Jasper Stuyven lo sa molto bene
A pochi passi dal Castello Sforzesco, un anziano signore si sistema il borsalino sul capo e rivolgendosi ad una donna che lo osserva commenta: «Non avrei nemmeno voluto metterlo, ma mia moglie ha insistito tanto. “Copriti bene che fa freddo!”. Sarà perché divento vecchio».
L'alba sorprende Milano spolverata da un leggero velo di brina e l'aria frizzante del primo mattino consiglia prudenza. Ai bus delle squadre si riempiono le borracce con del tè caldo. Dopo la partenza della gara, su una borraccia abbandonata si fionderà un distinto cinquantenne ma non la raccoglierà, intenerito dallo sguardo di un ragazzo ad osservarlo. Ci dirà: «Era bella, peccato. Non potevo portargliela via, non me la sentivo. Del resto, sai quante ne ho a casa di quando venivo a vedere la partenza della Milano-Sanremo da scolaro?».
Pochi metri più in là, Mathieu van der Poel sostiene che la gara oggi si deciderà sulla Cipressa, Wout van Aert, invece, parla del Poggio. Più cauto è Julian Alaphilippe che invita tutti alla tranquillità: «Abbiamo davanti trecento chilometri, non facciamoci prendere dalla frenesia. La fretta è cattiva consigliera». Ognuno racconta una storia diversa, qualcuno mente sapendo di mentire, altri non sanno davvero cosa aspettarsi, perché una corsa come la Sanremo è davvero imprevedibile.
Vincenzo Nibali allarga le braccia e sorride quando gli chiedono quanto senta la pressione. «Si sente, certo. Ma d'altra parte è così: alla Sanremo non vai per godertela, vai per fare la corsa».
Non serve raccontarlo agli otto uomini che, per citare Gianni Mura, vanno “alla ventura”, che è avventura e sventura, spesso entrambe le cose, legate da un filo sottilissimo. Tra di loro Charles Planet e Andrea Peron, del Team Novo Nordisk, hanno una motivazione particolare per fare fatica e un passato da conoscere. La maglia della squadra ricorda i cent'anni dalla scoperta dell'insulina per la cura del diabete, Andrea Peron sa qualcosa in più: «Ho scoperto di essere diabetico a sedici anni, l'ultimo anno da dilettante ho vinto diverse corse, alcuni mi hanno comunque sbattuto la porta in faccia. Si tratta di ignoranza e pregiudizio. Il ciclismo mi ha fatto bene, mi ha tenuto fuori dai guai che, volente o nolente, da ragazzo puoi ritrovarti addosso».
Arrivando all'Aurelia sembra di precipitare in un varco temporale. Tutto è più veloce, cambia il paesaggio, si intravede il mare, variano le intenzioni. Alessandro Tonelli prova a dare nuova linfa a una fuga senza più respiro. I tre capi e l'imbocco della Cipressa saranno una campana a morto per ogni speranza in via Roma. L'attesa è un battito che cresce. Le pedalate della Jumbo Visma e della Ineos sulla Cipressa sono aghi conficcati nei muscoli già rigonfi di acido lattico di chi annaspa in coda al gruppo. Un elastico che si allunga, si accorcia e poi si strappa. Mathieu van der Poel è nel punto di rottura dell'elastico, oltre la metà del Poggio, quando lo coglie la coda dell'occhio di Julian Alaphilippe. Scatta così l'iridato, denti digrignati e massimo sforzo spingendo sui pedali, Wout van Aert è la sua ombra. Van der Poel scatta dalla pancia del gruppetto di testa, teso, deciso, convinto, quasi a voler cancellare un ricordo, quello di pochi giorni fa, quando, in Toscana, proprio Alaphilippe lo sorprese e lo beffò mentre era troppo indietro per lanciare la volata.
Davanti accelerano, si guardano, notano che Caleb Ewan è ancora lì. Qualcuno pensava che il malessere alla Tirreno-Adriatico potesse essergli restato sulle gambe e, a vederlo, inizia ad interrogarsi: in una situazione simile è il favorito. I grandi attesi della mattinata di Milano iniziano a pesare ogni mossa, non si è riusciti a fare la differenza prima, azzardare adesso è troppo rischioso. C'è troppo da perdere.
È in quell’istante che alla mente di Jasper Stuyven si affaccia un pensiero: «Tutto o niente». Stuyven che era un bel nome, ma non certo uno dei favoriti. Stuyven che non era marcato perché “ci sono van Aert e van der Poel”. Stuyven che è scattato e non lo hanno più rivisto sin dopo il traguardo. Anzi, ancora peggio. Lo hanno visto sino all'ultimo, a ruota di Kragh Andersen, sempre troppo lontano per richiudere.
Il belga è una sorta di illusione, uno specchio pronto ad andare in frantumi. Anche quando il gruppo di biciclette dietro di lui si imbizzarisce, proprio sulla spinta di Caleb Ewan che ha lanciato la volata degli sconfitti.
Alla fine non ci sarà nemmeno un secondo di distacco tra Stuyven , Ewan e van Aert. Avrebbe potuto essere una volata di gruppo, non lo è stata. Caleb Ewan dirà che non avrebbe potuto fare diversamente, che solo quello era l'attimo perfetto per sprintare.
La sconfitta brucia, come la gola in cui si getta acqua spremendo la borraccia quasi a spegnere un fuoco. Puoi raccontarti qualunque storia, ma c'è sempre quella voce a sussurrarti ciò che avrebbe potuto essere, ciò che avresti potuto fare e quella non riesci mai a zittirla. Van der Poel lo ammetterà: «Siamo partiti troppo tardi per controllarci». Controllarsi, in fondo, vuol dire soppesare il “tutto” ed il “niente” e vedere l'abisso che c'è tra l'uno e l'altro. Per questo non scatti, perché il niente ti spaventa. Così si resta a mani vuote, perché quando aspetti, in fondo, sei sempre a mani vuote, il resto è speranza. Jasper Stuyven lo sa molto bene, molto meglio di altri, per questo è scattato. Per questo ha vinto.
Foto: Tommaso Pelagalli/BettiniPhoto©2021
Racconti dai due mari
Per raccontare questa Tirreno-Adriatico partiamo dalla reception di un albergo di Terni che ci ha accolto sotto un diluvio torrenziale, venerdì sera. Un signore sulla cinquantina, mentre registrava i nostri documenti, guardandoci ci ha chiesto: «Non mi raccontate nulla della corsa?».
Ci è sembrato bello perché ha tradito quella voglia che tutti abbiamo di ritornare in strada, accovacciati sul bordo di un marciapiede a vedere il passaggio del gruppo. Quella stessa voglia che si è palesata in ogni angolo delle strade che da Monticiano conducevano a Gualdo Tadino, dove gli abitanti delle case vicine si posizionavano distanziati ad aspettare di sentire il suono della corsa proveniente dai margini di quei borghi per tirare fuori cartelli e scritte. Poche persone che interrompevano il silenzio assordante delle strade.
