Vietato non sognare
Si è parlato poco di Italia nel ciclismo in questi giorni (l'attenzione è tutta su altri sport), ma un po' di complimenti i due ragazzi qui in foto se li meritano. Colbrelli ieri ha corso una tappa fuori dall'ordinario. I telecronisti di Eurosport UK, ogni volta che veniva inquadrato in salita, nel gruppetto inseguitore, si lanciavano in esternazioni tra l'esaltato e lo stupito («Oh my gosh! An amazing Colbrelli!»), e infiammati lo eravamo pure noi a vedere il tricolore - per la verità coperto a lungo da una mantellina - e quella pedalata massiccia e inconfondibile.
Sì, un po' di stupore: ma non dimentichiamo come Colbrelli, oltre ad avere in questo periodo la proverbiale "forma della vita", quando sta bene (in bici) è un cagnaccio di quelli veri, che quando piove e fa freddo come ieri si trasforma e che in carriera è riuscito ad arrivare anche un'altra volta nei primi dieci di una tappa di montagna in un Grande Giro. Era il 2013, Giro d'Italia, e chiuse nono sullo Jafferau. Anche quel giorno fuga da lontano e freddo insopportabile con il finale corso sotto la neve.
E questo Sonny ci esalta. Ieri ha messo vicino un bel gruzzoletto per il sogno maglia verde arrivando terzo a Tignes. Una giornata che difficilmente dimenticheremo.
E due parole le merita Mattia Cattaneo. Se c'è una carriera particolare quella è la sua. Ultimo italiano ad aver vinto il Giro Under 23, passò come talento dal sicuro avvenire, ebbe guai fisici, deluse prima di tutto se stesso e le sue aspettative.
Ricominciò dal basso, con Savio, in maglia Androni, e si è ricostruito. Lo scorso anno il rientro nel World Tour in una squadra che mette i brividi solo a pensarla, la Quick Step.
Cattaneo è cresciuto ritornando a esprimere il suo ciclismo, forte in salita come a cronometro e, dopo il secondo posto di ieri, primo degli altri dietro un inarrivabile O'Connor, e festeggiato come una vittoria («Il secondo posto viene spesso visto come il primo posto dei perdenti, ma per me questo piazzamento vale tanto: secondo al Tour de France, mica in un posto qualunque») sale 12° in classifica. Magari, ragazzi, portiamo a Parigi 'sta forma che sarebbe una favola. Oppure un sogno, solo a pensarlo.
Equilibri instabili
Per Ben O'Connor la ricerca dell'equilibrio è una delle chiavi che aprono le porte della conoscenza. Quell'equilibrio lo cerca, coerenza costante, come quando si ammalava così spesso da perdere tutto il tempo che spendeva per la sua carriera. Quando cadeva e si faceva male, persino quando un anno fa esatto gli hanno detto che soffriva di ipotiroidismo, di certo non una passeggiata per un uomo normale, figuriamoci nella vita di un corridore, che di normale non ha proprio nulla.
Il ragazzo di Perth, con origini scouser e che vive ad Andorra, che del Tour da bambino ricorda più i castelli e la gente a bordo strada che i vincitori, ha avuto difficoltà all'inizio nell'esprimersi in francese con la sua nuova squadra, ma racconta come nei primi incontri con i suoi compagni gli bastava capirne sensazioni ed emozioni per comunicare con loro. Quando è arrivato a Brest alla partenza del Tour si è ritrovato in auto con la sua ragazza e Jack Haig fermi dietro un gruppo di cicloamatori: «Da domani le persone si ritroveranno la strada bloccata da noi: è una questione di karma» ha detto.
Volergli male sarebbe un peccato: occhi che non riescono a esprimere rabbia, né cattiveria, ma solo diverse tonalità dell'esistenza, e una pedalata sciolta che si trasforma nell'ambizione di fare tappa e maglia, in una tappa di montagna: roba da spezzare gli eroi, ma non il suo equilibrio. «Mi sono semplicemente gustato ogni singolo momento» ha raccontato a fine tappa.
Oggi il ciclismo ha rimesso, così, tutte le cose a posto: è andato in montagna mostrando il fascino del suo profilo migliore. Salita, battaglia, Alpi, pioggia, nebbia, freddo. Discese bagnate e cadute, tanta gente, ma anche diversi corridori in crisi di freddo. Ritiri e fuori tempo massimo. Un male necessario come necessario era il continuo scrollare le mani per scacciare via il gelo.
