Il coraggio e l'orgoglio: essere paraciclisti
La nazionale di paraciclismo sta cambiando ed è di questo cambiamento che vogliamo parlare. I paraciclisti conoscono bene ogni sfumatura del verbo cambiare perché, se sono lì, è proprio perché qualcosa, nelle loro vite, è cambiato.
Claudia Cretti, ad esempio, ci ha detto che all’inizio non avrebbe voluto far parte del paraciclismo, che, quando dei ragazzi l’hanno invitata a provare, non ha capito perché lo chiedessero proprio a lei, a lei che aveva subito un trauma cranico in un incidente. Anche Claudia è cambiata, per quello che è successo, per le scelte che ha fatto e per quello che ha accettato. Così oggi non ha dubbi quando dice: «Sono una paraciclista». Ha visto diversamente la disabilità, ha visto diversamente i limiti.
Il cambiamento della nazionale non è poi molto diverso. Rino De Candido, nuovo Commissario Tecnico, sostiene che questi atleti hanno una capacità rara di affrontare i problemi e arrivare a una soluzione. Per questo nel primo incontro ha detto: “Tutto quello che dovete fare è sapere chiedere. Se avete bisogno di qualcosa, se avete un problema, sono qui per quello”. Perché anche chi ha imparato a cavarsela da solo, nonostante tutto, ha bisogno di aiuto. Claudia Cretti ricorda che, l’anno scorso, si trovava spaesata di fronte a questi allenamenti da gestire da sola, senza alcuna indicazione: «Nel professionismo ero guidata in ogni dettaglio, mi sono chiesta perchè qui non accadesse. Le altre nazionali, Inghilterra, Canada, Usa, hanno sempre ragionato in termini diversi: i paraciclisti sono atleti e in quanti atleti vanno seguiti».
Nel primo ritiro, pochi giorni fa, si è lavorato in pista, sulla partenza da fermi, sull’agilità, anche sui dettagli minori, quei pochi millimetri della sella in più o in meno. De Candido ha parlato con ciascuno e ad ognuno ha fatto un discorso diverso basato su ciò che ciascuno è. Questo è il senso della fiducia di cui Cretti ci racconta: «Ha visto ciò che già funziona e ciò che è da cambiare. Mi ha detto chiaramente che tutto sta nella testa e nella decisione di fidarsi. Voglio fare ciò che dice De Candido». Ascoltare, guardare, accettare e mettere in pratica. A questo sono serviti i test sul ciclomulino a cui la nazionale di paraciclismo non era abituata.
La nuova nazionale sarà più squadra perché ci saranno dei ruoli, perché essere a tutta dall’inizio della stagione alla fine, oltre ad essere controproducente, non ha senso. I momenti di stacco, di scarico, sono importanti quanto i picchi. De Candido ha parlato di armonia perché in squadra non ci sono rivalità: ognuno deve mettere a disposizione il meglio che ha e il tuo meglio è importante come quello dell’altro. Anche se sembra piccola cosa, anche se fatichi a crederlo così importante.
Francesca Porcellato ha tutto nelle braccia, quelle braccia che sono passate dall’atletica, allo sci di fondo e poi alla bicicletta, ma quando ha incontrato la prima volta Claudia glielo ha detto: «Le tue gambe sono forti come le mie braccia». E già qui c’è tutto, a cominciare dalla volontà di guardare la parte sana e salva della realtà, l’unica che permette di guardare al futuro. Anche le diverse età della nazionale sono un punto di forza perché età significa esperienza. Michele Pittacolo ha avuto la stessa problematica di Claudia, ma avendo più anni sa cose che Cretti deve ancora scoprire, così gliele dice, gliele racconta.
Poi c’è la nuova linfa, quella senza cui non c’è futuro. La nazionale vorrebbe inserire altri giovani, più giovani, se possibile. Anche chi non ha mai vestito la maglia azzurra. Perché necessari per la nazionale, ma soprattutto per loro, per quanto può aiutarli. È questa l’idea di Claudia Cretti: «Come me ci saranno tanti altri ragazzi col desiderio di fare sport ad alti livelli che pensano di non potere, di non riuscire. Che magari non vogliono fare paraciclismo. Dare un segnale a questi ragazzi è importante perché si sta male quando si pensa di non avere una possibilità. Dare un segnale a questi ragazzi può cambiare ancora tanto».
Genitori e figli
A tutti sarà capitato di vedere il riso o la pasta che gli atleti mangiano al termine della gara, per recuperare. A noi, qualcuno fra i più giovani, nelle categorie minori, ha raccontato la dedizione con cui la madre sceglieva il contenitore per mettere quella pasta. Di quella cucina con l’acqua a bollire al mattino alle quattro, quando si sarebbe potuto preparare tutto anche la sera prima, ma “già è quasi scondita, almeno mangiala fresca”. E ancora, la difficoltà per chi non è abituato, di preparare qualcosa di adatto a pranzo o a cena, anche in settimana, lontano dalle gare. Delle madri e dei padri che provano, sbagliano, chiedono e riprovano.
Altri ci hanno parlato dei viaggi che i genitori fanno. Magari per andare in Puglia il sabato e tornare la domenica, partendo dalla Lombardia o dal Piemonte, per accompagnare i figli alla gara. Di quei genitori che in settimana tornano tardi dal lavoro, ma una domanda su com’è andato l’allenamento la fanno sempre e, se quel giorno “la gamba non girava”, cercano argomenti per spiegarti che devi continuare, che domani andrà meglio. Tanto che non immagini neppure i problemi che hanno sul lavoro, perché in quel preciso momento non contano più, contano i tuoi problemi. E il camper non si compra per andare in vacanza, si compra per accompagnare i figli alle corse, perché possano viaggiare più comodi, perché possano avere tutto a disposizione.
