Vincere una corsa, per vincere la paura: intervista a Matteo Moschetti
Mancano poche centinaia di metri al traguardo di Torrevieja, quarta tappa della Volta a la Comunitat Valenciana. Gruppo lanciato, solito caos. Treni per i velocisti? Più no, che sì. C'è Evenepoel, in maglia bianca, che mette in fila il gruppo con la sua solita marcia. Lo fa per favorire le fibre veloci di Jakobsen.
A ruota sta a meraviglia, e compatta, la Wanty, pardon, l'Intermarché: si lavora per Kristoff. Poi altri cani sciolti o al massimo qualche coppietta. Un uomo Gazprom si sposta poco prima di entrare nel rettilineo finale, mentre si intravede la sagoma di Trentin - tipica barbetta incolta e bocca aperta - che prova a pilotare fuori dal groviglio il velocista del giorno per la sua squadra, Molano.
Si sbanda, spallate, nessuna novità: parliamo di sprint di gruppo. Parte Pasqualon, non appena Evenepoel finisce il suo lavoro, e da dietro un ragazzo in maglia bianca con una banda rossa e la scritta Trek si lancia. Forse parte un po' lungo, chissà. Invece è tempismo perfetto. Né Viviani, né Peñalver, né nessun altro lo riesce nemmeno ad affiancare. Quel ragazzo taglia il traguardo per primo indicando con decisione il petto, sembra dire "sono io, sono io". Finalmente - lo diciamo anche noi - torna alla vittoria, dopo quasi un anno, Matteo Moschetti.
Sembra banale, ma se le vittorie hanno un peso specifico, quella di qualche giorno fa è un macigno. Emozioni positive, le definisce a mente fredda, Moschetti. Emozioni che servono a scacciare via un lungo periodo difficile. «Avevo bisogno di dimostrare il mio valore». Di dimostrarlo soprattutto a sé stesso.
Se qualcuno volesse conoscere la sua storia, la facciamo breve. Velocista di talento tra gli Under 23, Matteo Moschetti passa professionista con carte importanti da giocare dopo aver conquistato nel 2018, tra i grandi, due gare, nonostante corresse con una squadra Continental, assicurandosi un contratto con la Trek per le stagioni successive. Un 2019 di rodaggio, fatto di esperienza, sgomitate, chilometri e ritmo da professionista acquisito, poi nel 2020 colpisce subito.
Prime due gare dell'anno, due vittorie davanti ad Ackermann: il tedesco aveva chiuso la stagione precedente con tredici successi tra cui due tappe al Giro d'Italia. Niente male Moschetti, se non fosse che pochi giorni dopo quel successo, un terribile incidente in corsa rischia di comprometterne una brillante carriera. Sembrava l'alba, in pochissimo divenne il crepuscolo.
Quando riparte, fa fatica; altri problemi, altri incidenti di quelli che dici: "ma capita sempre a lui?", risultati a singhiozzo, un successo lo scorso anno alla Per Sempre "Alfredo" che pareva un episodio isolato. Poi il traguardo di Torrevieja, mettendosi alle spalle alcuni fra i migliori velocisti del gruppo. «La cosa più difficile che ho dovuto affrontare in tutti questi mesi - ci racconta - è stato convivere con la paura. Paura di non poter tornare a un buon livello, paura di non poter più vincere, paura di non poter essere più un discreto professionista». Parla letteralmente di mostri con cui convivere, Moschetti, soprattutto nell'ultima fase di recupero della sua condizione. Quella fase in cui «anche ritrovare quel 5% in più ti serve per essere competitivo al vertice». Il mondo del professionismo che, ahiloro, non ammette un minimo cedimento, non concede una piccola sbavatura.
Ringrazia i compagni della Trek, non potrebbe essere altrimenti, per il supporto in corsa e fuori corsa, e ci tiene a fare il nome di Luca Guercilena, figura fondamentale per il suo recupero, affermando poi come sia importante lavorare da quest'inverno con una psicologa che segue la squadra.
Non si pone obiettivi specifici, Moschetti, 25 anni e mezzo, un fisico che definiremmo tutto sommato normale, ma tanta potenza da sprigionare nelle volate. Non si pone limiti, crediamo, ma ribadisce quanto sarà importante migliorare nella resistenza in salita e su percorsi più duri. E soprattutto «continuare a vincere» tutte le volte che ne avrà la possibilità.