Si staccava, O'Connor, a ogni discesa, andava regolare senza rischi, mentre davanti Quintana e Higuita - illusione e delusione – scrivevano il più classico manifesto del modo colombiano di interpretare il ciclismo: facevano le bizze, a tratti dominavano, scappavano, venivano ripresi e poi staccati da O'Connor verso Tignes. «Amo i giorni frenetici come quelli di oggi – dirà, commosso - ma conosco anche la chiave del successo: niente panico. Perché se inizi a pensare che stai per vincere una tappa al Tour, ti verranno in testa troppe cose».
Godersi ogni momento
Il Tour oggi spiega come si vive ogni momento. Lo spiega a noi, eterni "homo ludens", che godiamo nel vedere loro, fachiri attrezzati a rendere perfetto ogni spettacolo. Ce lo insegna subito, dal via, quando piove, quando le montagne sono nascoste dalla nebbia in lontananza e si fanno spettri monchi man mano che ti avvicini.
E si parte in salita e c'è subito battaglia, e sappiamo noi, spettatori, omologati nel provare certe sensazioni, che sarà una giornata tremenda, e lo capiscono loro, corridori, che quelle quattro ore devono passarle in bicicletta.
E pare ironico pensare che staccandoti subito potrai goderti anche un solo momento. Succede che Primož Roglič, oggi, forse si è tolto un peso. Ha arrancato per i dolori, si è come scrollato di dosso un senso di colpa nel gesto di levarsi e poi scuotere gli occhiali bagnati da una pioggia che oggi per lui aveva il sapore della resa. All'improvviso sì è sbloccato.
I suoi occhi sembravano trattenere le lacrime, e poi, ecco l'incanto: qualche chilometro dopo lo inquadrano sorridente. Per la concentrazione del gesto, per la corsa al successo, il limare, non lo avevamo mai visto così.
Si è goduto ogni momento, un paradosso, come per quello che andava in guerra con il simbolo della pace sul caschetto. Perché quando ti ritrovi davanti per vincere non c'è nulla da godere, lo fai solo all'arrivo, c'è la nobilitazione della fatica, il sapore ferroso del sudore, le urla inconcepibili della radiolina che butteresti via.
Sì, forse quando te lo chiedono nelle interviste improvvisi un po' e racconti di aver visto tanta gente, ma in realtà era solo calore che serviva a scaldare la tua anima e ad alleviare la sofferenza. Oggi Roglič invece, si è goduto davvero ogni momento.
La goduria del momento per Pogačar è durata un'ora, un'ora e mezza. È stata portare in là i suoi limiti, partire e andare vestito di bianco, tornare in giallo, soffrire e immedesimare la sua esistenza come lungo un fiume. Superare, stantuffare, mulinare: i momenti di Pogačar sono stati (quasi) perfetti.
Oggi il momento è stato tutto un paradosso: mentre dietro saltavano vecchie glorie (Froome), feriti (Thomas), delusioni di giornata (Latour), davanti attaccava un (quasi) velocista (Colbrelli).
E c'è stato il primo momento in cui abbiam visto van der Poel fare qualche calcolo non abboccando alle schermaglie, staccandosi sulla penultima salita e passando il gran premio della montagna da solo, quasi tranquillo, che sembrava dire: "perdo la maglia, oggi, ma chissà, un giorno, in futuro...".
C'è stato un momento in cui ci siamo spaventati quando è caduto De Bod e con lui Vingegaard che va talmente forte che è arrivato con migliori e con una spalla scorticata. Il dolore lo sentirà in un altro momento.
E poi c'è stato un momento in cui van Aert ha provato a resistere e in effetti ha resistito. Ha fiutato l'odore della maglia gialla, ma poi quell'odore è stato ricoperto da Pogačar. E poi il momento finale tutto per Teuns, vincere al Tour anche per chi ci ha già vinto, resta sempre un momento, anzi il Momento.
