L'ottavo giorno
E l'ottavo giorno un incidente meccanico. Wout van Aert, smette di pedalare. Scende dalla bici e poi è costretto a inseguire. E l'ottavo giorno Thomas Pidcock pigia sull'acceleratore (in particolare tra 4° e 5° giro, come una furia, chiusi sotto il tempo di sette minuti), piccolo sì, ma forte, guidatore sublime, tecnicamente impeccabile sul circuito olandese. Impeccabile o quasi, con un errorino che nel finale rischia di pregiudicargli il successo: d'altronde il ciclocross non ricerca la perfezione nonostante i tentativi connessi a cui aspira van Aert. Il ciclocross è arte e come l'arte che piace a noi è imperfezione, tecnica, ricerca e istinto. È forza nelle gambe e nella testa.
Parlavamo di piccoli, ma tenaci, ed ecco spuntare Eli Iserbyt, prima a comandare, poi a tiro quanto non bastava per superare il rivale (di sempre), ma per creargli apprensione, quello sì, salvo dare tregua a quelle gambe che da mesi macinano chilometri e sembrano non fermarsi mai.
Hulst è Olanda, non è Belgio. Davvero poco cambia, ciclocrossisticamente intendendo. Il Vestingcross di Hulst è tecnico, ma velocissimo, il terreno varia e c'è un enorme mulino, lo Stadsmolen, tra le attrazioni da visitare. Non fossimo in piena pandemia, nella giornata di ieri sarebbe stato bello andare lì e farsi un giro. Se non è altro perché era in piena vacanza natalizia. Poi in quel mulino i ciclisti ci passano dentro in gara, si gira attorno e tra le mura. Si sale, si salta e si scende, si corre a piedi, insomma ad Hulst, che non è Belgio ma è Olanda, ci si diverte e si potrebbero fare anche un sacco di foto da ricordare. Non manca nulla (a parte van der Poel). È il ciclismo questo, e per fortuna il meglio deve sempre arrivare.
E l'ottavo giorno Wout van Aert rimonta fino al 4° posto dopo essere rimasto fermo per quasi un minuto ed essersi messo a lottare spalla a spalla con gente che incrocia solo - a malapena - sulla linea di partenza o in ricognizione.
Poche ore prima, a Baal, a casa Nys, un altro problema, ma lì un percorso più lento gli permise la rimonta, qui si interrompe senza togliere il fascino a una gara che regala un degno vincitore. Perché se non vince van Aert, ma lo fa Pidcock è comunque qualcosa di notevole. Non tutti sono d'accordo nel parlare di "big three" o "tre tenori" o vedete voi, ma a oggi, da quando è tornato van Aert, hanno vinto solo loro due.
Ha guidato magnificamente Pidcock, mentre da dietro van Aert rimontava e rimontava nella sua livrea nero-giallo-rossa. Dopo pochi minuti piombava su Venturini, il campione di Francia, 20° al traguardo, uno che non correva in coppa del mondo di ciclocross da diversi anni e l'ultima volta che lo fece arrivò 4°. Lo dribblava, sguardo da segugio in ferma, sempre rivolto in avanti a caccia.
Si ferma a sette di fila van Aert, uno che vince in media tra cross e strada una gara su tre, circa, e che nei giorni scorsi ha pubblicato una serie di dati relativi al suo 2021 tra cui 205 giorni in cui ha dormito fuori casa. Si dice che forse non ci sarà al Mondiale e sarebbe lo spot peggiore per il ciclocross, soprattutto oggi che c'è preoccupazione sulle condizioni di Van der Poel.
E allora Pidcock sogna concretamente di conquistare il titolo mondiale in tre specialità (cx, strada e mtb) e intanto approfitta e inizia a vincere qua e là, mentre Eli Iserbyt si porta a casa la coppa del mondo che proprio male male non è, succedendo nell'albo d'oro proprio a Wout van Aert.
E così l'ottavo giorno qualcosa cambia nella sfera del ciclocross, mentre restano intatti il divertimento e qualche accento con sbavatura.