Potremmo raccontare di quei figli che, nel fuori stagione, hanno cercato qualche lavoro da fare per aiutare e aiutarsi. Perché iniziare a pedalare vuol dire scegliere di investire su stessi, ma, non nascondiamoci, soprattutto all’inizio vuol dire anche spendere molto per avere l’attrezzatura giusta, perché anche quello conta. Parliamo di biciclette, parliamo di tubolari. Parliamo di genitori che chiedono ai figli di non farsi remore, di chiedere ciò che serve, di comprare il meglio che serve, perché, anche ci fossero sacrifici da fare, si fanno volentieri. Sono figli che, spesso, crescono prima, perché lontani da casa devono fare tutto da soli. Perché l’età adulta in realtà non è un’età ma un modo di essere o di vedere le cose e se fai una certa strada quel modo lo acquisisci presto. Forse anche troppo presto, dice qualche genitore.
E ancora ci sono le bende e i cerotti da controllare a sera, da togliere delicatamente per non fare troppo male. Di quelle ferite si inizia a chiedere da bambini e non si finisce mai perché i genitori si ricordano quasi sempre dov’è quel taglio o quella botta. Ci sono le immagini in televisione che i genitori vorrebbero sempre vedere ma di cui hanno anche paura perché “se succede qualcosa, siamo distanti”.
A loro non interessa non poter far nulla, a loro interessa essere lì, da qualche parte. Accanto al medico che ti visita o al tavolo della colazione mentre quella pasta, così presto, fatica ad andare giù. Vicini. Genitori e figli.
L'avventura di Velzna Trail
Chi parteciperà a Velzna Trail, il 23 aprile, dovrà provare a sentirsi parte della natura, a guardarsi da fuori e a vedere quanto una bicicletta che scorre su una strada sterrata stia bene in quella natura. Marco, Simone e Nicola l’hanno pensata così. Velzna è l’antico nome etrusco di Orvieto e quest’esperienza ha molto a che vedere con Orvieto: «Si parte e si arriva lì- ci dice Simone- ma in realtà c’è di più. Orvieto è questa essenzialità, quella della natura, del paesaggio, di una rupe scoscesa o di una strada romana per arrivare al mare. Quando esci di casa e senti che non ti manca nulla, magari c’è poco ma tutto l’essenziale».
Forse anche Amatrice era così, forse per questo qualcuno nel fine settimana prendeva la moto e ci andava. Lo ha fatto anche Simone e quel giorno Amatrice gli era piaciuta. Oggi, dopo il terremoto, Amatrice è l’insieme di tutto ciò che manca. Di chi manca. Amatrice è assenza. Marco ad Amatrice ha perso Matteo, suo fratello, che quel giorno era lì con Barbara, sua moglie. Di quel ragazzo è rimasta la bicicletta e Marco pedala su quei pedali, siede su quella sella. Simone ci racconta che vedere quella bici ancora per la città smuove qualcosa dentro. Marco e i suoi genitori hanno trasformato quel dolore, non hanno lasciato che li rovinasse, che li incattivisse. Come Matteo che, quando non riusciva più a pedalare a causa dei morsi dell’acido lattico in bici, non se la prendeva quasi mai: «È bello lo stesso. Certo, senza dolore sarebbe meglio. Ma guarda che bel paesaggio».
Velzna Trail cerca lo stesso sguardo. «Certe volte- prosegue Simone- quando pedalo sulle strade antiche, penso che non ce le meritiamo. Perché non ne abbiamo avuto cura. Per cambiare qualcosa, dovremmo iniziare a guardare ciò che c’è sempre stato e a dirci che è bello anche se non lo avevamo mai notato. È un obbligo morale nei confronti del passato». Così sarà bello arrivare al mare con quelle mountain Bike o quelle bici gravel e andare nella casa sul mare di Nicola per un buon ristoro. Ognuno fa quello che può per Velzna Trail e sa che basta, purché sia genuino, purché sia vero. Basta anche un solo tramezzino. Andare in bicicletta, in fondo, è cercare questa semplicità e magari trovare altro.
Nicola, ad esempio. Che viene dalla Sicilia e la prima volta che si è presentato all’Argentario per una pedalata era coperto come fosse inverno, nonostante ci fossero venti gradi. Poi ha scoperto quelle strade e ne è diventato una sorta di custode e immagina spesso strade nuove da visitare. Ha disegnato lui Velzna Trail e chi vuole fare un giro in bicicletta gli telefona e gli chiede se quella strada è stata riaperta o se c’è una via nuova, mai vista, per arrivare là.
«Quando si sente troppo forte, gli ricordiamo quel primo giorno» scherza Simone. In realtà però passare da quelle strade servirà anche a questo, a tornare a sentirsi piccoli rispetto a ciò che c’è attorno. Da Orvieto verso il Tirreno, poi Volsinii, Bolsena e ancora Orvieto, un percorso ad anello per permettere a chiunque di scegliere dove e quando fermarsi, per dire a chiunque che il tempo, quel giorno, non conta più di tanto. Il raccolto andrà all’Associazione 3.36, come l’ora di quel terremoto, per Matteo, per Barbara e per la ricerca per la Fibrosi Cistica.
«Quando pedali accanto a una rupe capisci chi sei, in realtà. La bicicletta ti riporta l’umiltà». Anche per quanto si fa fatica perché «quelle strade non tengono minimamente conto della pendenza. Chissà, forse agli antichi non interessava. Se volevano andare da un punto all’altro, ci andavano a prescindere». E a quella fatica non si può dare un significato, ognuno darà il proprio, ciò che conta è darsi una ragione per farla. Magari guardarsi attorno, mentre non ce la fai più, e dire: «Ma guarda che bel paesaggio».
I segreti di un meccanico: intervista a Giuseppe Archetti
Nonostante la sua esperienza più che trentennale, una delle prime cose che sottolinea Giuseppe Archetti, meccanico UAE Team Emirates, è l’importanza dei ruoli e del loro rispetto. Quando qualche corridore gli chiede di intervenire sulla sua bicicletta, Archetti pone una differenziazione a seconda che si tratti di posizione e millimetri di variazione di sella o manubrio oppure di altre questioni più complesse: «Per piccoli ritocchi sulla posizione o sulla calibrazione della sella, intervengo io. Ci si lavora col tempo e talvolta è anche un aspetto psicologico. Su altre questioni credo non sia giusto agire da solo. Quando si toccano i pedali, più larghi, più lunghi, la sella, il materiale o altri aspetti, penso che il meccanico non debba agire se non dopo un’attenta discussione con lo staff». Squadra significa anche specializzazione. Se si è squadra, bisogna esserlo sempre.
