L'orto di Tadej
Chissà come avranno vissuto l'arrivo della tappa del Mûr de Bretagne a Komenda, il piccolo quartiere della cittadina di Klanec, in Slovenia, dove è cresciuto Tadej Pogačar. Ieri, il suo secondo posto ed il terzo di Roglic sono stati dei segnali molto chiari: i due sloveni vogliono contendersi anche le briciole di questo Tour de France.
Ora sono uno davanti all'altro in classifica, un solo secondo a dividerli: Pogačar a tredici secondi, Roglič a quattordici.
Noi vi riportiamo a Komenda perché lì è cresciuto Tadej e ogni anno, a maggio, se non è in corsa, vi ritorna per trascorrere del tempo con la famiglia. Sua madre, Marjeta, ha un orto fuori da casa. Forse nelle fasi iniziali della tappa sarà stata lì e qualcuno l'avrà chiamata all'avvicinarsi del Mûr. Lì coltiva verdure sin da quando Pogačar era bambino.
Per questo Tadej conosce perfettamente ogni ortaggio e ogni legume. La sua è stata un'infanzia come quella di molti altri ragazzi cresciuti in paesi rurali, un'infanzia che è ancora vicina sebbene siano cambiate tante cose e Pogačar sia per tutti il vincitore del Tour de France, perché il talento sloveno ha solo ventidue anni e quei momenti se li ricorda bene.
Accanto a lui il fratello, Tilen, di tre anni maggiore: "Vedete? Là in fondo c'è la fattoria di mio zio" racconta Tadej a L'Equipe. "Da bambini, io e Tilen andavamo tutti giorni laggiù a prendere il latte e lo mettevamo in un barattolo di ferro per portarlo a casa. Sapete quante volte ci è capitato di rovesciarlo?". Un villaggio e una famiglia poveri. I due fratelli per molti anni hanno un solo monociclo e lo condividono, per andare a scuola, dai familiari o dagli amici, perfino in chiesa. "Un giorno ci è stato rubato e non siamo più riusciti a ritrovarlo".
Qualche segnale di ciò che sarebbe stato, tuttavia, c'era e Pogačar ci scherza su: "Non è che avessi molte altre possibilità, sono cresciuto circondato dal giallo. Questa casa ha sia i muri esterni che quelli interni dipinti di giallo". In camera sua, poi, un disegno fatto a matita fuoriesce leggermente da un armadio ricolmo di trofei: si tratta di un ciclista che sta per iniziare a scalare una montagna.
La mente di Pogačar, in realtà, non è lì, ma già proiettata in avanti. Spiega che soffre solo a pensare a quando, un domani, non potrà più andare in bicicletta. Di più. Racconta proprio di non riuscire a immaginarsi quel giorno. Probabilmente perché, quando vieni dal niente, quel ricordo ti resta sempre dentro e sai meglio di chiunque altro che le cose possono, o forse devono, finire. Così ci pensi e provi paura anche se sei in Francia a giocarti il tuo secondo Tour de France a soli ventidue anni.
Foto: Bettini
Estate bretone
L'estate bretone porta con sé un velo di malinconia sulle strade di Perros-Guirec, che sembra il nome di uno champagne o di una marca di orologi francesi invece è una città della Costa di Granito Rosa. Di prima mattina, la pioggia cade su un asfalto già scivoloso, si rabbuia il cielo e le ferite fanno più male. Anche quelle cicatrizzate. Ci avrà pensato Chris Froome che ieri si è aggrappato alle braccia di un massaggiatore per rimettersi in piedi: lui sa che le cadute possono capitare, con questa pioggia a fitte ancor di più. Non devi pensarci, altrimenti in sella non torni. E invece devi tornarci il prima possibile perché la paura si infiltra nelle ossa come l'umidità nei fari all'orizzonte e poi è troppo tardi.
Ognuno di quei fari ha una storia, forse pura leggenda, ma qui tutti le raccontano quelle storie, così sembrano vere. Anche la storia di Mathieu van der Poel e di Raymond Poulidor è raccontata da tutti in questi giorni. Forse anche troppo e forse, come per i fari, nessuno sa cosa si dissero tanti anni fa. Nessuno tranne Mathieu che ieri all'arrivo era sofferente. Non per il dolore ai muscoli o per l’amarezza della sconfitta. Per le promesse che si fanno e non si riescono a mantenere. Tante ne chiedono i nonni ai nipoti: van der Poel aveva promesso che avrebbe conquistato quella maglia gialla che a Poulidor era sempre sfuggita. Ci pensava, probabilmente da stanotte, perché quando prometti a chi non c'è più non puoi scusarti per la promessa, non puoi spiegare, devi solo accettare e guardare avanti.