Si dice come vincere aiuti a vincere, ma in questo caso aiuta anche a tenere lontana la paura.
Per un fatto di vocazione
Quando vedi correre in bicicletta Victor Campenaerts tutto sembra una provocazione. Quando attacca pare quasi goffo sulla bicicletta, eppure dicono di lui che la differenza più che nel motore la fa per una capacità unica nel riuscire a stare in posizione aerodinamica.
Lo ami o lo odi: forse ti chiederai come sia possibile, e infatti il pubblico, la critica, spesso si divide su questo ragazzo che si fece notare diversi anni fa quando al Giro d'Italia chiuse una cronometro con una scritta sui pettorali messi in bella mostra: "Carlien Daten?”. Chiedeva un appuntamento a una ragazza che gli piaceva, storia nota, uscirono assieme ma poi lei disse: “possiamo restare solo amici”.
Per anni Campenaerts si è distinto come cronoman di ottima fattura se non qualcosa in più: titolo europeo, titolo belga e bronzo mondiale nel 2018 che gli valsero persino il “Kristallen Fiets”, premio che ogni anno assegna un noto giornale belga. Campenaerts non se l'aspettava, tanto da presentarsi, parole sue, vestito in maniera del tutto casuale a quella serata, e salì sul palco indossando una giacca di un paio di anni prima. Quasi incredulo di ricevere il premio dal suo idolo Bradley Wiggins, disse «Non mi resta che provare a battere il tuo record dell'ora anche per rendere onore a corridori più forti di me come Lampaert, Van Avermaet e van Aert». Che gli finirono alle spalle.
E quel record dell'ora Campenaerts lo fa suo ed è tutt'ora il record dell'ora nonostante qualche tentativo di batterlo, andato a vuoto. Lo conquista ad Aguascalientes nell'aprile del 2019 e quella volta per abituarsi all'altura, Campenaerts, ciclista e dunque fachiro, passò un mese in Namibia dove la «temperatura si aggira costantemente sui trentacinque gradi e mi permette poi di prendere confidenza col caldo e di controllare al meglio la reazione del mio corpo. Allenarsi con queste temperature fa aumentare il volume di sangue e plasma; di conseguenza a beneficiarne sarà l’ossigenazione dei muscoli e la mia prestazione».
In quel periodo, per guadagnare ogni margine, Campenaerts pratica yoga e si lancia in esercizi fondamentali per il rafforzamento di schiena e spalle. Lancia anche un campanello d'allarme: «Da quando mi trovo in Namibia non sono mai stato controllato. Essendo un atleta pulito e credendo in un ciclismo pulito trovo tutto questo inaccettabile. Che il mio tentativo vada bene oppure male, non voglio assolutamente che le dure sessioni di allenamento che sto sostenendo lontano dall’Europa vengano prese come un diversivo per sfuggire ai controlli. Ho già comunicato questa mancanza e questo mio malessere a chi di dovere: situazioni simili non dovrebbero verificarsi mai più». Senza troppi filtri.
Dopo quel record l'idea di Campenaerts sarebbe stata la crono olimpica ma nel giro di un paio di anni il ciclismo si trasforma alla velocità delle primavere che passano una volta raggiunta la soglia dei trent'anni. E così cambia la sua vocazione. Basta con il puntare alle cronometro - «perché mi è impossibile pensare di competere con questa nuova generazione» - e allora Campenaerts diventa corridore d'attacco. Vince una tappa al Giro 2021, la seconda volta in carriera in una prova in linea: su 8 vittorie, ben 6 sono arrivate contro il tempo, l'ultima però nell'ormai lontano 2018.
Messo in bici dal padre, dopo aver praticato nuoto - infatti il suo idolo, oltre a Wiggins, è il ranista belga Frederik Deburghgraeve, vincitore dell'oro ad Atlanta - per la prima volta nel 2021 partecipa al Tour de France e proprio a suo padre dà appuntamento sul Mont Ventoux. «È un posto speciale per me: è stata la prima salita che ho fatto in bicicletta, era il 2006, andai su con mio padre e all'epoca non ero nemmeno un corridore. Ho avuto difficoltà all'inizio della tappa, ma volevo continuare per fare almeno questa mitica salita e poter salutare il mio vecchio».
Campenaerts arranca quel giorno, e una volta incrociato suo padre: «Mi sono fermato e abbiamo passato un po' di tempo assieme».