Il giovane Owen
Vecchio a 26 anni, andateglielo a dire a Logan Owen che salvo modifiche al suo destino nel 2022 resterà senza squadra. Anzi tecnicamente è come lo fosse già. A settembre gli è stato comunicato che nel giro di qualche mese avrebbe dovuto restituire tutta l'attrezzatura: bici, divise, eccetera.
Sperava nel salvataggio della Qhubeka una volta compreso come nella EF non ci fosse più spazio per lui. Ha provato a bussare alla porta di altre squadre, trovandola chiusa.
E se qualcuno avesse seguito in maniera distratta la sua carriera, lo riportiamo noi sulla retta via: Logan Owen "non è Merckx" (cit.), ma nemmeno l'ultimo che passa. Lui si racconta come un corridore capace di muoversi in gruppo come fosse uno dei migliori; capace di leggere la corsa, capace di dare una mano al capitano entrandogli nella testa oppure come se lo potesse prendere per mano aiutandolo a entrare nei pertugi che si creano in quella matassa che è il plotone.
Giovane, altro che vecchio. Solido, altro che molle. Nel 2015 vinse la Liegi-Bastogne Liegi-Under 23 - oppure Espoirs, come preferite - battendo Sivakov e Guerreiro, due che si fanno o si stanno facendo bene e si faranno, anche tra i professionisti.
Ha mollato il ciclocross per la strada eppure nelle brughiere di tutto il mondo ha sempre detto la sua in maniera costante, pesante. 10 volte campione nazionale americano, nel 2013 arrivò 4° nel mondiale junior che si correva proprio negli Stati Uniti. C'era un unico favorito (indovinate chi? Il suo nome inizia per van, e batte bandiera olandese) che vinse. Dopo un problema in partenza, Owen rimontò dal 19° posto mostrando quando valesse nel muoversi tra le canalette in sella a una bici da cross. Alla vigilia pareva proprio l'unico contendente al titolo che spettava, quasi per assonanza con il suo talento, a Mathieu van der Poel.
Pare abbia deciso che, qualora le cose per lui dovessero andare male per la strada, si butterebbe nel gravel e si riconcilierebbe con il ciclocross. Ci ha pensato qualche settimana fa, facendo anche un pensierino al mondiale che nuovamente si correrà negli Stati Uniti, ma i problemi logistici lo hanno frenato: «Il problema - raccontava a Cyclingnews - è spostare me, la mia compagna, i miei cani e i miei due gatti» Un incubo, afferma.
Mentalmente, poi, trova difficile Owen allenarsi come se fosse sotto contratto. Un po' spingi, sì, ma poi dentro ti resta quella paura di non poter correre più l'anno prossimo.
E se non dovesse trovare un contratto? Il destino di Owen ha due facce. «Forse troverò un lavoro normale o tornerò a scuola. C'è un buon programma infermieristico da dove vengo, o potrei fare un po' di coaching per il ciclocross dalle parti di Seattle. Però se devo essere onesto ancora non so nulla di quale sarà il mio futuro». Che suona un po' come quella celebre farse di Salinger: "Avevo sedici anni, allora, e adesso ne ho diciassette, e certe volte mi comporto come se ne avessi tredici. È proprio da ridere, perché sono alto un metro e ottantanove e ho i capelli grigi". Vada come vada, il futuro tuttavia resta dalla parte del giovane Owen.
Cinque su cinque
Cinque su cinque, Wout van Aert appare inarrestabile. Cinque su cinque, Wout van Aert non fa più prigionieri. Cinque su cinque, Wout van Aert detta la sua legge nel ciclocross e non ci sono van der Poel al momento che tengano («È stata solo una brutta giornata, ma sono cose che succedono» dirà a fine corsa, secondo alcuni media fiamminghi pare si possa essere pure fatto male di nuovo a quel ginocchio che abbiamo già "raccontato" come ferito in mountain bike. Sportivamente parlando sarebbe una disgrazia).
Non c'è Pidcock a tenerlo, l'inglese che, lontano un minuto, lotta per un piazzamento contro Iserbyt. «È un cross che non mi si addice eppure sono andato forte». Si riposerà e lo rivedremo a Capodanno.