La sua mente è sempre stata lì. Sin da quando è partita la fuga con un destino già segnato, perché al Mûr de Bretagne si attendono i grandi. Ci pensava mentre in gruppo si limava per prendere le posizioni di testa ed oggi sembrava davvero ci fosse una lima od una lama a sfiorare i corridori perché il gruppo si rimescolava come un puzzle e sulle scarpe degli atleti qualche striata ci sarà di certo. Una prova del rischio che ci si prende tutti i giorni, qualcosa che non si può spiegare razionalmente, perché è istinto puro, mestiere come quello dei falegnami o dei panettieri e delle loro botteghe che si aprono quando solo il mare sibila sulle coste.
Un primo scatto e la testa a guardare indietro, a sperare che il gruppo non fosse più lì, che non dovesse avere paura di Alaphilippe o di Pogačar. Una prova generale e poi, forse, lo sconforto, misto a rabbia, perché le cose ancora una volta rischiavano di non andare come avrebbe voluto. Una rabbia cieca, lucida, col groppo in gola per scalare un muro ed i muri sono verticalità senza dubbi, l'opposto di una bicicletta, di una ruota che gira.
Mathieu van der Poel che segue Sonny Colbrelli sull'ultima ascesa al Mûr de Bretagne non è solo un ciclista in cerca di gloria. Ha qualcosa in più, lo si vede da come spinge sui pedali. Siamo convinti che non ricorderà quasi nulla di quegli ultimi metri, che non avrà sentito quasi nessuna delle voci di coloro che gridavano il suo nome. Sì, perché le promesse fatte a chi non c'è più sono particolari anche quando vengono mantenute. Ti riportano alla mente il passato e, per qualche attimo, vorresti tornare nel passato, per tranquillizzare nonno, per chiedere scusa per ieri e per essere certo di aver fatto bene. Vorresti sentire solo quella voce. Per questo Mathieu van der Poel ha detto solo: "Ho pensato a nonno" e poi è scoppiato a piangere. Perché le mancanze opprimono il petto anche a promesse mantenute. Sì, quando sei felice, ma ti manca l’unica persona con cui vorresti esserlo.
Foto: bettini
L'idea di Schelling
Quando, a ottanta chilometri da Landerneau, col gruppo a poco più di due minuti, Ide Schelling, BORA-Hansgrohe, ha staccato i suoi compagni di fuga, in molti gli avranno dato del folle. Se già c'erano poche possibilità di arrivare al traguardo in sei, figuriamoci da soli. Infatti Schelling al traguardo non è arrivato, non davanti almeno, ma di lui bisogna parlare per un altro motivo.
Sbarbato, soli ventitré anni, ma ne dimostra anche meno, il ragazzo de L'Aia ha un cognome da filosofo, l'eco di Friedrich Schelling si fa sentire, e una parlata veloce. Dice di essere il classico ragazzo della porta accanto, uno di quelli a cui piace ridere e scherzare e non prendersi troppo sul serio. In bicicletta lo dimostra facendo una volata solitaria al traguardo volante di Brasparts solo per vedere il pubblico esaltarsi e battere le mani contro le transenne. Forse ha pensato che al traguardo finale non sarebbe mai arrivato, così ha voluto sentire la sensazione che si prova quando tutti sono lì per te. Oppure, semplicemente, gli è passato quello per la testa e lo ha fatto, come i ragazzi semplici, un poco “matti”.
Quando gli chiedono cosa vorrebbe in bicicletta risponde la cosa più scontata, banale, ma forse anche la più vera, perché, alla fine, senza ipocrisie, tutti corrono per vincere e lui lo dice senza tentennare: «Vorrei provare a vincere una corsa. Credo sia una sensazione unica che non si può spiegare». Ma non si ferma lì. «Mi piace andare in bicicletta perché mi piace soffrire. So di essere sulla buona strada, sto lavorando molto per crescere e per essere una versione migliore di me stesso. Sto lavorando per essere più preciso, più attento e ci riuscirò».
Ed è questo che ci piace raccontare di Schelling: un ragazzo che lavora sodo per essere la versione migliore di se stesso, che non parla di campioni a cui assomigliare o di idoli, ma dei piccoli passi che lo porteranno a essere più attento o più preciso. Che va ad allenarsi sulle pietre o sul pavé anche se «sono la cosa più simile al dolore». Che in fuga si sente a casa propria e che, fra dieci anni, non vorrebbe altro che essere dov'è adesso perché è felice.
Soprattutto Schelling ci piace perché ha fatto qualcosa di apparentemente senza senso che in realtà il senso l'aveva eccome. Perché, se pesassimo sempre tutta la vita sulla bilancia della razionalità, avremmo una mera serie di calcoli matematici, così invece possiamo crederci, sognare e illuderci perché anche l'illusione serve, ogni tanto. Non solo. Ci piace perché la storia di Schelling è la storia di chi ha tenuto fede a quello che era il suo dovere fin dal mattino presto: andare in fuga. E lo ha fatto senza esitare, anche quando sembrava un pazzo. Appassionatamente, dignitosamente, senza prendersi troppo sul serio, ma prendendo con estrema serietà ogni metro di strada.