In uno di questi angoli c'era Loredana, una maestra di scuola elementare, che in questi giorni vive la realtà della didattica a distanza. Una di quelle maestre che portavano i propri alunni a vedere il Giro d'Italia. Loredana ci ha raccontato che quei bambini, il giorno prima della gara, le chiedevano sempre cosa sarebbe accaduto, quanti ciclisti sarebbe transitati e quante macchine a suonare il clacson per farsi strada. «Portare un bambino a vedere una gara di ciclismo è un modo per insegnargli la pazienza dell'attesa, la fatica che si fa arrampicandosi su una salita o camminando al sole per ore godendo della bellezza di una scia lasciata da una bici».
Forse andare a vedere una corsa ciclistica di questi tempi è anche un buon modo per ricordarsi di tante cose che ormai davamo per scontate. Di più: è un antidoto contro la dimenticanza. Lo sa quella manciata di persone che a Prati di Tivo ha applaudito l'ultimo gruppo dei ritardatari e lo ha fatto con naturalezza, battendo le mani più forte per compensare il fatto di essere pochi. Quel giorno abbiamo tirato un sospiro di sollievo perché abbiamo avuto la certezza di non esserci dimenticati momenti che non vivevamo da troppo tempo.
Quel ragazzo che è entrato in una rosticceria all'arrivo di Castelfidardo e, assieme agli arancini, si è fatto dare un foglio e un pennarello, probabilmente nemmeno sapeva cosa stava accadendo quel giorno, ma sentiva che c'era qualcosa di diverso. Per questo ci ha chiesto chi stesse vincendo e con calligrafia incerta ha scritto: “Grazie van der Poel”. Quel foglio è durato meno di dieci minuti, appoggiato a una transenna con una bruma quasi invernale a dissolvere l'inchiostro. Ma non conta. L'importante è che abbia sentito la voglia di dire grazie e lo abbia fatto così, in modo spartano, ruvido, ma vero.
Ognuno ha qualcosa da dire o da dimenticare all'arrivo di una corsa ciclistica. Lorenzo, ad esempio, a Chiusdino, ci ha detto che quello era l'istante in cui stava meglio da diversi giorni. «Sul lavoro ci sono sempre problemi, cose che non vanno, ansia e nervosismo. Certe mattine non hai proprio alcuna voglia di andare in ufficio. Sapere che ti attende un pomeriggio come questo è un buon modo per affrontare i problemi con serenità, perché quando uscirai vedrai van der Poel, van Aert, Nibali e tanti altri campioni sfilare proprio sotto il tuo naso». È stato proprio lui a mandarci un messaggio il giorno seguente. «Che regalo mi ha fatto Alaphilippe, vincendo qui».
Noi lo immaginavamo perché Lorenzo racconta quella terra con una dedizione tale che ogni storia che accade su quelle strade è una storia che sente sua, come le mura di una casa. Sentirselo dire, però, è sempre bello.
E ancora ci piace raccontarvi di Vincenzo Nibali e di quel «una mattina ti svegli e qualcuno va più veloce di te» detto tra il rassegnato e l'amareggiato a Gualdo Tadino, delle volte in cui l'abbiamo visto scuotere la testa, come a dire «cosa posso fare?», ma anche dell'ultima risposta a San Benedetto del Tronto, quando, pensando alla Sanremo, ha esclamato: «Ci sono tante chiavi per vincerla, cercheremo quella giusta». Che è come tornare a crederci, come avere meno freddo. Di Wout van Aert che ha già detto che tornerà per vincere la Corsa dei Due Mari, ora però vuole pensare al mar ligure, quello che lo attende sabato. Oppure di Mathieu van der Poel che dopo essersi messo a disposizione di Tim Merlier, umilmente, mentre il compagno lo guardava con ammirazione alla partenza di Lido di Camaiore, non ha digerito la sconfitta patita a vantaggio di Julian Alaphilippe. Quel giorno ha tirato un pugno al manubrio, il giorno dopo ha messo quella stessa mano sul petto e ai giornalisti ha detto: «Ci penso io». E via, lungo tante altre parole.
La chiusura di questo pezzo, invece, vogliamo lasciarla a una sola frase detta, perché spesso per dire tanto, basta veramente poco. Così ha fatto Peter Sagan quando gli hanno chiesto se credesse di potersela ancora giocare con i “giovani terribili” del ciclismo. Sguardo fisso, sorriso accennato e un'espressione: «Tu pensi di no?». Che è una domanda, ma anche una risposta. Come le tante che abbiamo trovato sulla strada.
Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021
Il nuovo futuro di Martí Vigo
Quando Martí Vigo del Arco ha scoperto la bicicletta, la immaginava solo come un mezzo per evadere. «Era un periodo davvero difficile. Improvvisamente avevo iniziato a non ottenere più alcun risultato nello sci di fondo, mi sentivo sempre stanco, non riuscivo più a fare cose che fino qualche tempo prima erano la normalità. Esami su esami per cercare di comprendere la causa senza nessuna risposta. Iniziavo a non capire più nulla, ero confuso. Intanto cominciava anche a scarseggiare il denaro, perché in Spagna non eravamo benestanti. Poi ho scoperto di avere la mononucleosi».
Quella risposta tanto cercata, è sembrata quasi una beffa, perché, quando l'ha saputa, Vigo non ha provato sollievo ma ulteriore frustrazione. «Dovevo curarmi, ma avevo bisogno di allenarmi per tornare a vincere e a guadagnare. In più c'era l'università da finire e in quel periodo non avevo proprio la testa per mettermi sui libri». La bicicletta è stata il pretesto per provare a svicolare, per qualche ora, da quel groviglio di problemi in cui si era trovato.
«Almeno in quegli istanti cercavo di non pensare. Non era molto tempo da quando era mancato mio padre. Lui era fiero di me, sin da bambino mi aveva detto di pormi un traguardo e cercare di raggiungerlo perché è questo il senso dell'essere uomini. Ero quasi convinto di esserci riuscito con lo sci, ero arrivato alle Olimpiadi e mi ero tatuato i cinque cerchi per ricordarmi cos'era accaduto. Ora tutto sembrava cadere, come un castello di carta». Quando Vigo si accorge che ormai la sua mente non riesce più a vivere in maniera serena il suo sport, stacca la spina e pensa di inventarsi una nuova vita. «Alla fine - spiega - mi sono detto che ero già partito una volta da zero e ce l'avevo fatta, perché non dovevo darmi una seconda possibilità, perché continuare a soffrire a vuoto? La sofferenza ha un senso se ti permette di cambiare qualcosa».
Martí Vigo fa un test con Patxi Vila per correre in Movistar, poi incontra Maurizio Fondriest e da lì nasce l'idea Androni Giocattoli Sidermec. «Del ciclismo mi piacciono le giornate fuori con gli amici, dal mattino alla sera. A pedalare senza un motivo, solo perché ti senti meglio in sella che a casa. Certo, se diventa un lavoro le cose cambiano, ma di base il ciclismo è questo». Ricorda bene quando vedeva le gare in televisione e immaginava di essere in maglia rossa alla Vuelta perché «tutti i bambini che sognano di fare i calciatori si immaginano di vincere un mondiale, tutti quelli che sognano di fare i ciclisti vorrebbero vincere la corsa a tappe del loro paese».