In quest’ottica Archetti ha imparato a dire no e, con l’età, dire no è diventato più semplice. Non solo, con il passare del tempo è aumentata la pazienza e la capacità di spiegare perché, in quella circostanza, non si può fare ciò che il corridore richiede. Da giovani, spesso, non si considera l’importanza di motivare la decisione, talvolta non la si saprebbe neppure motivare. «Nelle categorie minori le scelte sono più fluide, i contratti meno stringenti. Lì, si accontenta anche più facilmente l’atleta. Certe volte il corridore è abituato con una determinata sella e vorrebbe avere sempre quella. Se non è possibile, devi dirlo chiaramente ma devi anche spiegargli che stai lavorando per fornire una sella che si adatti alle sue esigenze, devi fargli capire che nonostante il no tu lo hai ascoltato. Devi dirgli la verità. Così gli spiegherai che la larghezza è simile, che il punto d’appoggio è lo stesso e che il biomeccanico ha lavorato perché la posizione non cambi».
Archetti sostiene che questo aiuti la fiducia perché l’atleta deve fidarsi del meccanico e tanto più riterrà esaurienti le spiegazioni, più si fiderà.
L’inverno, poi, è il periodo dei trasferimenti degli atleti, da una squadra all’altra, e anche qui le cose sono cambiate. Quando Archetti ha iniziato, gli atleti portavano la loro bicicletta precedente al nuovo meccanico e questo segnava tutte le misure da riportare su quella nuova. Oggi il tutto si svolge tramite un dialogo maggiore tra i diversi meccanici. «Una volta i corridori avevano un gruppo diverso di meccanici a seconda delle gare che facevano, grandi giri o classiche, ad esempio, oggi si usa meno». Negli atleti non è cambiato molto: c’è sempre chi ha una sensibilità maggiore e chi minore, chi studia questi aspetti e chi no, di sicuro, però, si hanno già materiali migliori sin dalle categorie giovanili.
La bicicletta, invece, è cambiata nettamente. Archetti pensa al cambio: «Ricordo le mani degli atleti quando c’era il cambio a frizione: certe volte arrivavano al traguardo con le mani talmente gelate che non riuscivano più a cambiare per il freddo o per la terra che bloccava il filo. L’elettronica ha rivoluzionato il nostro lavoro e di certo ha agevolato gli atleti».
Quando le cose non vanno, ancora oggi, talvolta, si va dal meccanico e si sostiene che il problema sia lì, in qualche suo errore. Archetti ascolta, lascia passare il momento di crisi ma, poi, dice chiaramente la sua: «Ho sempre parlato chiaro e con l’età lo faccio ancora di più. Il passare del tempo ti toglie la paura del giudizio: abbiamo a che fare con ragazzi giovani che spesso hanno già tutto, è nostro dovere spiegare il valore dell’aspettare, dell’umiltà». A questo proposito, Archetti pensa a Tadej Pogacar, l’ultimo dei grandi campioni, con cui sta lavorando.
«In trentacinque anni non ho mai visto uno come lui. Un ragazzo acqua e sapone nonostante i due Tour de France vinti. Certe volte le cose non vanno neanche per lui ma non ha mai cercato nessuno a cui dare la colpa. Tadej è anche abituato ai no, quando mi chiede qualcosa e non posso aiutarlo non dice nulla, se non “se non puoi, va bene così”». Di quei momenti difficili, sa qualcosa anche Archetti che, dopo tante considerazioni tecniche, si lascia andare a un pensiero personale sulla gestione di questi momenti mentre si è a contatto con gli altri.
Nel 2016, quando parte per le Olimpiadi di Rio, Archetti è senza un contratto per la stagione successiva, al ritorno potrebbe essere senza lavoro. Per qualche tempo, deluso dall’ambiente, pensa anche di lasciare e di cambiare lavoro. Non lo farà. «È stata l’unica volta, poi ho ripreso. Anche in quei giorni, però, le cose sono restate separate: quando sei in una squadra non puoi permetterti di lasciare che i tuoi problemi influiscano sul lavoro che fai. I campi sono da tenere separati, gli altri non devono scontare le tue difficoltà, vale anche per gli atleti: quando le cose non vanno ce ne si assume la responsabilità, senza scaricare colpe». Questione di ruoli e di rispetto: parole che Giuseppe Archetti conosce molto bene.
Una nazionale e un’idea di ciclismo: intervista a Paolo Sangalli
Paolo Sangalli ha le idee chiare al termine del suo primo ritiro da Commissario Tecnico con la Nazionale Italiana Femminile: «Quando siamo arrivati in Spagna eravamo un gruppo volenteroso di crescere. Ora che ripartiamo siamo una squadra: è diverso». Capiamo subito che alla base del suo lavoro ci saranno alcune idee portanti a permeare il tutto: ad esempio quella di squadra. Sangalli racconta che un momento, in particolare, sarà delicato in questo percorso, quello delle convocazioni per gli appuntamenti importanti. Se riuscirà a far passare l’idea di team, quel momento sarà più semplice. «Se le ragazze escluse si sentiranno comunque parte di una squadra, lo accetteranno meglio. Il loro senso di appartenenza resterà tale e non sarà ridimensionato da una scelta. Ma, perché questo accada, devo essere bravo a farle sentire squadra, non gruppo. Questo non vuol dire che non debbano restarci male: chi ci resta male, ci tiene. E noi abbiamo bisogno di queste persone».
