Un gesso e una lavagna
Una lavagna in pietra ardesia nera, un gessetto bianco e qualche numero. In fondo è tutto quello che serve a un ardoisier, termine quasi onomatopeico, come il sibilio del gesso sulla lavagna, che racconta un mestiere del vecchio ciclismo che è sopravvissuto al tempo. Così, ancora oggi, in corsa vedete la moto ardoisier che fa la spola tra il gruppo e i fuggitivi per indicare i distacchi e la composizione della fuga. Il tutto così, facendo uso dei due strumenti più semplici che ci siano, quelli che conosciamo la prima volta che entriamo in un'aula scolastica. Per il resto bastano un casco e una divisa gialli, come la maglia gialla.
Eppure non è scontato, come tante altre cose. Pensate a un insegnante di educazione fisica in Burkina Faso, a Ouagadougou, che ogni tanto, quando passa il Tour del Burkina Faso, può uscire dalle aule di scuola e mettersi sulle strade con i suoi ragazzi a vedere i ciclisti. Si chiama Michel Bationo e la prima lavagna e il primo gessetto li ha tenuti in mano proprio sulle strade polverose della sua città. Bationo è uno di quegli uomini che ha sogni grandi e che non ha paura di raccontarli, anche se qualcuno potrebbe prenderlo per matto. «Se un giorno potessi, mi piacerebbe andare a lavorare al Tour de France, essere l'ardoisier del Tour».
Qualche mese dopo, il Tour chiama e lui risponde. È il 2002 quando parte per la Francia come racconta ai quotidiani locali: «Non ero mai stato in un aeroporto prima di quel giorno, non avevo mai visto le scale mobili, soprattutto non avevo mai visto la neve sui monti mentre si vola. Ho scattato delle foto». Michel sorride sempre e fino al 2007 resta l'ardoisier del Tour. «Jalabert una volta mi ha detto: “facciamo cambio; io salgo in moto e tu vai in bici”. Mi sembrava incredibile che un ciclista mi chiamasse per nome e mi parlasse». La stessa sorpresa l'ha provata quando qualche corridore ha accettato di farsi fotografare con lui: «Cosa gliene fregherà mai di un ardoisier, mi dicevo, e invece...».
Così un centometrista burkinabè è arrivato al Tour e vi è restato come chi, in fondo, vi era sempre stato anche se materialmente era molto lontano. Già, perché forse i sogni si vedono meglio da lontano. Forse dovremmo imparare anche noi.
Foto: Bettini
Biglie in frantumi
C'era la luce lacrimante degli ultimi pomeriggi di giugno, mentre Primož Roglič camminava a fatica verso l'ammiraglia, stanco, medicato ovunque, fra la pelle che brucia, grattata a terra come in una grattugia, e i cerotti e le bende che sfregano ad ogni movimento. Lo sloveno, da tutti immaginato inscalfibile, quasi insensibile, ha poche parole, pronunciate a fatica ai giornalisti de “L'Equipe” in un silenzio assordante, fra gli ultimi rumori della sera di Pontivy: «Non ho niente di rotto, ho ferite e tagli ovunque. È un giorno nero, schifoso: per la fatica che facciamo, nessun ciclista merita questo. Proverò a lasciar passare i prossimi giorni, fino a quando sarò in corsa mi batterò perché tutto è ancora possibile».
Sotto quelle medicazioni c'è un dolore particolare. Non solo quello fisico della carne che grida vendetta ogni volta in cui il medico disinfetta la ferita o delle notti sudate, in piedi o su una sedia perché, appena ti muovi, il lenzuolo sembra accoltellarti. È il dolore della sfortuna che ritorna, delle troppe cose che hai già visto e che temi di dover vedere ancora. Roglič è arrivato a chiedersi se al male debba abituarsi, perché sembra non riuscire più a scrollarselo di dosso. «Non sono fatto per questo, non sono nato per tutta questa sofferenza» disse alla Vuelta del 2019, mentre Lora, la sua compagna, gli gridava contro dalla rabbia, perché quella è la frase di chi sta iniziando ad arrendersi, a mollare la presa. «Deve ricordare ciò che ha già fatto e che credeva impossibile. È il solo a poter realizzare cose come quelle che fa ogni giorno, il suo lavoro non è stato vano, deve comprenderlo». Quella Vuelta, poi, la vinse.