Dallo sci al ciclismo sono cambiate molte cose, ma Vigo non ne è quasi mai stato spaventato, anche di fronte agli errori. «Se non sbagli, non impari e all'inizio si sbaglia sempre molto. Io per esempio non sapevo stare in gruppo ma era normale, non lo avevo mai fatto. Pesavo otto chili in più ed avevo un'alimentazione scorretta, perché per sciare si guarda la potenza non tanto il peso. Forse dietro il mio infortunio alla mano, quando sono caduto, c'è anche questa perdita di peso repentina». Vigo si trova a proprio agio quando la strada sale e forse in questo c'è qualche ricordo della montagna, di cui però ammette che non gli mancherà il freddo. «Al freddo mi sono abituato, ma, per quanto possa sembrare paradossale per un ex sciatore, a me piace il caldo».
In questi giorni sta provando la posizione sulla bicicletta da cronometro. «Molti mi dicono che per me dovrebbe essere naturale, perché anche nello sci si gareggia sui tempi. In realtà è molto diverso. La posizione aerodinamica che dobbiamo tenere in sella durante la cronometro è molto dolorosa, se non sei abituato. Ad un certo punto iniziano a tirarti tutti i muscoli e non sai più da che parte girarti». In Androni, Martí Vigo ha incontrato Eduardo Sepúlveda: «Condividiamo la lingua e posso assicurarti che non è poco. Quando arrivi in un ambiente nuovo, sapere che c'è qualcuno che capisce esattamente cosa vuoi dire è tranquillizzante. Si può tradurre, ma non è lo stesso».
Vigo è un ragazzo curioso, come chi vuole capire ed imparare. Per questo ogni meccanismo del proprio corpo lo affascina e, se ci pensa, sa già cosa farà un domani, quando scenderà di sella. «Continuerò a studiare fisioterapia e aprirò uno studio, per aiutare altre persone a conoscere il proprio corpo e a viverlo al meglio. Del resto, prima la mia passione era il ciclismo, ora, che è diventato il mio lavoro, sento il bisogno di qualcosa da tenere lì, a portata di mano, per alleggerire i momenti in cui sarò stanco o deluso. Pensare al futuro è una bella possibilità».
Foto: Luigi Sestili
Le ferite guariranno: intervista a Francesca Pisciali
Francesca Pisciali ricorda sempre ciò che le dice il suo allenatore: «Il livello nel ciclismo femminile si è alzato molto, non puoi pensare di vivacchiare. Essere atleta ti impone dei sacrifici, se vuoi fare bene, devi accettarli tutti, altrimenti resti a metà strada. Non riesci ad affermarti come atleta e allo stesso tempo sei costretta a privarti di molte cose che, diversamente, potresti fare. Devi scegliere». Per questo non si è mai iscritta all'università, perché con i ritmi che le impone il suo sport rischierebbe di non riuscire a studiare e, a ventidue anni, non ci si può permettere di non avere le idee chiare. «Mi piace talmente tanto il ciclismo che voglio provare fino all'ultimo a farlo diventare il mio lavoro. Però non sono un'illusa, non voglio restare qui a tutti i costi. Se mi renderò conto di non riuscirci, abbandonerò questa via e ne sceglierò un'altra. L'idea di avere magari venticinque, ventisei anni, e non avere concluso nulla mi spaventa terribilmente. Non fa per me, per quanto vivere senza la bicicletta sembri un incubo in certi momenti».
Pisciali, quest'anno accasata alla Isolmant Premac Vittoria di Giovanni Fidanza, parla con serenità anche di un possibile abbandono e, quando le chiediamo come faccia, non ha dubbi. «Perché ho già provato a smettere. Avevo quindici anni e a Bolzano non c'era una realtà adatta a me. Ho smesso controvoglia e, forse, non ho mai smesso del tutto. Due anni dopo lavoravo in un bar in cima a un passo alpino e andavo al lavoro in bici. Quella pausa mi ha fatto bene. Il ciclismo è un mondo che ti ingloba e rischia di farti perdere il contatto con ciò che c'è fuori».
Attraverso l'indipendenza imparata correndo in bicicletta, Francesca Pisciali si è resa indipendente nella vita di tutti i giorni. «In alcune gare delle categorie minori mi sono iscritta autonomamente, mi sono preparata il cibo ed i rifornimenti, sono andata a ritirare i dorsali, ho controllato la bici e sono partita. Fai fatica, ma cresci, impari. Questo ti resta e fa parte di te. Non ho più smesso di correre, ma ho sempre continuato a lavorare. Con i risparmi mi sono comprata la macchina e mi sono tolta tanti piccoli sfizi».
Francesca sembra una ragazza di altri tempi. Dice che guarda poco il cellulare ed alcune volte lo lascia persino a casa. «Se dobbiamo incontrarci ad una certa ora, io mi faccio trovare per quell'ora. Non ho bisogno di una conferma qualche minuto prima. Con me preferisco avere un buon libro, così mentre aspetto posso leggere». Ci confessa che la sera, prima delle gare, legge sempre ed è tranquilla. «Quando è la giornata giusta, lo sai, lo senti. Sei serena e ti riesce tutto più facile. A me è capitato di andare in fuga con una facilità assoluta, mentre molte ragazze provavano senza riuscirci. C'è qualcosa di naturale in certi giorni».
Altre volte è l'istinto, la rabbia, il nervosismo a segnare la gara. «Quando mi arrabbio, vado più veloce. Una volta sono scattata pur non stando bene. Mi avevano fatto innervosire ed avevo deciso che sarei stata davanti. Ho preso la volata in terza posizione, una velocista l'avrebbe vinta con una gamba sola, io sono arrivata settima, ma è stato un buon risultato».
Le piace allenarsi sulle strade delle Dolomiti, ma, quando ha del tempo libero, va in Romagna perché lì c'è la sua seconda casa, tra tortellini e piada, "quella spessa" precisa lei, spiegandoci la contesa che c'è in quelle zone sulla vera essenza della piadina romagnola. Una cosa la rende particolarmente felice riguardo al ciclismo femminile: il fatto che, ultimamente, sempre più ruoli vengano ricoperti da donne. «Credo sia un bene, perché sanno meglio di chiunque altro cosa significa essere donna e, se hanno vissuto questo sport, capiscono cosa si prova, come ci si sente. Si tratta di un passo importante per l'emancipazione femminile. Un passo che abbiamo il dovere di compiere noi. Certe volte ho avuto la sensazione che come atlete non fossimo prese sul serio da alcuni uomini. Colpa loro, ma anche colpa nostra. Il primo segnale di una professionalità totale deve venire da noi».