Foto: Ralph Scherzer
Vive Le Tour
In Francia è semplicemente “Le Tour”. La Grande Boucle, il grande ricciolo che si snoda tra le strade francesi immerse nella canicola di luglio, fino a Parigi. Un vezzo da masochisti, in fondo, perché Henri Desgrange, colui che ideò il Tour de France anche per promuovere il giornale L'Auto da lui fondato, voleva una gara talmente dura da portare un solo corridore sugli Champs-Élisées. Un rincorrersi di richiami e sfumature che Gianni Mura definì simile a una chanson de Geste. Qualcosa che si incontra tra i campi di lavanda e i campi di girasole della Provenza. È il Tour de France numero 108, quello che partirà sabato da Brest. Qualcosa che assomiglia alla poesia, a Verlaine, Rilke e Apollinaire, ma anche a Brassens o Piaf, perché, come in Provenza, non sei tu che ci entri al tal chilometro dell'autostrada, ma è lui che ti viene incontro seminando segnali. Anche questo diceva Gianni Mura.
Per esempio la carovana voluta da Robert Desmarets, braccio destro di Desgrange. Fu proprio lui a notare le automobili della Chocolats Menier che, a fine anni '20 del novecento, distribuivano tavolette di cioccolato lungo il percorso. Così si aggiunsero da subito i Biscotti Delft, la Fromagerie Bel, gli orologi Noveltex e ancora salumi e marche di abbigliamento. Ad oggi sono ben 150 i veicoli, a volte avveniristici, della carovana, circa trenta minuti di spettacolo tra musica e costume, dieci chilometri di corteo e più di 450 persone a distribuire souvenir al pubblico. Anche il pubblico ha una filosofia legata alla carovana: a bordo strada, davanti restano i bambini e gli anziani, gli adulti aspettano in seconda fila.
Ma anche i piccoli villaggi addobbati a festa sino a settimane prima a richiamare il giallo, il bianco, il rosso ed il verde, i colori delle maglie. Le scenografie nei campi di grano, disegnate da uomini o da trattori, visibili dall'aereo delle riprese televisive. Scenografie provate giorni e giorni prima, per non perdere l'attimo, per mantenere la sincronia. E poi i tavolini e le sedie di vimini appostati accanto alla strada, con tovaglie a quadri, acqua gelata, una caraffa di vino e magari birra. I camper appostati sulle salite sin dalla notte prima e le tende con il fornellino per il caffè appena fuori. Già la nenia delle salite del Tour, le Alpi e i Pirenei: Galibier, Aspin, Tourmalet, Alpe d'Huez, Mont Ventoux, Col de la Colombière e chi più ne ha più ne metta.
Il Tour è anche un linguaggio, una lingua di parole di gara evocative: peloton, il gruppo, flamme rouge, il triangolo rosso dell'ultimo chilometro, baroudeur, il dinamitardo che fa esplodere la corsa, bidon, la borraccia, ardoisier, l'uomo che a bordo di una moto segnala i distacchi su una lavagna, soigneur, il massaggiatore, crevaison, la foratura, sommet, la cima. Parole che conoscono e pronunciano correttamente anche i non francesi perché sono un fatto di costume più che di grammatica. Come le squadre storiche che al Tour hanno corso: Banesto, Kelme, T-Mobile, Festina, Mercatone Uno, Molteni e così via.
Tutto nella memoria del Tour, le rivalità, e le tragedie, i sogni costruiti e quelli infranti, i grandi vincenti, Eddy Merckx ad esempio, e gli eterni secondi, Raymond Poulidor che nemmeno sul letto di morte ebbe ragione di Anquetil che quel giorno gli disse: «Caro Raymond, anche questa volta arrivi secondo».
Qualcosa che sa di amaro come la sofferenza che si dura a pedalare il Tour e le sue strade ingrate. Così le avrebbe raccontate Ocaña a terra, sul Col de Menté, in discesa, sotto la pioggia, centrato in pieno da Zoetemelk. Oppure quelle gloriose di Parigi, infarcite della grandeur francese e della vanità per avere la corsa più importante del mondo, invecchiata come un buon vino, rigorosamente francese, un Laurent Perrier o uno Château Latour.
Così ritorna il Tour e tutti lo stanno già aspettando.
ASO / Thomas MAHEUX
Aspettando il futuro: intervista a Francesca Barale
Francesca Barale, Vo2 Team Pink, venerdì, prima di partire per la cronometro che l'avrebbe consacrata campionessa italiana, non ha pensato a tutto lo sforzo che l'attendeva. In realtà non ci si pensa quasi mai: «La fatica è talmente tanta che, se riflettessi su quello che ti aspetta, non partiresti nemmeno. Nessuno specialista ci pensa».
