o meno tutti presenti, a dare spettacolo su quelle che potrebbero essere pietre polverose - previsto bel tempo e quasi calduccio, anche se molti, saremo comunque al nord, preferiranno correre con i pantaloni lunghi, considerando che diversi faranno il loro debutto dopo belle pedalate al tepore della Spagna.
Ci siamo persi, scusate: a dare spettacolo, dicevamo, più o meno tutto il resto del mondo a cui piace le pietre e capace di adattarsi in pieno a un percorso che porterà il gruppo da Gent a Ninove per 204 km. Non una passeggiata di salute di quella che faresti chiacchierando col tuo amico di gita fuori porta magnando un panino e aspirando a una buona birra fresca a fine giornata: 13 muri, nove tratti in pavè, finale che ricorda il vecchio Fiandre, quello che ai quasi quarantenni come me fa venire i brividi perché gli ricorda Bartoli: Muur più Bosberg accoppiata perfetta, e via verso il traguardo. Spazio per attaccare ce n'è, per fare la selezione ce n'è.
Squadre faro ne possiamo trovare due e appunto si torna a quel discorso Belgio vs Olanda, Quick Step contro Jumbo Visma; per diversi motivi la Quick Step (vedi l'assenza di Ballerini), potrebbe fare corsa pazza all'attacco - Štybar, Lampaert, lo stesso Asgreen, oppure Sénéchal che ama entrambe le opzioni: sia corsa dura che volata - insomma materiale ne hanno a sufficienza per sbizzarrirsi.
Curiosità per capire il nuovo corso Jumbo nelle classiche, anche se mancherà Laporte, assenza tutt'altro che da sottovalutare, ma con van Aert ci saranno Teunissen, Benoot e Van der Sande.
Favoriti tanti, outsider pure, sarà il primo assaggio del Nord e tanti elementi saranno da verificare, un nome su tutti: quello di van Aert chiaramente, mentre a noi, fra i vari, piacerebbe vedere davanti Colbrelli, anche lui all'esordio stagionale e quindi da misurare. Oppure Trentin e Covi, quest'ultimo ha dato prova di grande condizione.
Tuttavia che importa chi vince, arrivano le pietre, chi c'è c'è, non vedevamo l'ora: da qui a fine aprile ogni week end sapremo cosa fare: gustarci il meglio che il ciclismo delle corse di un giorno sa offrire, tra Belgio e Italia, con un paio di capatine in Francia e Olanda, e per distrarci un po' da tutto quello che succede.
Tadej Pogačar fa sembrare tutto facile
Sembra tutto così facile. Le spalle solide quasi immobili, la bocca leggermente aperta, la maglia bianca di miglior giovane (sic), e il ciuffo che spunta dal casco più che anti-aerodinamico è un marchio. La leggerezza con la quale si prepara alle cronometro ascoltando musica, sorridendo e ballando davanti ai telefonini che lo inquadrano e poi quei video girano su internet e lui commenta divertito.
Sembra tutto facile: un po' di gas quando serve, la ruota giusta, i compagni che si sganciano a turno, oppure Almeida che appare il suo opposto: scomposto, modalità smorfia attiva, ballerino sul manubrio, lingua di fuori ad allungare il gruppo.
Sembra tutto facile perché parliamo di Pogačar che fa sembrare tutto facile, destino di quelli forti, stratagemma di chi si sente il migliore perché poi quando la strada lo richiede effettivamente lo è. Nei giorni scorsi a L'Équipe parlava di velocità, diceva di essersi divertito a guidare una Formula 3; parlava di qualità: ha pranzato con Pep Guardiola dopo aver assistito a un allenamento del Manchester City; parlava di grandi classiche: ha già vinto Liegi e Lombardia e fra poche settimane il suo obiettivo saranno Sanremo e Fiandre: niente gli è precluso anche se scaccia (al momento!) l'idea di essere il primo corridore dopo quasi mezzo secolo a vincere tutte e cinque le monumento (Van Looy, De Vlaeminck e Merckx, gli unici a compiere l'impresa).