Lucida Follia
Chissà cosa si saranno detti per guardarsi e ridere così davanti alle telecamere. Forse avranno scherzato su quell'ossimoro che è la loro lucida follia, su come dietro non sarà andata giù la loro pazza idea di provare a far saltare il Tour in una giornata che anticipa le montagne (a proposito: oggi antipasto alpino, ma non di quelli con formaggio col miele, frittatina di erbe e tagliere di salumi, ma con Romme e Colombière) e dove, di solito, è scritto a caratteri cubitali che va via una fuga di quelle che non provocano timori né scossoni.
Ma è proprio questo il nodo: a loro di quello che sta scritto non importa nulla. Sono il punto di rottura con quello a cui eravamo abituati in questi anni.
Viene spontaneo chiederci: cosa sarebbe oggi il ciclismo senza di loro? Soprattutto: chissà cosa sarebbe stato il pomeriggio di ieri al Tour senza il loro attacco, senza le loro storie alle spalle, la loro rivalità che parte da lontanissimo - intesa negli anni. Che si sposta dal fango, alle pietre e oggi arriva fino al Tour de France. Trasformando una tappa simile a una classica in una grande classica. Certo, il ciclismo è esistito prima di loro ed esisterà anche dopo, per fortuna, ma ce li godiamo il più possibile. Finché sarà possibile.
Viene spontaneo chiederci anche: chissà cosa avranno in mente di fare nei prossimi giorni, chissà quanto in su riusciranno a spostare l'asticella.
Van der Poel che proverà a tenere la maglia gialla finché si può, altra pazza idea, van Aert che magari sarà all'improvviso l'uomo di classifica della sua squadra visti i guai di Roglič. Domani sera a Tignes avremo un quadro più chiaro della situazione.
Foto: bettini
Il talento salverà il mondo
Datemi il talento e salverò il mondo. Datemi una tappa così e vi farò divertire. Datemi una maglia gialla e vi assicuro che attacco da lontano. Datemi un gruppo in fuga così ricco di talento da sembrare un festival rock degli anni '70, che vi regalo una giornata da non dimenticare.
Perché va così oggi: apologia del talento. Va in scena la forza, la classe, la fantasia. Nella vittoria di Mohorič ci sono tutte le sfumature che rendono memorabile il ciclismo, prezioso il talento. Quello di Mohorič che si accende a intermittenza come quando si ricorda di essere forte, o un po' di più, e oggi è una di quelle volte che lo rendono speciale. Pazienza se ogni tanto può apparire distratto, se rischia e cade persino. Ci piace così, come quelle lacrime a fine gara, ormai un grande classico al Tour, o come quell'inglese sfoggiato ai microfoni che sembra non abbia mai parlato un’altra lingua in vita sua. E poi 86 km col vento in faccia te li fai solo se hai talento.
Datemi il talento e vi ribalto il mondo: sembra sussurrare van Aert a van der Poel, tra i pedali, quando attaccano, tirano il gruppo in fuga e all'arrivo mancano 200 km. Quando si guardano, si dicono qualcosa e per un attimo sembrano persino ridere, poi si corrono contro, poi collaborano, poi danno spettacolo. Hanno sempre fatto così da quando si conoscono e lo ribadiscono nella corsa più grande del mondo che loro, grandi come sono, contribuiscono a esaltare.
Datemi il tempismo e attacco al momento giusto: è Carapaz, il campione mondiale dell'attacco al momento giusto. Peccato (per non dire altro) che la Movistar col dente avvelenato per storie tese ancora vive tra di loro - e che francamente hanno stufato - lo vada a riprendere sul traguardo. Almeno lui ci dimostra che il Tour è ancora vivo.
Datemi la tranquillità che vi gestisco tutto io, sembra pensare Pogačar che di anni ne ha 22 ma per come corre sembrano almeno il doppio. Oggi non appariva in una giornata da bambino d'oro, ma domani chissà, potrebbe persino chiudere i conti con il Tour negando totalmente quello che abbiamo detto sopra su una corsa ancora aperta.
Ma il talento è anche coraggio, quello di Vincenzo Nibali, a proposito di anni lui ne ha davvero quasi il doppio di Pogačar ed è lì che ci prova, brilla, scatta, risponde. Che Nibali sia un perfetto esemplare di talento, non lo scopriamo certo oggi.