Cross per gente potente ieri a Zolder, cross per van Aert. Qualcuno dice "altra categoria" in effetti sarebbe dura contraddire quei qualcuno. In pochi minuti ha cancellato lo sforzo del giorno prima, seppur camuffando a parole l'apparente facilità con la quale in questo momento vince, scusate volevamo dire domina. Ha detto infatti van Aert di essersi sentito parecchio stanco dopo la vittoria del giorno prima (meno male!), che però già nel riscaldamento del mattino gli pareva di aver recuperato bene dallo sforzo. Sarà al via nelle prossime gare solo per vincere. «D'altronde mi alzo la mattina e corro per questo».
Alla domanda se lo vedremo al mondiale è serafico: «So che da qui a fino a quando non prenderemo una decisione me lo chiederete ogni giorno. Intanto arriviamo al campionato belga e vediamo di allungare la striscia vincente, poi decideremo».
Pare che il programma di corse su strada potrebbe togliercelo dal fango il 30 gennaio nel mondiale di Fayetteville. Sarebbe quantomeno un brutto affare non vedere questo van Aert quel giorno lottare per l'iride che oggi indossa van der Poel. Forse al momento non vi sarebbe corridore più degno di vestire la maglia più bella del ciclismo.
Grappe, panettone, dei e van der Poel (oggi finalmente in gara)
A qualcuno può sembrare una cosa difficile da immaginare: Mathieu van der Poel, uno che aveva appena imparato ad andare in bicicletta e già lo trovavi in giro, con la classica bici più grande di chi la porta, per le gare più importanti del mondo, mentre suo papà si prendeva a legnate con i suoi avversari; uno che ha nei suoi geni Poulidor e che completa un'opera da romanzo conquistando quella maglia gialla che il nonno non aveva mai vestito; uno che quando corre appassiona chiunque, che a volta polarizza e catalizza, è vero, anche se non ci è ancora chiaro per quale motivo la passione per van der Poel non possa essere rivolta allo stesso modo anche su van Aert e viceversa, ma forse è il mistero della fede, è la regola non scritta del tifoso. Insomma uno così che bazzica nei libri di storia nel ciclismo con facilità, tocca immaginarselo che scorrazza con gli amici per i boschi in mountain bike.
Eppure anche van der Poel è umano e infatti come una persona normale cade quando è in giro con gli amici e si fa male. «E quell'infortunio ha rischiato di rovinare la mia intera stagione nel cross» ha raccontato qualche giorno fa in conferenza stampa.
In Belgio hanno scritto che la presenza di van Aert e van der Poel durante queste manifestazioni di fine anno, equivale a gustarsi del vin brulé davanti al camino.
A Dendermonde Mathieu ci sarà, anche se non al meglio della forma: il taglio al ginocchio rimediato nella caduta in mountain bike è una ferita che si rimargina, ma è un campanello d'allarme il problema alla schiena che si porta avanti da tempo e da lontano (da Tokyo).
Pretattica? Mah. Oggi non parte certo favorito, il che può sembrare una notizia, ma non lo è. Oltretutto a Dendermonde, gara che esalta le qualità podistiche del suo rivale preferito («mi aspettavo andasse forte, ma non che dominasse in questo modo»), sarà van Aert ad avere oneri e onori dell'uomo da battere, ma poco importa: non poteva esserci giorno migliore per stare sbracati sul divano: finalmente tutti e tre (c'è pure Pidcock), ma non è che esistono solo loro tre, Vanthourenhout, Iserbyt, Aerts, Sweeck, Hermans insomma ci sono praticamente tutti, pure gli italiani.
Certo, gli altri non dormono sonni felici: lo scorso anno quando quei due erano presenti nella stessa gara, nove volte, sono sempre finiti 1° e 2°. Volendo, per gli amanti della statistica: 6-3 il conto totale per l'olandese. Uno spettacolo.
Dei del ciclismo, per favore, preservateci il più tempo possibile i nostri eroi umani. E se magari vi avanza anche un po' di tempo, date uno sguardo pure a noi. Sono tempi duri ce n'è sempre bisogno.