Parlava di crescita: «Ogni anno che passa ho sempre meno margini di miglioramento: per questo voglio vincere tutto quello che posso vincere. Fisicamente mi sento esattamente (forte, questo lo aggiungiamo noi) come l'anno scorso, ma ciò che è cambiato è la mia testa: ora ho più esperienza»; parlava di momenti difficili che in bicicletta, per sua fortuna, non sono ancora arrivati: «Mi hanno chiesto come posso essere battuto e ho risposto dicendo la verità: soffro ancora le salite lunghe (e anche qui, aggiungiamo noi: forse pure il caldo eccessivo), ma la cosa peggiore che possa capitarmi è avere una brutta giornata».
Quella brutta giornata non è arrivata nemmeno oggi verso Jebel Jais, all'UAE Tour, una salita che non ruba il cuore agli appassionati, che vede qualche nome sorprendente lì davanti (Ganna, Plapp) mentre altri che non ti aspetti perdono colpi (Dumoulin, Masnada); una salita che l'Intermarché prova a spianare, dove Yates (Adam) si nasconde, in perfetto stile Yates (Adam) sperando poi di farla franca sul traguardo. Ma sul traguardo spunta Pogačar che fa sembrare tutto facile.
Prima di esultare è talmente tranquillo e fresco che sembra dire qualcosa ai suoi tecnici via radio, poi alza il braccio e sorride come sorrideva al via qualche ora prima. «Una giornata brutta prima o poi capiterà - diceva l'altro giorno - succede a tutti, ma non me ne farò un cruccio. Mi piace andare in bicicletta anche quando non vinco». Al momento siamo spiacenti, ma non esistono controprove.
Van der Poel al Giro? E all'Amstel chi ci pensa?
Si parla, in queste ore, della possibile presenza di Mathieu van der Poel al Giro, che dire: sarebbe una notizia incredibile per noi giromani; Mathieu van der Poel come catalizzatore, come trascinatore; sarebbe senza ombra di dubbio elemento polarizzante: non ce ne vogliano gli altri corridori, ma quando si muove van der Poel, è come se ci fosse, in quell'ammasso di bici su strada, qualcosa in più.
Sarà per il suo modo di correre, sarà perché spesso e volentieri preferisce l'azzardo alla sicurezza, il rischio, calcolato fino a un certo punto: si va all'attacco per entrare nella testa di chi segue il ciclismo e per vincere in maniera mai banale; per diversi motivi immaginarci van der Poel sulle strade della Corsa Rosa ci rende euforici, lo chiamano hype. Già, soltanto dire van-der-Poel-al-Giro è un bel motivo per aumentare la voglia proprio di Giro che a un certo punto dell'anno (di solito in concomitanza con la fine delle classiche) ti prende e diventa irrefrenabile.
Van der Poel nei giorni scorsi ha ricominciato ad allenarsi: ha posticipato la sua attività a causa di noti problemi fisici; lo abbiamo visto in Spagna in un momento di tregua dopo un allenamento, con Campenaerts davanti a una frittella; non ha ancora sciolto le riserve sul suo rientro in gara, e quindi siamo ben consapevoli che in realtà non si sa se verrà al Giro. Teniamo lì in un cassetto questa bella suggestione pronta da tirare fuori più avanti in caso di conferma.
Il fatto certo è che le sue corse stanno per iniziare questo week end in Belgio e lui non ci sarà. Dopo il primo assaggio fiammingo il fine settimana successivo ci saranno la Strade Bianche e poi la Tirreno-Adriatico dove lo scorso anno van der Poel ha piazzato un paio di quei suoi timbri tutt'altro che banali, difficili da dimenticare. Ha mangiato lo strappo di Santa Caterina verso Piazza del Campo, una sgasata di cui si è parlato molto per numeri fatti segnare, per le sensazioni lasciate. Poi alla Tirreno è stata la volta de “l'azione di van der Poel a Castelfidardo" che è già diventato totem per gli appassionati, archetipo sul modo di correre senza calcoli, un po' meno per chi analizza con più freddezza le corse, perché da lì poi si dice "un'azione che lo ha sfiancato e che forse gli ha precluso brillantezza per la Sanremo". Verrebbe da dire: e chi se ne frega, van der Poel è questo e ci piace per questo. Poi quando (e se) sarà il tempo di raccontare le occasioni mancate ne parleremo.