Pisciali descrive benissimo il feeling che si instaura con alcune gare, piuttosto che con altre. «Prendiamo il Trofeo Beghelli. In astratto potrebbe anche essere adatto alle mie caratteristiche, invece no. Quello zampellotto sul finale mi blocca sempre, come se mi respingesse». Qualcosa di speciale, invece, Pisciali lo ha sempre provato per la Strade Bianche e la prova dello scorso sei marzo ne è stata la dimostrazione. Francesca è caduta nelle prime fasi di gara, il ginocchio le sanguinava e tutta quella polvere non era certo l'ideale. «Non sempre le cose vanno come vorremmo, dobbiamo accettarlo. Avrei potuto fermarmi e salire in ammiraglia, non l'ho fatto per rispetto della gara e per l'orgoglio di poterla correre. Al traguardo sono arrivata troppo tardi per rientrare in classifica, ma ci sono arrivata. Ho concluso una prova che avevo iniziato, ho tenuto fede alle mie responsabilità, dal primo all'ultimo chilometro. Le ferite, poi, guariranno».
Foto: Flaviano Ossola, per gentile concessione di Francesca Pisciali
Orgoglio e uguaglianza: parola alle atlete
Nelle scorse settimane ha destato clamore la disparità di montepremi che Davide Ballerini e Anna van der Breggen si sono aggiudicati in Belgio per la vittoria della Omloop Het Nieuwsblad. L'italiano ha guadagnato 16.000 euro, mentre l'olandese solo 920 euro. Questo divario di montepremi, lo è anche di stipendi, non era certo una novità ma, si sa, la crudezza dei dati molte volte riesce a smuovere coscienze che i meri discorsi non arrivano a toccare.
A mettersi in moto è stato Cem Tenyeri, tifoso olandese, che, «disgustato dalla disparità di trattamento», lunedì primo marzo ha indetto una raccolta fondi attraverso la piattaforma GoFundMe per provare a eguagliare i montepremi in vista della Strade Bianche, proponendo poi la suddivisione del raccolto in percentuali prestabilite fra le prime cinque atlete giunte al traguardo. La risposta è stata impressionante ed in cinque giorni sono stati raccolti 25578 euro. Questo ha significato che il montepremi totale a disposizione delle prime cinque classificate è passato da 6.298 euro a 31.876 euro, andando a superare quello previsto per i colleghi uomini, fissato a 31.600 euro, e che, per citare un esempio, la vincitrice Chantal van den Broeck-Blaak, che avrebbe dovuto incassare 2.256 euro, in realtà ne incasserà 10.441, vedendo il proprio premio aumentato del 32%.
A caldo, Ashleigh Moolman Pasio, ciclista del team Sd Worx, ha subito commentato la vicenda, spiegando di essere commossa in quanto «è davvero toccante vedere che gli appassionati di ciclismo, in un periodo difficile come questo, siano disposti a rinunciare a denaro che servirebbe alla loro famiglia per metterlo a disposizione di una causa così nobile». L'entusiasmo, a dire il vero è stato generale, ed Elisa Longo Borghini ha fatto ben presto seguito a queste dichiarazioni introducendo un tema importante. L'atleta di Ornavasso, ringraziando i donatori, ha scelto insieme al suo team, Trek Segafredo, di destinare la propria quota a progetti che possano sostenere il ciclismo femminile sul lungo termine.
In Trek, non si è ancora deciso come e dove spendere questi guadagni, il passo è però importante per fare in modo che questa donazione possa cambiare qualcosa nella lunga strada verso la parificazione fra uomini e donne nel ciclismo. Già, perché la questione è ormai dibattuta da anni e la consapevolezza maggiore in gruppo è che non possa essere questa la via per migliorare la condizione del ciclismo femminile. Tra l'altro, proprio Trek Segafredo negli scorsi mesi aveva innalzato a 40.045 euro la paga minima prevista per le proprie atlete, andando così a eguagliare quella prevista per gli uomini secondo le tabelle UCI. Le stesse tabelle prevedono per le donne una paga minima di 20.000 euro e una legge, attesa da molto tempo, dovrebbe intervenire per ristabilire la parità.
Il gesto lodevole di Tenyeri e dei donatori, se da un lato suscita ammirazione, dall'altro continua a lasciare l'amaro in bocca. Marta Bastianelli ci spiega: «Ringrazio di vero cuore tutti coloro che hanno donato e credetemi sono gesti che nessuna di noi potrà mai dimenticare. Però non posso fermarmi qui. Sono convinta che non si sarebbe mai dovuti arrivare a questo punto e che sia grave esserci arrivati. Abbiamo fatto un passo importante verso il ciclismo professionistico anche per noi donne, non possiamo perderci in queste cose. Ha detto bene Anna van der Breggen: è una vita che lottiamo per la parità salariale e di montepremi e ancora non è cambiato nulla. Per me e per le veterane del gruppo ormai non c'è più speranza di vedere questi risultati raggiunti mentre siamo in attività, spero solo ci sia per le più giovani. Siamo ancora troppo distanti dagli uomini e fa tanta tristezza pensarci. Credo che dovremmo ringraziare le atlete della Trek Segafredo perché, con la loro mossa, hanno scelto di essere lungimiranti e di fare qualcosa per il futuro di questo movimento. Spero che tutte assieme si riesca a portare un cambiamento».
Sofia Bertizzolo, raggiunta telefonicamente nel pomeriggio di ieri, aggiunge altri tasselli. «La situazione che si è creata ha fatto molto discutere e reso evidente, a chi ancora non la conoscesse, la condizione del ciclismo femminile. La stampa ha il dovere di parlarne per tenere accesi i riflettori su questa tematica. La soluzione non può essere nelle donazioni, non è questo il sistema per andare a pareggiare i premi delle gare. I finanziamenti di cui ha bisogno il ciclismo femminile vanno usati in altro modo: in primis per aumentare la visibilità del nostro sport. Se le persone ci seguono, se la televisione e gli organi di informazione ci raccontano, si innesta un circolo virtuoso per cui i montepremi ed i salari aumentano di conseguenza. Se si tiene davvero al ciclismo femminile, chi di dovere deve dargli la possibilità di crescere, prima dei soldi». Le fa eco Soraya Paladin: «Sono onorata del gesto. Però sembra tanto di fare elemosina e credo che nessuna di noi lo voglia. Queste persone sono state davvero di cuore ma non è loro dovere intervenire per aiutarci, spetta ad altri. Così facendo il montepremi della Strade Bianche sarà eguagliato e tutti gli altri? Quello delle gare minori? Altra questione: alle squadre fuori dal circuito World Tour non pensa nessuno? Non si può pensare di proseguire e di crescere solo grazie alla benevolenza di poche persone, che normalmente nemmeno si occupano di ciclismo».