Il talento, già, croce e delizia di chi ne porta troppo appresso. A volte ti distrae o ti affossa, ma è talento anche saper soffrire: come accade a Roglič che oggi segna l'addio alle sue speranze di vincere il Tour. Troppe le ferite sul corpo, da stasera anche nell'anima, ma animo: tornerà anche il tuo momento. Di talento per salvare il mondo ne sei provvisto.
L'estate di Cavendish
In quelle ultime pedalate potenti, un po' sporche, in quelle mani sul caschetto, per una scena simile, già vista, o meglio, praticamente identica a quella di tredici anni fa su questo stesso traguardo a Châteauroux, c'è tutta l'estate di Mark Cavendish.
Nella faccia incredula, nella maglia verde, nella seconda vittoria in questo Tour, la trentaduesima in totale nella corsa più famosa del mondo, c'è tutta la sua essenza.
In quello che ieri era un pianto e che oggi diventa riso, in quella faccia rossa dalla fatica, nel gesticolare spiegando ai giornalisti la volata a fine tappa, in quegli occhi pieni di emozione, c'è tutta la classe del Missile di Man.
In quell'abbraccio con i compagni di squadra a fine corsa, in quell'urlo unanime e soddisfatto, in Alaphilippe in maglia iridata che tira il gruppo, in Ballerini che pilota Mørkøv e sembra fare a gara con van der Poel che tira il gruppo dall'altra parte, c'è tutta la fedeltà del ciclismo.
Nella battaglia per prendere il treno giusto, c'è il gusto del rischio.
Nelle sbandate e nella velocità, nelle rotonde e nella noia di una tappa di trasferimento, c'è tutto il sapore di una volata al Tour de France.
In quegli ultimi metri, in quell'accelerazione esplosiva, nel viaggiare da una ruota all'altra, nell'abbassarsi schiacciato sul manubrio, ci sono le trentasei primavere di Mark Cavendish, che sembra non sentirne mezza. E oggi è la sua estate, calda, quella del ritorno.
Foto: Bettini
(Quasi) mille chilometri per una maglia
Forse a molti, anzi, alla maggior parte di voi, il nome di Meindert Klem dice poco, a meno che non siate seri appassionati di canottaggio. Ancora di meno vi dirà quello di Mark Putter, proprietario di un hotel per cicloturisti sui Pirenei, a meno che non vi sia capitato di pernottare da quelle parti e di aver trovato un'accoglienza talmente indimenticabile da ricordare a memoria il suo nome.
Qualcosa in più, invece, vi dirà quello di Cameron Wurf, veterano di lungo corso, si sarebbe detto una volta, attualmente sotto contratto con la INEOS Grenadiers.
E cosa collega Klem, Putter e Wurf, oltre a sembrare un trio di musica folk americana? Ma soprattutto: cosa c'entra con la nostra storia, con il Tour de France e con Mathieu van der Poel?
Beh, ieri l'olandese, storia nota a tutti questa, ha mantenuto la maglia gialla per otto secondi rispondendo all'impatto devastante che Pogačar ha avuto sulla crono. Qualcuno malignamente ha ipotizzato che lo sloveno abbia tirato un po' i freni per lasciare l'incombenza della difesa della maglia alla Alpecin Fenix, per elargire favori come fosse un novello Indurain.
Ma al di là della dietrologia, c'è da sottolineare, sì, la grande prestazione del ragazzone olandese che una crono così, a tutta, non l'aveva mai fatta né mai preparata, ma c'è anche da mettere in evidenza un particolare che spiega bene la ricerca del successo e dell'abbattimento dei margini.
Avete notato, vero, le ruote montate sulla Canyon di van der Poel? Beh pare che la storia sia andata più o meno così: il direttore sportivo della Alpecin Fenix ha contattato Klem, che da vogatore è diventato rappresentate di un'azienda che produce ruote in carbonio (le stesse che usa, ad esempio, proprio la INEOS), chiedendo la disponibilità di un paio di ruote per il suo corridore.
Klem ha risposto che in così poche ore le uniche disponibili le possedeva Wurf, ma che queste ruote si trovavano in un hotel-rifugio sui Pirenei. Il proprietario di quell'hotel, Mark Putter, ha ricevuto una chiamata, senza pensarci un secondo le ha caricate nel bagagliaio e si è diretto verso Rennes.