Ci sarà un momento in cui la primavera (ciclistica) sarà quasi verso il giro di boa, ci sarà una corsa che lui ha vinto, ormai sono passati quasi 3 anni, e per certi versi è stata la prima vittoria davvero importante nella sua carriera su strada. Fu una corsa pazza, tirata, entusiasmante – qui ci vuole – davvero fino all'ultimo metro; una corsa ricca di significato per gli olandesi, che la crearono perché negli anni '60 si ritrovarono senza una grande classica da contrapporre al calendario belga, italiano e francese, loro che della bicicletta ne fanno una ragione di vita.
E se qualcuno si fosse dimenticato di quell'Amstel Gold Race vinta da van der Poel, noi vi riproponiamo il finale a questo link www.youtube.com/watch?v=Yi4opDanurU.
Volume al massimo nelle casse o se siete in ufficio nelle cuffiette per rivedere la scena sul rettilineo d'arrivo, sperando di poter assistere ad altre imprese di questo genere targate MvdP, magari perché no, pure al Giro d'Italia. Sarebbe un lusso che ci concederemmo volentieri.
Salendo come una moto
C'è un modo di dire, molto diffuso nella comunità ciclistica che viaggia a suon di chilobyte e frasi fatte su internet, usato per identificare quelle azioni particolarmente efficaci non appena la strada si impenna: "subiendo como una moto", in spagnolo, ovvero salendo come una moto. Esiste pure un sito che nel dominio riporta quel nome e al cui interno puoi trovare i dati di scalata dei corridori su diverse salite.
Domenica, ma per la verità sono un po' di giorni che lo fa, Nairo Quintana è salito come una moto verso il gran premio della montagna del Col de Saint Roch, eravamo al Tour des Alpes Maritimes e du Var, per i più nostalgici: il Tour du Haut-Var.
In due tappe Nairoman (come viene chiamato quando ci si esalta nel vederlo andare in salita) ha staccato prima in modo brutale sul Col d'Èze l'atteso Guillaume Martin, perdendo poi allo sprint da Wellens, ma poco importa, e il giorno dopo il redivivo Pinot, anzi a dire la verità, il giorno dopo ha staccato tutto il gruppo andando a vincere tappa e classifica finale. Un suo giovane collega, Harry Sweeny, ha commentato quell'azione dicendo: «Nairo Quintana mi ha fatto sentire come se io fossi ancora uno junior».
Esaltante in salita, Quintana, con quell'azione in passato ci ha fatto pensare di aver trovato uno scalatore capace di ribaltare tutto e tutti; restringendo il campo agli ultimi dieci anni a tratti lo abbiamo definito lo Scalatore. È stato raccontato in maniera poco parziale, passando dall'esaltazione al massacro; ma provando a restituire a Quintana quello che la critica gli ha tolto, accusandolo di attendismo e poca efficacia, ci chiediamo: chiamereste attendista (o poco efficace) uno scalatore puro - perché questo è - capace di vincere oltre 50 corse in carriera tra cui la classifica generale di ben 20 gare a tappe? Non sono molti nella storia del ciclismo (facciamo quello moderno e contemporaneo senza addentrarci troppo all'epoca dei nostri ormai bisnonni) a vantare numeri del genere.
Attendista o poco efficace, volessimo romanzare, non lo è mai stato, sin da quando da bambino pensavano fosse rimasto vittima del "tiento del difunto", una malattia "magica" basata sulla convinzione che la vicinanza con un morto trasformi le persone in potenziali agenti trasmittenti una serie di mali incurabili.
Si racconta di come sua madre, a pochi giorni dal parto, entrò proprio in contatto, nel suo negozio di frutta e verdura, con una signora che aveva appena subito una grave perdita. E così Nairo nacque malato, si dice fosse sempre di un colorito vicino a quello di un morto: «Secondo quello che mi hanno sempre detto i miei genitori, c’erano dei giorni in cui assomigliavo a un cadavere» raccontò Quintana a El País nel 2013.