Il ritiro ha volutamente riunito un gruppo eterogeneo, dalle atlete più esperte alle più giovani, dalla pista alla strada. Qualcuna, Vittoria Guazzini, al rientro da un infortunio. Così deve essere per Sangalli. «C’è un valore particolare nello stare insieme: lo scambio. Penso alle giovani generazioni e alla facilità con cui sono abituate ad ottenere le cose. Qualcosa che viene dalla società, anche dalla tecnologia, dove un click apre un mondo. Vedere la difficoltà con cui Elena Cecchini o Marta Bastianelli sono arrivate dove sono arrivate e vedere lo spirito che continuano a metterci credo sia importante». Il rischio, continua il C.T., è che ci si abitui alla maglia azzurra quasi fosse un’abitudine. Sangalli è perentorio: non può succedere.
Anche per questo, nel 2022 sarà presente alla maggior parte delle gare internazionali di ciclismo. Un messaggio per le sue atlete e anche per le altre nazionali. «Sarà un ribadire che sotto la maglia della squadra di appartenenza, quella della nazionale deve restare sempre. Che non ci si può mai scordare di essere parte dell’Italia. Un messaggio per noi e per le altre nazionali. L’Italia è “la squadra”». Sangalli pensa a Olanda, Germania, Francia e Polonia, le nazionali che teme di più guardando al nuovo anno.
Una presenza che Sangalli ha iniziato a far percepire scegliendo di recarsi in prima persona nei luoghi in cui già erano presenti i ritiri delle squadre, quel “vado io da loro” che disegna i contorni della disponibilità di cui si torna a parlare più volte nella chiacchierata. Una presenza che, però, nulla deve togliere all’indipendenza.
Paolo Sangalli vuole crescere atlete indipendenti, che da sole siano in grado di seguire un programma di allenamento e, soprattutto, di capire se e quando è il caso di fermarsi. «Non si devono seguire a tutti i costi le indicazioni di un preparatore se non ci si sente bene. Basta fare una telefonata, mandare una mail, e il preparatore sarà il primo a dirti di aspettare a fare quel tipo di lavoro nel giorno in cui starai bene. Saltare un giorno di allenamento, alleggerire un carico, non è grave. È grave non essere capaci di farlo, è grave quel senso di colpa che si instilla quando non lo si fa, perché non ti rende indipendente, perché non ti fa conoscere te stessa». Anche perché, a livello percentuale, i giorni in cui gli allenamenti non vanno come devono andare sono molti di più di quelli in cui è tutto perfetto.
“Sai cosa accade? Ci si inizia a dare colpe e a dirsi che non si va, che non va bene. Invece no. Voglio che le mie atlete imparino che l’importante è fare il massimo che quel giorno ti consente. Poco o tanto che sia. Se, poi, in gara trovi una fuoriclasse non è colpa tua. Se hai fatto il massimo, puoi solo levarti il cappello. Van Vleuten si allena con gli uomini? Non tutte possono farlo e non deve nemmeno interessarci. Per Elisa Longo Borghini, ad esempio, è uno stimolo: “Quando la vedo, la stacco”. Lavoriamo su questo». In questo senso, la direzione Sangalli avrà due parole chiare: equilibrio e conoscenza. In tutti i campi.
A breve, Sangalli organizzerà anche una riunione con le atlete più giovani in cui, con l’aiuto di nutrizionisti, esporrà alcuni principi chiave in tema. «Se a gennaio si hanno due chili in più non è così grave. Come se si ha un chilo in più all’inizio di una corsa a tappe: c’è tempo per smaltirlo. Iniziamo a ridimensionare l’equazione magrezza eccessiva uguale a velocità. Non è sempre così. Con i chili si perdono anche watt e muscoli. Bisogna fare una valutazione singola e bandire certe idee prive di senso».
Il tutto sempre nell’ottica dello stare insieme e del parlare. Così la presenza in ritiro di Marco Villa e Marco Velo, che si occupano di pista e cronometro nel nuovo organico federale, è un altro tassello fondamentale. «Velo è tornato a ribadire la necessità di usare spesso la bici da cronometro, almeno settimanalmente. La competenza di Villa ci aiuterà moltissimo anche per la strada: un dietro motore su pista migliora la gamba molto di più di un dietro motore su strada». Attenzione particolare sarà riservata anche alla comunicazione: occorrerà essere diretti e giusti per riuscire a essere ascoltati. Con la consapevolezza che con ogni ragazza bisognerà adottare un metodo di comunicazione diverso, riconoscendone carattere e sensibilità. Elisabetta Borgia, psicologa clinica e dello sport, lo affiancherà dandogli indicazioni in tema per capire come cambiare approccio dove le cose non funzionassero. «Rendere tutti sereni è semplice, basta dire: “fate ciò che volete”. Questo, invece, sarà un ambiente sereno proprio grazie alle regole, ai ruoli e al loro rispetto».
Un esempio è significativo: «Qualche giorno fa, una ragazza ha preso una salita con troppa calma, così mi sono avvicinato. “Immagina di essere ad una classica importante: dopo questa salita ci sarà una discesa e poi uno sprint. Se non avessi la forza per lanciare la volata?”. In poco tempo si è riportata sulle compagne e in discesa era addirittura davanti alle altre. Il mio dovere è toccare le giuste corde».
A giugno si conosceranno i percorsi degli Europei, per quelli dei Mondiali, invece, qualcosa si può già prevedere: i primi trenta chilometri saranno in leggera discesa, poi una salita di sei chilometri con una pendenza non proibitiva se non nei primi due, ma «tutto dipenderà dalle volte in cui verrà ripetuta». Per questo ogni valutazione si sposta in avanti, con un punto fermo: siamo la nazionale che veste la maglia iridata. «A febbraio, con le più giovani ci sarà anche Elisa Balsamo. Mi immagino cosa possa significare per una ragazza di vent’anni allenarsi con la Campionessa del Mondo. Credo che quella vittoria abbia dato qualcosa in più a ogni ragazza che in ogni categoria riceva una convocazione».
