Tornare a guardare
Tornare a guardare. Sì, basterebbe questo per raccontare quello che abbiamo visto ieri sulle strade tra Stupinigi e Novara. Per parlare della fame che c'è in ogni persona che incontri qui al Giro. Vedere, sapere, conoscere ogni dettaglio di quelle biciclette che si riversano in strada. La stessa fame di chi, per molti giorni, ha dovuto accontentarsi della fantasia, dell'immaginazione, che è grande cosa, ci mancherebbe, ma l'essere umano ha anche bisogno della realtà, non può vivere solo nel ricordo, altrimenti, prima o poi, lo assale la paura che quella sia solo una scusa e che aspettare sia inutile perché le cose non torneranno più come prima. Ed invece no, perché le cose possono cambiare, si possono aggiustare ed in ogni caso si possono sempre migliorare.
Non serve spiegarlo a quella signora che era seduta sul bordo di una rotonda ad aspettare il passaggio della fuga, lo stesso bordo su cui sedevano altre persone e, ad un certo punto, ha detto: «In fondo basta fare più attenzione e sembra quasi la vita di prima». Certo, con qualcosa in più. Perché adesso ci stupiamo e prima, forse, avevamo perso questa abitudine.
Adesso, anche alle gare di ciclismo, restiamo qualche secondo in più a guardare quell'operaio di una ditta meccanica che esce in strada a vedere il passaggio con le mani ancora annerite dal grasso. Quel signore che sta sudando da ore sotto al sole ed ha l'ombra a pochi passi ma da lì non vede bene ed allora si accontenta di farsi ombra con il braccio e resta a sudare. Per non parlare di quella coppia di anziani che voltano il viso nello stesso preciso momento al solo sentire l'aria spostarsi. Perché il ciclismo è aria che sposta, vento che ti prende a pugni. Oppure quella ragazza che ha fame ed essendo distante da ogni negozio recupera dallo zaino un pacchetto di cracker sbriciolato e non sapete che fatica fa a mangiare quelle briciole, perché c'è un leggero vento e deve già tenere in mano lo striscione e quelle briciole o cadono a terra dal pacchetto aperto male o volano via come il polline.
Già il polline, perché ieri c'era anche qualcuno con gli occhi arrossati ed il naso da cui quasi non passava più l'aria, maledetta allergia. Eppure è stato accanto alla transenna, non ha mollato di un centimetro. «Se si richiudesse tutto, un momento così lo rimpiangerei a vita. Tanto di allergia non si muore». E c'è chi ti ringrazia solo perché gli hai spiegato perché le moto in corsa stanno a sinistra: «Non me lo aveva mai detto nessuno». Che non è una frase scontata come può sembrare. Ha un peso importante.
E ci siamo noi, che dovremmo essere abituati a tante situazioni perché il ciclismo lo viviamo, perché di ciclismo viviamo. Invece, in macchina, ci voltiamo l'uno verso l'altro e gridiamo: «Guarda là!».
Sì, perché tutte queste cose le abbiamo sempre viste, ma solo quando ci sono state negate, siamo riusciti a tornare a guardarle. Questo è il bello di questo Giro, che si guarda, non si vede solamente.
Foto: Luigi Sestili
Aza e Filippo
La storia che vi raccontiamo oggi parte dalle vie del mercato di Torino, accanto all'Arsenale della Pace. Lì dove c'erano le armi, ora c'è un punto di ritrovo per madri sole, carcerati, stranieri, per tutti coloro che hanno bisogno di cura o di lavoro. In una piazzuola c'è un albero col tronco tinto dei colori del tramonto. Noi chiediamo il perché ad Aza, una ragazza eritrea che passa di lì. «Mia madre- ci spiega- mi raccontò che in un villaggio, da noi, si dipingevano le cose dei colori che le nutrivano, che le facevano star bene, e questo era un atto di cura. Non so, magari è successa la stessa cosa qui».
Qualche passo assieme, parlando, poi Aza fissa la bicicletta di un ciclista in ricognizione e noi le chiediamo se le piacciano le biciclette. Lei ci racconta della sua di quando era bambina: «Aveva un cesto davanti, anche qui si usa e le donne ci mettono la borsa. Il mio cestino era di vimini ed i vimini li avevo intrecciati io. Alcuni erano completamente sfilacciati e si lasciavano andare». Eppure spiega di non aver mai pensato di cambiarla e, se oggi non l'ha più, è solo perché gliel'hanno rubata.