Provarono di tutto per salvarlo, combattendo la magia con la magia; prima di rendersi protagonista in bici, fu vittima di riti che avevano lo scopo di liberarlo da quel sortilegio. Si dice che da lui sgorgasse sangue dalle feci e puzzasse come un morto; si dice di come guarì grazie alla Combitá, un infuso fatto con le radici di nove alberi diversi, un pezzo di carota bianca e una manciata della terra dove Nairo venne al mondo.
Abbiamo romanzato, e si potrebbe continuare, citando il racconto di lui che si recava a scuola in bici non per risparmiare, ma perché a casa ritenevano che il bus servisse ad altri tipi di spostamenti; e lui con quella bici: discesa ad andare e salita per tornare verso casa. Due gravi incidenti, quando era un ragazzino che aveva appena scoperto come pedalando poteva cambiare la sua vita: la seconda volta che fu investito finì in coma per cinque giorni.
Si potrebbe continuare parlando di Nairo con quella faccia da sfinge come un enigma che abbiamo provato a risolvere in tutti i modi; l'attesa invana, quei Tour che pensavamo potesse vincere, la convivenza in Movistar con Valverde che secondo lo scalatore colombiano potrebbe essergli costato il Tour 2015, quando arrivò secondo alle spalle di Froome (come nel 2013), condividendo proprio con lo spagnolo il podio finale: «Per colpa di un mio compagno di squadra - raccontò Quintana qualche anno dopo - non ho potuto conquistare quel Tour».
Un Giro e una Vuelta li ha vinti, come nessun colombiano, così come nessun colombiano, forse giusto Bernal, gode di tanta popolarità nel suo Paese. Nel 2019, un sondaggio in patria lo vedeva ancora davanti a tutti come personaggio più conosciuto, più di Bernal, che aveva appena vinto il Tour, più delle stelle della nazionale di calcio colombiana come James e Falcao e del cantante Carlos Vives.
Si potrebbe continuare e poi farla breve tornando a poche ore fa quando è partito a una trentina di chilometri dall'arrivo, salendo come una moto, staccando tutto e tutti in salita, come il più bel Quintana mai visto. Come quel Quintana che prometteva, scattava e poi si scansava per chissà quale diabolico gioco tra cervello e gambe.
Corridore un po' atipico per certi versi, imperturbabile sul rapportone, nella buona e nella cattiva sorte, a volte illeggibile, magnifico scalatore: in salita, quando in giornata, capace di andare su come una moto rendendo i suoi avversari piccoli e affannati come dei cadetti.
Se l'inizio della stagione ciclistica è quella dove è lecito sognare, non svegliateci, ma lasciateci godere una volta tanto Nairo Quintana. Lasciateci godere una volta tanto uno scalatore.
Kévin Vauquelin: un neopro sulla Montagna Verde
Se nel ciclismo esistesse il premio dedicato al corridore migliorato maggiormente (una sorta di "Most Improved Player" che assegnano nell'NBA, per dire), non avremmo alcun dubbio su chi puntare dopo questo primo mesetto di gare.
È bastata una manciata di chilometri, un pugno di corse, per farci sobbalzare dalla sedia. Al Tour of Oman, infatti, negli ordini d'arrivo delle ultime tre tappe è spuntata la sagoma di un giovane francese; è spuntato il nome di Kévin Vauquelin che ricorda "Voeckler" ma solo per l'assonanza del cognome. Classe 2001, buon talento, sicuramente, ma non di certo quel corridore che una volta passato professionista lascerebbe a bocca aperta gli osservatori, eppure...
Siamo a febbraio, qualcuno avvicina questo periodo dell'anno ciclistico al calcio d'agosto, quindi verità da prendere con le pinze, menzogne da smascherare, eppure...
