Ciò che resta ciò che è

Ginevra non voleva parlarci. Non perché fosse maleducata o sgarbata, semplicemente perché, dice lei, chi ha vissuto il terremoto preferisce non parlarne. «Non si parla del terremoto, chi lo ha vissuto non vuole ricordarlo. Non oggi, almeno». Inizia a piovere su Ascoli Piceno, il tempo di aprire l'ombrello e Ginevra riprende: «E poi il Giro d'Italia è una festa, non si va a una festa portando il proprio carico di problemi».

Già lo sapevamo, ma, dopo queste parole, abbiamo avuto, ancora una volta, la netta sensazione dell'inutilità dello scorrere del tempo di fronte a certe cose. Perché per Ginevra, come per molti altri, quando si parla del terremoto non è cambiato proprio niente, nonostante siano passati cinque anni. «Di quello che c'era, non è rimasto più nulla. Non credo ci sia molto da raccontare». La sua voce per un attimo diventa fredda, come chi non vuole scoprirsi, come chi ha paura di scoprirsi. «Sai il problema? Molti vengono qui, vanno in quelle zone, e ci portano la loro commiserazione per le case diroccate, i campanili dissestati, il paese che sembra essere fantasma. Non c'è nulla di peggio. Parlo per me: non voglio quella forma di pietà, non so cosa farmene. Mi imbarazza anche. Tirerei su quei mattoni con le mie mani se ne fossi capace, pur di non sentirmi più guardata così».

Del giorno in cui arriva il Giro, a Ginevra, piace una cosa. «Non ci sentiamo diversi, non ci sentiamo quelli che hanno perso tutto. Sarà perché si è in tanti, sarà perché c'è voglia di festeggiare ma non c'è tempo per quella compassione. Almeno oggi».

La parte più brutta sta nei dettagli, sta in quello che forse pochi possono immaginare. «Arrivi a detestare la natura perché, quando il terremoto ti ci butta in mezzo, capisci quanto può essere cattiva, quanto può far male. Per chi ha passato quel periodo stare in mezzo a un prato non significa ciò che significa per tutti gli altri. Per chi ha passato quei momenti finire in mezzo a un prato significa tornare lì. Ed il peggio è che non puoi fare niente, perché se torna, e spesso torna, il terremoto ti distrugge ancora. La casa dovrebbe essere il luogo dove sentirsi sicuri, per un terremotato la nuova casa è il luogo dell'angoscia, della paura».

Non sono qui, non sono sulle strade della tappa, ma Ginevra ha due bambini. Loro erano davvero piccoli quando c'è stato il terremoto e non hanno un chiaro ricordo di quei momenti. A loro è rimasto il resto, è rimasto quello che hanno sentito dagli adulti. «Tempo fa, li ho visti fare uno strano gioco. Uno contava e l'altro portava fuori dei giocattoli dalla cameretta. Quando ho chiesto cosa stessero facendo mi hanno risposto: “Così siamo veloci a salvare i nostri giocattoli preferiti se viene il terremoto”. Ora capisci perché non voglio parlarne?».

E noi forse possiamo solo dire: per fortuna che c'è il Giro. Per fortuna che il Giro è passato da qui.

Foto: Luigi Sestili


Il riscatto di Jacopo Mosca

C'è un qualcosa di estremamente spontaneo nel modo di essere di Jacopo Mosca, qualcosa che nemmeno lui sa spiegare a fondo. Di certo, però, sa bene dove trovarne le radici. «A due anni e mezzo ho imparato ad andare in bici senza le classiche rotelle. Il motivo è molto semplice: le rompevo continuamente, così non me le hanno più messe. Un giorno sono uscito in cortile e ho provato a salire in sella, sono stato in equilibrio ed è andata bene. Qualcuno mi ha raccontato che da ragazzino ero scatenato e saltavo su e giù dai marciapiedi. Non lo so, ma potrebbe benissimo essere, vista l'indole». Sì, perché, alla fine, ciò che suo padre gli ha sempre ripetuto, in realtà apparteneva già a Jacopo. «Mi diceva che bisogna mettere il massimo dell'impegno in qualunque cosa si faccia. A prescindere dall'importanza di ciò di cui ti stai occupando, tu devi fare il massimo di ciò che puoi fare. Serve per non avere rimpianti. Serve per essere seri quando si prende un impegno».

Dice che la sua fortuna arriva con lo stage in Trek-Segafredo nel 2016 perché ha conosciuto l'ambiente e perché ha conosciuto Luca Guercilena. «Se guardi l'ordine d'arrivo del Tour of Britain di quell'anno, quando arrivai decimo, ti accorgi che fu un'ottima prestazione. Quelli che mi erano davanti erano nettamente superiori. Luca non mi prese in squadra, l'organico era al completo, ma quando mi salutò mi disse: “Questa volta è andata così, però tu insisti che nel ciclismo non si sa mai". Non sapevo che a quelle parole avrei ripensato spesso negli anni seguenti». Già, perché di lì a poco sarebbe successo ciò che succede di frequente nella vita. Non lo vorremmo, ma succede.