Quasi mille chilometri in auto, da Biert a Rennes, dieci ore di viaggio. «Mentre ero in macchina mi dicevo: "ci pensi, Mark, che follia avere con te nel bagagliaio le ruote che potrebbero aiutare van der Poel a difendere la maglia gialla?" - racconta. «Io vado matto per il ciclismo e quello che van der Poel ha fatto in questi giorni è incredibile. Se posso dargli una mano fornendogli ruote più veloci, ben venga. Anche solo bastasse un secondo a difendere la maglia gialla». In realtà non è stato un secondo, ma otto. Quando la cura dei dettagli fa la differenza.
I margini del progresso
Il progresso, nell'oscura visione nichilista di J.G. Ballard, assume i contorni di un futuro distopico, ma quanto mai reale. Va tutto troppo veloce, una società che sa quanto corre, ma non sa dove andrà a finire. Come un'auto lanciata a tutta, lamiere che si contorcono, frenate, botti, scintille. È un condominio che più è alto e più trovi personaggi di un tale squallore. È noia che diventa violenza, omologazione e consumismo. È voyeurismo.
Nella visione ciclocentrica del mondo, il progresso non è altro che biciclette sempre più leggere e veloci, che appena sfiori i freni rischi di assaggiare l'asfalto, di scorticarti, di lasciarci i connotati. Sono "marginal gains", diete ferree, azzardi di ogni genere. Chiedete a van Aert che in una crono al Tour due anni fa, rischiando, finì contro le transenne e sembrò lasciarci una carriera. L'asfalto ribolliva, il sole martellava sulla testa del belga la sua angosciante cantilena, pareva davvero finita. Si lacerò una gamba, si rialzò in tutti i sensi e si ricostruì. Il pubblico invece incuriosito restava a guardare.
Nei secoli il progresso ha portato la bicicletta a essere un mezzo sostenibile. O almeno a tentare di farlo, se solo l'uomo avesse fatto "in tempo a capire quale prodigio è la bicicletta" scriveva Ormezzano in "Apologia della Bicicletta". Al centro, da sempre, c'è l'uomo. Vittima, sperimentatore, carnefice, protagonista assoluto. Al centro del discorso, ecco l'uomo-bici, il corridore, animale contemporaneo per antonomasia. L'arena del nostro svago è la cronometro di Laval, Tour de France. Dove l'uomo-bici si esibisce in quello che è il ciclismo per lo spettatore: un progressista atto d'amore.
E provate a guardare le biciclette da crono oggi per capire a che punto sta il progresso. Pesano pochi chili che verrebbero da quantificare in grammi, fanno un rumore che definiresti strano, quasi impercettibile. Un mezzo lo è, ma non c'entra nulla la mobilità, è per correre sempre più veloce. Al massimo puoi strabuzzare gli occhi nel constatarne le curve da polluzioni, la livrea da non dormirci la notte. Lo scopo non è spostarsi, ma arrivare prima degli altri, portarti verso la maglia gialla, verso la vittoria di tappa, infrangere record - quello dell'ora, ad esempio: che incredibile inno al progresso è?
Trascina il corridore sull'asfalto proprio come l'auto lanciata a tutta velocità. Fa scintille anch'essa, è nuova carne meccanizzata fatta a carbonio, con un tubo centrale, grasso e catene, cambi sofisticati, ruote di una tale leggerezza che sorrideresti se non fossero così variabilmente pericolose.
Il progresso è il tempo che passa tra il pensiero e l'atto. Tra il passaggio di un corridore e l'altro all'intertempo, tra due pedalate. Una posizione aerodinamica è progresso; body e casco sono progresso, un corridore che spinge a tutta "rapporti impossibili" è progresso. Come Tadej Pogačar: prototipo moderno del corridore. Forse un tipo che si è visto raramente, forse elemento ultimo di quello che stiamo cercando. Fisici scolpiti nel marmo, privazioni, lacrime, sangue, fragole, champagne. È la violenza in mondovisione di un gesto quanto mai elementare.
La bici da cronometro è il sunto del progresso: appare perfetta, ma solo all'apparenza. È il gusto sadico di chi osserva cadute che fanno accapponare la pelle, ma ti inchiodano ugualmente al televisore.