A fine stagione Campenaerts cambia squadra, la Qhubeka ha chiuso e lui ritorna a vestire la maglia della Lotto. La Qhubeka ha chiuso, ma Campenaerts continua a sostenerne il messaggio. A inizio dicembre ha organizzato un'asta benefica per i bambini africani, mentre a gennaio, insieme a Van Moer e Vermeersch sarebbe dovuto andare in ritiro in Rwanda. Anche se qui più che per passione pare per scelta obbligata.
Nel momento di prenotare l'hotel per il ritiro in Spagna, infatti, i posti disponibili per i corridori della Lotto si sono esauriti subito e i tre corridori sarebbero dovuti essere dirottati nella regione del Musanze, ai confini tra Rwanda, Congo e Uganda. Poi le nuove restrizioni gli hanno impedito di partire, ma nulla è cambiato: la sua stagione ripartirà a breve con il chiodo fisso della fuga, la nuova vocazione di Campenaerts.
Maxi Richeze: fino alla fine del Giro
Scorgendo la sagoma di Maxi Richeze all'orizzonte, puoi immaginarti alla sua ruota nomi come quelli di Modolo, Kittel, Viviani o Gaviria. Ultimamente potrebbe figurare pure quella di Molano, sempre circoscritto da una sorta di ingenua malinconia, ma tuttavia talentuoso. Succede poi, come, con il solito numero da pesce-pilota, Maxi Richeze permette al colombiano di recuperare e battere sulla linea d'arrivo Albanese: accade all'ultimo Giro di Sicilia ed è uno dei tanti episodi che hanno elevato le capacità di Richeze all'ennesima potenza.
Gaviria, raccontava tempo fa Richeze, è il più forte tra quelli che ha portato fuori a velocità impensabili in mezzo a tutta quella confusione che sono le volate. Facile a dirsi in quanto c'è stato un momento in cui Gaviria pareva un missile - anche se non ha mai sopportato quel soprannome.
Modolo, fu il suo primo capitano nel World Tour e proprio per questo gli deve tanto. Pensiamo che la cosa sia reciproca. Mentre definiva Kittel irresistibile in pianura, fino a che la strada non saliva, e di Viviani, disse una volta: «È quello che mi ha dato di più, professionalmente e umanamente».
Quando scorgi la sagoma di Maxi Richeze ti vengono in mente volate, velocisti e Argentina. Una famiglia di ciclisti, lui secondo di quattro fratelli, tutti aggrappati a una bicicletta. Quando era piccolo scappava da scuola e correva a casa per vedere gli sprint di Cipollini. «Ha cambiato la percezione del pubblico riguardo agli sprinter».
Sbarcò in Italia da Under 23, precisamente in Veneto con la maglia del Team Parolin, grazie ai contatti avuti con Mirko Rossato, e quando sembrava sul procinto di diventare velocista di livello fu fermato per un problema di positività: ancora oggi non si capisce molto bene cosa sia successo. «Potevo prendere e mollare tutto, ma in realtà mi ha dato ancora più motivazione».
Nel tempo ha vinto, sì, ma soprattutto ha legato rapporti e fatto vincere. Ci si poteva fidare di lui ciecamente e quando in una formazione leggevi il suo nome avresti detto: c'è Richeze, vince il "suo" velocista.
E oggi, quando leggi Maxi Richeze da qualche parte, sai che di tempo ne è passato: da quelle scorribande nei dintorni di casa sua con la bici, alle gare su pista, alla prima maglia arrivato in Europa, fino alle volate che i suoi compagni hanno vinto grazie a lui.
Quando leggi Maxi Richeze sai che stava per smettere, praticamente pochi giorni fa, mentre invece lo vedremo tirare ancora qualche volata; vedremo ancora velocisti fidarsi ciecamente di lui standogli a ruota.
Almeno fino alla fine del Giro e poi si vedrà.
Forse è vero che Remco Evenepoel...
Forse allora è proprio vero quello che raccontano i corridori: a un inverno senza intoppi - dolori, interruzioni, ferite - corrisponde la stagione ideale, almeno se prendessimo per buona la prima.
Forse allora è vero che proprio ieri, 2 febbraio 2022, Remco Evenepoel, 22 anni, conquistava la vittoria numero 23 tra i professionisti alla sua prima uscita: una precisione che si aggira intorno al 100%.