Eppure quel Vauquelin in cima a Green Mountain è andato forte, stupendo e stupendosi. Non conosce ancora i suoi limiti, ma come potrebbe: «Ho corso pochissimo in montagna tra i dilettanti in Francia nelle ultime stagioni: sinceramente non pensavo di riuscire a ottenere risultati del genere tra i professionisti» ha raccontato a fine gara.
Normanno di Bayeux, Vauquelin; normanno, come quelli a cui piace attaccare col vento in faccia, che hanno indole da guerrafondai, che se potessero si porterebbero dietro la bandiera da pirata, una benda sull'occhio, un coltello nella tasca. Un normanno di vento in faccia se ne intende.
Forte soprattutto a cronometro: lo scorso anno campione nazionale under 23, due anni prima stesso titolo, ma tra gli juniores. Forte sul passo, vien da sé immaginarlo, valido o qualcosa in più anche quando l'aria viene incanalata nei velodromi: le sue azioni hanno il loro perché anche sul parquet dove ha conquistato medaglie mondiali a livello giovanile, ma è il suo passo in salita che ha meravigliato. Compreso se stesso e i suoi tecnici.
Da quando ha smesso di studiare si è messo in testa seriamente di fare il ciclista e lo fa da un paio di stagioni, per lui passare professionista non è un punto d'arrivo, «ma un primo passo verso quello che potrò diventare».
Sostiene (ma sarà vero?) che la “Montagna Verde” potrebbe aver favorito il suo rapporto peso potenza, con quei tratti che parevano un'autostrada in salita, pur con pendenze in doppia cifra: «Un tipo di salita da gestire un po' come si gestisce una cronometro» ha detto proprio così. Così come non ci sono alcun dubbi sulla partenza a cannone dell'Arkéa, complice pure la lotta per una manciata di punti tra alcune squadre con lo scopo di entrare o di restare nel World Tour. A fine stagione si rinnovano le licenze.
È vero tutto quello che volete, ma la parabola di Kévin Vauquelin è una di quelle da scoprire, per capire fino a dove porterà. Non un predestinato, ma intanto, sicuramente, fra le sorprese di questo inizio 2022.
Le bici da crono appartengono al ciclismo?
Su una bici da crono, Chris Froome ha consolidato gran parte dei suoi successi al Tour, ma non solo: ha conquistato tre medaglie di bronzo, due ai Giochi Olimpici e una al Mondiale.
Su una bici da crono Chris Froome, probabilmente, salvo smentite in questo 2022, ha messo fine a una carriera ad altissimi livelli, forse anche a medio-alti.
Chi se lo dimentica: era il 12 giugno del 2019 e Froome era in ricognizione della tappa a cronometro al Critérium du Dauphiné, che si sarebbe disputata nel pomeriggio. «Mi stavo soffiando il naso - raccontò qualche tempo dopo - quando all’improvviso una folata di vento ha travolto in pieno la ruota anteriore, mi ha fatto sbandare e sono finito contro un muretto». Storia nota il seguito, i brandelli in cui si era ridotto, il bollettino medico.
Di bici da crono e dell'uso che se ne fa, parla Froome nel suo canale YouTube dove ogni tanto fa capolino raccontando senza troppi peli sulla lingua alcune dinamiche legate al suo mestiere - seguitelo (https://www.youtube.com/channel/UC-Kpp0NLi-Y3d7rKWscjZ3A) perché ha sempre cose interessanti da raccontare, mostrandosi mai banale e perfettamente in linea con il personaggio che è.
Le bici da crono appartengono davvero al ciclismo su strada, si chiede Froome? «Non fraintendetemi: amo le crono - racconta nel video, dopo aver mostrato cosa gli piace fare per rilassarsi nel tempo libero.
In garage, in mezzo a, indovinate un po'? Un sacco di bici. Appese al muro la collezione di quelle a cui è più legato, le Pinarello con le quali ha vinto i Grandi Giri (e difatti se ne vedono con livrea rosa, gialla e rossa); in garage mentre fa un po' di manutenzione dopo un allenamento: «Quando ero ragazzo lavoravo in un negozio di biciclette e questo è quello che mi piace fare, questo è il mio piccolo spazio» racconta fiero. Così come si dice interessato all'evoluzione tecnica delle bici.