Il diesel e la Ferrari
Tom Pidcock non ci sta. Sfrontato come i suoi ventidue anni, cortese come un baronetto del Regno Unito, di Leeds. Elegante e redditizio su strada, deciso quando si destreggia nel fango come un occhio che cerca un varco nel fumo di Londra.
«Non voglio essere sempre terzo, corro per battere Wout e Mathieu» ha detto così a Het Nieuewsblad, A fine gara Lucinda Brand non ha perso la sua dialettica. Non lo fa nella vittoria, figurarsi, come nel caso di sabato a Rucphen, nella sconfitta. «Non potevo fare nulla contro Vos: ero come un diesel contro una Ferrari».
Mai paragone più azzeccato e non ce ne voglia Brand: come Vos, spesso, non c'è mai stato nessuno. C'è chi la definisce, appunto, come la fuoriserie più stilosa; c'è chi la definisce semplicemente la Più Grande Di Ogni Tempo. D'altra parte non potresti chiamare in altro modo una che ha vinto quanto ha vinto e che oggi, a 34 anni e mezzo, sembra non smettere mai di essere quello che è.
La trovi sempre lì: su strada (una volta anche su pista) ora di nuovo nel ciclocross. Ha vinto sette titoli mondiali nel "fango" (diciamo così per semplificare, ma non è sempre così), ne ha vinto qualcuno anche su strada, dove pochi mesi fa solo Balsamo è riuscita a superarla.
E sabato - in un cross troppo piatto per essere vero (un cuscinetto prima della massacrante prova di Namur) con un tratto da percorrere a spirale che lo faceva sembrare una sorta di Giochi senza Frontiere incrociata alla gimkana della sagra delle pere, gara veloce e tattica dove era difficile fare una vera e propria differenza; sabato, dicevamo, a Rucphen, Vos e Brand si sono giocate la vittoria allo sprint e l'ha spuntata Vos, su terreno ideale, quello della volata contro Brand, ma domenica, nella splendida cornice di Namur, le cose cambiavano repentinamente - anche per assenza del corridore della Jumbo.
Namur e la sua cittadella: roba da diesel: il cross più bello per alcuni: tecnico e spettacolare anche da un punto di vista scenografico. Davanti subito Brand con treccia nera su sfondo bianco e dietro a seguirla Betsema con treccia bionda su sfondo rossonero. Fateci caso quando quest'ultima cade nel primo giro, la faccia che fa nell'osservare Brand che prende il largo. Una sorta di dolcissimo ghigno. Non la riprenderà più pur mantenendo sempre - più o meno - lo stesso distacco. Occhi che conoscevano già l'epilogo.
Nessuno esente da errore: principi di equilibrismo in bicicletta in mezzo a perfide canalette e contraccolpi che ti sbalzano via, Brand compresa, che faceva una fatica bestiale «al pubblico sembrava che avessi tutto sotto controllo, ma non è stato così», tra curve scivolose, terra che si incastra nei pedali, radici che si riprendono il terreno, diabolici tratti in contro-pendenza, pavé, saliscendi, e poi lui, immancabile fango e poi loro, tantissima gente. Immancabile. A spingere e spingere, urlare e sostenere.
Si definisce un diesel, Brand, per capacità di pedalare con potenza e di andare forte anche a piedi; resiste al tentativo di rientro di Betsema e conquista Namur per la quarta volta di fila. La prima in maglia iridata in quella corsa che per bellezza, e non solo, è una sorta di appuntamento iridato.
Poi a proposito di fuoriserie, due parole, giusto due, su Zoe Bäckstedt e sulla capacità di impressionare notevolmente nella sua categoria. Vince "per dispersione" (anche) nel cross. In maniche corte e senza guanti. Ci farà divertire pure lei. Ci fa divertire un sacco questo ciclocross.van Aert e van der Poel per nome, un guanto di sfida, e ha gasato tutti perché Tom è uno da prendere sul serio, ciò che dice fa. Va bene il rispetto, la fiducia, l’orgoglio di essere fra loro ma il sale è quella voglia di ribellione, di provocazione, di mettere la propria ruota sporca di terra davanti alla loro. Ce la farà? Lo scopriremo.