«Passai in Wilier, ne ero felice ed in quegli anni mi sembra anche di aver ottenuto buoni risultati. In ogni caso, ci ho sempre provato. Ancora oggi non me lo so spiegare, ma a fine contratto rimasi a piedi». Il periodo è difficile e a molti verrebbe quasi in mente di smettere. A Jacopo Mosca no. «Non ci ho mai pensato. Anzi, io volevo correre perché quello era l'unico modo per dimostrare che potevo ancora fare il corridore».
Quando firma il contratto per la D'Amico UM Tools, Jacopo Mosca sa bene che si tratta di una squadra Continental e che, per forza di cose, le possibilità sono minori, ma non gli interessa. «Dello stipendio non mi importava molto, prendevo i rimborsi delle gare e mi bastavano. Devo ringraziarli, se sono ancora qui è merito anche loro».

Umile, forse anche troppo. «Sono consapevole del fatto che il mio ruolo qui al Giro sia quello di aiutare gli altri a vincere. Io me la cavo su tutti i terreni, è vero, ma non eccello in nessuno. In volata possono battermi, in salita pure. Bisogna essere onesti con se stessi». Sarà, eppure c'è una fame particolare in ogni attacco di Mosca, una voglia feroce di dimostrare, di farcela. Qualcuno potrebbe pensare che venga dal periodo buio, lui smentisce.
«No, sono sempre stato così. Per fortuna ho preso il carattere da mio padre e sono un gran testardo». Di quel periodo, però, qualcosa resta davvero: «Credo sia qualcosa che proviene dalla mia famiglia. Ho imparato ad essere sereno e questo aiuta molto. Nel momento in cui le cose non sono andate bene, non sono mai rimasto solo, erano tutti accanto a me. Quando accade così, capisci che puoi davvero farcela».

Foto: Luigi Sestili


Come la terra del Friuli

COME LA TERRA DEL FRIULI
[Giro Alvento - Giorno 6]

Alessandro De Marchi l'aveva detto qualche tempo fa, in un'intervista a Bidon: «Al Friuli e ai friulani devi entrarci dentro, conoscerli bene. Una volta che sei dentro hai una visione completamente diversa». Non vale solo per la terra, vale anche per gli uomini e la fatica, vale per gli attaccanti ed i gregari. Vale per lui che è uomo di terra, di fatica, attaccante e gregario. Tutto assieme.

Così c'è molto altro oltre quello sguardo indiavolato sulla «salita dei matti», impastato di lentiggini e sudore, oltre quel ghigno di rabbia e di sofferenza, a denti stretti, a pochi metri dal traguardo di una tappa d'altri tempi tra Piacenza e Sestola. Ci pensava dal mattino De Marchi, pensava che sarebbe potuto succedere ma così no, così non l'aspettava. Perché? Perché tante volte non era andata bene ed «alla fine ti abitui anche a quello». Ha avuto paura perché quando le cose te le immagini, rinunciarci è sempre più difficile. «Temevo che franasse tutto, temevo di restare a mani vuote come tante altre volte».

C'è orgoglio visto che il “Rosso di Buja” ha iniziato a correre a sette anni, ora ne ha trentacinque e «potete immaginare cosa c'è in mezzo».
Per esempio, in mezzo, c'è quella sera in cui andò da Davide Cassani che lo aveva convocato per un ritiro della nazionale e, non riuscendo a vincere da tempo, chiese: «Cosa devo fare per essere un azzurro al mondiale?». Disarmante e disarmato con la semplicità che ti lascia l'aver sofferto. Già, perché De Marchi è passato professionista a venticinque anni e rischiava di non passare: si chiedono numeri, vittorie e lui dava spettacolo ma non riusciva a vincere. Se li ricorda quei giorni, se li ricorda bene.

Forse intendeva proprio questo quando ha detto: «Mi sento fuori posto con questa maglia». Intendeva che poi ciò che ti accade ti segna sempre e tutte le volte in cui ci hai provato e non ci sei riuscito bruciano, anche se non lo dai a vedere. Perché non è giusto, perché tanto chi non ti conosce non capirebbe.

Ne ha sentite di parole Alessandro De Marchi. «Il mondo certe volte ti chiede l'impossibile e non accetta il fatto che in quel momento non puoi riuscirci. A Filippo Ganna consiglio di fregarsene». Non che sia una dote il menefreghismo, ma è l'unica possibilità per salvarsi, talvolta.