Lo ha fatto dopo aver passato un buon inverno, perché forse è proprio vero quello che si dice, che se le cose non hanno funzionato al massimo nel 2021, almeno non secondo i limiti che si pone Evenepoel, è stato perché quelli prima furono un autunno e un inverno da incubo.
Forse è vero che Remco quando si lamenta alla vigilia lo fa perché sente la gamba o altrimenti, rimanendo nel linguaggio gergale, perché non sente la catena: è di quel genere lì. Ha un impulso elettrico che lo scuote, una voglia irrefrenabile di attaccarsi il numero alla maglia e dare spettacolo. Brontolava, a poche ore dal via: chi aveva già corso in Spagna la settimana prima è avvantaggiato, bisogna prendere le cose come arrivano, bisogna rompere il ghiaccio prima e, in vista della tappa decisiva di venerdì - salita con un tratto di sterrato - pareva giudicare male tutto quello che gli stava attorno: «Mah, è pieno di rocce, forse è più adatta alle mountain bike». A inizio gennaio era stato a scalare da quelle parti, ma ora, hanno risposto gli organizzatori un po' scocciati, che taccia un po' quel Remco lì, la strada è battuta e senza ostacoli.
Forse è proprio vero che: ma chisse frega della dialettica o presunta tale di Remco Evenepoel, perché in bicicletta è uno spettacolo. Ha dato un filo di gas per rintuzzare l'attacco di Tolhoek, poi è andato in progressione e non lo hanno più rivisto. Vlasov ha cercato di limitare i danni, ma di quel belga, ex promessa del calcio, non ha potuto che guardare la schiena farsi sempre più lontana davanti ai suoi occhi. Non poteva nemmeno scendere di bici e lanciargli un pallone per distrarlo: non sarebbe servito a nulla.
Forse è vero che di quelli come Remco Evenepoel si ha bisogno per accendere la stagione. Un ragazzo che abbiamo imparato a conoscere come un bambino, ma che si fa adulto a suon di vittorie mai scontate, e riesce sempre a farci appassionare a ogni gara. È di quel genere lì.
Ben ritrovato Remco Evenepoel! (ah: non è che magari ti viene voglia di fare un salto al Giro?)
Viva van der Poel
Oggi van der Poel compie 27 anni (sembra ieri che...): viva van der Poel, auguri van der Poel. 27 anni e sulle spalle il macigno delle aspettative, il peso di essere già una leggenda di questo sport a prescindere dai risultati. Van der Poel cresciuto spalmando gare di bicicletta sul pane a colazione, pucciando nel latte biscotti al ciclocross; con il compito di spostare l'interesse di chi segue il ciclismo su strada e di chi si avvicina al fuoristrada.
Il compito meraviglioso di rallegrarci nei fine settimana, noi che, magari dopo una bella pedalata al sabato mattina, ci piazziamo davanti alla televisione per vedere van der Poel, sì, decisamente: viva van der Poel.
Ci sono ragazzini oggi che lo imitano, usano il suo stesso modello di occhiali, comprano la sua maglietta come fosse quella di un idolo calcistico e, quando corrono, nella testa si immaginano mentre ripetono i suoi gesti in gara, le sue scorribande, le sue fughe a volte scriteriate, le sue acrobazie, le sue smorfie, i suoi scatti vincenti che si concludono con esultanze da ricordare. Ci sono immagini di bambini che danno fuori di matto per un cinque battuto al volo, un autografo, una borraccia. Questo è van der Poel. Spauracchio per gli avversari in gara, che fa parlare quando in corsa non c'è, che piace perché a volte la sua dimensione eroica si rivela così teneramente umana. È persino battibile, fallibile.
Ci sono suiveur che sanno quanto fascino in più ci sia in una corsa quando c'è van der Poel. Quanta importanza ha van der Poel per il ciclismo e quanto sia importante il ciclismo per van der Poel.
Oggi potremmo parlare di quanto cambiare da una disciplina all'altra possa avergli fatto male alla schiena, quegli "attacchi che ha inflitto al suo corpo", come li ha definiti il suo fisioterapista. Ma no, oggi sarebbe la sede sbagliata. Potremmo parlare del suo problema al ginocchio, l'operazione, il mancato duello con van Aert, ma non è la giornata giusta.
Certo, però, è che la primavera (ciclistica) si avvicina, quelle delle classiche, e, abituati così bene, non sarebbe una primavera ciclistica senza van der Poel.