Così come ti inchioda la sinfonia di Pogačar che imprime musica al suo progredire in bicicletta. Così come ti esalta l'azione di van der Poel che resiste, illumina, rilancia. Se il futuro nella mente di Ballard era oscuro e nichilista, forse è perché ancora non aveva visto ciò che stiamo vedendo noi oggi.
Un racconto a pois
Il corridore andò in fuga. Mossa preventiva. Appiccicato alla pipa della sua bici la cartina della tappa del giorno, evidenziati i gran premi della montagna, ben impressa nella sua mente la classifica della maglia a pois. In mattinata il briefing con tecnici e squadra: attacca qui, marca là, questo è il leader, quel corridore ha tanti punti in classifica, quell'altro ne vuole racimolare ovunque, non farti fregare, e poi occhio che ti si incollerà a ruota non appena proverai a fare una mossa.
Il corridore prese così la fuga giusta. Tagliò per primo due dei tre traguardi del gran premio della montagna vestendosi a fine giornata con la maglia di miglior scalatore. Sul palco la gioia di vestire "la pois" il simbolo più brillante, divertente e identificativo della corsa francese.
Il giorno dopo vide tifosi e macchie policrome, ma c'era qualcosa di diverso che attirava la sua attenzione. In quell'orgasmo di colori spuntavano bandiere, cappellini, magliette, persino mascherine a coprire il volto di alcuni spettatori: era un turbinio di pallini rossi. Ma soprattutto le voci: per la prima volta in carriera il corridore sentiva urlare il suo nome dai tifosi a bordo strada, gente che probabilmente nemmeno sapeva della sua esistenza fino a poche ore prima.
È l'incanto di una maglia, quella a pois, un sortilegio che premia il miglior scalatore e che fa inscenare battaglie epiche oltralpe. La classifica dei Gran Premi della Montagna fu istituita per premiare Trueba, la pulce dei Pirenei, era il 1933, ma ce ne vollero altri 42 di anni perché nascesse lei, la più iconica di tutte: la maglia a pois. Il fascino col tempo aumenta diventando convenzionale come fosse la numero dieci indossata di un grande fantasista. Si raccontano leggende tanto che in Francia Pierre Carrey, giornalista, ha dovuto scrivere un libro per mette i puntini sulle i, per spiegare il perché di quei pallini rossi.
L'idea di vestirla è ispirazione che scatena le turbolenti gambe di Virenque, eroe in Francia più per le sue sette maglie a pois indossate sul palco con l'Arc de triomphe alle spalle che per vittorie di tappa o podi, lo sarebbe stato per Bahamontes, vincitore per sei volte del premio di miglior scalatore quando ancora questo simbolo non era stato concepito, oppure croce e delizia per Van Impe colui che per primo la portò a Parigi. «Ma questa maglia ha il morbillo!» disse il corridore prima di indossarla la prima volta. Parole che oggi profanerebbero un rito. Storia d'amore per chi è cresciuto con i Tour di Chiappucci che due volte ha vestito quella maglia illuminando le roventi estati dei primi anni '90, manco fossero il primo bacio.
L'ispirazione che arriva da un pistard, Henri Lemoine, chiamato "Petit Pois" corridore di un tempo ormai antico che correva con una divisa a pallini rossi ispirata a quella di alcuni fantini - e chiamata per l'appunto "Little Spots". Lemoine, "un ometto alto come tre mele", faccia da outsider come uscito da un racconto dell'America post Grande Depressione, fu campione del mondo in pista, fu ferito e imprigionato in guerra e gareggiò fino all'età di 48 anni.
Il primo a indossare la pois fu un olandese: Zoetemelk. Il primo a portarla a Parigi quel Van Impe, "de Kleine van Mere" considerato uno dei più forti grimpeur del gruppo.
L'ultimo, oggi, in ordine di tempo, a chiudere temporaneamente il cerchio, un altro olandese, Schelling, che non è forte in salita quanto gli altri, ma si ispira a quei fomentatori di corse, che a modo loro lasciano il segno. Si ispira a quella maglia per cercare la celebrità e sentire urlare il suo nome lungo le strade del Tour.
Ed ecco quel corridore che va di nuovo in fuga. Chi glielo fa fare? Le gambe sono dure, sono messe anche peggio del giorno prima. Cerca conforto nelle parole del suo direttore sportivo: "Vai, attacca per difendere la maglia".