Primož Roglič ci ha pensato spesso, per esempio ad agosto 2020, su una terrazza di uno chalet, dopo la terribile caduta sulle strade dell'Alta Savoia. «Ero in silenzio, da solo. Pensavo a tutto il tempo che avevo passato lontano dai miei familiari, ad allenarmi duramente, poi vedevo gli orribili ematomi che avevo sul corpo e che non mi permettevano di pedalare».
Ma arrivi a un certo punto in cui non ti può bastare la capacità di soffrire e reagire. Non vuoi essere un eroe che si rialza sempre. Vuoi poterti concederti il lusso di restare a terra qualche minuto di più, di rialzarti se e quando vorrai, di essere sereno e senza male ovunque. Per questo la tentazione del rifiuto, perché tutti ti chiedono di resistere, ma resistere fa male.
Ma quella è vita. Quelle sono le biglie andate in frantumi di cui parlava Baricco, gli errori e le delusioni che si appiccicano ovunque mentre la gente ti addossa ciò che non sei, senza nemmeno conoscerti. Poi arriva un giorno in cui, anche sotto il cielo ingrato di Bretagna, senti che non ti interessa più, perché, mezzo disfatto, provi sollievo al solo pensiero di andare avanti. «Quando sono in momenti come questi mi dico sempre che sono stufo e non ce la faccio più. La realtà è che esistono e vanno vissuti, non messi da parte. Nessuna recriminazione li cambierà. Poi passano e ogni volta che sono alle spalle trovo i motivi per ricominciare e faccio un elenco di quelli per cui amo il ciclismo». È forse quello il giorno in cui ti salvi: quello in cui sai che, nonostante tutto, passerà.
Foto: Bettini
Il primo passo per ripartire
Sonny Colbrelli, stamani, è andato subito a cercare Roglič. Voleva parlare con lo sloveno e provare a chiarire quel gesto di stizza di ieri pomeriggio, proprio nel giorno in cui il corridore Jumbo Visma, cadendo, si è ferito in ogni dove. «Ho fatto quel gesto perché non capivo dove volesse passare, ma me ne sono pentito subito quando l'ho visto cadere. Ho avuto paura, per questo mi sono innervosito». Non ha voluto nemmeno parlare dei dubbi sui percorsi o sulla frenesia di corsa, «sinceramente ora come ora non mi interessa, voglio solo capire come sta Roglič e scusarmi».
All'apparenza può voler dire poco, in realtà racconta perfettamente questo viaggio in Francia, anche quello di oggi, su un piattone tra Redon e Fougéres. Un viaggio che è soprattutto comprensione, perché i ciclisti si conoscono e sanno bene quali siano i sacrifici di chi corre al loro fianco. A questo ha pensato Colbrelli quando ha visto Roglič a terra e quando lo ha visto pieno di fasciature al villaggio di partenza: a tutto ciò che quella caduta poteva buttare alle ortiche. Si è scusato perché quel “va a quel paese” non l'avrebbe mai accennato con più calma, perché ieri, se fosse stato un metro più avanti, sarebbe franato addosso a Ewan e si sarebbe ritrovato nella stessa situazione. I corridori queste cose le sanno.
Kwiatkowski, ad esempio, ha fatto il buco ai propri compagni per permettere a Alaphilippe di agganciare la ruota del suo treno. Poteva non farlo e non sarebbe cambiato molto, lo ha fatto perché sapeva che lui, nella situazione del francese, avrebbe avuto necessità di prendere quella ruota a tutti i costi, oggi invece no, oggi quella ruota poteva lasciarla, poteva capire. Come le pacche sulla schiena che si danno in gruppo per segnalare a un corridore di spostarsi, lo sguardo di assenso dei corridori in fuga come il gruppo rinviene, la scia delle ammiraglie anche per gli avversari in difficoltà.
Perichòn e Van Moer hanno condiviso la fuga, ma con un passato diverso. Van Moer stamattina ha parlato con il suo capitano, con Caleb Ewan, che malconcio, ha voluto partecipare alla riunione di squadra. Lo ha sentito dire: «Sono orgoglioso di voi» e siamo certi che in fuga se lo sia ricordato, quando i suoi compagni rompevano i cambi dietro e persino quando ai trecento metri il gruppo lo ha inghiottito senza pietà.
Capire metro dopo metro. Quello che Mark Cavendish ha fatto in questo Tour e ben prima nella sua vita. Quando vinceva e sembrava quasi arrogante, troppo sicuro di se stesso, forse qualcosa ancora gli sfuggiva. Non sapeva cosa volesse dire non riuscire più a fare ciò che ti era naturale, perché un virus ti ha talmente debilitato da non sapere più chi sei, mentre la gente non lo capisce e chiede, pretende. Ha compreso cosa significhi sentirsi nessuno e non avere altro pensiero che quello di poter tornare a credere al fatto che la serenità esista. Piangeva quando ha lasciato, piangeva lacrime pesanti.