Quello a cui invece si pensa è ciò che potrebbe accadere se riuscissi a dare tutto in quello sforzo. «Sei da sola, non hai punti di riferimento. Le radioline ultimamente aiutano a sconfiggere quel senso di solitudine, la voce del direttore sportivo ti aiuta a non naufragare con i pensieri ed è da lì che poi viene il crollo. Se inizi a dirti che le gambe non girano come vorresti è la fine. Io mi ripetevo: "Dai, resisti. Quella maglia ti aspetta". Così è successo, proprio quando non me lo aspettavo perché le cronometro precedenti non erano andate come avrei voluto, forse per questo ero tranquilla. In corsa sono abbastanza cinica e, quel giorno, non avevo nulla da perdere».
Barale è nata e cresciuta in Val d'Ossola e, fino a due anni fa, ha corso in squadre originarie della Valle, senza mai spostarsi. La sua salita preferita è quella di Trontano, dove va spesso ad allenarsi e dove, l'anno scorso, ha vinto la cronoscalata organizzata dal padre. «Per chi va in bicicletta la nostra zona è stupenda. Dalla montagna, alla collina, al lago. C'è tutto. A me spiace solo che manchino le gare. C'è qualcosa per il settore giovanile, ma per il femminile siamo ancora indietro. Serve gente appassionata che abbia idee e volontà e, soprattutto, serve la volontà di investire. La mamma dii Elisa Longo Borghini, ad esempio, aveva proposto una gara ad Ornavasso».
Lo stesso discorso, ribadisce Barale, vale per il ciclismo femminile. «Certamente nel ciclismo maschile ci sono più possibilità economiche e chi investe ragiona in questi termini. Voglio fare una considerazione: la gente, spesso, non ci conosce e quando parla di ciclismo crede che il ciclismo sia uno sport esclusivamente maschile, come se noi non facessimo la stessa fatica o gli stessi sacrifici. Penso che chi vuole bene al ciclismo abbia il dovere di raccontare sempre più spesso anche le nostre corse perché solo attraverso la conoscenza possiamo crescere. In questo senso, la diretta televisiva della prova femminile a cronometro, come avvenuto in altri paesi, avrebbe fatto bene».
Quando parla di Elisa Longo Borghini e di Filippo Ganna, Francesca Barale fa leva sull'orgoglio: «Devo dire che la nostra terra sta sfornando parecchi talenti ultimamente. Con Elisa abbiamo in comune caratteristiche simili, ma ci siamo conosciute dopo. Filippo Ganna invece lo conosco sin da quando era ragazzino perché le nostre famiglie hanno buoni rapporti. Mi fa quasi strano vederlo acclamato da tutti, famoso. Se lo merita, sia chiaro, ma per me resterà sempre il ragazzo semplice e l'amico di famiglia».
Nonostante la giovane età, appena diciotto anni, Barale spazia con agilità e arguzia su qualunque argomento. Un appunto interessante, per esempio, lo muove parlando di alimentazione. «Non sono seguita da un nutrizionista perché credo che nella mia categoria non sia necessario e perché personalmente ho una costituzione abbastanza magra che mi permette di gestirmi bene anche da sola. Però bisogna essere chiari: non è sempre vero che l'essere magri consente di andare più forte. Soprattutto non è vero che l'essere troppo magri fa ottenere risultati migliori. Si tratta di un pensiero che, a lungo andare, è pericoloso. Nel ciclismo spesso sono gli staff che fanno leva su questa idea. La nostra società ha propagandato per troppo tempo l'idea di bellezza associata ad una magrezza eccessiva. Facciamo attenzione».
L'anno prossimo Francesca Barale sarà chiamata al salto fra le élite: Il pensiero la spaventa e allo stesso tempo la stuzzica. «Non è mai facile. All'inizio sono schiaffi e frustrazione e il fatto di non avere una categoria intermedia tra junior e élite, purtroppo, peggiora solo la situazione. Tuttavia è proprio attraverso le delusioni che si cresce e si migliora. Servirà tempo e voglia di resistere. Il sogno sarebbe il mondiale e, perché no, un domani la vittoria del Giro d'Italia. Sono una passista scalatrice e credo di averlo nelle mie corde. Tempo al tempo».
La possibilità di Colbrelli
Il mercato della domenica, a Bellaria, si staglia sotto un cielo che soffoca ogni filo d'aria, senza alcuna pietà. Alla bancarella della frutta, accanto ai cesti delle albicocche e delle pesche, qualche signora inizia a sventolare un ventaglio fiorato, cercando refrigerio mentre sceglie la frutta. Piazza Matteotti è solo qualche metro più in là: qualche tempo fa, forse, avresti visto i corridori prendere al volo qualcosa dalle bancarelle, appendere il sacchetto al manubrio e pedalare verso l'albergo, come un qualunque turista a passeggio. La pandemia non lo permette più, ma chi vive il ciclismo è sempre vissuto di queste situazioni e le immagina appena può.