De Marchi che ascolta Ludovico Einaudi, Bob Marley e Bruce Springsteen, che è sinfonia e rock, chitarra e metallo. Che crede nelle idee e meno nelle ideologie, che porta un braccialetto per ricordare la tragedia di Giulio Regeni, friulano come lui, e si stupisce quando gli chiedono il perché: «Non c'è nulla di politico, solo la sofferenza di due genitori che cercano la verità: da padre e marito non vorrei trovarmi in una situazione così». Lui che è padre e marito: «E la vittoria la dedico a me stesso e a mia moglie Anna».

De Marchi che da ieri è maglia rosa e dalla felicità stava quasi per piangere.

Foto: Luigi Sestili


Guido Bontempi, l'uomo di radio informazioni

Quante volte avete sentito parlare di Radio Informazioni nell'ambito di una corsa ciclistica? Ma, in realtà, cos'è Radio Informazioni?
Tutti ricorderete Guido Bontempi come ciclista, magari in maglia Carrera, non tutti saprete che la persona più adatta per raccontare il funzionamento di Radio Informazioni è proprio lui, visto che ne fa parte. «Se non ci fosse una diretta- spiega- saremmo noi gli occhi degli organizzatori, dei direttori sportivi e di tutte le persone, in corsa o agli arrivi, che necessitano di notizie fresche».
Nella pratica la faccenda è più complessa. In corsa ci sono due moto della “radio di gara” e le informazioni vengono dapprima trasmesse a un'auto e successivamente a una jeep. Il motivo è presto detto: la frequenza radio. Le nostre frequenze non hanno un segnale così potente da raggiungere l'arrivo, per questo è necessaria una mediazione.

Le due moto scelgono come posizionarsi: una starà sulla fuga ed una sul gruppo. «Non si può programmare, si vede che piega prende la gara e si agisce di conseguenza. Si decidono degli stop, ovvero dei rilevamenti, ed in quei punti si prendono i tempi. Può avvenire in coincidenza dell'ingresso in una città o in altri luoghi, di certo avviene con scadenze più ravvicinate sul finire di corsa. La prima moto segnala dove prendere il rilevamento e la seconda agisce di conseguenza. Da qui discendono anche le mosse dei direttori sportivi che, quando ricevono le nostre informazioni, decidono le tattiche di gara».
Il tutto coordinati dai regolamenti di gara, perché stare in corsa in moto è complesso e tutte le vetture devono attenersi a regole ferree. «Credo che una persona che non sia stata nel mondo del ciclismo, di più, che non abbia mai corso in bicicletta, non riuscirebbe ad affrontare un lavoro di questo genere. Serve attenzione estrema, la sicurezza di tutti è la priorità. Tra l'altro la situazione, in una gara professionistica, cambia molto velocemente e questo rende tutto più difficile. In linea generale le moto della polizia, della direzione e dei regolatori devono sempre stare a sinistra, le altre, ad esempio i fotografi, sempre a destra. Questo per evitare incidenti».

Alcuni cambi sono ammessi, ma solo in situazioni particolari ed in ogni caso vengono comunicati prima tramite una serie di collegamenti radio tra le vetture in gara. «Io sono collegato con l'auto a cui passo informazioni e sento radiocorsa, in questo modo la direzione informa anche noi di tutti i dettagli tecnici della strada, strettoie, curve pericolose od ostacoli. Le altre moto sono collegate sia a radiocorsa che alla direzione, mentre i fotografi solo a radiocorsa».
Bontempi è arrivato da poco in hotel quando gli telefoniamo, è sceso dalla moto ma la giornata non è ancora finita. Sta aspettando di visionare i comunicati ufficiali riguardanti la frazione del giorno seguente. «Una volta presa visione degli orari di partenza della gara noi decidiamo quando muoverci anche in base al tratto di trasferimento. Al mattino lasciamo i nostri bagagli a un furgone che alla sera li porta nell'albergo in cui alloggiamo. Se ci cercate, ci trovate già sul posto circa due ore prima della partenza della tappa».

Foto: Luigi Sestili


Tornare a guardare

Tornare a guardare. Sì, basterebbe questo per raccontare quello che abbiamo visto ieri sulle strade tra Stupinigi e Novara. Per parlare della fame che c'è in ogni persona che incontri qui al Giro. Vedere, sapere, conoscere ogni dettaglio di quelle biciclette che si riversano in strada. La stessa fame di chi, per molti giorni, ha dovuto accontentarsi della fantasia, dell'immaginazione, che è grande cosa, ci mancherebbe, ma l'essere umano ha anche bisogno della realtà, non può vivere solo nel ricordo, altrimenti, prima o poi, lo assale la paura che quella sia solo una scusa e che aspettare sia inutile perché le cose non torneranno più come prima. Ed invece no, perché le cose possono cambiare, si possono aggiustare ed in ogni caso si possono sempre migliorare.