Cavendish che aveva già vinto trenta tappe al Tour ed ha gioito come fosse alla prima, Cavendish che, con altre tre vittorie, uguaglierà Eddy Merckx. Poi ci sono i suoi compagni, gli altri atleti del gruppo, che, in fondo, sono contenti per Cavendish, perché sanno, perché vivendo nel plotone hanno capito tanto la necessità di fermarsi, quanto quella di ripartire.
Hanno avuto le sue stesse paure, almeno qualche volta e oggi hanno un motivo più per credere. Sì, perché se lo hanno fissato bene mentre piangeva sull'asfalto, oggi, hanno capito qualcosa in più. Non bisogna aver paura di fermarsi: è il primo passo per ripartire.
Il drappo rosso del Diavolo
A ogni passaggio del gruppo sotto lo striscione dell'ultimo chilometro, appeso in alto, un triangolo rosso sventola, sbattuto dal vento. In Francia la chiamano “flamme rouge”, la fiamma rossa, qualcosa di vagamente infernale, in Germania, ad inizio anni novanta, un telecronista parlò di drappo rosso del diavolo.
Davanti alla televisione, quel giorno, c'era Dieter Senft: «L'idea di diventare il diavolo rosso, con corna e tridente, che insegue i corridori gridando, negli ultimi chilometri delle tappe alpine o pirenaiche, mi è venuta da lì» racconta in un'intervista. «Quel drappo rosso doveva venire dal vestito di un diavolo vero, appostato al bordo della strada».
Siamo nel 1993 e Didi si dota di un vestito di lycra rosso, delle corna, un tridente, si lascia crescere una folta e arruffata barba che sta ingrigendo e va al Tour de France, insieme alla moglie Margitta su un tandem di più di tre metri.
«Ho girato tutto il mondo al seguito del ciclismo, ma al Tour de France accade davvero qualcosa di particolare. Tu sei lì, sul ciglio della strada, arrostito dal sole di luglio, magari anche con poca acqua ed una sete incredibile, ed hai accanto norvegesi, australiani e canadesi. Non capisci quasi nulla di ciò che dicono e non riesci a comunicare a parole. Eppure, per qualche strana ragione, vi capite benissimo, condividete lo stesso entusiasmo».
Senft ha quasi settant'anni, non è più giovanissimo e di corse ne ha viste, eppure quando parla del ciclismo lo fa come fosse una scoperta di pochi giorni fa. Come i ragazzini che ogni giorno immaginano un futuro diverso con la stessa felicità.
La sveglia è sempre puntata all'alba. Vedete quelle scritte ritmate che si susseguono negli ultimi metri? Spesso è lui a disegnarle sull'asfalto. Qualche anno fa, in Svizzera, è stato anche multato, ma non ha cambiato idea: le scritte servono e lui continuerà a lasciarle. Un personaggio del folclore, ormai, non solo del ciclismo.
La sua casa è un museo perché Dieter è anche un inventore: «Ho ideato la bicicletta più grande del mondo, quella più lunga ed anche quella più alta. Sono tutte a casa e la mia casa è aperta a chiunque, tutti possono venire a visitarla, a vedere. Alcune di queste invenzioni sono entrate nel libro dei record. C'è la macchina a pedali più grande del mondo ed anche una “football bike”, quella con cui andai agli Europei di calcio nel 2008. In Austria ho aperto e registrato un bike garden».
Il Diavolo ha vissuto la rivalità Ullrich-Pantani e un dettaglio lo ha impressionato: «Essendo tedesco, Jan Ullrich è stato il mio corridore prediletto. Non sembra ma il contatto diretto a tutte le corse crea quasi una sorta di familiarità con gli atleti, la condivisione della stessa lingua fa il resto. Marco Pantani, però, era ipnotico: la gente impazziva appena presagiva il suo arrivo. I tornanti sembravano esplodere».
Negli anni tante difficoltà e nel 2014 anche l'idea di smettere, «ormai prendo delle mance e con soli cinquecento euro non posso permettermi di seguire le corse». Erano gli anni dell'operazione alla testa, subita nel 2012: «Per la prima volta fui costretto a vedere il Tour in televisione. Ero dispiaciuto, certamente, ma mi accorsi ancora meglio di molte cose che dalla strada non notavo. Al Tour corre tutto veloce e rischi di perderti qualcosa, fosse anche solo l'elicottero delle riprese televisive che sorvola il gruppo. È un peccato».