Paolo Sangalli non si ferma qui, dagli anni in ammiraglia vorrebbe qualcosa in più. «Vorrei che nel ciclismo tornasse a esserci quella componente di poesia che abbiamo avuto per tanti anni e che ultimamente si è persa dietro ai dati. Alle nostre atlete e a chi ci segue vorrei portare anche questa consapevolezza, di tutto ciò che c’è dietro la fatica».
Foto: Bettini
Se un campione sale in ammiraglia...
Erano le strade del Giro dell’Austria di diversi anni fa. Paolo Savoldelli, quel giorno, non riusciva proprio ad andare avanti sulle pendici del Großglockner. Ad un certo punto, Giovanni Fidanza, suo direttore sportivo, lo fece scendere di bici e salire in auto. Savoldelli si ritira, guarda avanti, alla stagione. Mentre è in auto con Fidanza, l’ammiraglia offre assistenza agli ultimi del gruppo, alla rete, ai velocisti che quel giorno pagheranno dazio. Ad un certo punto, vedendo la fatica degli ultimi ad arrivare in cima, Savoldelli si volta verso Fidanza: «Ma questi fanno sempre questa fatica? No, se avessi dovuto fare così tanta fatica io non avrei fatto il ciclista».
L’esempio è calzante e Fidanza, ora direttore sportivo di Isolmant Premac, ce lo racconta per spiegare come la concezione dei grandi campioni sia qualcosa di particolare, perché, spesso, i grandi campioni ragionano con le proprie gambe e possono arrivare a dare per scontato che tutti abbiano quelle stesse gambe, quella stessa forza. Tutto parte dal ritiro di Anna van der Breggen che il prossimo anno salirà in ammiraglia della SD Worx. Quanto è difficile per un campione passare dall’altra parte, dismettere la propria vita da atleta e ripartire da zero? Quali saranno i punti focali che l’olandese dovrà avere presente? Sì, perché i campioni sono coloro a cui, almeno nell’immaginario collettivo, viene tutto facile e quando ti viene tutto facile è particolarmente complesso immedesimarsi nella fatica altrui, nelle cadute e in ciò che è difficile, se non impossibile.
Giovanni Ellena, direttore sportivo di Drone Hopper - Androni giocattoli, premette che non c’è una regola, una legge, ma qualche considerazione si può fare. Qualcosa che vada oltre Anna van der Breggen, e provi a costruire un discorso generale. Ci dice che a suo avviso per essere un buon direttore sportivo devi avere provato, nella vita, non per forza in sella, a non essere capace di fare qualcosa, devi avere sentito di essere “fra gli ultimi” in qualcosa. «La regola è la fatica, da lì viene l’umiltà. I ciclisti sono umili perché prendono spesso sberle, se fai il ciclista diventi per forza umile perché la vita ti distrugge qualunque presunzione di superiorità. Mi viene da pensare che quando vinci sempre, quando vinci spesso, hai meno difese contro la frustrazione perché ci sei meno abituato. Un grande campione che sale in ammiraglia deve cercare di ricordare quella volta in cui ha fallito e si è sentito un nulla prima di parlare alla squadra».
Il punto non è che i grandi non sperimentino la fatica, anzi. Il punto è che per doti, talento, riescano ad andare facilmente oltre quella fatica. In un ruolo da direttore sportivo, colui che segna una strada, una via, è fondamentale cancellare ciò che c’è stato prima e ripartire da capo. Franco Pellizotti, Bahrein Merida, osserva: «Quando ero corridore tutti pensavano a me, avevo tutte le cure possibili. Da direttore devi offrire quelle cure ad altri. Passi da essere il primo a essere l’ultimo. Da corridore alimenti il tuo ego con le vittorie e i titoli sui giornali, la gente che ti cerca. Se un corridore della mia squadra vince una gara, in pochi verranno a fare i complimenti a me. La mia soddisfazione è nell’essere ascoltato, nella fiducia. Devi gratificarti in questo modo». Già, ma come tornano a osservare Ellena e Fidanza è un passo complesso, anche solo da accettare perché «passi da essere il primo a essere uno dei tanti. E, se non cambi testa, finisci per chiedere ai tuoi corridori ciò che avresti fatto tu, magari per dire “se lo facevo io, facevo prima. È un errore mostruoso. Se smetti, smetti. Non sei più un corridore, ma dirigi, guidi gli altri e, per farlo, ti servono caratteristiche diverse».
Le statistiche che tutti nominano parlano chiaro: sono pochi i grandi campioni che sono poi saliti in ammiraglia. Stefano Zanatta, Eolo Kometa, introduce un altro punto, provando a vedere la cosa con gli occhi dei corridori. «Forse è anche più facile accettare la fatica dell’essere ultimi o di staccarsi in salita quando sai che chi ti chiede di farla l’ha provata». Ellena continua: «Certe volte, quando non sai più come incitare, lo chiedi “per favore”. “Per favore tieni duro, arriva in cima. So cosa provi. Mi ricorderò di questa cosa. Te ne sarò grato”».
Zanatta pensa a Ivan Basso e Alberto Contador con cui collabora, seppur in altri ruoli, in Eolo Kometa. «Quando siamo in fuga, Alberto spesso dice: “Cosa ci vuole? Ora ha questi watt, come la salita cresce di pendenza, aumenta i watt e stacca tutti”. Certo, con le sue gambe. Ma quanti sono i corridori con le sue gambe? È difficile spiegarglielo perché lui ricorda le proprie sensazioni, è inevitabile». Prosegue Zanatta: «Al Giro di quest’anno siamo quasi sempre stati in fuga, il giorno in cui non c’eravamo, Basso mi ha subito detto: “Ma come? Non siamo davanti?”. Gli ho detto di stare tranquillo e di avere pazienza, gli ho detto che sempre davanti non si può essere. Ivan e Alberto stanno facendo questo percorso ed è un percorso che tutti i grandi campioni che assumono altri ruoli devono fare. Che sia in ammiraglia o altrove. Perché lì essere stati campioni non conta più». Anche perché, e qui Ellena è molto chiaro, qualunque corridore ha l’istinto a indicargli cosa fare, se non lo fa è perché non riesce, per questo non serve a nulla urlare nella radiolina.