Incrociamo le dita se non possiamo fare altro, e oggi diciamo viva van der Poel, auguri van der Poel - di pronta guarigione, anche, ovviamente: riposati e fai il bravo che ti aspettiamo, il ciclismo ti aspetta.
C'era una volta "Ice Man"
A volte succedono che ti affibbiano un nomignolo e non te lo levi più. "Ice man" al secolo (si dice così, no?) Tom Meeusen, ma ormai sono passati più di undici anni quando si inventò quella che resterà un po' la gara della sua vita. Si correva a Kalmthout, Fiandre, dove ha sede da oltre 160 anni uno dei più celebri giardini botanici del nord Europa (magari a qualcuno può interessare).
Gara della vita dicevamo, più o meno, e andate a vedervi il video e andate a vedervi chi sconfisse in una volata a due, un certo Sven Nys. Fioccava di brutto quel giorno, nulla a che vedere con la bella pista battuta della Val di Sole di qualche settimana fa, ma neve che si mischiava alla mota e diventava una poltiglia che rendeva tutto ancora più complesso. Ci sono alcuni passaggi tecnici fatti da Nys che puoi solo dire: è ciclocross. Anche le sbandate di Mourey hanno il loro fascino.
Tornando a noi, anzi a lui: prometteva bene Tom Meeusen che forse di quel talento ne ha fatto vedere solo a sprazzi.
Gli è rimasto quel nomignolo tanto che alla viglia della prova di Vermiglio in Val di Sole, che ormai ha fatto storia e che prova persino a cambiare le sorti del ciclocross (Giochi Olimpici? Chissà), un suo ex compagno di squadra, ora commentatore televisivo gli scriveva un messaggio: "domenica vinci tu".
Tom Meeusen si è portato dietro quel suo essere Ice Man, ma, realista, sfuggiva ai favori del pronostico.
«È un soprannome un po' vecchiotto in realtà, non credo di poter vincere in Val di Sole, ma di una cosa sono sicuro: amo la neve e mi rende felice: sono un grande fan di biathlon e sci di fondo!»
Spiegava sempre Meuseen: «Il mio vantaggio su certe superfici è svanito col tempo e con l'avvento dei freni a disco. Le bici di una volta ampliavano i margini da corridore a corridore quelle di ora sono più semplici da guidare».
Qualcuno dice che se Meeusen un po' alla volta è finito per scivolare a metà classifica è perché ha avuto "la sfortuna di nascere negli anni sbagliati" - d'altra parte non vi è scelta in questo.
Lui stesso racconta di come, con l'avvento dei due "van", abbia provato ad alzare l'asticella, si sia allenato ancora più duramente e alla fine ne è aumentata solo la frustrazione.
Però Ice Man resterà per sempre Ice Man, quello non glielo toglierà nessuno. Così come nessuno cancellerà la foto che lo immortala mentre batte, sotto la neve, uno dei corridori più grandi di sempre in questa disciplina.
Consolazioni
La consolazione Filippo Fontana la trova in quella curva da stadio che ribattezzeremo, tanto per stare più comodi, "Curva Fontana", e che ne accompagna ogni suo passaggio con urla, trombe, sirene, motoseghe, generatori, e i vari "Vai Pippo!" che riempiono, insieme all'odore di freni e di miscela, l'ultimo pomeriggio di gare al campionato italiano di ciclocross.
È grigio il tetto sul microcosmo di Variano di Basiliano, sin dal mattino. Ed è grigio sul destino di quasi tutti i corridori. Fontana era in testa, o meglio, se la giocava quasi testa a testa con Dorigoni, davanti uno, davanti l'altro; poi la catena rotta, il cambio di bici, una foratura subito dopo, insomma un compendio di sf... ortune varie e l'avversario si faceva piccolo piccolo ai suoi occhi sullo sfondo, mentre andava a conquistare il tricolore della gara élite.
Non c'è consolazione di nessun genere, invece, per Carlotta Borello: in lotta con Gaia Realini per il titolo Under 23, anche lei, causa incidente meccanico, abbandonava i sogni della maglia verde-bianco-rossa affrontando gli ultimi due giri e mezzo tra le lacrime ma concludendo ugualmente la gara. Ha 20 anni compiuti un paio di giorni fa, Carlotta, e migliaia di altre chance davanti. Si consoli.