Qualche anno, l'operazione, la guarigione e il ritorno: «Conto di restare per molti anni. Cercatemi». Sarà perché, come ci disse un amico, alla fine, i ricordi ti portano sempre dove sei stato bene e dai ricordi non puoi fuggire, ma noi continuiamo a cercare Didi, a ogni tornante bruciato dal sole e punzecchiato dal suo forcone, giallo per l'occasione.
L'orto di Tadej
Chissà come avranno vissuto l'arrivo della tappa del Mûr de Bretagne a Komenda, il piccolo quartiere della cittadina di Klanec, in Slovenia, dove è cresciuto Tadej Pogačar. Ieri, il suo secondo posto ed il terzo di Roglic sono stati dei segnali molto chiari: i due sloveni vogliono contendersi anche le briciole di questo Tour de France.
Ora sono uno davanti all'altro in classifica, un solo secondo a dividerli: Pogačar a tredici secondi, Roglič a quattordici.
Noi vi riportiamo a Komenda perché lì è cresciuto Tadej e ogni anno, a maggio, se non è in corsa, vi ritorna per trascorrere del tempo con la famiglia. Sua madre, Marjeta, ha un orto fuori da casa. Forse nelle fasi iniziali della tappa sarà stata lì e qualcuno l'avrà chiamata all'avvicinarsi del Mûr. Lì coltiva verdure sin da quando Pogačar era bambino.
Per questo Tadej conosce perfettamente ogni ortaggio e ogni legume. La sua è stata un'infanzia come quella di molti altri ragazzi cresciuti in paesi rurali, un'infanzia che è ancora vicina sebbene siano cambiate tante cose e Pogačar sia per tutti il vincitore del Tour de France, perché il talento sloveno ha solo ventidue anni e quei momenti se li ricorda bene.
Accanto a lui il fratello, Tilen, di tre anni maggiore: "Vedete? Là in fondo c'è la fattoria di mio zio" racconta Tadej a L'Equipe. "Da bambini, io e Tilen andavamo tutti giorni laggiù a prendere il latte e lo mettevamo in un barattolo di ferro per portarlo a casa. Sapete quante volte ci è capitato di rovesciarlo?". Un villaggio e una famiglia poveri. I due fratelli per molti anni hanno un solo monociclo e lo condividono, per andare a scuola, dai familiari o dagli amici, perfino in chiesa. "Un giorno ci è stato rubato e non siamo più riusciti a ritrovarlo".
Qualche segnale di ciò che sarebbe stato, tuttavia, c'era e Pogačar ci scherza su: "Non è che avessi molte altre possibilità, sono cresciuto circondato dal giallo. Questa casa ha sia i muri esterni che quelli interni dipinti di giallo". In camera sua, poi, un disegno fatto a matita fuoriesce leggermente da un armadio ricolmo di trofei: si tratta di un ciclista che sta per iniziare a scalare una montagna.
La mente di Pogačar, in realtà, non è lì, ma già proiettata in avanti. Spiega che soffre solo a pensare a quando, un domani, non potrà più andare in bicicletta. Di più. Racconta proprio di non riuscire a immaginarsi quel giorno. Probabilmente perché, quando vieni dal niente, quel ricordo ti resta sempre dentro e sai meglio di chiunque altro che le cose possono, o forse devono, finire. Così ci pensi e provi paura anche se sei in Francia a giocarti il tuo secondo Tour de France a soli ventidue anni.
Foto: Bettini
Estate bretone
L'estate bretone porta con sé un velo di malinconia sulle strade di Perros-Guirec, che sembra il nome di uno champagne o di una marca di orologi francesi invece è una città della Costa di Granito Rosa. Di prima mattina, la pioggia cade su un asfalto già scivoloso, si rabbuia il cielo e le ferite fanno più male. Anche quelle cicatrizzate. Ci avrà pensato Chris Froome che ieri si è aggrappato alle braccia di un massaggiatore per rimettersi in piedi: lui sa che le cadute possono capitare, con questa pioggia a fitte ancor di più. Non devi pensarci, altrimenti in sella non torni. E invece devi tornarci il prima possibile perché la paura si infiltra nelle ossa come l'umidità nei fari all'orizzonte e poi è troppo tardi.