La questione è questa: accettare di tornare a zero ed essere disponibili a imparare e quindi a sbagliare. «Un direttore sportivo ha studiato, non guida solo l’auto, conosce i regolamenti nel dettaglio e li rispetta. Conosce le regole non scritte e le rispetta. Puoi aver vinto di tutto, devi riprendere i libri e dirti che non ne sai nulla. Partire dalla prima pagina, non dai titoli. Questo è il consiglio».
Poi c’è quello su cui i campioni non hanno bisogno di consigli. Così chi ha vinto tante gare ha ben presente i punti in cui si può fare la differenza, la pressione che si dura a essere i favoriti, la responsabilità di dover vincere ed è fondamentale. «Alle Classiche del Nord- racconta Pellizotti- mandiamo direttori sportivi che le conoscano bene. Io non sarei in grado di dare buoni consigli, per il semplice fatto che molte cose non le saprei». Sicuramente, in queste scelte, aiuta il fatto di partire dalla squadra in cui hai corso, perché conosci l’ambiente e, da compagno di squadra, hai presente i punti di forza e di debolezza dei tuoi corridori. Pellizotti avverte: «È importante, ma nei primi tempi è difficile perché devi far capire che sei il direttore e non più il loro compagno». Fidanza prosegue: «L’autorevolezza non viene da ciò che hai vinto. Viene dal fatto che sai esattamente cosa dire, non consigli generali, ma dettagli. Che sai quando è il momento di parlare e soprattutto sai che non bisogna sempre parlare di gare, che gli atleti non vanno stressati altrimenti non rendono più».
In fondo, è questione di immedesimazione, anche di empatia. È questione di ricordare ciò che si è provato quando le cose andavano male, perché quando vanno bene non c’è nemmeno bisogno di parlare. Anche i campioni conoscono queste sfaccettature, sono quelle di quando non arrivi staccato di mezz’ora ma di venti secondi e perdi il traguardo che avevi inseguito. Quelle dei tuoi gregari che, staccati, sono arrivati mentre tu stavi tornando in albergo. Non è questione di ciò che si può fare o di ciò che è facile in assoluto, è questione di ciò che per il singolo è più o meno difficile. La prima cosa da ricordare per un campione che salga in ammiraglia è proprio che dirigere vuol dire aiutare gli ultimi, perché i primi la strada la trovano da soli. Per aiutare gli ultimi bisogna ricercare l’umiltà che ti fa essere ultimo anche se, nella tua carriera, sei sempre stato primo. È forse una delle cose più difficili, in assoluto, vivere delle sensazioni degli altri. Ma è inevitabile. Per capire e guidare.
Il riscatto di Sacha Modolo
Era estate e molti amici di Sacha Modolo, terminata la scuola, avevano da mesi iniziato a lavorare in fabbrica: i primi guadagni, i primi stipendi e le prime vacanze, magari in discoteca a divertirsi. Modolo correva in bicicletta da qualche anno, nessun guadagno o ben poco e le ferie poteva scordarsele perché in quei mesi c’erano le gare. Decise così di dire ai genitori che avrebbe smesso e sarebbe andato a cercare lavoro in fabbrica. «Quel giorno mio nonno ci vide lungo. Mi disse: “Se vuoi andare a lavorare, domani mattina vieni con me”. Nonno consegnava bibite ai privati e ai bar. Era tutto un caricare e scaricare da quel camioncino. A sera lo guardai e: “Ho capito, torno a pedalare”».
A Sacha Modolo non è mai mancato nulla a casa, ma la sua era una famiglia umile, una di quelle famiglie che certe cose non avrebbe mai potuto permettersele. «Ho saputo che la prima bicicletta ce l’hanno regalata, altrimenti non avrei potuto comprarla” racconta, mentre parla della sua indole da ragazzo. In Veneto si dice “remengo” e vuol dire scalmanato, irrequieto. Quel ragazzo si è riscattato con il ciclismo: «Non mi sono mai sentito arrivato, ma, se fai un certo percorso e ti accade quello che è successo a me, lo vivi come un riscatto. Senza il ciclismo avrei conosciuto solo il mio paese e la mia vita sarebbe finita lì. Succede a tanti».
Negli ultimi anni qualcosa era cambiato. Modolo lo ammette, si era un poco spento e pensava di smettere più che di continuare. Anche a casa diceva quello che aveva sempre detto: «Quando smetterò non ne farò una malattia e del ciclismo non ne vorrò più sapere». Eppure di ciclismo parlava sempre. Sua moglie glielo ha detto: «Mostri tanto distaccamento per questo mondo, ma in realtà pensi solo alla bicicletta». E Sacha non nasconde che la verità è proprio quella.
Dal 2018 una serie di problemi fisici lo hanno bloccato. C’è voluto tempo prima di capirne la causa, nel frattempo si brancolava nel buio. La sua è la storia di chiunque attenda un esito che non arriva. «All’inizio non ho pensato a nulla di tragico. Anche da ragazzo mi allenavo poco e riuscivo a vincere. Prima mi sono detto che dovevo cambiare allenamento, poi che gli altri andavano di più e non potevo farci molto». Fino a che Modolo inizia a mangiare sempre meno, forse anche poco. Uno stato di infiammazione molto forte che mette preoccupazione: «Ho temuto fosse qualcosa di più grave. Poi ho iniziato a curarmi ma per stare meglio è servito molto tempo». Una crisi arrivata proprio quando stava iniziando a capire che tipo di corridore era: tutti lo hanno sempre trattato come un velocista, lui avrebbe voluto essere qualcosa di diverso. Quel sesto posto al Fiandre lo racconta bene. «Quando Pengo mi chiese la prima volta che pressione delle gomme tenere sul pavé, mi venne da ridere. Non sapevo nulla di questi dettagli. Capii che avevo ancora tanta pastasciutta da mangiare. Marcato mi aiutò».