Intanto ieri, a Rucphen, in Olanda, pur con l’assenza di van Aert e van der Poel, ha battuto Iserbyt e Vanthourenhout e non in un modo qualunque. Quasi con l’istinto di colui che sente l’odore della preda nella boscaglia e si sfregia coi rovi pur di prenderla. «Ad un certo punto mi sono detto: diavolo, ora dai tutto e vinci». La voglia di riscossa, di rivalsa. Prima Coppa del mondo fra gli élite, una di quelle pietre miliari di cui vi abbiamo parlato in questi giorni.
«Van Aert ha uno stato di forma incredibile ma anche io sto meglio di quanto potessi pensare» come se non lo vedessimo. Anche quando non ci riesce a vincere, come oggi a Namur, su quel fango che sa di Inghilterra, per dirla con le sue parole: due scivolate, qualche insicurezza e Vanthourenhout che va a vincere. Ma ha fatto la gara, ha messo pressione agli avversari, affamato, forse ancor di più dopo una sconfitta.
Van Aert, Van der Poel e Pidcock, rigorosamente in ordine sparso. Un tris d’assi da celare e poi gettare sul tavolo, mentre sotto le noccioline continuano a scricchiolare. La grande sfida è sempre più vicina e sarà una festa, comunque vada.
Christina Birch: lo spazio è pieno di misteri
Lui ha dei baffoni che sono stati già raccontati, e dei quali ancora parleremo. Lei è longilinea, i capelli lunghi, il mascellone a stelle e strisce, gli occhi solcati da qualche ruga e quel sorriso bianco che pare uscito da una pubblicità di un dentifricio. Lui va forte in pista, lei pure, ma non solo. Lui insegue su pista, lei anche, ma non solo. Lui ha una storia particolarmente Alvento, lei persino di più, perché sembra poter andare sulla luna o qualcosa del genere. Che non è mica roba di tutti i giorni per una persona normale, figuriamoci per una che di mestiere fa (anche) la ciclista. Lui è Ashton Lambie, forse si era già capito dai primi indizi, lei è Christina Birch, compagni nella vita: da qualche settimana la loro esistenza è stata ribaltata.
Bici che corrono, baffi che paiono costruiti, odore di parquet se esiste un odore di parquet, eco che rimbomba nel palazzetto, scegliere la moltiplica, no quella mi spezza le gambe, quella sì mi fa prendere il giusto ritmo.
Fiato spezzato, vittorie. Grasso-catene. Sguardo verso il cielo, trionfo. A breve sguardo verso le stelle. Siamo nulla al confronto di ciò che vediamo lì in alto che è solo una minima parte.
Gravel, c'è di mezzo pure quello: Gravelnauts, fondato proprio dalla coppia Lambie-Birch, ovvero come scoprire il territorio girando in bicicletta. Facendone qualcosa di interessante anche da raccontare come quella volta in cui Birch ha percorso la rotta di ritorno dei due famosi esploratori americani Lewis e Clarke.
Nome profetico, Gravelnauts. Lei riceve una telefonata, lui è dall'altra parte del mondo tra una prova e l'altra dell'inseguimento mondiale. Lei dice sì chiama subito lui. «Mi hanno preso alla NASA, diventerò un'astronauta», la voce al telefono che si trasmette da una costa all'altra dell'oceano.
E va così per Christina Birch, 35 anni, 11 titoli nazionali in pista, un passato nel ciclocross e un amore per il gravel. Laureata con dottorato di ricerca in ingegneria biologica al MIT, poi a ottobre – ma solo qualche giorno fa c'è stata l'ufficialità data dalla NASA stessa – la notizia. Si va nello spazio – o meglio, un passo alla volta prima c'è il campo di addestramento. La politica dei piccoli passi è un mantra per chi fa della bicicletta un vizio o un lavoro.
«Era il 22 ottobre – racconta Lambie, che da quello che si intuisce pare raggiante come se dovesse andare lui nello spazio – tra un round e l'altro dell'inseguimento durante i mondiali su pista stavo seduto nella mia stanza d'albergo a mangiare una baguette. Dall'altra parte del mondo Christina ha ricevuto una telefonata: gli chiedevano se sarebbe voluta diventare un'astronauta della NASA! Mi ha chiamato subito per condividere: eravamo entrambi senza parole. Come puoi pensare a un campionato del mondo mentre la tua compagna sta per andare nello spazio?».