È appena rientrato da un giro, Froome, un allenamento su bici da crono. «Stavo riflettendo, stamattina, proprio sulle bici da crono. Premessa: amo le prove contro il tempo, sono arte, abilità, sono qualcosa che devi conoscere bene per essere un ciclista professionista. Una delle cose magiche dei Grandi Giri è proprio l'equilibrio tra scalatori e corridori che vanno forte a cronometro. Questo è uno degli elementi più interessanti delle corse a tappe. Solo che le bici da cronometro non sono pensate per essere utilizzate su strada. Se nel Tour è inclusa una cronometro, spesso si tratta di uno sforzo di un'ora. Sta diventando sempre meno comune, è vero, ma per essere pronto per un esercizio così, dovrai uscire con la tua bici da cronometro per simularla. Su quante strade è possibile guidare per un'ora senza traffico, segnali di stop, semafori, persone che ti attraversano la strada? Nel mondo reale da nessuna parte. E poi - prosegue il 4 volte vincitore del Tour, che arriva a questa riflessione probabilmente anche dopo quello che è successo a Bernal - quando sei su una bici del genere sei chino sulle appendici e non hai le mani sui freni: non è una cosa sicura! Un conto è farlo in gara, un altro è su strade normali aperte a tutti».
E quindi Froome pone la questione: «Sono davvero necessarie le bici da crono nel ciclismo su strada? Eliminarle significherebbe, oltre a ridurre i pericoli, anche garantire condizioni di parità fra i contendenti. A fare la differenza potrebbe essere più l'abilità del corridore che il materiale, l'aerodinamica o le ore trascorse nella galleria del vento. Dobbiamo fare qualcosa: l'ironia della faccenda è l'UCI che sta escogitando diversi stratagemmi per ridurre i pericoli in corsa, come la posizione sulla bici in discesa, e questo sarebbe un passaggio facile da introdurre; qualcosa che avrebbe un impatto maggiore sulla sicurezza dei ciclisti. Siamo arrivati a un punto in cui bisogna pensare in modo più logico al nostro sport. Bisogna renderlo più sicuro. Certo, per me potrebbe essere uno svantaggio, ma bisogna pensare a un quadro più ampio e alla sicurezza dei corridori».
Qualcuno obietterà come Froome proprio grazie alle bici da crono ha arricchito il suo palmarès, d'altra parte lo specifica anche lui, ma si tratterebbe di guardare il dito e non la luna. E poi, chi meglio di uno che è sempre andato forte a cronometro potrebbe spiegarci il rischio nell'uso di questo mezzo sulle strade i tutti i giorni? Meriti sportivi o esperienza di Froome a parte, l'UCI ha il compito di ascoltare la voce dei diretti interessati, ponendo all'ordine del giorno la questione. Che poi l'opinione la diffonda un corridore così blasonato, non può che giovare a un'idea di cambiamento.
Foto: ASO/Gautier Demouveaux
Alla ricerca di se stesso: intervista a Mattia Viel
La bicicletta a Mattia Viel procura un misto di sensazioni. Quando era bambino pedalare era qualcosa che lo avvicinava alla libertà, ma non proprio libertà, forse non è la parola esatta. Forse la sensazione che più si avvicina a quello stato dell'anima è catarsi, liberazione. «Pedalavo come un forsennato: sfogavo rabbia e frustrazione. Iniziai a correre a dieci anni e quello stesso anno persi mia madre; pensavo a lei in ogni momento, vincevo le gare e le dedicavo a lei; ogni gara e ogni allenamento per me erano il mezzo più semplice per evadere da un sentimento oppressivo che mi portavo dentro».
La bicicletta al centro della casa di Mattia Viel l'ha messa suo padre. «La domenica, quando andava a correre, lo aspettavo trepidante. Pensavo a quel mazzo di fiori che avrebbe portato a casa come premio. Lui è una figura centrale della mia vita, sempre presente, ma non una figura ingombrante, quanto fondamentale. Gli episodi della vita mi hanno fatto maturare in fretta, sono andato a correre all'estero che ero ancora un ragazzino (Chambéry CF, in Francia, e poi in Inghilterra con la Holdsworth, ndr), ma lui mi è sempre stato vicino».