Non serve spiegarlo a quella signora che era seduta sul bordo di una rotonda ad aspettare il passaggio della fuga, lo stesso bordo su cui sedevano altre persone e, ad un certo punto, ha detto: «In fondo basta fare più attenzione e sembra quasi la vita di prima». Certo, con qualcosa in più. Perché adesso ci stupiamo e prima, forse, avevamo perso questa abitudine.

Adesso, anche alle gare di ciclismo, restiamo qualche secondo in più a guardare quell'operaio di una ditta meccanica che esce in strada a vedere il passaggio con le mani ancora annerite dal grasso. Quel signore che sta sudando da ore sotto al sole ed ha l'ombra a pochi passi ma da lì non vede bene ed allora si accontenta di farsi ombra con il braccio e resta a sudare. Per non parlare di quella coppia di anziani che voltano il viso nello stesso preciso momento al solo sentire l'aria spostarsi. Perché il ciclismo è aria che sposta, vento che ti prende a pugni. Oppure quella ragazza che ha fame ed essendo distante da ogni negozio recupera dallo zaino un pacchetto di cracker sbriciolato e non sapete che fatica fa a mangiare quelle briciole, perché c'è un leggero vento e deve già tenere in mano lo striscione e quelle briciole o cadono a terra dal pacchetto aperto male o volano via come il polline.

Già il polline, perché ieri c'era anche qualcuno con gli occhi arrossati ed il naso da cui quasi non passava più l'aria, maledetta allergia. Eppure è stato accanto alla transenna, non ha mollato di un centimetro. «Se si richiudesse tutto, un momento così lo rimpiangerei a vita. Tanto di allergia non si muore». E c'è chi ti ringrazia solo perché gli hai spiegato perché le moto in corsa stanno a sinistra: «Non me lo aveva mai detto nessuno». Che non è una frase scontata come può sembrare. Ha un peso importante.

E ci siamo noi, che dovremmo essere abituati a tante situazioni perché il ciclismo lo viviamo, perché di ciclismo viviamo. Invece, in macchina, ci voltiamo l'uno verso l'altro e gridiamo: «Guarda là!».
Sì, perché tutte queste cose le abbiamo sempre viste, ma solo quando ci sono state negate, siamo riusciti a tornare a guardarle. Questo è il bello di questo Giro, che si guarda, non si vede solamente.

Foto: Luigi Sestili


Aza e Filippo

La storia che vi raccontiamo oggi parte dalle vie del mercato di Torino, accanto all'Arsenale della Pace. Lì dove c'erano le armi, ora c'è un punto di ritrovo per madri sole, carcerati, stranieri, per tutti coloro che hanno bisogno di cura o di lavoro. In una piazzuola c'è un albero col tronco tinto dei colori del tramonto. Noi chiediamo il perché ad Aza, una ragazza eritrea che passa di lì. «Mia madre- ci spiega- mi raccontò che in un villaggio, da noi, si dipingevano le cose dei colori che le nutrivano, che le facevano star bene, e questo era un atto di cura. Non so, magari è successa la stessa cosa qui».
Qualche passo assieme, parlando, poi Aza fissa la bicicletta di un ciclista in ricognizione e noi le chiediamo se le piacciano le biciclette. Lei ci racconta della sua di quando era bambina: «Aveva un cesto davanti, anche qui si usa e le donne ci mettono la borsa. Il mio cestino era di vimini ed i vimini li avevo intrecciati io. Alcuni erano completamente sfilacciati e si lasciavano andare». Eppure spiega di non aver mai pensato di cambiarla e, se oggi non l'ha più, è solo perché gliel'hanno rubata.

La bicicletta di Aza non aveva nulla a che vedere con quella di Filippo Ganna, di questo siamo certi. Aza non conosce neppure Ganna e certamente neanche Ganna la conoscerà. Eppure, quando abbiamo sentito parlare la prima maglia rosa di questo Giro d'Italia, ci è tornata in mente proprio lei.
Ci è venuta in mente quando Ganna ha ricordato le polemiche dei giorni scorsi. «Ho sentito molte parole negli ultimi tempi. Ho preso tanti schiaffi negli ultimi tempi ed è giusto così. Qualche volta cedi, è normale. Sei un uomo e gli uomini si stancano, si fermano. Se non cedi mai, qualcosa non va». E poi ha aggiunto: «Certo che, quando leggi o senti certe cose, ci pensi e quando ci pensi ti blocchi, ti chiedi perché si dicano quelle cose».