È stato il giorno più importante della loro “piccola famiglia”, racconta sempre Lambie. Si sono trasferiti a Houston in gran segreto e non è stato facile farlo fino all'annuncio ufficiale. Ma «adesso non vediamo l'ora di condividere tutto quello che sta succedendo».
Birch conquista un dei dieci posti all'interno di una selezione di oltre 12.000 candidati, si mostra raggiante in foto di fronte a uno space shuttle, che forse raggiante non è nemmeno la parola giusta.
Apre una strada: dal ciclismo alla luna, noi che pensavamo che fossero fenomenali quelli che vincevano sul Mont Ventoux e poi nel ciclocross, oppure quelli capaci di imprese come la Roubaix o una fuga di centinaia di chilometri resistendo al gruppo che ti bracca. E invece ci spingiamo più in là, con lo sguardo e il sorrisone spalancato lassù nell'immensità del cielo. Galaxy Express.
Il leone marino
In quel momento Maurits Lammertink si sentiva felice. In giro con la sua famiglia per le strade di Hengelo e poi una pausa per prendere un gelato con Marion, sua moglie, e con Seb e Fer i suoi figli.
Hengelo non era mai sembrata così bella ai loro occhi e in quel momento Maurits Lammertink si gettava ogni pensiero alle spalle. Ed era felice davvero, nonostante tutto. Nonostante proprio quel mattino la notizia che non pensava di ricevere: “Ci dispiace Maurits, non correrai il Tour de France” un messaggio che sarà suonato più o meno così da parte della sua squadra, la Intermarché-Wanty-Gobert Matériaux, che lo avvertiva dell'esclusione dalla corsa più importante del mondo. Lui si sentiva pronto, ma tant'è.
Ha quasi 31 anni Maurits, capelli di un biondo tendente al giallo, la barba leggermente incolta e il passaporto olandese. È il 22 giugno del 2021 e il sole sta tramontando. Ha quasi 31 anni Maurits e ha appena consegnato nelle mani di moglie e figli i tre gelati. Un sorriso, un “arrivo subito”, sta tornando verso il bar per prendere il suo gelato e pagare il conto. Attraversa la pista ciclabile e succede. Succede che in quel momento uno scooter che non doveva essere lì passa a tutta velocità e lo colpisce in pieno. Maurits vola in aria, atterra sbattendo violentemente la testa, perde conoscenza, mentre il sangue sgorga dalle sue orecchie. Sua moglie pensa sia morto. Uno dei suoi figli assiste a tutta la scena e resta sotto shock per quello che ha visto tanto da iniziare a soffrire nei mesi successivi di attacchi d'ansia, tanto da credere di essere rifiutato dal padre perché oggi Lammertink fa fatica a giocare con lui.
Lammertink entra in coma, viene operato d'urgenza al cervello: tre emorragie celebrali e frattura della base cranica; rischia di rimanere sordo e ha dolori ovunque, dopo un po' di settimane prova a ricominciare a vivere seguendo un programma di riabilitazione.
Ralph Blijlevens, giornalista olandese che ne ha raccontato la sua storia, spiega come Maurits faccia fatica sei mesi dopo anche in quell'attività di base studiata con il fisioterapista: qualche tiro a badminton. Quando entra nel palazzetto dello sport è letteralmente travolto dalle luci e dai suoni da doversi prendere diverse pause, e sedersi al silenzio lontano da tutto e tutti.
La sua mente si stanca facilmente e Marion è sempre al suo fianco perché «la mia presenza gli dà qualche certezza in più. La memoria va e viene e ancora fa fatica a elaborare alcune informazioni: spesso mi tocca spiegargli le cose da capo». Racconta, sua moglie, di come, durante un incontro con il logopedista, ha scambiato un cavalluccio marino mostratogli in foto, per un leone marino.
«Non so se potrò mai tornare a essere un ciclista professionista» afferma Lammertink, nove stagioni e mezzo in mezzo al gruppo dei grandi e 3 vittorie, in risposta a quelle voci che lo volevano pronto al rinnovo con la sua squadra.