Katarzyna Niewiadoma si sofferma invece sul senso di cura e di attenzione che questo gesto mette in risalto. «È incredibile vedere quante persone hanno provato a prendersi cura di noi senza essere obbligate a farlo. Siamo rimaste tutte sorprese. Io, in particolare, sono rimasta meravigliata da quante persone siano interessate al movimento femminile. Sia chiaro: non dobbiamo aspettarci che il cambiamento, che tanto desideriamo, avvenga tramite donazioni, però siamo certe che quando avverrà, quando i media ci daranno più spazio e quando la nostra esposizione mediatica sarà maggiore, il pubblico sarà lì per noi. La gente è affezionata a noi, ce lo ha dimostrato. Solo a pensare a questo sto bene».
Alice Maria Arzuffi comprende benissimo questa sensazione di Niewiadoma, ma non riesce a nascondere una certa tristezza: «Il gesto è molto apprezzato e dimostra che i tifosi hanno capito bene la disparità che ci troviamo ad affrontare. Siamo nel 2021, negli ultimi anni siamo cresciute moltissimo, il nostro ciclismo non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello di sette, otto anni fa, ma ci vediamo ancora costrette a ricorrere alla solidarietà. Noi donne non chiediamo solidarietà. Noi vogliamo vengano riconosciuti i nostri meriti. Questo, per esempio, non avverrà mai fino a che le gare femminili verranno trasmesse in differita e solo per i chilometri finali. Ce ne rendiamo conto?».
Intanto uno studio di Damm Van Reeth, professore della Facoltà di Economia e Commercio di Leuven, ha sottolineato come in termini assoluti la gara femminile abbia raccolto più ascolti di quella maschile. In termini di cifre parliamo di uno share del 21,5% per le donne, contro il 18,6% per gli uomini. Ora bisogna passare ai fatti perché di parole se ne sono spese davvero troppe.
Foto in evidenza: Roberto Bettini/BettiniPhoto©2021
A testa alta nonostante tutto: intervista a Gianni Savio
Gianni Savio compirà settantatré anni fra poco più di un mese, il 16 aprile per l’esattezza. Quasi la metà di questo periodo, Savio lo ha trascorso nel ciclismo, da quel corso per team manager organizzato dalla Federazione Ciclistica Italiana a cui partecipò nel lontano 1985. Per questo le sue parole, mentre si siede al tavolo con noi, sono un pugno allo stomaco, in primis per i suoi collaboratori. «Non so se proseguirò, forse lascio il ciclismo».
La ferita che brucia è quella dell’esclusione della sua squadra, l’Androni Giocattoli-Sidermec, dal Giro d’Italia 2021 e a nulla sembrano servire le parole di chi, al suo fianco, gli riporta alla mente ciò che è riuscito a fare in questi anni nel ciclismo: scoprire nuovi talenti, ingaggiarli, regalargli una nuova vita qui, dopo averli scoperti in Sudamerica, certe volte ricostruirgli una carriera dopo periodi bui.
«Quello che dicono sarà anche vero, ma a cosa è servito? Se la squadra che ha fatto tutto questo non viene ritenuta degna di partecipare al Giro d’Italia, per chi abbiamo lavorato? Lo so, lo so, la gente se n’è accorta, la gente crede in noi ed io gliene sono grato, ma per mandare avanti una realtà di questo tipo servono sponsor importanti e gli sponsor guardano al calendario gare a cui si partecipa per finanziare un progetto. Fino a che si segue una logica meritocratica, ti rimetti in piedi e continui a tenere duro cercando di portare più risultati, se cade il merito, cade tutto. Diventa una lotta contro i mulini a vento e contro quelli si perde sempre».
Savio ce lo dice chiaramente: è il non essere in grado di trovare una motivazione logica a non farlo stare tranquillo. «Quando qualcuno mi spiegherà perché a noi è stata preferita la Vini Zabù, allora forse mi metterò il cuore in pace. Ma voglio una spiegazione oggettiva, perché io ragiono sui dati ed è dai dati che si valuta il merito. Il fatto che soggettivamente si sostenga di essere stata la migliore squadra in questa o quella circostanza è ininfluente. Anche io potrei dire così di Androni, e ne sono anche convinto, ma non lo faccio. Perché sarebbe una valutazione di parte. L’ho detto e lo ripeto: il problema non è tanto il mancato invito al Giro, il problema sono i criteri di scelta se portano a escludere una squadra che da quattro anni è la migliore italiana tanto della Ciclismo Cup, quanto del ranking Uci in favore di un team che in quella classifica è sempre arrivato dopo di noi».
Gianni Savio è un leone ferito, ma l’orgoglio non sente ragione. «Alla mia età non mi tiro più indietro di fronte a ciò che non è giusto. Credo la dignità sia un valore. Continuerò a difendere le mie ragioni anche se questo dovesse voler dire uscire dal ciclismo. A me piacciono le persone che possono camminare a testa alta e guardare tutti dritti negli occhi. Mi costa dolore immaginarmi lontano dal ciclismo, sia chiaro, ma non sono più disposto a tollerare l’ipocrisia di parte di questo mondo».
Accanto a Savio passa Simon Pellaud, gli mette una mano sulla spalla e lo saluta con un disarmante e disarmato: «Ciao Gianni». Savio lo ha soprannominato “Simonissimo” e ci racconta che con lui qualche battuta scappa sempre. Poi riprende: «Comunque non ho detto che smetto, ho detto che devo valutare». Il tono della voce cambia, come lo sguardo. «Se deciderò di non lasciare, sarà solo per questi ragazzi. Sono come figli per me e so quanto sarebbero dispiaciuti. Non devono essere loro a pagare questa situazione. Non ho nemmeno idea di cosa potrei fare se lasciassi il ciclismo. Io vivo pensando a loro. Quando qualcosa non va, mi sveglio la notte e rimugino, penso, programmo».
Stiamo per porre un’altra domanda, quando Savio estrae dalla tasca il telefono. «Guarda qui. L’altro giorno ho fatto gli auguri di compleanno a un mio atleta di qualche anno fa. Ecco la risposta: “Grazie Gianni. Sai che, se hai bisogno, puoi contare su di me”. Questo ti ripaga di tutti i sacrifici e ti convince a farne anche di più importanti, perché per questi ragazzi vale la pena».
Alla base del rapporto, ci spiega Savio, c’è l’onestà intellettuale. «Io metto sempre in guardia gli atleti dalle illusioni e dall’ossessione per la vittoria. Le illusioni ti intrappolano, non ti permettono di vedere la realtà: non c’è cosa peggiore per un uomo. L’ossessione per la vittoria è cosa diversa dal voler vincere, che è buona dote per uno sportivo. Quando si è ossessionati dalla vittoria si perde lucidità, qualche volta si è disposti a commettere errori intollerabili, pur di vincere. In certi casi si arriva a giocare sporco. Ho sempre detto chiaramente ai miei ragazzi sino a dove, secondo me, sarebbero potuti arrivare. Alcuni lo hanno accettato, altri hanno preferito correre da chi assecondava quelle illusioni. Credo poi i risultati parlino chiaro».