Ognuno di quei fari ha una storia, forse pura leggenda, ma qui tutti le raccontano quelle storie, così sembrano vere. Anche la storia di Mathieu van der Poel e di Raymond Poulidor è raccontata da tutti in questi giorni. Forse anche troppo e forse, come per i fari, nessuno sa cosa si dissero tanti anni fa. Nessuno tranne Mathieu che ieri all'arrivo era sofferente. Non per il dolore ai muscoli o per l’amarezza della sconfitta. Per le promesse che si fanno e non si riescono a mantenere. Tante ne chiedono i nonni ai nipoti: van der Poel aveva promesso che avrebbe conquistato quella maglia gialla che a Poulidor era sempre sfuggita. Ci pensava, probabilmente da stanotte, perché quando prometti a chi non c'è più non puoi scusarti per la promessa, non puoi spiegare, devi solo accettare e guardare avanti.
La sua mente è sempre stata lì. Sin da quando è partita la fuga con un destino già segnato, perché al Mûr de Bretagne si attendono i grandi. Ci pensava mentre in gruppo si limava per prendere le posizioni di testa ed oggi sembrava davvero ci fosse una lima od una lama a sfiorare i corridori perché il gruppo si rimescolava come un puzzle e sulle scarpe degli atleti qualche striata ci sarà di certo. Una prova del rischio che ci si prende tutti i giorni, qualcosa che non si può spiegare razionalmente, perché è istinto puro, mestiere come quello dei falegnami o dei panettieri e delle loro botteghe che si aprono quando solo il mare sibila sulle coste.
Un primo scatto e la testa a guardare indietro, a sperare che il gruppo non fosse più lì, che non dovesse avere paura di Alaphilippe o di Pogačar. Una prova generale e poi, forse, lo sconforto, misto a rabbia, perché le cose ancora una volta rischiavano di non andare come avrebbe voluto. Una rabbia cieca, lucida, col groppo in gola per scalare un muro ed i muri sono verticalità senza dubbi, l'opposto di una bicicletta, di una ruota che gira.
Mathieu van der Poel che segue Sonny Colbrelli sull'ultima ascesa al Mûr de Bretagne non è solo un ciclista in cerca di gloria. Ha qualcosa in più, lo si vede da come spinge sui pedali. Siamo convinti che non ricorderà quasi nulla di quegli ultimi metri, che non avrà sentito quasi nessuna delle voci di coloro che gridavano il suo nome. Sì, perché le promesse fatte a chi non c'è più sono particolari anche quando vengono mantenute. Ti riportano alla mente il passato e, per qualche attimo, vorresti tornare nel passato, per tranquillizzare nonno, per chiedere scusa per ieri e per essere certo di aver fatto bene. Vorresti sentire solo quella voce. Per questo Mathieu van der Poel ha detto solo: "Ho pensato a nonno" e poi è scoppiato a piangere. Perché le mancanze opprimono il petto anche a promesse mantenute. Sì, quando sei felice, ma ti manca l’unica persona con cui vorresti esserlo.
Foto: bettini
L'idea di Schelling
Quando, a ottanta chilometri da Landerneau, col gruppo a poco più di due minuti, Ide Schelling, BORA-Hansgrohe, ha staccato i suoi compagni di fuga, in molti gli avranno dato del folle. Se già c'erano poche possibilità di arrivare al traguardo in sei, figuriamoci da soli. Infatti Schelling al traguardo non è arrivato, non davanti almeno, ma di lui bisogna parlare per un altro motivo.
Sbarbato, soli ventitré anni, ma ne dimostra anche meno, il ragazzo de L'Aia ha un cognome da filosofo, l'eco di Friedrich Schelling si fa sentire, e una parlata veloce. Dice di essere il classico ragazzo della porta accanto, uno di quelli a cui piace ridere e scherzare e non prendersi troppo sul serio. In bicicletta lo dimostra facendo una volata solitaria al traguardo volante di Brasparts solo per vedere il pubblico esaltarsi e battere le mani contro le transenne. Forse ha pensato che al traguardo finale non sarebbe mai arrivato, così ha voluto sentire la sensazione che si prova quando tutti sono lì per te. Oppure, semplicemente, gli è passato quello per la testa e lo ha fatto, come i ragazzi semplici, un poco “matti”.