La consolazione, invece, Nicolas Samparisi la cerca chiamando sua mamma dopo il traguardo. Ha freddo, Nicolas, caviglie sottilissime da scalatore di altri tempi, fisico da fenicottero, «ho le mani gelate», sostiene a voce e con ampi gesti. Non trova pace subito dopo la gara, uscito a sinistra delle transenne appoggia la bicicletta sulla rete di una casa. Impreca, ha bisogno dei guanti e di indumenti di ricambio che sua mamma ha nello zaino. Anche per lui, nonostante il terzo posto finale tra gli élite, l'amaro in bocca per aver rotto la catena e per aver forato: che mestiere infame quello del ciclocrossista, a schivare sassi, ad assecondare cunette e a vedere crollare le speranze per una forza esterna che ci viene facile chiamarla sorte avversa.
Dorigoni consola il suo team manager Alessandro Guerciotti al telefono. È assente Guerciotti, probabilmente gli avrà detto che avrebbe voluto essere lì a vederlo in maglia tricolore, ma Dorigoni lo spiazza: «Mettila così: almeno dalla televisione hai visto la gara meglio di tutti».
Per Silvia Persico più che consolazione c'è la calma come segreto del successo nella prova élite femminile: «Ho fatto un paio di errori, poi mi sono detta che l'unico modo per non sbagliare era gestire tutto con tranquillità». Quella che oggi l'ha distinta da tutte le altre.
La frenesia invece colpisce Zoccarato, professionista su strada in maglia Bardiani che da un po' di settimane si misura nel ciclocross. In uno dei punti più tecnici del percorso, sbaglia una curva e se la prende con un albero che all'improvviso gli si figura davanti.
Toneatti, invece, ragazzo praticamente di casa e cresciuto a pane e ciclocross mangiato proprio nel parco del Castelliere, stacca nel finale Leone, scivolato, e vince la gara degli Under 23. Trova conforto, Toneatti, se ce ne fosse bisogno, prima ancora che nel tricolore da indossare sul palco, in un caldo abbraccio appena superato il traguardo.
È ormai sera a Variano, mentre scriviamo queste parole. Il campionato italiano è finito e operai a lavoro smontano il palco delle premiazioni e spostano le transenne. Come una beffa il cielo si è aperto, ma non serve a nulla: il sole non si è visto per tutto il giorno, il conforto lo abbiamo trovato in una splendida giornata piena di storie, fango e biciclette.
Foto: Chiara Redaschi
Fa' la cosa giusta
Mentre Arianna Bianchi tagliava il traguardo conquistando l'ultimo titolo italiano in palio oggi, quello della categoria allievi, pochi metri più avanti di lei una ragazza col numero 135 sul caschetto attraversava il segmento in asfalto con la bici sulle spalle.
In realtà era da diverso tempo che procedeva a passo d'uomo - l'avevamo già notata da lontano - ma voleva raggiungere ugualmente il tratto in erba, ormai per la verità ridotto, dal passaggio di centinaia di migliaia di biciclette, a una poltiglia di mota, mettere giù la bici e provare a farla ripartire. Niente da fare.
Appoggiava, sul terreno incerto, il mezzo appesantito dalla fanghiglia e dalla delusione, provava a pedalare, ma la catena opponeva resistenza come se una forza avversa spingesse al contrario. Mesta, rimetteva la bici in spalla, decidendo di procedere lentamente. «Fino a dove vuole arrivare?» - ci siamo chiesti, ma dopo due curve si fermava, usciva dal tracciato e trovava lì qualcuno, un'amica, forse la sorella o una compagna di squadra, e scoppiava a piangere, facendosi avvolgere in un abbraccio consolatorio. Non aspettava altro.
La giornata di oggi vedeva in gara ragazzi e ragazze, esordienti e allievi, ma lo spettacolo, oltre che dall'infida collina che si erge sopra il circuito di Variano di Basiliano, arrivava da dietro le fettuccine che delimitavano il percorso.
Un ragazzo, molto prima dell'inizio delle gare, si era portato su un tratto dove era possibile vedere passare la corsa più e più volte. Lì, la visuale era perfetta, seppure in ombra (e quindi al freddo), tra curve in contropendenza, una parabolica dall'importante contenuto spettacolare e dall'alto coefficiente di difficoltà, la scalinata da fare a piedi («mi raccomando: a piccoli passi - tac tac tac!» urlava un tecnico) che portava in cima a un monumento, e lui, sempre il ragazzino salito su di buon mattino, con sedia da campeggio, motosega, generatore a cui aveva attaccato il suo telefono facendo partire musica da discoteca e sirene («senti questa dei pompieri che bella!»), se la spassava, lanciando, ironicamente, consigli ai coetanei in bici su quale fosse la migliore traiettoria da prendere.