Ci è venuta in mente quando Ganna ha raccontato della sua squadra di quest'anno e dell'anno scorso. «L'anno scorso ci siamo uniti quando è successo l'incidente a Geraint Thomas. Eravamo in ginocchio in quel momento e dovevamo trovare un modo per ripartire. Se non fosse accaduto, sarebbe stata la fine. Siamo stati bravi a capirlo, siamo stati coraggiosi a ricominciare». E, sorridendo: «Nei momenti difficili accadono cose bellissime. Ora sono contento di questa maglia, ma venti tappe sono tante e magari verrà il momento in cui i miei capitani faticheranno e dovremo supportarci ed anche sopportarci perché quando le cose vanno male si è tutti più nervosi. Bisogna accettarlo ed imparare a fare il proprio dovere divertendosi, anche quando è più difficile».

Ed in fondo è tanto difficile da mettere in pratica ma è così logico, così naturale. Come per la madre di Aza dipingere un albero per prendersene cura, come per Aza quel cestino di vimini sfondato. Siamo noi a complicare tutto, anche questo dice Ganna. Aza non lo dice, ma dal suo sguardo si intuisce. Per questo Aza e Filippo Ganna si somigliano. Perché sanno che molte cose sono semplici e vanno vissute così, in modo genuino, leggero. Per se stessi prima di tutto.

Foto: Luigi Sestili


Nei paraggi

C'è una ragazza accanto a un meccanico intento a pulire con uno straccio un tubolare. Chiede: «Per caso vi serve qualcuno che vi dia una mano? Verrei volentieri con voi. Anche solo per lavare le biciclette, anche gratis». Succede così, quando arriva il Giro d'Italia tutti vorrebbero partire. Anche qui, anche a Torino. Giorgio ci dice che a casa ha un camper, guasto, e quest'anno avrebbe voluto sistemarlo per seguire tutta la corsa da lì, ma da qualche mese è in cassa integrazione e non può permetterselo. «Le cronometro non mi sono mai piaciute: troppo statiche, noiose. Figuriamoci una cronometro che passa sotto casa. Questa volta è diverso: non avendo la possibilità di viaggiare è la prova migliore. Ti metti a bordo strada e vedi quanti corridori vuoi».

Qualcuno sposta un vaso da davanti casa e porta fuori una sedia e un tavolino di plastica bianca. «Maria» chiama a gran voce e poi borbotta qualcosa in dialetto piemontese. Sì, oggi cercate quella sedia e quel tavolo perché quel signore si apposterà lì a vedere i corridori. Se ci fate caso noterete anche un portacenere perché qualche secondo dopo è Maria a borbottare: «Un'altra sigaretta? Non mi ascolti proprio».

La corsa partirà a pochi metri da qui. Se ne sentono i rumori: pedali che frullano, ruote che girano, porte di ammiraglie che si aprono e si chiudono, ed ancora voci di corridori e meccanici seduti a un tavolino con qualche lattina di aranciata. Per Filippo Ganna è una parlata familiare, conosce inflessioni e modi dire. Sa che qui non può proprio mentire: «Non si può andare sempre veloci. Ci si deve provare, ma non è detto che ci si riesca» spiega a chi gli chiede se oggi sia il favorito. Egan Bernal pensa a casa, da qualche giorno ormai. «Mi fa male quello che sta accadendo in Colombia. Vorrei poter essere lì e sostenere la mia famiglia, il mio popolo». Non può, non c'è tempo.

Perché di questo si parla oggi, del tempo. La cronometro è l'esasperazione di questo concetto, come il ciclismo, perché in bicicletta le classifiche si fanno col tempo, sul tempo. Il punto è che nella quotidianità è tutto diverso. Giorgio ce lo ha detto: "In bicicletta puoi perdere, poi riparti ed è un'altra storia. Nella vita spesso non è possibile. In fondo, i campioni del ciclismo o dello sport ti fanno sentire quello che vorresti essere. Forte, deciso, convinto". Ed è vero, ma è anche vero che lui starà qui fino alle cinque e mezza per vedere tutti ed applaudire anche ciclisti che non conosce, anche gli ultimi, i gregari, coloro che magari domani si ritireranno. Perché essere forti non significa essere campioni, significa dare tutto ciò che si ha. E queste persone lo fanno tutti i giorni, in diversi modi: trascinando un vaso con le mani segnate dall'artrite, volendo partire e lavorare, andando a vedere qualcosa che non ti è mai piaciuto, perché sai che, se riesci a entusiasmarti, hai vinto, a prescindere da tutto.

Sono forti, incredibilmente forti. Perché spingere a tutta quando il traguardo nemmeno si vede è difficile. Ma è l'unico modo di essere ciclisti e, forse, anche di essere uomini.

Foto: Luigi Sestili


Il momento dell'attesa

Aldo, ieri mattina, si è alzato presto ed è andato a comprare il giornale. Glielo ha insegnato suo padre, quando era ragazzo, e lui non l'ha mai dimenticato, nemmeno oggi che è un signore di quasi novant'anni. «Il giornale dei giorni prima della partenza del Giro d'Italia si compra e poi si conserva per tre settimane perché lì ci sono tutte le informazioni per seguire la corsa» dice convinto, mentre guarda da lontano i corridori nel parco del Castello del Valentino. Poi continua: «Molti di questi nomi non so nemmeno pronunciarli, ma va bene lo stesso».