Quando gli chiedono cosa vorrebbe in bicicletta risponde la cosa più scontata, banale, ma forse anche la più vera, perché, alla fine, senza ipocrisie, tutti corrono per vincere e lui lo dice senza tentennare: «Vorrei provare a vincere una corsa. Credo sia una sensazione unica che non si può spiegare». Ma non si ferma lì. «Mi piace andare in bicicletta perché mi piace soffrire. So di essere sulla buona strada, sto lavorando molto per crescere e per essere una versione migliore di me stesso. Sto lavorando per essere più preciso, più attento e ci riuscirò».
Ed è questo che ci piace raccontare di Schelling: un ragazzo che lavora sodo per essere la versione migliore di se stesso, che non parla di campioni a cui assomigliare o di idoli, ma dei piccoli passi che lo porteranno a essere più attento o più preciso. Che va ad allenarsi sulle pietre o sul pavé anche se «sono la cosa più simile al dolore». Che in fuga si sente a casa propria e che, fra dieci anni, non vorrebbe altro che essere dov'è adesso perché è felice.
Soprattutto Schelling ci piace perché ha fatto qualcosa di apparentemente senza senso che in realtà il senso l'aveva eccome. Perché, se pesassimo sempre tutta la vita sulla bilancia della razionalità, avremmo una mera serie di calcoli matematici, così invece possiamo crederci, sognare e illuderci perché anche l'illusione serve, ogni tanto. Non solo. Ci piace perché la storia di Schelling è la storia di chi ha tenuto fede a quello che era il suo dovere fin dal mattino presto: andare in fuga. E lo ha fatto senza esitare, anche quando sembrava un pazzo. Appassionatamente, dignitosamente, senza prendersi troppo sul serio, ma prendendo con estrema serietà ogni metro di strada.
Foto: Ralph Scherzer
Vive Le Tour
In Francia è semplicemente “Le Tour”. La Grande Boucle, il grande ricciolo che si snoda tra le strade francesi immerse nella canicola di luglio, fino a Parigi. Un vezzo da masochisti, in fondo, perché Henri Desgrange, colui che ideò il Tour de France anche per promuovere il giornale L'Auto da lui fondato, voleva una gara talmente dura da portare un solo corridore sugli Champs-Élisées. Un rincorrersi di richiami e sfumature che Gianni Mura definì simile a una chanson de Geste. Qualcosa che si incontra tra i campi di lavanda e i campi di girasole della Provenza. È il Tour de France numero 108, quello che partirà sabato da Brest. Qualcosa che assomiglia alla poesia, a Verlaine, Rilke e Apollinaire, ma anche a Brassens o Piaf, perché, come in Provenza, non sei tu che ci entri al tal chilometro dell'autostrada, ma è lui che ti viene incontro seminando segnali. Anche questo diceva Gianni Mura.
Per esempio la carovana voluta da Robert Desmarets, braccio destro di Desgrange. Fu proprio lui a notare le automobili della Chocolats Menier che, a fine anni '20 del novecento, distribuivano tavolette di cioccolato lungo il percorso. Così si aggiunsero da subito i Biscotti Delft, la Fromagerie Bel, gli orologi Noveltex e ancora salumi e marche di abbigliamento. Ad oggi sono ben 150 i veicoli, a volte avveniristici, della carovana, circa trenta minuti di spettacolo tra musica e costume, dieci chilometri di corteo e più di 450 persone a distribuire souvenir al pubblico. Anche il pubblico ha una filosofia legata alla carovana: a bordo strada, davanti restano i bambini e gli anziani, gli adulti aspettano in seconda fila.
Ma anche i piccoli villaggi addobbati a festa sino a settimane prima a richiamare il giallo, il bianco, il rosso ed il verde, i colori delle maglie. Le scenografie nei campi di grano, disegnate da uomini o da trattori, visibili dall'aereo delle riprese televisive. Scenografie provate giorni e giorni prima, per non perdere l'attimo, per mantenere la sincronia. E poi i tavolini e le sedie di vimini appostati accanto alla strada, con tovaglie a quadri, acqua gelata, una caraffa di vino e magari birra. I camper appostati sulle salite sin dalla notte prima e le tende con il fornellino per il caffè appena fuori. Già la nenia delle salite del Tour, le Alpi e i Pirenei: Galibier, Aspin, Tourmalet, Alpe d'Huez, Mont Ventoux, Col de la Colombière e chi più ne ha più ne metta.