Wout van Aert in un teatro di ghiaccio
Percorso? Bello e duro. Il contorno? Paura del freddo. Sensazioni che sono poi le parole più gettonate alla vigilia. "Tricky" è quella che usa più spesso Pidcock per definire un tracciato che, con i suoi 1261 metri d'altitudine resta unico nel panorama attuale della Coppa del Mondo di ciclocross. Per qualcuno è come guidare sulla sabbia, per altri sarà peggio che (sciare!) sulle uova.
Un freddo cane. Per chi corre e per chi sta a bordo strada dove le parole più gettonate in questo caso sono allitterazioni. «Alè alè alè, vai Wout». A momenti non si conosceva altro modo per esprimere i sentimenti.
Suggestivo, non c'è che dire. Un teatro di ghiaccio. Dove Wout van Aert inscena il suo monologo. In testa dal minuto numero nove e pochi secondi scarsi, fino all'arrivo. Gli altri erano già a Vermiglio quando ieri lui vinceva a Essen. Arrivava solo verso sera in Italia e in mattinata provava, tranquillo, la pista. Chi lo ha visto nelle prime ore del giorno, lo ha ammirato sereno bici in spalla, attento alle traiettorie (ma con piccola caduta), e poi via a memorizzare i punti più difficili.
Si adattava velocemente. Emblema del talento. Qualche sbavatura, ci mancherebbe altro, Vanthourenhout che prova l'allungo subito uscito bene dalla prima curva, ma van Aert prende confidenza, lo affianca, lo guarda per un attimo. Poi se ne va.
Nessun problema di concetto, solo qualche rischio su una bici che prova a tagliare in due la neve, a tratti dura, aggressiva, a tratti molla: avesse avuto gli sci ai piedi sarebbe stato tipo una Sofia Goggia, oppure il genio di Clement Noel che tra i pali stretti si accende a intermittenza come mostrato solo poche ore prima da tutt'altra parte. Con una carabina in spalla oggi van Aert avrebbe preso tutti i bersagli.
E in Val di Sole, teatro di ghiaccio per l'occasione e dove quel sole che sta nel nome lascia solo qualche scia e la fotografia si impregna di un blu intenso, si creano ambizioni importanti per il movimento (obiettivo Giochi Olimpici), ma si parla la lingua del fuoriclasse tutto muscoli, testa, tempra e spirito.
Capace di vincere in salita, a cronometro, in volata, nelle corse di un giorno, nel fango e oggi persino sulla neve. Trionfante, senza tentennamenti o quasi, davanti a Vanthourenhout e Pidcock autore di una superba rimonta.
La prossima volta, in caso, proviamo davvero a vedere come van Aert se la cava con un paio di sci ai piedi. Intanto qualcuno afferma, visto che van Aert va forte un po' dappertutto: in una giornata epica per il motorsport, vince il miglior motore delle due ruote. Non sarà un caso.
Foto: Giacomo Podetti
«Gravel, non vedo l'ora!»
Nathan Haas quando parla di ciclismo parla di amore e di libertà, sceglie Lachlan Morton come esempio da seguire e lascia il ciclismo su strada per lanciarsi a capofitto in una nuova avventura. «Per esprimere te stesso al massimo del tuo potenziale - scrive sulle pagine di Cyclingnews - quello che fai deve essere abbinato ad amore e passione». E quello che stava facendo evidentemente non funzionava più come prima. «Non fraintendetemi - racconta sempre il corridore australiano che nelle ultime due stagioni ha vestito i colori della Cofidis - per il ciclismo su strada proverò sempre amore e passione. Lo guarderò tutte le volte che potrò».
Ma è arrivato il momento di «prendere in mano il proprio destino e ricreare il proprio futuro». E dopo aver avuto il Covid Haas ha fatto via via più fatica a rimettersi in strada nel vero senso della parola mentre «una scintilla si accendeva negli occhi non appena sentivo parlare di gravel».