C’è l’esperienza degli anni passati e un cerchio che si chiude col ritorno in Bardiani Csf-Faizanè. Modolo è ritornato quel ragazzo, quello che vuole tornare a vincere, non importa dove. Che vuole decidere da solo dove e come dire basta. «Molti mi dicono che avessi avuto una testa diversa avrei vinto di più. Forse o forse avrei vinto meno. Certe volte bisogna anche accontentarsi. Non ho rimpianti e questo mi basta».
Se guarda avanti sa che, comunque vada, la fine della carriera si avvicina. Non ha paura, forse qualche nostalgia: «Tutto questo mi mancherà perché sono stato fortunato. In bicicletta si fa fatica al massimo per sei, sette ore. Nelle ditte ci sono persone che fanno otto ore per molto meno e fanno più fatica di noi. Dobbiamo rispettarle. Ma non mi spaventa rinunciare a questo. Ho paura che mi manchi la bicicletta, quello sì».
Il quadruplo Everesting di Zico
Giacomo Pieri è un artigiano, un carpentiere. Gli amici lo chiamano Zico, forse anche in qualche cantiere. Zico, sin da ragazzo, andava nei cantieri e, quando tornava a casa, pensava che avrebbe voluto essere uno sportivo ma «come fa un artigiano a fare sport ad alti livelli?». Perché gli artigiani arrivano a casa stanchi la sera, di testa e di fisico, non possono permettersi tanti fronzoli.
«Quando parlo con i ragazzi vedo che hanno fame di traguardi da raggiungere. Però hanno anche la stessa mia paura di non farcela, quella che mi faceva dire che un artigiano come me non sarebbe andato da nessuna parte, perché presi in tante faccende, in tante aspettative da rispettare. Spesso non ce la facciamo perché siamo distratti, perché, in fondo, siamo i primi a non credere a ciò che vogliamo fare». Zico, pur di crederci, lavorava in cantiere a Terni dalle sei del mattino e andava ad allenarsi alle tre di notte.
Pensate che due anni fa ha effettuato il quadruplo Everesting. Ha pedalato per circa sessantacinque ore, sul Monte Petrano e ha raggiunto un’altitudine pari a quattro volte quella dell’Everest. Ci è riuscito, eppure parla del valore della sconfitta. «Quando sono riuscito a far diventare lo sport una parte del mio lavoro, il mio ego ha iniziato ad espandersi. Così fiero di me. La realtà è che quell’ego ti impedisce di crescere, perché per non ferirlo accetterai di fare solo ciò che lo accrescerà». Solo dieci anni fa, Pieri non avrebbe nemmeno iniziato l’Everesting, perché ce lo dice: «È molto più facile non riuscire che riuscire e un egocentrico non lo accetta».
La svolta a Zurigo, quando, nel 2012, un virus gli impedì di prendere parte a un evento che aveva preparato per mesi. Quel virus non era casuale, il suo corpo era indebolito da tutte le paure che si portava dietro, da ciò che non sapeva fare. «Alla base del Monte Petrano, forse, avrei dovuto concentrarmi e non parlare con nessuno. Ogni tanto gli atleti fanno così prima di una prova importante. Io invece cercavo le persone, cercavo di parlare con loro. Ciò che successe in Svizzera accadde perché vivevo male il mio essere atleta, mi concentravo sulle cose sbagliate. Dopo averlo tanto voluto, rovinavo tutto».
Così Zico sa che la sconfitta accade, ma il percorso resta. E quel percorso è fatto soprattutto di conoscenza di ciò che non sei e non sarai mai. In psicologia la chiamano anticipazione del negativo. Non è pessimismo, è consapevolezza. «Sono partito con un infortunio al piede a causa di un chiodo, sul lavoro. Però sono partito lo stesso. Se il mio corpo non ce l’avesse fatta, mi avrebbe dato segnali per fermarmi e l’avrei ascoltato. È sbagliato, però, ascoltare una mente che cerca scuse per non provarci nemmeno. Che, proteggendoti dalla delusione, ti fa chiudere».
La seconda notte la crisi di sonno, dura, brutta. Ma Zico se l’aspetta, sa che arriverà e, proprio per questo, sa anche che passerà. «Devi dirti la verità, a qualunque costo. Un uomo che dorme quaranta minuti in una notte e continua a faticare, prima o poi, va in crisi. L’errore è negarlo o sperare che non accada. L’illusione che tu sia diverso dagli altri. Devi sapere che ti accadrà e passerà».
Oggi che tutti gli dicono che è “l’uomo del quadruplo Everesting” lui risponde parlando del concetto di fatica, che cambia nel tempo e che il suo primo lavoro, quello di artigiano, gli ha fatto conoscere nei meccanismi più fini. La fatica principale, forse, è quella del confronto con se stessi, accettando la possibilità che non si sia capaci di fare quella cosa, che non ci si riesca o che non ci si riesca ancora. Per arrivare a capire che, prima dell’Everesting, bisogna ricordare altro: «La fatica maggiore è quella mentale. Quando stai facendo la prima scalata e pensi alla seconda, quando vivi proiettato a ciò che accadrà. Non serve scalare l’Everest quattro volte, ma serve capire che, se non buttiamo energie per ciò che non possiamo cambiare, avremo molta più possibilità di faticare per ciò che, invece, possiamo modificare. E da cambiare, attorno, c’è molto».
La gratitudine di Bernal
«E rimango qui». Lo ha scritto Egan Bernal, nel giorno del rinnovo contrattuale, per cinque anni, con Ineos Grenadiers. E qualcuno potrebbe dire che il colombiano, in fondo, è un ciclista particolare.