Del resto, a mollo in quell'aria pesante ci sono proprio tutti. C'è chi ne ha vissute talmente tante da non sorprendersi più per nulla e chi, invece, vive con meraviglia già il fatto di essere qui. Il Campionato Italiano è anche questo: lo vedi dal modo in cui i ciclisti più giovani fissano l'arrivo di Vincenzo Nibali, di Domenico Pozzovivo o di Giulio Ciccone al palco firme. Per alcuni quella che parte subito dopo il via è la solita fuga, il copione consolidato di quasi ogni corsa, per loro quella è la fuga, la possibilità. Per loro è tutto nuovo, per altri è tutto già visto. Eppure, a conti fatti, sono tutti qui per lo stesso motivo, anche chi non lo ammette, e tutti hanno almeno una possibilità. Non c'è storia che tenga.
Bergullo, Mazzolano, Riolo Terme e Gallisterna sono lì, impassibili. Non impossibili, certo. Sono qualcosa che avvolge e stringe. Sempre più forte. Ad ogni tornata, mentre il sudore scivola copioso e quasi sembra sciogliere la pelle. Una lenta tortura fino a che la fuga non esplode e si fraziona. Zoccarato, Maestri, Affini, Konychev e Tarozzi, fra gli ultimi a cedere, sentono il fiato del gruppo, mentre l'acido lattico graffia i muscoli. Maledicono Davide Formolo che scattando sveglia il gruppo e si porta dietro Nibali, Cattaneo, Masnada, Colbrelli, Oss, Carboni e Pozzovivo. Quelli che in gergo ciclistico vengono definiti cagnacci, perché temibili, perché non prevedibili e niente spiazza più di ciò che non si sa controllare. Se Zoccarato reagisce, se riesce a tenere il ritmo, è perché ripesca quella possibilità, quella che hanno tutti ogni volta in cui attaccano un numero alla schiena. Si incolla alla ruota di Sonny Colbrelli e Fausto Masnada e per diversi chilometri riesce a non perderla, poi si stacca ma continua a spingere a tutta. Si tratta della sua possibilità, può anche essere improbabile ma buttarla via significa non rispettare la fatica, non rispettarsi. Arriverà terzo, ma non conta. Quel podio racconta più di ciò che mostra.
La consapevolezza di Fortunato
Stamani, Lorenzo Fortunato, Eolo-Kometa, è tranquillo, anzi «molto tranquillo», come dice lui. Ne è convinto. «L'importante è aver fatto tutto ciò che si poteva fare prima di presentarsi alla partenza. Se capita la giornata no, la accetto. Quello che non riuscirei mai ad accettare sarebbe la possibilità che le cose siano andate male per una mia manchevolezza». Fortunato, nato e cresciuto a San Lazzaro di Savena, dietro le colline bolognesi, ha un senso del dovere particolarmente spiccato. La campagna attorno alla casa dei suoi nonni, sin da ragazzino, gli ha fatto da maestra. «Ho sempre visto cosa significasse portare a casa la pagnotta per se stessi e per i propri familiari. La fatica che hanno fatto i nonni o mio padre, che ha iniziato a lavorare al termine delle scuole medie come meccanico, poi come falegname ed oggi è direttore di banca». Così al concetto di fatica Lorenzo è abituato, come a quello di dolore, almeno in sella. «Alla fatica del nostro mestiere ti puoi abituare, come alla sofferenza fisica. Il vero dolore, la vera fatica è quella insita nelle faccende della vita di tutti i giorni. Quello ti coglie alla sprovvista e devi essere bravo per non cedere».
Le strade del Campionato Italiano, in realtà, sono distanti da casa, ma Fortunato ricorda bene quando, da ragazzino, andava a Imola, con una tuta rossa, a vedere la Ferrari girare in autodromo. Tifava per Schumacher, se pensa a Imola, però, gli viene in mente Ayrton Senna. «Ho pochi ricordi, molto nitidi. L'incidente e Senna che viene trasportato d'urgenza a Bologna». Preferisce non ripensarci e torna a parlare della giornata che lo aspetta: «Sarà caldissimo, credo intorno ai quaranta gradi. Amo il freddo e la pioggia, ma le lamentele non fanno per me. Avrò la possibilità di correre per vincere, c'è altro da dire?». La determinazione è la chiave di lettura di questo ragazzo che mentre scalava lo Zoncolan, al Giro, non ha voluto pensare alla possibilità di vincere per timore di rilassarsi. «Il punto è restare concentrati su ciò che stai facendo in questo momento, isolando tutto ciò che seguirà. L'uomo, invece, vorrebbe gestire tutto assieme e i danni più grossi vengono proprio da lì. A questo Campionato Italiano ho iniziato a pensare solo al ritorno dall'Adriatica Ionica Race. Prima non avrebbe avuto senso, non sarebbe servito ad altro che a preoccuparmi».