Natan Haas qualche mese fa alla Nova Eroica in Toscana si innamora di nuovo come si era innamorato del suo mestiere da stradista perché «il gravel è qualunque cosa tu voglia che sia, puoi letteralmente guidare la tua bici ovunque». Gli dà quel senso di libertà che dieci anni di professionismo - e un passato anche in mountain bike - non gli hanno tolto, sia chiaro, ma semplicemente lui non riusciva a gustarsi più quei momenti come una volta. È cambiato lui come cambiano i tempi, come una ruota gira veloce, come si cresce, come si effettua una parabola, come si invecchia, si imbocca un tunnel, come ci si appassisce o si matura.
Come quando ripensa alla prima volta e i ricordi rimandano al primo ritiro con la Garmin, la squadra con cui fece l'esordio nel World Tour; quando Jonathan Vaughters, team manager, fece vedere a tutti Moneyball, film sul baseball con Brad Pitt e Jonah Hill, perché sarebbe servito a capire alcuni concetti sul mondo dello sport, serviva, secondo Haas più che altro a far capire come Vaughters intendeva il ciclismo, e, chiaramente era necessario a cementificare il gruppo.
Haas, per raccontare il suo "arrivederci amici" alla strada, parte proprio da quell'episodio e da una citazione del film: "Ci viene detto a un certo punto che non possiamo più giocare al gioco dei bambini, ma non sappiamo quando accadrà" ed eccolo quel momento arrivare. «Volete sapere perché il ciclismo è un gioco per ragazzi?» racconta l'australiano che si dice soddisfatto al massimo della sua carriera e che forse un piccolo rimpianto ce l'ha, quel 4° posto alla Amstel Gold Race del 2017, ma non vuole soffermarsi troppo sugli episodi perché quello che è lo deve a quello che ha imparato come corridore.
Beh non divaghiamo troppo. «Tutto è già stato pianificato: è determinismo puro. Sembra di stare a scuola. Hai le vacanze programmate, mangi quello che ti viene detto che devi mangiare, ti devi vestire così, devi guidare questa bici, ti devi allenare come diciamo noi e devi correre dove diciamo noi». È vero questo ti aiuta a diventare un corridore, ma limita la tua libertà ed è da qui che Nathan Haas riparte.
Si lascia alle spalle le parole che gli disse sua madre quel giorno all'Amstel "Beh qualcuno deve pur perdere", si lascia alle spalle le emozioni di quando correva e si sentiva un privilegiato.
E aspetta che nasca di nuovo una scintilla. Pensa a Boswell, Stetina, Ten Dam e Howes che si divertono da matti nelle competizioni gravel e perché non dovrebbe farlo anche lui? Haas inizia a uscire con la bici da ciclocross e torna a odorare sensazioni di come quando correva in mountain bike.
Poi partecipa ad alcune gare gravel (prima in Spagna, poi la Nova Eroica in Toscana, poi la Serenissima Gravel in Veneto) e inizia di nuovo a sentire un friccico - il senso di ragno direbbe qualcuno. «E sapete cosa significava? Che la mia carriera non era finita. Essere nervoso voleva dire di nuovo provare qualcosa», perché Haas ci tiene a sottolineare che «non è che la mia carriera finisce, semplicemente cambio disciplina»
Haas getta il suo futuro nella nuova avventura che per lui vuol dire cambiare radicalmente quello che faceva quando "giocava al gioco dei ragazzi" «Ora il determinismo incontra il libero arbitrio. Sceglierò le gare che voglio, utilizzerò le bici e i componenti che desidero, mi sentirò come fossi un pioniere e la cosa in questo momento della mia vita mi diverte e mi stimola. Prendete Morton: lui ha cambiato il modo di intendere il ciclismo. Il suo è uno stile, è vero. E c'è chi dice lo fa perché è anticonformista o perché ha una mentalità estrosa, io penso che sia più semplice: lo fa perché gli piace andare in bicicletta».
Non è più il bambino che gioca al gioco dei bambini, Haas, nemmeno il ragazzo privilegiato con tutto il suo futuro già determinato, si sente maturo ma senza rimpianti, più di ogni altra cosa vuole andare in bici e crede solo di essere in una nuova fase della sua esistenza. E così quando ci pensa esclama: «Gravel, non vedo l'ora!».