Intanto si continua per la propria strada e Gianni Savio ha già un pensiero fisso. «Ho scoperto un ragazzo che credo possa segnare il ciclismo dei prossimi anni: si chiama Santiago Umba e presto lo conosceranno tutti meglio. L’ho portato in Italia e sta iniziando a conoscere i meccanismi di questa squadra. In questi giorni sono molto arrabbiato, ma pensare alle possibilità di questo atleta mi rasserena. Sarebbe un peccato non poterlo seguire nella sua crescita. Vedremo».
Foto: Luigi Sestili
Quel sogno chiamato Olimpiade: intervista a Martina Alzini
Martina Alzini ha iniziato a vincere sin da quando era bambina. Aveva solo sette anni quando, nel 2004, al termine di una gara, un giornalista le chiese quale sarebbe stato il suo sogno. «Risposi di getto che da grande avrei voluto partecipare alle Olimpiadi. Mia madre non la prese molto bene. La sera, in disparte, mi disse: “Si tratta di umiltà, Martina. È come se, appena iniziato a lavorare, dicessi che sogni la pensione”. Insomma, da quel giorno non lo dissi più, ma se penso anche solo alla possibilità di essere a Tokyo, mi si rompe la voce e mi viene la pelle d’oca».
Con mamma, Martina non ha più parlato di quel giorno ed oggi, ridendo, ammette: «Sto aspettando il momento giusto per ricordarglielo. Se le cose vanno come spero, potrebbe non essere lontano». Parole da cui trapela felicità, perché, prima di tutto, Martina Alzini è una ragazza felice. Sarà perché, come dice lei, fa un lavoro che la fa sempre sentire a casa, in famiglia, perché la bicicletta è di famiglia. «A tre anni ho voluto che i miei nonni mi togliessero le rotelle dalla bicicletta e solo quel cortile sa quante ne ho combinate. Quando succede così, poi, ogni volta che riprendi in mano la bici, anche a centinaia di chilometri di distanza, la mente torna lì e tu ti senti ancora quella bambina».
La forza dei ricordi e le radici che hai piantato ti tengono stretta, anche se le cose, inevitabilmente, cambiano. «Si inizia per gioco ed è giusto così. Guai a togliere ai più piccoli le domeniche spensierate nei parchi o in gara. Se quando penseranno al ciclismo, penseranno a quei tempi, avranno sempre un bel ricordo e non lasceranno mai la bicicletta. A volte la detesteranno, come accade a me, ma torneranno sempre in sella. Quei giorni gli daranno la forza per andare oltre».
Ed è proprio negli istanti di odio verso il proprio sport che nasce la consapevolezza. «Non è facile arrivare nel gruppo delle élite. Devi confrontarti con delle campionesse, con ragazze molto più grandi di te, a volte con mamme. Devi riconoscere i tuoi limiti, altrimenti la vita te li sbatte in faccia. Certo non è semplice ammettere che non sei portata per una certa gara o che quello che hai sempre sognato in realtà non è realizzabile, tuttavia, se non hai il coraggio di dirti la verità, non cresci». Crescere, per Alzini, vuol anche dire essere coraggiosi, imparare ad accogliere le critiche ed i consigli in maniera costruttiva. «Ho avuto la fortuna di crescere “sportivamente” con Marta Bastianelli. Lei è madre, non so come fosse prima della nascita di Clarissa, so com’è oggi ed è per questo che la chiamo “mamma Marta”. Sa insegnare con una cura rara, se hai voglia di imparare, solo guardandola diventi grande».
Crescere è faticoso, ti impone arbitrarie verità ma anche nuove possibilità. «Da giovanissimi si desidera tutto ed i sogni sono una sorta di massa informe, da adulti, forse, se ne hanno meno e molte ambizioni si lasciano per strada, ma i sogni che restano hanno una forma ben chiara, diventano progetti ed inizi a lavorarci». Lo zio di Martina gestisce una squadra di paraciclisti in handbike e lei ha imparato a lavorare in un certo modo proprio osservando loro. «Ho iniziato a conoscerli quando avevo solo pochi anni e a forza di vederli ho fatto mio un poco del loro modo di essere. Io dico che hanno una voglia incredibile di raggiungere dei traguardi. Ecco, a noi ogni tanto questo manca. Così passiamo il tempo a lamentarci, senza averne alcun diritto, perché siamo fortunati, solo che non lo vediamo».
Il suo lavoro è iniziato dalla pista, da un velodromo di Busto Garolfo, per poi transitare da Montichiari. Forse sarà proprio la pista a portarla a Tokyo, ma non è questo il motivo per cui Alzini la consiglia a tutti i genitori. «Io ho iniziato a girare in pista perché potevo pedalare tranquillamente senza la presenza delle auto. L’insicurezza stradale porta molti ad allontanarsi dal ciclismo. Perché non torniamo nei velodromi o nei boschi in mountain bike? Quando si prende confidenza con il mezzo, si va anche in strada».
L’Olimpiade, in ogni caso, sarà un tassello importante ma non un punto di arrivo. Martina è chiara: «Sarà una base per continuare a costruire con più convinzione, non un motivo per sedersi sugli allori. Non fa parte del mio carattere». Qui l’affondo: “Io non sono solo la ragazza che vedete sui pedali. La mia realtà quotidiana è ricca di sfumature, come il mio carattere. In bici sembriamo tutte forti, grintose, senza paure. Non lo siamo ed è bene ricordarselo e ricordarlo».
Fin dai tempi delle superiori Martina Alzini amava lo studio delle lingue e si immaginava viaggiatrice, una volta adulta. Oggi, che grazie al ciclismo ha viaggiato e continua a viaggiare, sa qualcosa in più. «Quando sei abituata a viaggiare, perdi la brutta abitudine, che spesso si ha, di giudicare “normali” o “corretti” solo i comportamenti che sei abituata a conoscere. Ti rendi conto che molte volte noi stessi sembriamo strani agli altri e capisci quanto si possa soffrire a essere considerati diversi. Viaggiare è una delle più grandi possibilità di comprensione della realtà che l’uomo ha».
Foto: Paolo Penni Martelli
L'attesa della Strade Bianche
Se Elisa Longo Borghini fosse uno stato d’animo, sarebbe la leggerezza, quella di Italo Calvino, quella che consente di «planare sulle cose dall’alto, senza avere macigni sul cuore». Mancano poche ore alla partenza della “Strade Bianche” e lei è estremamente serena. «Voglio divertirmi come facevo da ragazzina, voglio godermela questa gara». Sarà per questa leggerezza, preservata nonostante i successi, le aspettative e anche gli anni che passano, che sentire Elisa raccontare gli sterrati senesi è un’esperienza da consigliare. «Ho anche vinto qui, ma il feeling che ho con queste strade non dipende da quello. Me la sono sempre immaginata come una classica del Nord staccata e accompagnata in Toscana. Quando sali sullo strappo di Santa Caterina, capisci cosa sia questa terra. Senti la storia, l’arte, la musica, è un’emozione rara».