Dalle vittorie Fortunato ha imparato ciò che può fare. «È necessario essere consapevole di ciò che sei e di ciò che sai fare, con sincerità, prima di tutto nei propri confronti, altrimenti continuerai a sbagliare, qualunque strada tu prenda». Sa bene che il rischio, quando si ottengono risultati importanti sin da giovane, è quello di montarsi la testa, lui, però, spiega di non correre questo pericolo. «Sono rimasto e rimarrò comunque il ragazzo di sempre. Nei primi anni, quando non ottenevo i risultati che avrei voluto, sapevo che tutto questo avrebbe potuto finire, che avrei dovuto cercarmi un lavoro diverso. Lo sapevo allora e lo so ora. Senza impegno quotidiano, svanisce tutto in poco tempo. Piedi per terra e lavorare sodo». Tanto più che la tranquillità serve soprattutto quando le cose non vanno bene. «I complimenti si fanno sempre a chi vince. Quando vinci, però, è tutto facile. Bisognerebbe immedesimarsi in chi non ce la fa, in chi si stacca, in chi non trova la giornata giusta da troppo tempo».
Oggi vuole far bene per se stesso e per tutte le persone che crede potrebbero esserne felici. Dice che è bello quando la tua felicità è, al contempo, la felicità di qualcun altro, però, avverte: «Credo sia giusto cercare di far felici le persone che ci stanno accanto, penso che far felici tutti sia impossibile ma anche sbagliato. Chi vuole rendere felici tutti, alla fine, non fa felice nessuno, a cominciare da se stesso». Certo, perché, col tempo, Fortunato ha capito che la propria serenità è la cosa più importante. «Mi spaventa l'idea che un domani possa deludere i miei genitori, per farti un esempio. E, se succedesse, ne sarei davvero dispiaciuto. Credo non accadrà, per diversi motivi. Soprattutto, però, penso che se le scelte che avrò fatto saranno state le migliori per me, saranno loro stessi a comprenderle ed accettarle. Pur magari non condividendole. Chi ti vuole bene, fa così. Non ti costringe a non scegliere e non ti addossa colpe, se la scelta che fai non gli piace».
Foto: Luigi Sestili
Il tempo del tricolore
Un signore, seduto su una panchina accanto alla stazione di Faenza, canta ad alta voce “A mano a mano” di Rino Gaetano. La cappa di umidità avvolge la città già di primo mattino e lascia alcuni passanti in canottiera. Se non fosse per pochi dettagli, Faenza, questo venerdì, potrebbe davvero essere un nuovo assaggio degli anni settanta, forse ottanta. Ci sono anche i bar che tornano a riempirsi, qualche sigaretta accesa nel portacenere e una partita a carte in sospeso sotto un portico. Il tempo non sembra essere mai passato, invece ci sono circa quarant'anni a dividere ciò che sembra da ciò che è. La causa è il ciclismo che col tempo sembra giocare a rimpiattino per poi salvare nei ricordi poche cose, quasi sospese fuori dal tempo, pur in una giornata, la cronometro, in cui il tempo è tutto. In ogni minuto, in ogni secondo.
Le parole di Matteo Sobrero, nuovo campione italiano a cronometro, ad esempio, vanno oltre il tempo. Ieri mattina Matteo ha scherzato con Filippo Ganna, gli ha detto: «noi tutti corriamo per il secondo posto con te in gara, ma va bene così». Ieri sera, dopo aver vinto, ha ribadito il concetto. «Filippo è davvero un campione del mondo contro il tempo. Non so se mi spiego». Certo che Matteo si spiega, perché un conto è la maglia che indossi, un altro quello che gli altri ti riconoscono. Per lui Ganna è campione del mondo a prescindere da quella maglia e dal quarto posto della cronometro. «Forse ho vinto io anche perché Filippo sta preparando altri traguardi» aggiunge alla fine, proprio mentre scherza. «Domenica vado al mare, inizio a essere anche stanco». Ed è bello così, perché questo ragazzo di soli ventiquattro anni sembra quasi di altri tempi.
È senza tempo il gesto di Sofia Bertizzolo che, appena arrivata al traguardo, va in mezzo al pubblico e cerca con lo sguardo Soraya Paladin dall'altra parte della strada, sotto il tendone delle premiazioni. Sa che la compagna è giunta seconda e il primo pensiero è quello di farle sentire la sua presenza. Sofia esulta, alza le mani tra folla. Si ferma a parlare con un'anziana signora che vuole filmarla qualche secondo con il telefono. Sembra dirle «è come se avessi vinto io, se la meritava». Così la signora sorride, abbassa il telefono, quasi compiaciuta, e finge di batterle il cinque.