Ha vinto tanto fino agli juniores, da professionista si è ritagliato uno spazio da uomo squadra - volate altrui - o spesso lo ritrovavi in fuga - vedi l'ultima Sanremo.
Andava forte anche su pista, dove da allievo si prese il lusso di battere un certo Ganna ai campionati nazionali; una promessa del ciclismo, diremmo enfatizzando, qualcosa in più, qualcosa in meno, difficile capire da quale parte mettersi su quella sottile linea, figurarsi a quell'età. «Perché non ho mai sfondato? Chi può dirlo. Sacrifici ne ho fatti e ne faccio, ma forse il mio approccio al ciclismo era differente. Ho sempre dedicato molto tempo agli studi e grazie a questo mestiere ho conosciuto altri valori, mi sono tolto altre soddisfazioni».
Ha iniziato a pedalare a dieci anni, ma non ha intenzione di smettere ora che ne deve compiere ventisette, dopo aver passato un inverno in cui pareva sul procinto di chiudere la sua avventura agonistica: l'Androni, a fine 2021, non gli ha rinnovato il contratto. «Ho avuto delle offerte, ma non mi soddisfacevano». Perché un conto e ripartire con un rimborso spese e una valigia piena di sogni, quando hai vent'anni, un altro è farlo quando l'attenzione si sposta su altre priorità. «E così sono stato in Sudafrica, dove vive la mia ragazza, e ho iniziato a pedalare fuoristrada, lontano da quei posti che abitualmente percorreresti da stradista, e quando sono tornato a casa mia a Torino ho aperto gli occhi: ma davvero è una vita che pedalo in mezzo al traffico, con i camion che mi sfiorano e gli autisti che suonano il clacson continuamente? Ho iniziato a godermi le pedalate, ho iniziato a essere più libero».
Togliendosi di dosso sensazioni soffocanti. «E ho visto che mi piaceva. Noi siamo fatti per pedalare in mezzo alla natura, per goderci un lungofiume, per fare una salita e vedere un animale che corre, non possiamo rischiare la vita per fare qualcosa che ci piace. E poi c'è talmente tanto caos nella nostra vita che almeno quando esco in bici voglio tornare a una sorta di normalità. Può sembrare scontata come cosa, ma per me non lo è, perché i miei gesti nel ciclismo erano sempre: attaccare il numero alla maglietta e correre, mentre ora mi sto accorgendo di tante cose diverse. Il gravel mi sta insegnando a essere più presente con me stesso e con quello che ci circonda: pedalo e mi godo un paesaggio. Pedali, ma in realtà viaggi: cosa vuoi chiedere di più?».
Pedalare aiuta a riflettere, forse è un fatto di chimica, non lo so. Fatto sta che a Viel viene in mente qualcosa. «Ci tengo a precisare: non sono il primo, nessuna idea rivoluzionaria, ma ho iniziato a creare un progetto intorno al gravel. Ho messo giù un piano cercando collaborazioni con sponsor tecnici, ho contattato aziende interessate, offrendo in cambio feedback, piani legati al marketing: una sorta di ambassador del gravel ma rimanendo competitivo disputando diverse gare. Inizierò a livello europeo e prima o poi mi sposterò anche in America».
E rimanere competitivi fa parte di questo percorso. «Ho portato la mia idea a diverse squadre Continental e la D'amico UM Tools ha sposato il mio progetto. Correrò con loro diverse prove del calendario italiano su strada, anche tra i professionisti, con la libertà però di portare avanti in parallelo la mia attività nel gravel». Una sorta di Lachlan Morton italiano. «Magari! Ci metterei la firma per fare quello che fa lui. Con tutte le differenze del caso: uno degli aspetti più interessanti legati a questa disciplina è che ognuno può sviluppare la sua filosofia in maniera totalmente differente da un altro». Perché ciò che conta è il messaggio. «Peculiare è trasmettere l'idea del fascino del pedalare fuoristrada. Coinvolgere i settori giovanili, quei genitori che vogliono far pedalare i figli ma hanno timore di quello che succede in strada. Oppure dare sbocco a un ex pro che non ha più la possibilità di correre. E puoi farlo in maniera competitiva oppure per goderti semplicemente una bella pedalata».