Giorgia Bronzini, suo Direttore Sportivo, ci dice subito che deve ringraziare Elisa, poi continua: «Noi abbiamo anche corso assieme ed in queste situazioni è facile chiedere qualcosa in più e comportarsi in maniera diversa dalle altre atlete facendo leva sull’amicizia. Elisa chiede informazioni tramite mail come da protocollo di squadra, questo per dire della sua professionalità. Oggi lavoreremo per lei».
La variante principale considerata da Bronzini è quella legata al meteo. «Bastano poche gocce d’acqua e la situazione qui cambia repentinamente. Se pioverà la gara sarà più dura e molti disegni tattici potrebbero andare in fumo. Non so se per noi possa essere meglio o peggio, bisogna essere pronti ed elastici nel cambiare tattica. Sinceramente mi auguro solo che sia una gara aperta a più squadre. Una gara movimentata sin dall’inizio, per noi ed anche per il pubblico che ci guarderà da casa, non potendo stare in strada». Il punto cruciale? Elisa Longo Borghini non ha dubbi: Le Tolfe. «Probabilmente sembra assurdo detto da me, ma quel tratto di sterrato mi piace particolarmente. Lì me ne capita sempre qualcuna e spesso questo mi pregiudica la vittoria. Mi spiace, ma resta la bellezza. Sembra di essere in un’arena, la miccia si accende e la corsa esplode».
Intanto Giorgia Bronzini pensa alle possibili rivali e lo fa analizzando le prove viste sino ad ora. «Se parliamo per valori assoluti non si possono non citare van Vleuten e van der Breggen. In gara, poi, possono esserci circostanze sfavorevoli per cui non si ottengono risultati, ma restano le migliori. Non si possono sottovalutare. Se invece vogliamo vedere le ultime evidenze, credo siano da marcare strette le atlete della SD Worx. Hanno una cadenza e una continuità non scontata considerando che siamo solo a marzo».
In ogni caso la “Strade Bianche” sarà una briciola di quasi normalità in un periodo in cui la normalità manca a tutti. «Sai, è ancora tutto strano – spiega Longo Borghini – però si sente che è primavera, che le corse si disputano nel loro periodo e questo un poco rassicura, ci fa pensare che le cose possono sistemarsi». Giorgia Bronzini è stata campionessa del mondo, ma è la prima a confessare che una stagione come quella appena trascorsa l’avrebbe vista in seria difficoltà. «Credo che dobbiamo guardarci negli occhi ed essere grate per il fatto che fra poco partiamo e abbiamo la possibilità di fare il nostro lavoro. Ci sono tante persone, tanti amici, che non possono farlo e sono distrutti. E non è solo un discorso economico, c’è di più».
L’indole diversa di Bronzini e Longo Borghini emerge sul finire della chiacchierata quando si parla di sterrato e di modi per affrontarlo. L’istinto di Elisa e la tattica ragionata di Giorgia si incontrano a metà strada. Longo Borghini parla da atleta navigata: «Sono abbastanza brutale in questo: io sullo sterrato pedalo, ma non so spiegarti il modo in cui pedalare. Mi viene naturale, lo faccio senza pensare troppo e i risultati arrivano. Potrei dire che è qualcosa di faticoso ma spontaneo». Giorgia Bronzini, invece, ha la visuale di un’ex atleta e ti racconta lo sterrato come se dovessi affrontarlo in prima persona. «Devi scegliere chi comanda. Vuoi essere tu a decidere che traiettoria prendere o accetti che sia lo sterrato a farlo per te? Se vuoi decidere, devi aggredire quella terra. Sicuro, deciso, ma non rigido. Se l’aggressività si tramuta in rigidità, la bici non va più avanti. I muscoli devono essere sciolti. In fondo, lo sterrato è una questione di equilibrio». Ora, però, basta chiacchiere, le atlete stanno per essere chiamate sul palco. Si parte!
Foto: Valerio Pagni/BettiniPhoto©2020
In Egitto per conoscere mio padre
Dopo più di un anno, Omar Mohamed Ali e suo padre si sono incontrati oggi all'aeroporto del Cairo e per più di tre settimane viaggeranno assieme nelle loro terre originarie, quelle d'Egitto. Omar correrà e pedalerà, papà lo aspetterà insieme alla squadra di supporto e al pomeriggio chiacchiererà con lui e visiterà città. In fondo è stato proprio papà a volere questo viaggio assieme. «Quando gli ho telefonato e gli ho detto che avevo intenzione di partire alla volta dell'Egitto, mi ha subito detto che, se fossi partito, lui sarebbe stato al mio fianco». Fino a qui potrebbe essere una storia come tante altre, invece no, perché Omar e papà sono stati lontani per troppo tempo e ancora oggi non si conoscono pienamente.
«Oggi so che la storia di mio padre è la storia di un uomo a caccia dei propri sogni. Da bambino non potevo neppure immaginarlo e avrei voluto fosse come tutti i genitori dei miei compagni di classe: quelli che andavano in campeggio, in montagna e al mare con i figli. Lui no, lui non c'era mai. Sono stato arrabbiato molti anni con lui poi ho capito che non avrebbe mai potuto essere come loro. Papà veniva da un paese povero, aveva combattuto la guerra del Sinai, l'aveva persa, e prima di conoscere mamma viveva in Inghilterra. Lì dove sarebbe tornato dopo il divorzio. Era consulente finanziario e in quegli anni nessuno qui avrebbe affidato i propri risparmi a un uomo di colore». Omar racconta che papà è cambiato, dice che la vera avventura sarà la riscoperta di quest'uomo e pensa alle domande che vorrebbe fargli.
«Nonostante tutto, in quegli anni ha mantenuto cinque persone. Da bambino quando mamma e papà si lasciano tu stai istintivamente dalla parte della mamma perché cresci con lei, papà è colui che ti ha abbandonato. Non è così. Mio padre, diventando anziano, ha sentito sempre più la mancanza della propria famiglia, è diabetico e in Inghilterra ha tutto, ma noi gli manchiamo. Vorrei chiedergli tante cose ma ho anche paura perché con lui non ho la confidenza tipica dei figli con i padri. Magari, se troverò il momento, gli chiederò se abbia mai pensato di rifarsi una famiglia. Lo vorrei sapere da tanto».
Il viaggio partirà da El Alamein. «Sono stato militare, andrò al sacrario e lascerò il mio cappello da alpino. Lo sento come un dovere. In fondo, El Alamein è una parte di Italia, in terra egiziana, dove durante la guerra hanno perso la vita troppe persone». Poi ci si sposterà verso Alessandria d'Egitto, la città natale del padre di Omar. «L'ultima volta che sono stato ad Alessandria era il 1992, per le vacanze d'agosto, a casa della nonna. Quell'anno ci fu il terremoto, la piramide di Giza venne danneggiata, e noi tornammo a casa solo a ottobre inoltrato perché i voli erano sospesi. La casa di mia nonna subì dei danni e pendeva da un lato, così, per far stare dritto il letto e riuscire a dormire, gli mettevamo dei libri sotto». Da qui, Omar si muoverà verso il Cairo e poi verso l'Oasi desertica di Bahareya. «Sarà una strada desertica di 400 chilometri. Farò circa 50 chilometri al giorno e ne uscirò in otto giorni. A fianco a me scorreranno due deserti: quello bianco, calcareo, di pietre e il “grande mare di sabbia” del deserto occidentale». E via verso l'oasi di Dakhla, di Kargha e finalmente Luxor, la Valle dei Re. L'ultima tappa, ad oggi, sarà Aswan, ma Omar confessa che, in fondo, gli piacerebbe arrivare ad Abu Simbel e, se ne avrà modo, ci proverà.