Il Tour è anche un linguaggio, una lingua di parole di gara evocative: peloton, il gruppo, flamme rouge, il triangolo rosso dell'ultimo chilometro, baroudeur, il dinamitardo che fa esplodere la corsa, bidon, la borraccia, ardoisier, l'uomo che a bordo di una moto segnala i distacchi su una lavagna, soigneur, il massaggiatore, crevaison, la foratura, sommet, la cima. Parole che conoscono e pronunciano correttamente anche i non francesi perché sono un fatto di costume più che di grammatica. Come le squadre storiche che al Tour hanno corso: Banesto, Kelme, T-Mobile, Festina, Mercatone Uno, Molteni e così via.
Tutto nella memoria del Tour, le rivalità, e le tragedie, i sogni costruiti e quelli infranti, i grandi vincenti, Eddy Merckx ad esempio, e gli eterni secondi, Raymond Poulidor che nemmeno sul letto di morte ebbe ragione di Anquetil che quel giorno gli disse: «Caro Raymond, anche questa volta arrivi secondo».
Qualcosa che sa di amaro come la sofferenza che si dura a pedalare il Tour e le sue strade ingrate. Così le avrebbe raccontate Ocaña a terra, sul Col de Menté, in discesa, sotto la pioggia, centrato in pieno da Zoetemelk. Oppure quelle gloriose di Parigi, infarcite della grandeur francese e della vanità per avere la corsa più importante del mondo, invecchiata come un buon vino, rigorosamente francese, un Laurent Perrier o uno Château Latour.
Così ritorna il Tour e tutti lo stanno già aspettando.
ASO / Thomas MAHEUX
Aspettando il futuro: intervista a Francesca Barale
Francesca Barale, Vo2 Team Pink, venerdì, prima di partire per la cronometro che l'avrebbe consacrata campionessa italiana, non ha pensato a tutto lo sforzo che l'attendeva. In realtà non ci si pensa quasi mai: «La fatica è talmente tanta che, se riflettessi su quello che ti aspetta, non partiresti nemmeno. Nessuno specialista ci pensa».
Quello a cui invece si pensa è ciò che potrebbe accadere se riuscissi a dare tutto in quello sforzo. «Sei da sola, non hai punti di riferimento. Le radioline ultimamente aiutano a sconfiggere quel senso di solitudine, la voce del direttore sportivo ti aiuta a non naufragare con i pensieri ed è da lì che poi viene il crollo. Se inizi a dirti che le gambe non girano come vorresti è la fine. Io mi ripetevo: "Dai, resisti. Quella maglia ti aspetta". Così è successo, proprio quando non me lo aspettavo perché le cronometro precedenti non erano andate come avrei voluto, forse per questo ero tranquilla. In corsa sono abbastanza cinica e, quel giorno, non avevo nulla da perdere».
Barale è nata e cresciuta in Val d'Ossola e, fino a due anni fa, ha corso in squadre originarie della Valle, senza mai spostarsi. La sua salita preferita è quella di Trontano, dove va spesso ad allenarsi e dove, l'anno scorso, ha vinto la cronoscalata organizzata dal padre. «Per chi va in bicicletta la nostra zona è stupenda. Dalla montagna, alla collina, al lago. C'è tutto. A me spiace solo che manchino le gare. C'è qualcosa per il settore giovanile, ma per il femminile siamo ancora indietro. Serve gente appassionata che abbia idee e volontà e, soprattutto, serve la volontà di investire. La mamma dii Elisa Longo Borghini, ad esempio, aveva proposto una gara ad Ornavasso».
Lo stesso discorso, ribadisce Barale, vale per il ciclismo femminile. «Certamente nel ciclismo maschile ci sono più possibilità economiche e chi investe ragiona in questi termini. Voglio fare una considerazione: la gente, spesso, non ci conosce e quando parla di ciclismo crede che il ciclismo sia uno sport esclusivamente maschile, come se noi non facessimo la stessa fatica o gli stessi sacrifici. Penso che chi vuole bene al ciclismo abbia il dovere di raccontare sempre più spesso anche le nostre corse perché solo attraverso la conoscenza possiamo crescere. In questo senso, la diretta televisiva della prova femminile a cronometro, come avvenuto in altri paesi, avrebbe fatto bene».
Quando parla di Elisa Longo Borghini e di Filippo Ganna, Francesca Barale fa leva sull'orgoglio: «Devo dire che la nostra terra sta sfornando parecchi talenti ultimamente. Con Elisa abbiamo in comune caratteristiche simili, ma ci siamo conosciute dopo. Filippo Ganna invece lo conosco sin da quando era ragazzino perché le nostre famiglie hanno buoni rapporti. Mi fa quasi strano vederlo acclamato da tutti, famoso. Se lo merita, sia chiaro, ma per me resterà sempre il ragazzo semplice e l'amico di famiglia».