Sofia, qualche tempo fa, mi ha confessato che forse il ciclismo è raccontato con troppa enfasi, forse anche con troppa poesia: in fondo, dice lei, per chi lo pratica è un lavoro, con gli onori e gli oneri di tutti i lavori. Non le piace romanzare, ama la concretezza dei gesti. Così le cose le fa, non le dice.
Fuori dal tempo, poi, c'è Elisa Longo Borghini, campionessa italiana èlite a cronometro, che ha percorso gli ultimi chilometri senza contatto radio, non avendo più la percezione esatta del vantaggio sulle rivali. Fidandosi delle sensazioni e di ciò che aveva visto e sentito quando aveva provato il tracciato. C'è Elisa che l'altra sera ha ricevuto un messaggio che le ricordava come, in fondo, la cronometro sarebbe stata una formalità e ha subito pensato che non era d'accordo, perché lei lo scontato proprio non lo conosce, per rispetto delle avversarie e «perché in strada può succedere di tutto».
In un tempo sospeso, che resta nonostante tutto, è Francesca Barale che ieri ha corso più veloce perché non stava pensando a ciò che gli altri si aspettavano da lei. Perché nelle ultime prove non si era sentita all'altezza e questo le aveva restituito la possibilità di provare senza troppe aspettative.
Resta nel tempo anche quella bambina che non ha voluto essere presa in braccio dal padre e, per vedere la gara, si è messa in punta di piedi vicino alle transenne, a costo di stancarsi il doppio. Perché al tempo sopravvivono poche cose. Di certo, però, resistono quelle fatte sinceramente e quelle costruite con le proprie forze.
Foto: BettiniPhoto
Quel giorno ad Albi
È la tipica estate francese quella che si abbatte sul Tour de France il 17 luglio 1999. L'asfalto si squaglia sulle strade tra Saint-Flour e Albi e in lontananza, nei tratti in pianura, sembra dissolversi in pozze d'acqua.
È un miraggio: lo chiamano fata Morgana dal nome della fata che nella mitologia celtica procurava ai marinai visioni di meravigliosi castelli in aria o in terra per ingannarli e accompagnarli verso una morte certa. In realtà per i corridori la pianura stessa è quasi una fantasia in una frazione che prevede “sette salite secche”, per dirla alla Gianni Mura. Proprio l'allievo di Brera diceva che certe azioni si sentono, si prevedono sin dal ritrovo di partenza.
Quel sabato di metà Tour, fra i tifosi con cappellini bianchi e a pois, si annusa odore di fuga. Salvatore Commesso quella mattina si lamenta: «Vorrei attaccare, ma la fuga giusta parte sempre quando sono dietro a prendere l'acqua». Non particolarmente benaugurante in una giornata in cui, a quaranta gradi, i rifornimenti d'acqua dovranno essere molto frequenti, se non si vuole far la fine del catrame arso sulle strade.
Eppure Commesso, Totò per coloro che lo conoscono meglio, la fuga la centra. La maglia è targata Saeco, un tricolore conquistato pochi giorni prima. In realtà, all'inizio, più che l'entusiasmo prevale lo sbigottimento: «A dire la verità mi sono dato del deficiente. Mi aspettavano 230 chilometri allo scoperto, bel giorno per prendere la fuga giusta». Come dargli torto? In realtà questo pensiero sarà balenato nella testa di tutti i sedici corridori che sono andati all'attacco dopo soli otto chilometri. Konyšev, per esempio, lo ascolta e molla la presa. Qualche ora dopo si mangerà le mani. Il giorno dopo, forse spinto da quel rimorso, vincerà a Saint Gaudens.
In una giornata così nervosa, però, non basta essere in fuga: gli attaccanti si scherniscono a colpi di allunghi e finte che o li portano davanti o li cacciano indietro fino a venire nuovamente inghiottiti dal plotone che fa del menefreghismo la propria religione. Della serie: «Giocatevela voi che noi abbiamo altro a cui pensare». Soprattutto perché si avvicina una terza settimana da incubo. La rottura, davanti, avverrà a quaranta chilometri dall'arrivo, mentre si sale a Besse, quando Garcia Acosta, forzando l'andatura, si porta dietro Totò Commesso e Marco Serpellini. Sarà il canto del cigno per lo spagnolo che ben presto rimbalzerà, senza forze.
Entrambi sanno che, se si arriva in due, vince Commesso e così accade. Serpellini prova a staccarlo una prima volta, senza riuscirci, ai meno tre dal traguardo, l'ultimo scatto, ai mille metri, è telefonato, inutile. Così in una Albi addormentata dall'afa alza le braccia un giovane ventiquattrenne di Torre del Greco, in maglia di campione italiano. Secondo Serpellini, terzo Piccoli, quarto Lanfranchi. Sesta vittoria italiana. Uno schiaffo ai cugini francesi che, in quel Tour, non indovineranno mai una tappa.