Dal cancello d'ingresso al palco saranno cinquanta metri. Tutti fanno attenzione al modo in cui gli atleti si mostrano sul palco, eppure, forse, è in quella passerella che si capisce qualcosa in più di ogni ragazzo. C'è chi, per timidezza o giovane età, non riesce a guardarsi intorno e abbassa lo sguardo, chi vorrebbe abbassarlo ma teme di sembrare diverso, debole, invecchiato- ciclisticamente si intende- e allora va avanti fiero, ma dentro chissà a cosa pensa. Sì, qualcuno ci ha detto che gli è capitato: arrivare ad una grande gara, attesa da mesi, e dirsi che sarebbe stato meglio stare a casa. Vai a capire la mente ed i suoi inganni.

Dylan Groenewegen, forse, ha fatto questo pensiero qualche volta, immaginando il proprio ritorno alle gare. Ieri no, ieri ha alzato la mano e ha salutato convinto quando è stato chiamato. Chissà, magari anche a lui il padre ha detto che certe cose si devono fare, per educazione. Quella mano l'ha riabbassata insieme allo sguardo quando lo speaker ha ripreso a parlare: «Ha sbagliato, ha pagato, sono felice che sia qui». Perché alcuni errori non te li perdoni nemmeno se paghi. Ci sono Simon Yates e Vincenzo Nibali che arrivano al palco vestiti di un orgoglio antico, come chi sa quanto vale e al diavolo tutto il resto. C'è Egan Bernal che non vuole scuse: «Le persone che pretendono risultati non devono essere fonte di pressione. Chi ti chiede tanto è perché sa che puoi farlo. Ringrazio queste persone. Spero di farle divertire».

Da lontano, Aldo ci indica un muretto e annuisce: saranno quattro, cinque bambini, accovacciati a guardare. Sta parlando Remco Evenepoel, che sabato tornerà in gruppo dopo circa nove mesi. Sta dicendo che soprattutto è felice e che l'importante per lui è ringraziare chi lo ha aspettato, la sua squadra.

Non riusciamo più a vedere Aldo, ma lo immaginiamo mentre fa sì con la testa, come quando ha visto quei bambini. Già, perché sa anche lui che nel tempo i giornali sono cambiati e oggi si trova tutto su internet senza conservare nulla, ma non gli interessa ed il giornale lo compra lo stesso, come parla di ciclismo pur pronunciando solo i nomi italiani. Perché sia il giornale che il ciclismo lo fanno sentire atteso, aspettato, lo fanno sentire come un tempo anche se quel tempo è passato e questo non gli piace poi molto. Per questo Aldo è tornato al Giro. E forse per questo ci ha raccontato quella storia che sembrava non interessare a nessuno ed invece interessa a tutti.

Foto: ©Luigi Sestili


Sicurezza in strada e in corsa: intervista a Matteo Trentin

«Sono decenni che le nostre strade non sono sicure e noi continuiamo a parlarne senza mai cambiare nulla. La tragedia di Silvia era evitabile, come tante altre. Non si può solo parlare, servono persone in grado di agire. Da noi mancano capacità e conoscenza». Matteo Trentin è desolato, innervosito, e quando si parla di sicurezza stradale non fa sconti a nessuno. «Non ho letto i provvedimenti del Pnrr, ma basta guardarmi in giro per vedere che le cose non vanno. Ora apprendo che si sono previsti 570 chilometri di piste ciclabili urbane e sono stati stanziati 600 milioni per la realizzazione di ciclovie turistiche e ciclabili urbane. Mi sembra ridicolo. In primis 570 chilometri sono un nulla, solo la città di Parigi ne ha di più. Inoltre: quanto si è parlato di transizione ecologica? Questo dovrebbe essere il primo punto su cui investire, se si vuole la transizione ecologica. Ci rendiamo conto che, anche se sostituiamo tutte le auto con macchine elettriche, non abbiamo risolto nulla? Capiamo che avremo sempre gli stessi incidenti e che se un'auto piomba su un ciclista o su un pedone i danni sono ingenti, elettrica oppure no? Forse ci sarà meno inquinamento, ma quella energia, in qualche modo, andrà pur prodotta».