Nonostante la giovane età, appena diciotto anni, Barale spazia con agilità e arguzia su qualunque argomento. Un appunto interessante, per esempio, lo muove parlando di alimentazione. «Non sono seguita da un nutrizionista perché credo che nella mia categoria non sia necessario e perché personalmente ho una costituzione abbastanza magra che mi permette di gestirmi bene anche da sola. Però bisogna essere chiari: non è sempre vero che l'essere magri consente di andare più forte. Soprattutto non è vero che l'essere troppo magri fa ottenere risultati migliori. Si tratta di un pensiero che, a lungo andare, è pericoloso. Nel ciclismo spesso sono gli staff che fanno leva su questa idea. La nostra società ha propagandato per troppo tempo l'idea di bellezza associata ad una magrezza eccessiva. Facciamo attenzione».
L'anno prossimo Francesca Barale sarà chiamata al salto fra le élite: Il pensiero la spaventa e allo stesso tempo la stuzzica. «Non è mai facile. All'inizio sono schiaffi e frustrazione e il fatto di non avere una categoria intermedia tra junior e élite, purtroppo, peggiora solo la situazione. Tuttavia è proprio attraverso le delusioni che si cresce e si migliora. Servirà tempo e voglia di resistere. Il sogno sarebbe il mondiale e, perché no, un domani la vittoria del Giro d'Italia. Sono una passista scalatrice e credo di averlo nelle mie corde. Tempo al tempo».
La possibilità di Colbrelli
Il mercato della domenica, a Bellaria, si staglia sotto un cielo che soffoca ogni filo d'aria, senza alcuna pietà. Alla bancarella della frutta, accanto ai cesti delle albicocche e delle pesche, qualche signora inizia a sventolare un ventaglio fiorato, cercando refrigerio mentre sceglie la frutta. Piazza Matteotti è solo qualche metro più in là: qualche tempo fa, forse, avresti visto i corridori prendere al volo qualcosa dalle bancarelle, appendere il sacchetto al manubrio e pedalare verso l'albergo, come un qualunque turista a passeggio. La pandemia non lo permette più, ma chi vive il ciclismo è sempre vissuto di queste situazioni e le immagina appena può.
Del resto, a mollo in quell'aria pesante ci sono proprio tutti. C'è chi ne ha vissute talmente tante da non sorprendersi più per nulla e chi, invece, vive con meraviglia già il fatto di essere qui. Il Campionato Italiano è anche questo: lo vedi dal modo in cui i ciclisti più giovani fissano l'arrivo di Vincenzo Nibali, di Domenico Pozzovivo o di Giulio Ciccone al palco firme. Per alcuni quella che parte subito dopo il via è la solita fuga, il copione consolidato di quasi ogni corsa, per loro quella è la fuga, la possibilità. Per loro è tutto nuovo, per altri è tutto già visto. Eppure, a conti fatti, sono tutti qui per lo stesso motivo, anche chi non lo ammette, e tutti hanno almeno una possibilità. Non c'è storia che tenga.
Bergullo, Mazzolano, Riolo Terme e Gallisterna sono lì, impassibili. Non impossibili, certo. Sono qualcosa che avvolge e stringe. Sempre più forte. Ad ogni tornata, mentre il sudore scivola copioso e quasi sembra sciogliere la pelle. Una lenta tortura fino a che la fuga non esplode e si fraziona. Zoccarato, Maestri, Affini, Konychev e Tarozzi, fra gli ultimi a cedere, sentono il fiato del gruppo, mentre l'acido lattico graffia i muscoli. Maledicono Davide Formolo che scattando sveglia il gruppo e si porta dietro Nibali, Cattaneo, Masnada, Colbrelli, Oss, Carboni e Pozzovivo. Quelli che in gergo ciclistico vengono definiti cagnacci, perché temibili, perché non prevedibili e niente spiazza più di ciò che non si sa controllare. Se Zoccarato reagisce, se riesce a tenere il ritmo, è perché ripesca quella possibilità, quella che hanno tutti ogni volta in cui attaccano un numero alla schiena. Si incolla alla ruota di Sonny Colbrelli e Fausto Masnada e per diversi chilometri riesce a non perderla, poi si stacca ma continua a spingere a tutta. Si tratta della sua possibilità, può anche essere improbabile ma buttarla via significa non rispettare la fatica, non rispettarsi. Arriverà terzo, ma non conta. Quel podio racconta più di ciò che mostra.