Mattia Viel ricerca se stesso. Una nuova vita, che non sarà troppo diversa da quella che aveva prima: al centro del suo mondo ci sarà, come gli è sempre accaduto, la bicicletta. «Con l'aiuto di altre persone sto organizzando anche un evento gravel nel canavese che dovrebbe tenersi il 9 ottobre. L'idea è sfruttare al meglio una zona dove la bicicletta è molto sentita, i percorsi si prestano, ma anche per valorizzare da un punto di vista culturale il territorio. Questa è poi una delle filosofie principali che ruotano attorno a questa disciplina e sarà uno degli elementi principali che alimenteranno il fuoco delle mie azioni».
Quando Mattia mi racconta che oltre a correre su strada e iniziare a correre nel gravel, durante il lockdown ha aperto insieme alla sua compagna un'attività legata al ciclismo («Che si occupa di riabilitazione post infortunio, esercizi posturali e programmi fitness, stretching e massaggio sportivo»), interrompo bruscamente la nostra chiacchierata definendolo: “Un vulcano di idee”. Mattia tira un sospiro, sorride – almeno credo, ma spesso si scrive così, o comunque è stata questa la sensazione da una parte all'altra del telefono – e afferma: «Ero! un vulcano idee, ora quel vulcano sta dormendo: è arrivato il momento di concretizzare».
È arrivato il momento di cercare se stessi. Sempre in bicicletta, come fa da quando aveva dieci anni e viveva quel misto di sensazioni.
Una questione di gambe
Se la gamba di Battistella la si potrebbe definire interessante, quella di Ganna invece (anche) oggi aveva qualcosa di irreale. Provate a vedere come da solo si mette a caccia di Bodnar negli ultimi chilometri di un'adrenalinica frazione al Tour de la Provence, tra vento e le meraviglie della Camargue, con i ventagli che spezzano il gruppo e rendono affascinante persino una gara a febbraio, in una piccola (nel senso di breve) corsa a tappe francese che dovrebbe servire appena appena a misurare il termometro della condizione. A togliere un po' di polvere, a rodare, a farci conoscere qualche volto nuovo, le maglie in versione 2022, chi è già partito forte e chi più piano, eccetera...
Ed è tutta una questione di gambe, sempre. Per rimanere davanti quando il gruppo si mette a tirare e c'è il Mistral che diventa protagonista; è tutta una questione di gambe: la solita febbrile di Alaphilippe che ci prova pure nel finale, ma il vento è così forte che rimbalza, non Ganna, ma non esaltiamoci troppo, restiamo con i piedi per terra, siamo a febbraio, caspita! e c'è da tenere la condizione per altri due mesi (ci proviamo a tenere i piedi per terra ma quando vedi Ganna staccare il gruppo in quella maniera...).
Tutta una questione di gambe e allora in una volata di ventitré uomini dove c'è il nome di Viviani tra questi, uno scellino ce lo butteresti sul corridore veneto; Viviani, partito già forte come diversi pistard (l'obiettivo quest'anno è a fine stagione, si può fare tanto da subito) che vince già a febbraio cosa che negli ultimi due anni non gli era riuscito. Chissà se quelle parole di Vasseur, suo ex "capo" nella squadra francese, dette poche settimane fa («Elia si presentò al Tour con la pancetta») non abbiano stimolato Viviani.
E se c'è vento, banalmente Elia va forte (non abbiamo resistito), se c'è una volata Viviani è lì davanti a sgomitare e come oggi a vincere. Questione di velocità, non c'è dubbio, di compagni di squadra, assolutamente. Questione di fibre, sì. Comunque sempre una questione di gambe.