La domanda viene naturale: qual è la cosa che più ti spaventa? «Perdermi in mezzo al deserto. In Oman, nel 2019, mi successe, ma non ero solo. Qui, nonostante la squadra di supporto, passerò ore e ore da solo e quindi la paura è maggiore ma, come dico sempre io, se hai un obiettivo, lui ha te. Difficilmente ti perderai, se credi a questo. Forse è così che ho scelto il minimalismo, nello sport come nella vita. Non serve molto per farcela». In realtà c'è un'altra cosa a cui Omar crede e che lo aiuta: il destino. Ci crede da quella volta in cui papà gli raccontò della sua guerra. «Me ne parlò solo una volta e si vedeva quanto soffriva. Una spia israeliana fece attaccare la postazione di mio padre: molti rimasero feriti, un suo compagno gli chiese dell'acqua e papà andò alla base a prendergliela. In quegli istanti la postazione venne rasa al suolo. Papà riuscì a tornare a casa a piedi con altri diciassette compagni. Si nascosero fra i corpi dei soldati uccisi e si sporcarono di sangue per non farsi riconoscere. Due israeliani si fermarono proprio sopra il suo corpo, uno gli tirò un calcio: “È morto anche questo”. E proseguirono. Papà mi dice sempre che bisogna credere nel destino, che quando ci succede qualcosa di brutto è solo perché ci aspetta qualcosa di meglio. Lui ha passato tre terremoti, un uragano, la guerra, il Covid ed ha ancora voglia di scoprire, di viaggiare, di conoscere. Noi diciamo che ha la pelle del coccodrillo del Nilo, tanto è forte. Forse è il caso di ascoltarlo. Forse è proprio perché ho lui davanti che riesco a credere nel destino».
La Colombia e la fuga: intervista a Simon Pellaud
Il 15 ottobre 2020, la dodicesima tappa del Giro d'Italia parte e arriva a Cesenatico. Il cielo è plumbeo, fa freddo, in alcuni tratti pioviggina, i primi rigori dell'autunno si fanno sentire. Simon Pellaud, Androni Giocattoli Sidermec, è in fuga dal primo mattino, ad un certo punto alla sua mente ritorna la Colombia e il sapore del boccadillo, un gel zuccherino alla frutta. Ne cerca una bustina nelle tasche posteriori della maglia ma non c'è. Alla sera, al ritorno in hotel, visibilmente provato dal freddo, chiederà al suo massaggiatore di mettergliene diverse bustine in tasca: il giorno dopo, verso Monselice, tornerà a scattare.
«In quella fuga c'era un ragazzo colombiano dell'Astana. In un tratto tranquillo mi sono avvicinato a lui e gli ho chiesto se gli mancasse la Colombia. Mi ha detto di sì, me lo ha detto in un modo particolare, mi ha chiamato “fratello”. Ho preso una di quelle bustine e gliel'ho passata: "Assaggia questa, ti sentirai a casa". Appena ha sentito quel sapore, ha fatto un sorriso a trentadue denti. La Colombia era tutta lì». Per Simon Pellaud l'avventura è la libertà di un viaggio ed il suo viaggio in libertà è il ciclismo. «Grazie al ciclismo ho imparato cinque lingue, sono stato in venti diverse nazioni, l'ultima è il Venezuela, ho conosciuto tante persone e ho imparato l'umiltà. Ho abitato in Svizzera, lì c'è tutto, di più, c'è il meglio di tutto: io sono andato via per andare a vivere in Colombia, in una casetta senza il gas, con una stufa e quel poco di acqua calda che serviva per lavarsi. In una casa con solo un tetto e poco altro». Eppure lì Pellaud è felice.
Ad essere felice, Simon aveva imparato qualche anno prima. «Correvo con la IAM Cycling ed avevo un futuro assicurato. Eppure terminavo le gare, arrivavo ventesimo, e sentivo che se quella mattina non avessi preso il via sarebbe stato lo stesso. Quando ho rescisso il contratto, sono stato diversi mesi senza lavoro, non dormivo la notte e mi era anche passata la fame». Simon Pellaud riparte con il Team illuminate, una squadra brasiliana che si sostiene grazie a una raccolta di fondi ed oggi racconta che da quel giorno per lui è iniziata un'altra vita. «In Colombia dicono che è merito “dell'aiuto de Dios”. Io questo non posso saperlo, io so che in quei mesi sono andato a vivere in montagna, lontano da tutto e da tutti, con accanto solo le persone che amavo. Stando da solo ho capito che potevo ripartire e diventare l'uomo che avrei voluto essere».
La parole chiave è una: fuga. «Ognuno di noi ha una chiave per diventare qualcuno. Io non sono un campione, difficilmente vincerò molte gare in vita mia, ma non è questo a spaventarmi. A me spaventa l'idea di essere anonimo, di restare fermo, di non fare nulla ed aspettare lo scorrere del tempo e con questo la fine della carriera. Per questo esco dal gruppo, mi faccio vedere, mi sento vivo. Magari vincerò una sola gara o forse neanche quella, ma esserci non sarà stato inutile».
Simon Pellaud sostiene che il bello della conoscenza sia il fatto che «puoi prendere qualunque cosa e farla tua, utilizzarla per la tua vita, per stare meglio, perché non c'è un diritto privato della conoscenza». Ma, per conoscere, è necessario uscire dalla propria galassia, anche temporaneamente, anche solo per un attimo. «Nessuno conoscerebbe bene il proprio pianeta se non lo vedesse dallo spazio, dall'esterno. Viaggiare è importante perché ti consente di vedere da fuori una realtà che altrimenti rischia di anestetizzarti». Pellaud se ne è accorto a Monselice, sì, proprio nel giorno in cui è sceso di sella mentre il gruppo lo riassorbiva e ha iniziato ad applaudire i suoi compagni.
«Il mio è stato istinto puro, non sapevo nemmeno che ci fosse una telecamera. Sono sceso di sella per permettere al gruppo di passare su una rampa molto ripida e ho applaudito perché mi è venuto spontaneo. Mi sono sentito come mi sentivo quindici anni fa quando i miei genitori mi portavano alle corse, con la stessa forma di entusiasmo. Quando sono tornato a pedalare ero staccato, sfinito e dovevo andare all'arrivo da solo. Non mi interessava, ero contento».
Foto: Luigi Sestili