E poi i genitori e i tecnici, i quali, spesso, rivestono lo stesso ruolo. Abbiamo visto quelli che spingevano a suon di urla, chi si lasciava andare persino a qualche parolaccia, chi consolava il figlio con le ginocchia sbucciate, chi ne redarguiva un altro: «Non ti permettere mai più di fare un gestaccio a un tuo avversario».
Chi, in preda all'agonismo, urlava al walkie talkie: «Campioni d'Italia! Campioni d' Italia!». Chi, semplicemente, si prodigava in un abbraccio, chi saltava da una curva all'altra e scivolava a terra, il tutto per incitare le ragazze della sua squadra. Una mamma attraversava il percorso per andare a lavare la bici del figlio, un papà applaudiva la sua bimba, ultima, ma felice e sorridente quando sentiva urlare il suo nome, convinta, in modo legittimo, di fare la cosa giusta.
Foto: Chiara Redaschi
Bici rotte, amatori e acrobazie
«È un circuito bellissimo». Parola di amatore, anzi di uno dei campioni italiani tra gli amatori oggi, Massimo Folcarelli, 47 anni, al suo diciottesimo titolo nella categoria Master. Beh, mica male.
Ha messo su una squadra un po' di anni fa, la Race Mountain Folcarelli Team, con sede ad Anzio, provincia di Roma, un progetto ambizioso per tutto il Centro Sud. «Perché - ci tiene a specificare - aumentano appassionati e praticanti: il ciclocross da diverso tempo sta prendendo piede anche da noi».
In squadra corre pure suo figlio Antonio che va forte e si vorrebbe giocare un buon piazzamento domenica tra gli élite. «Inizia tutto così: padri che corrono tra gli amatori e figli che si appassionano e si gettano nella mischia». E quando scorri le liste di partenza o senti lo speaker Brambilla che snocciola vita e miracoli di tutti i partecipanti come fosse l'elenco dei santi recitato a memoria nell'omelia domenicale, ti accorgi che è pieno di figli o sorelle, padri e madri d'arte.
È un tracciato bellissimo, davvero. Tecnico, vario, che cambia di ora in ora, «com'è giusto che sia» racconta un altro dei tanti protagonisti di oggi. La sua bici a fine corsa è una crosta infangata dal terreno di Variano (mi raccomando, l'accento cade sulla seconda a) di Basiliano, provincia di Udine, in una giornata che si apre fredda da farti cadere le dita dei piedi, procede ventosa ma serena, si chiude con un cielo che si tinge tra il viola e il blu.
Il circuito parte piatto, veloce, e si lancia, tecnico e suggestivo, verso l'alto nel parco del Castelliere di Variano. Alle 9 era tutto gelato coperto di brina mista a un filo di neve ghiacciata, residuo di una spruzzata di un paio di giorni fa. Il terreno è duro, ma un'ora dopo si iniziava a creare quella tinta di fango, con le sue canalette da battezzare giro dopo giro, che tanto piace a chi corre uno sport che ha bisogno di una cura particolare del dettaglio. Dal tipo di copertone alle atmosfere, dalle migliori traiettorie da preferire, fino alla scelta dei tratti da correre a piedi o in bici.
Gli allenatori si fermano vicino a segmenti così complicati da apparire, a volte, persino enigmatici. Spiegano ogni dettaglio: «Se non riuscite a farla tutta in bici, sganciate un pedale e spingete come fosse un monopattino». Oppure: «Scendete di sella prima di scollinare, ma mi raccomando: la bici tenetela sul lato destro». Ragazzi e ragazze lo guardano come si fa con un maestro a scuola che sta spiegando una materia affascinante e della quale non si può perdere nemmeno una parola.
Una discesa in particolare, in mattinata, è quasi impraticabile, ripida, dura, sconnessa. Qualcuno con una piccozza lo smussa e ne tira via i sassi. « Tiro via i claps!» (appunto, pietre) urla in friulano a chi gli chiede cosa sta combinando. Altrimenti si corre il serio rischio di spaccare una ruota.