Cerca conforto in un messaggio al telefono della sua ragazza, legge i commenti sui giornali e si gasa, altri messaggi arrivano da tifosi conquistati strada facendo, che magari il suo nome lo avevano scorso distrattamente nella lista di partenza. E poi spuntano, sempre per strada, striscioni dedicati a lui, che fino a ieri era uno dei tanti.
È la forza della maglia a pois che ti travolge come un insolito destino e ti fa conoscere in tutto il mondo.
Il Tour in un attimo
Ogni giorno, a ogni tappa, c'è in moto la sofferenza. Ogni mattina ci si sveglia, un piede giù dal letto, poi un altro. C'è chi è ferito e va avanti, nonostante tutto; chi è motivato, chi sente qualche dolorino, chi sta bene, chi mente, chi guarda avanti e sa che ci sono ancora venti giorni in quel gran casino che è una corsa a tappe di tre settimane. Chi si guarda indietro è perduto.
Ogni giorno si pensa ai sacrifici che si fanno - ciclofachirismo - poi bum, basta un attimo. Si analizza e si racconta come per un ciclista il dolore provocato da una caduta non sia mai un'esperienza nuova, ma una riscoperta. Il prezzo da pagare per diventare corridori. E così che si cade e ci si rialza, tremenda quanto ingiusta metafora dell'esistenza. Tremendo quanto ingiusto meccanismo di uno sport che a volte appare maledetto.
Si cade e si sbatte sull'asfalto, c'è il casco sì, per fortuna, ma le ossa del corpo scricchiolano ugualmente, poi si rompono. La pelle si brucia. Bum, basta un attimo.
Così oggi Thomas: stamattina raccontava ai giornalisti di avere sempre con sé alcuni talismani, ma Geraint, andiamo, la prima regola della scaramanzia è che non si rivelano mai gli oggetti che ci proteggono dalla malasorte. Oggi appena c'è stata la prima caduta è andato giù. Ci ha messo un po' per rialzarsi, ha stretto i denti e poi il manubrio, poi è rientrato: chissà se ha pensato a quando ha rivelato ciò che lo protegge dalla cattiva sorte. O chissà, qualcuno dirà, forse è risalito in bici grazie proprio a quel rituale ormai non più segreto. Ci piace pensare come, dietro a un mondo ammalato di razionalismo, sia sempre viva l'influenza di qualcosa di magico che protegge, stimola, ti dà la giornata di grazia, ti fa alzare al mattino convinto, nonostante la sofferenza, nonostante se guardi davanti a te vedi ancora venti giorni di Tour. Quella magia che ti fa sognare, urlare, tifare, pedalare, rialzarti da ogni caduta.
Chissà a cosa si appiglia Gesink, pensando alla sua sofferenza, come quella di chiunque abbia perso qualcuno di caro, come chiunque abbia visto la sua carriera volare via da predestinato a incompiuto, a uno dei tanti. Oggi è caduto e si è ritirato mentre sognava di passare da casa sua (vive a El Tarter, Andorra, dove passerà il Tour più avanti) per salutare suo figlio. Era raggiante, magicamente illuso. E invece oggi è caduto, mentre domani si ralzerà come ha già fatto quando si ruppe le gambe. Quando subì un trauma cranico, e poi vinse quando nessuno se lo aspettava più.
E non c'è rito a cui attaccarsi per Roglič: è un attimo anche per lui quando si arrota con Colbrelli. In una frazione di decimi la sua corsa può essere svanita – un pugno assestato dispettoso, dove fa più male. Lo scorso anno c'è voluta una cronometro, oggi l'incontrollabile: le maledette cadute, di uno sport, che ti illude e poi manda tutto in frantumi.
E poi si cade ancora e ancora, vanno giù Haig e Démare, Pogacar resta in piedi per miracolo, e poi in volata – vince Merlier - un'altra caduta: Ewan stavolta, il suo Tour è finito.
C'è qualcosa di magico, di incontrollabile, di maledetto nel ciclismo. È un attimo: la sofferenza è in moto e non si ferma. Domani ci si rialzerà, feriti, ma guardando avanti. Nonostante tutto.