I ciclisti lo dicono sempre: «È difficile da spiegare. Un ciclista vive il ciclismo, non è detto che sappia spiegarlo». Lui, invece, ha questa facilità di gesti e di parole, quando parla e quando scrive. Sembra molto timido, ma chi lo conosce dice che in realtà è uno a cui piace divertirsi, svagarsi, anche staccare la spina. Uno che sa restare in mezzo alla gente e per restarci si dimentica di tutta l’importanza che ha. Anche di quel Tour de France e di quel Giro d’Italia. Si è detto tanto di lui e di Marco Pantani, noi vorremmo dire che forse in Egan Bernal c’è anche qualcosa di romagnolo, almeno nell’indole, anche se non sappiamo quanto conosca la Romagna. Di una piadina e un vino rosso. Qualcosa del Piemonte e della corsa in libertà su una collina nel Canavese che Bernal ben conosce.
«E rimango qui» è in realtà la fine del suo pensiero, la conseguenza. Una sorta di pratica della gratitudine. Egan Bernal si ricorda bene il ragazzo che era quando è arrivato in Europa, prima in Androni e poi in Ineos e sebbene per il campione potrebbe quasi essere comodo nascondere fragilità, errori e colpe, Bernal non lo fa. Li ammette, li racconta e facendolo racconta un legame. Lavorativo, ma pur sempre un legame.
E forse questa è anche l’altra faccia di quel ciclismo a ritmi sempre più elevati. La faccia buona, fra tanti aspetti più spinosi, fra cui la pressione, lo stress. Qualcosa che può preservare da questi aspetti. La necessità di un ambiente all’occorrenza duro, severo, rigido, ma un ambiente stabile, conosciuto con la costanza del tempo. Bernal parla di persone che sono diventate come padri ed è questo che noi intendiamo, coscienti di quanto possa essere complesso parlare di famiglia in ambito lavorativo.
Così parliamo di conoscenza, di conoscenza prolungata, che accanto all’impegno consegni all’atleta una serenità nuova perché qualunque errore sarà rimproverato con una lente diversa. Non quella del giudizio di chi non conosci, ma della critica fatta a chi conosci perché sai quello che può dare. Questo, tutto questo, è il legame di cui parla Bernal. La sua gratitudine.
In bicicletta da Lampedusa a Capo Nord
C’era un padre, maresciallo di Polizia, a Palermo, tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, la sua seicento e quella Graziella che caricava nel bagagliaio per portare il figlio a Villa Giulia, a pedalare. Per Domenico Romano, per tanto tempo, la bicicletta era il mezzo che gli restituiva papà, in quella Palermo difficile. E oggi, che anche Domenico è maresciallo della Guardia di Finanza, quei giorni sono ancora lì.
«La bicicletta è un modo di giocare anche da grandi, perché spesso è uno dei primi giochi da bambini e l’ultimo che si abbandona da anziani» dice così mentre si reca al lavoro in una mattinata dai contorni grigi nella sua città, Spadafora, in provincia di Messina. Da qualche giorno ha deciso che il 6 giugno partirà da Lampedusa verso Capo Nord: 7000 chilometri e trentacinque giorni di viaggio. Ha deciso e lo ha detto forte e chiaro «perché non sai quante cose pensiamo e progettiamo senza realizzarle. Credo accada perché non le diciamo a nessuno e, se nessuno le sa, ci sentiamo autorizzati a rimandare. Lasciamo la porta aperta dietro di noi per fuggire. Invece quella porta va chiusa».
Qualche anno fa, Domenico era partito dalla Sicilia verso Londra, sempre in bicicletta, per andare da suo figlio. L’aveva fatto per una scommessa, ma soprattutto per dire qualcosa ai suoi figli e ai ragazzi che hanno l’età dei suoi figli. «Tutti vogliamo stare meglio e avere più possibilità, fare carriera magari. La realtà è che tutti lo vogliamo ma pochi sono disposti a fare ciò che serve per arrivarci. Perché costa fatica». Romano dice che la fatica, spesso, non è ben vista nella società di oggi, sembra qualcosa che aggiunge un peso, che ti blocca perché «devi faticare. Vorrei sdoganare l’idea che la fatica può essere bella. Chiamiamola impegno, l’impegno che serve per arrivare a Calais in bicicletta o a Capo Nord. È bello perché sai che puoi arrivare. Nella vita di ogni giorno vale lo stesso, anche se spesso si fa fatica per cose più brutte, più difficili».
Quando ha pensato al viaggio a Capo Nord, ha pensato che sarebbe partito da Lampedusa «perché per tante persone in mare, purtroppo, è un miraggio quella città» e che sarebbe arrivato a Capo Nord «perché per chi pedala è un sogno arrivarci in bici». Il viaggio toccherà luoghi simbolo d’Europa, nel bene e nel male. «Saremo in due. Abbiamo allungato l’itinerario per passare da Auschwitz, il luogo in cui ogni valore umano è stato negato, ogni rispetto. Ma passeremo anche da Rovaniemi, dove c’è la casa di Babbo Natale, dove si crede al regalo come simbolo per rendere felice una persona. Alla sorpresa». Ci sarà la scoperta dei paesi e quella della condivisione, dell’incoraggiamento e dell’ascolto dei momenti di difficoltà altrui, consapevoli che serve davvero poco per fare coraggio.
Di problemi, in un viaggio così lungo, ce ne saranno. Domenico lo sa bene, ma non sopporta le lamentele: «Solo l’idea di partire per un viaggio comporta problemi: dal preparare il mezzo, alle borse, al meteo. Se ne affronta uno per volta e si cerca una soluzione e, visti singolarmente, quasi tutti i problemi sono risolvibili. Non ci sono altre vie».
Da questo viaggio, Domenico vorrebbe portare qualcosa alla sua terra. «In Sicilia c’è tutto ma, spesso, scegliamo di incatenarci a un pregiudizio, a ciò che viene raccontato. Nello scorso viaggio, all’imbarco di Calais, fra tanti stranieri ho trovato una famiglia di italiani, di Noto. Mi hanno lasciato passare davanti perché pioveva e con la bicicletta mi sarei lavato. Mi hanno cercato in mezzo a tutta la gente mentre ero seduto a terra, senza posto. Hanno diviso con me la loro pastasciutta, senza che chiedessi nulla. Vorrei portare questa consapevolezza, ciò che possiamo essere, se solo lo vogliamo».