Trentin legge molto sul tema e proprio l'altro giorno è stato colpito dalla riflessione di un urbanista. «Lui afferma che le persone, di fatto, usano ciò che gli si mette a disposizione. Ed è vero. Se continuiamo a costruire autostrade poi non possiamo meravigliarci che la gente giri in auto. Tutti sanno che la bicicletta è il mezzo del secolo: il più comodo che esista, ti muovi agevolmente, risparmi denaro, tempo e non hai nemmeno il problema del parcheggio, però tutti preferiscono prendere l'auto, anche per fare cinquecento metri. Perché la società spinge in quella direzione: la bicicletta non è considerata indispensabile, l'auto sì. Tutto il resto viene di conseguenza. In una strada così affollata di auto, in cui viene a mancare il principio base della civiltà, quello del rispetto per i più deboli, andare in bicicletta fa anche paura. Io andavo a scuola in bicicletta, oggi, se mio figlio me lo chiedesse, gli direi di no».

Tour de France 2019 - Foto: A.S.O./Pauline BALLET

Tanto più che, spiega Trentin, in Italia le possibilità per costruire ciclabili ci sono tutte. «Non si parla di paesini abbarbicati sui monti in cui questo sarebbe difficile. Qualcosa si è fatto: a Milano, per esempio, o a Ferrara che credo sia la città più ciclabile d'Italia. Ma serve ancora fare tanto. Nelle grandi città si sta iniziando ad accettare l'idea che le auto debbano restare fuori dai centri storici, nei piccoli paesi si fa più fatica. Sembra di vietare chissà cosa quando si parla di centro pedonale. E pensare che in quei centri, con altri mezzi, ci si muoverebbe meglio».

Ma la questione è più complessa e Matteo Trentin torna sul tema del rispetto. «Forse nemmeno una ciclabile avrebbe salvato Silvia, perché per allenarsi non l'avrebbe usata. Giustamente, non ci si può allenare sulle ciclabili. Il rispetto, però, l'avrebbe salvata di sicuro. Perché a scuola guida non si parla di rispetto per gli utenti deboli? Perché la legge non fa nulla per questo? In Italia ci battiamo da anni per il metro e mezzo di distanza per la nostra sicurezza. Petr Vakoč mi ha detto che, la stessa istanza, in Repubblica Ceca, è arrivata in parlamento in pochi mesi. Io ieri ho rischiato ben tre volte, di cui due per persone che passano apposta a pochi centimetri dalla bicicletta, quasi per spaventarti». Qui l'affondo: «Le colpe vanno certamente ripartite, perché anche chi va in bicicletta sbaglia, ma da noi si è giunti all'assurdo. Anche se c'è un errore dell'utente debole, non è possibile giustificare l'auto che gli piomba addosso. Non deve succedere, a prescindere».

Altra tematica discussa in questi giorni riguarda l'introduzione dell'obbligo del casco per i cicloamatori o i turisti. «Sarei favorevole, assolutamente. Credo, però, non sia questo il momento di parlarne. Iniziamo ad avere tante persone che si spostano in bicicletta e poi ci pensiamo. Il casco salva in incidenti fra biciclette, quando cadi da solo, ma se un'auto ti travolge le conseguenze sono gravi ugualmente. Lì il casco non cambia nulla».

Poi c'è la sicurezza in gara, i veri problemi e quelli trasformati in problemi da chi «dovrebbe conoscere il ciclismo, visto che lo governa ed invece, a quanto pare, non lo conosce per nulla». Trentin parla della faccenda borracce. «Le premesse e le promesse erano diverse. Poi non si sono ascoltati gli atleti e si è presa un'altra direzione. Un conto è parlare di passaggio della borraccia in sicurezza, altro conto è vietare un'usanza tipica del nostro sport da secoli. Tra l'altro con borracce biodegradabili e persone che non vedono l'ora di raccoglierle. Dicono che in alcune parti del mondo non vengano raccolte e restino a bordo strada. Bene, facciamo qualcosa di diverso in quei paesi. In Europa questo rischio non c'è».

Infine un plauso, perché le cose fatte bene vanno riconosciute. «Parlo di Flanders Classics e delle nuove transenne adottate per le classiche di primavera. Non sono un tecnico, non posso giudicare nei dettagli queste barriere. Apprezzo il fatto che qualcuno si sia informato e sia andato da un'azienda a richiedere un progetto, senza che ci fosse un obbligo di legge. Che lo abbia fatto per la sicurezza di tutti. Altrimenti poi succede come in Turchia. Io non sono mai caduto in mezzo alle transenne e spero di non finirci mai. Spesso, però, le nostre sono transenne vecchie di anni, non si sono mai cambiate per risparmiare ed oggi i costi sono elevatissimi. Se si fosse lavorato nel tempo, forse, non saremmo a questo punto. Certo, non tutte le organizzazioni possono permettersi di sostenere costi simili, ma se si comprassero assieme e si condividessero? Almeno per gare che non coincidono a livello temporale. Perché non pensarci?».