Nella città di Commesso si cercano coralli e la cultura ciclistica è abbastanza povera. Salvatore inizierà a correre grazie a una società ciclistica fondata dal padre Aniello e dagli zii, la Macellerie fratelli Commesso. Anni dopo confesserà di aver fatto sempre di testa sua quando correva e di aver ascoltato poco i propri direttori sportivi. Uno sbaglio, ammetterà. Quel giorno dirà solamente di essere dispiaciuto per Serpellini perché «avrebbe meritato anche lui la vittoria, ma nel ciclismo vince uno solo». Gianni Mura scriverà della superstizione di Totò Commesso che, se vede un gatto nero attraversargli la strada in allenamento, frena e cambia strada.
Lui, in conferenza stampa, nasconderà l'indole di campano vivace dietro la timidezza del successo: «Dai, non posso saltare sui tavoli e festeggiare come piace a me qui, con questa maglia addosso. Ma non preoccupatevi, in privato mi scateno».
Di ferite e leggerezza
Quasi nessuno riuscirebbe ad immaginare quanta passata pesantezza si celi dietro il sorriso di Rigoberto Urán, vincitore della penultima tappa del Tour de Suisse. Quanta angoscia in quel pomeriggio di inizio degli anni duemila, mentre quel ragazzino, in Colombia, cercava disperatamente il padre fra le strade di casa, non riuscendo a trovarlo. «Tuo padre è stato ucciso», ad un certo punto, qualcuno gli avrà detto così, o qualcosa di simile. Chi può uccidere un padre di famiglia che, per mantenere i propri figli, vende biglietti della lotteria? Non c'è risposta certa, ma, anche se ci fosse, non basterebbe comunque ad un ragazzo che ha perso un genitore, così, d'improvviso, dopo che era uscito di casa per lavorare. Già, lavorare. Papà glielo aveva detto proprio il giorno in cui, ancora bambino, lo aveva sorpreso a rubare bottiglie vuote per le strade di Urrao. Lo avrebbe portato a vendere biglietti della lotteria, se avesse voluto guadagnare qualcosa, e gli avrebbe comprato anche una bicicletta nuova per permettergli di sperare di diventare ciclista, terminati gli studi. Ma non doveva più rubare quelle bottiglie, non aveva senso. E ritorna quella domanda senza risposta: perché?
Urán cresce così, con questa zavorra da portarsi sulle spalle. Un'ingiustizia primordiale. E le ingiustizie possono spingere a fondo, possono incattivire, portare sulla cattiva strada. Certe volte è sufficiente un ricordo per salvarti, forse una promessa. Uràn sa bene cosa aveva promesso a papà e crede ancora in quella promessa, nonostante la vita gli abbia mostrato come non sempre vincano i più onesti o i più gentili. Forse il contrario. Non gli importa, come non importava a sua padre che certamente sapeva questa realtà, ma continuava sulla propria strada.
Urán studia, si allena e lavora. Inizialmente in bicicletta è goffo, cade e si ammacca tutto. Si rialza, qualche cerotto e via. Lo fa per se stesso, per sua madre e per sua sorella Martha. Lo fa perché «la vita mi ha insegnato a lottare. Perché la vita non è poi molto diversa da una corsa a tappe: oggi perdi, domani vinci». Il suo è un riscatto privo di rabbia e rancore, un riscatto intriso di leggerezza che è poi l'unico modo di sopravvivere a certe tragedie senza lasciare che ti distruggano. Di portare quel dolore dignitosamente, dandogli un significato e dando il giusto significato a tutto il resto. Perché Urán sa benissimo che ci sono cose più importanti di una caduta al mondiale di Firenze, di una volata persa per un soffio all'Olimpiade o dell'anno in cui i risultati non vogliono proprio saperne di arrivare. Per questo sorride e dice solo: «Sono fortunato, tante persone mi hanno voluto bene».
Sa che non si diventa uomini migliori quando si sale sul podio del Giro d'Italia (2013-2014) o del Tour de France (2017) e che anche lì bisogna restare leggeri e spogliarsi di tutto ciò che un risultato di questo tipo può metterti in testa, soprattutto quando arrivi dal nulla. Soprattutto sa bene che, per quanto possa succedere, fino a quando si vive si hanno almeno due possibilità. Quella di vivere anche per gli altri che non ci sono più, e quindi di vivere più intensamente, di vivere di più, e quella di fare qualcosa per cambiare la vita che stai vivendo, se proprio non ti piace. «Sei vivo? Bene, allora fatti valere». Parola di Rigoberto Urán.
Foto Luis Angel Gomez/BettiniPhoto©2021