Amatori di ogni età si mescolano con ragazzi e ragazze, persino bambini: qualcuno urla "Forza mamma!" che è un po' l'inverso di quello a cui si è abituati a sentire di solito alle gare con i genitori che incitano i figli. Esordienti e allievi fremono per provare il tracciato. «Prima tocca a loro, poi a voi» li cerca di calmare uno degli organizzatori.
Il vociare sotto la collina, dove ci si scalda prima di gareggiare, appare quasi il ciacciare a scuola, un ronzio di insetti: sono i ragazzi che si dimenano e fremono sui rulli. Si susseguono gli arrivi e le partenze. Amatori prima e poi le staffette che fanno il loro esordio nel campionato italiano. Vinceranno le squadre "di casa", lo Jam's Bike Team di Buja e la DP66 Giant SMP.
Terra e biciclette vengono maltrattate per il bene del ciclismo e dell'agonismo. Si alternano facce e divise, capelli grigi e volti segnati dal fango incrostato. Sorrisi e delusioni. rotture, acrobazie e cadute. Ci sono più camper che a un raduno di camper.
Poi, in mezzo a una colonna sonora kitsch che mescola Battiato, successi dance anni '90 rifatti in spagnolo e l'inno di Mameli, scende il tramonto che tinge di rosa le bianche montagne friulane sullo sfondo.
Cosa Chiedere ancora a Tadej Pogačar
- Ha il miglior motore del circondario;
- Ha 23 anni e ha già vinto non quanto, ancora, ma come alcuni dei più grandi di questo sport, sì;
- 2 Tour de France in maniera completamente differente. Il primo con una cronometro che è già storia (esse minuscola, mi raccomando) facendo venire il mal di testa e i complessi a Roglič, spazzato via tenendo in salita un passo impossibile per chiunque nel ciclismo contemporaneo. Lasciando van Aert e Dumoulin interdetti a guardare il maxi schermo. Il secondo Tour lo ha vinto demolendo la concorrenza in una tappa di montagna, e poi amministrando (e vincendone almeno un altro paio di frazioni con meno margine, ma da padrone);
- È il numero uno del ranking UCI (per quello che può valere) e si è portato a casa anche il Vélo d'Or;
- Ha vinto Liegi-Tour-Lombardia nello stesso anno come solo Eddy Merckx (che ha fatto quel filotto due volte, e in un ciclismo completamente differente);
- Ha deciso, in una giornata di fine dicembre, di partecipare a una gara di ciclocross (lui che campione nazionale di ciclocross lo è già stato) in Slovenia e ha vinto pure lì, cadendo e rimontando, a dimostrazione che, quando uno è baciato dal talento, può tutto;
- E a proposito: quanto bello sarebbe vederlo gareggiare nel fango, qualche volta, contro la banda, ormai allargata, fiammingo-britannica?
- Ha disputato 3 grandi giri: due li ha vinti, il terzo è un podio alla Vuelta ottenuta al suo esordio in una grande corsa a tappe, vincendo tre frazioni. Avrebbe compiuto 21 anni solo qualche giorno dopo la fine di quella corsa;
- Si parla spesso di lui perché un ciuffo biondo gli esce dal casco;
- Si parla spesso di lui perché guida benissimo la bici, va forte su ogni terreno in tutti i sensi, chissà se a fine carriera non possa essere corridore capace di vincere tutte (proprio tutte) le classiche più importanti compresi mondiali, Giochi e tutti e tre i Grandi Giri?
- Si parla spesso di lui perché contrappone, all'eccessiva magrezza di diversi corridori che hanno vinto le corse a tappe più importanti negli anni precedenti, un bel fisico muscoloso tutt'altro che emaciato;
- Nel 2021 si è ritirato al Gp Plouay (dopo aver attaccato da lontano con Alaphilippe e Cosnefroy) e non gli accadeva dal 2019 (San Sebastian). Per trovare un altro ritiro precedente bisogna scendere al 2017 quando era al primo anno tra gli Under 23;
- Nel 2021 ha conquistato il bronzo nella prova in linea dei Giochi Olimpici e non pareva nemmeno nella sua giornata migliore;
- Quest'anno fra le tante cose proverà la doppietta Fiandre-Tour riuscita nella storia solo a Bobet e, tanto per cambiare, a Merckx;
- In futuro potrebbe provare a vincere Giro e Tour nello stesso anno e l'impressione che, a stretto giro di posta, se non lui, chi?
Foto: ASO/Alex Broadway