Foto: Vincent Kalut/PN/BettiniPhoto©2021


A Liegi vince la fantasia

A Place Saint-Lambert, alla partenza della Liegi-Bastogne-Liegi, qualcuno ricorda Antoine d'Ursel, l'uomo che "tentò di truffare la Liegi", nel 1892, non proseguendo per Bastogne, ma restando lì, nascosto, nell'attesa del suo rivale Leòn Houa. D'Ursel perse, venne scoperto e fuggì in America, in preda all'imbarazzo. A Liegi resta anche qualcosa di Georges Simenon e del commissario Maigret, qualcosa di quello studio in cui lo scrittore si chiudeva, con del cognàc e delle pipe. Potresti immaginarlo ovunque, guardando verso l'alto di un edificio, dietro una finestra. Non c'è posto per strane idee.

Da Liegi a Bastogne e ritorno, ma da un'altra strada. Quella infarcita di côte, denti a mordere i muscoli. C'è la fuga, c'è anche un italiano davanti, Lorenzo Rota, ma le strade imbastite di case con tetti di ardesia, a cupola, a torretta, a ricordare i Castelli della Loira, non hanno pietà. Lui, Huys e Marczyński saranno gli ultimi fra i sette fuggitivi a cedere alla caccia del gruppo. Vliegen si bloccherà d'improvviso qualche metro prima, massacrato dai crampi, come un rantolo sordo. L'inizio dei saliscendi è una campana a morto per chi è in coda al drappello di testa come al plotone: atleti che si staccano, indolenziti dall'acido lattico, come tendini che si strappano, mentre davanti si buttano le prime carte.

Luis Leòn Sànchez e Omar Fraile scattano sulla Côte de Wanne, placcati dal gruppo. Anche Philippe Gilbert si farà vedere in testa sullo Stockeu, colle che ricorda una stoccata, qualcosa di rapido ma doloroso. Lui che, nei giorni scorsi, è andato dal suo macellaio, a Remouchamps, accanto a La Redoute a comprare una bistecca. Emozionato perché non gli capitava da tanto di essere a casa nei giorni prima della Doyenne. Sono graffi, niente più. Rosier e Desnié sono solo fatica, pura fatica, nelle gambe, in attesa di una corsa che scalpita, un purosangue nervoso che cerca di scrollarsi di dosso un fantino inesperto.

L'azione della Deceuninck-Quick Step e successivamente quella della Ineos frantumano il plotone una prima volta su La Redoute, una seconda volta sulla Côte de Forges, la più innocua all'apparenza, ma, dopo duecentoquaranta chilometri, le apparenze somigliano a miraggi: ingannano sempre.

Il nome Redoute deriva dal linguaggio bellico, significa fortino di guerra, luogo in cui mimetizzarsi e nascondersi. Qui è ancora possibile fingere. Poco più in là ogni imbroglio è scoperto e pagato a prezzo d'oro. Richard Carapaz riuscirà ad andare via così, grazie alla tattica di squadra, a tutta, testa bassa e denti talmente digrignati che quasi ti chiedi come facciano a non saltare sotto tanta pressione. Chi sbaglia, paga. Vale per l'Astana che dopo tanti attacchi resta a bocca asciutta quando l'attacco è quello giusto. Vale anche per lo stesso Carapaz che forse esagera nello scatto e quando partono Valverde, Alaphilippe, Woods, Pogačar e Gaudu non può che restare a guardarli, da lontano.

Siamo sulla Roche-aux-Faucons, salita che nel nome ricorda i falchi, per assonanza, loro che ghermiscono e portano via. Roglič è dietro, Schachmann anche, Kwiatkowski pure.

Ora la strada verso Liegi scorre veloce, prima perché in discesa, poi perché i cinque in testa spingono i pedali a gran velocità, sembrano non sentire la fatica, mentre provano a seminare il gruppo. Nel frattempo le squadre degli attaccanti rompono i cambi e favoriscono la fuga.

L'ingresso nell'ultimo chilometro è attesa, battito e respiro trattenuto. Gaudu si sposta a bordo strada, Alaphilippe si volta a destra e a sinistra, favorito in volata, Valverde è in testa, quarantuno anni oggi e ad un passo dalla quinta Liegi, come Merckx, alla sua ruota Woods, Pogačar pizzica la radiolina e si mette in ultima posizione. Valverde parte lungo, Alaphilippe sembra rimontarlo, è pronto al colpo di reni finale, Pogačar è un equilibrista che dal lato delle transenne si butta all'interno e lo supera sul traguardo. Al secondo posto il campione del mondo che ancora una volta viene beffato da uno sloveno, terzo Gaudu.

Vincono l'imprevedibilità e la fantasia di un ragazzo di ventidue anni che l'anno scorso ha vinto il Tour de France e che ancora riesce solo a immaginare dove può arrivare. Perché Simenon ed il suo Maigret lo sanno bene: a Liegi non si può barare, ma è concesso, anzi doveroso, inventare.

Foto: Peter De Voecht/BettiniPhoto©2021