La bicicletta di Aza non aveva nulla a che vedere con quella di Filippo Ganna, di questo siamo certi. Aza non conosce neppure Ganna e certamente neanche Ganna la conoscerà. Eppure, quando abbiamo sentito parlare la prima maglia rosa di questo Giro d'Italia, ci è tornata in mente proprio lei.
Ci è venuta in mente quando Ganna ha ricordato le polemiche dei giorni scorsi. «Ho sentito molte parole negli ultimi tempi. Ho preso tanti schiaffi negli ultimi tempi ed è giusto così. Qualche volta cedi, è normale. Sei un uomo e gli uomini si stancano, si fermano. Se non cedi mai, qualcosa non va». E poi ha aggiunto: «Certo che, quando leggi o senti certe cose, ci pensi e quando ci pensi ti blocchi, ti chiedi perché si dicano quelle cose».
Ci è venuta in mente quando Ganna ha raccontato della sua squadra di quest'anno e dell'anno scorso. «L'anno scorso ci siamo uniti quando è successo l'incidente a Geraint Thomas. Eravamo in ginocchio in quel momento e dovevamo trovare un modo per ripartire. Se non fosse accaduto, sarebbe stata la fine. Siamo stati bravi a capirlo, siamo stati coraggiosi a ricominciare». E, sorridendo: «Nei momenti difficili accadono cose bellissime. Ora sono contento di questa maglia, ma venti tappe sono tante e magari verrà il momento in cui i miei capitani faticheranno e dovremo supportarci ed anche sopportarci perché quando le cose vanno male si è tutti più nervosi. Bisogna accettarlo ed imparare a fare il proprio dovere divertendosi, anche quando è più difficile».
Ed in fondo è tanto difficile da mettere in pratica ma è così logico, così naturale. Come per la madre di Aza dipingere un albero per prendersene cura, come per Aza quel cestino di vimini sfondato. Siamo noi a complicare tutto, anche questo dice Ganna. Aza non lo dice, ma dal suo sguardo si intuisce. Per questo Aza e Filippo Ganna si somigliano. Perché sanno che molte cose sono semplici e vanno vissute così, in modo genuino, leggero. Per se stessi prima di tutto.
Foto: Luigi Sestili
Nei paraggi
C'è una ragazza accanto a un meccanico intento a pulire con uno straccio un tubolare. Chiede: «Per caso vi serve qualcuno che vi dia una mano? Verrei volentieri con voi. Anche solo per lavare le biciclette, anche gratis». Succede così, quando arriva il Giro d'Italia tutti vorrebbero partire. Anche qui, anche a Torino. Giorgio ci dice che a casa ha un camper, guasto, e quest'anno avrebbe voluto sistemarlo per seguire tutta la corsa da lì, ma da qualche mese è in cassa integrazione e non può permetterselo. «Le cronometro non mi sono mai piaciute: troppo statiche, noiose. Figuriamoci una cronometro che passa sotto casa. Questa volta è diverso: non avendo la possibilità di viaggiare è la prova migliore. Ti metti a bordo strada e vedi quanti corridori vuoi».
Qualcuno sposta un vaso da davanti casa e porta fuori una sedia e un tavolino di plastica bianca. «Maria» chiama a gran voce e poi borbotta qualcosa in dialetto piemontese. Sì, oggi cercate quella sedia e quel tavolo perché quel signore si apposterà lì a vedere i corridori. Se ci fate caso noterete anche un portacenere perché qualche secondo dopo è Maria a borbottare: «Un'altra sigaretta? Non mi ascolti proprio».
La corsa partirà a pochi metri da qui. Se ne sentono i rumori: pedali che frullano, ruote che girano, porte di ammiraglie che si aprono e si chiudono, ed ancora voci di corridori e meccanici seduti a un tavolino con qualche lattina di aranciata. Per Filippo Ganna è una parlata familiare, conosce inflessioni e modi dire. Sa che qui non può proprio mentire: «Non si può andare sempre veloci. Ci si deve provare, ma non è detto che ci si riesca» spiega a chi gli chiede se oggi sia il favorito. Egan Bernal pensa a casa, da qualche giorno ormai. «Mi fa male quello che sta accadendo in Colombia. Vorrei poter essere lì e sostenere la mia famiglia, il mio popolo». Non può, non c'è tempo.
Perché di questo si parla oggi, del tempo. La cronometro è l'esasperazione di questo concetto, come il ciclismo, perché in bicicletta le classifiche si fanno col tempo, sul tempo. Il punto è che nella quotidianità è tutto diverso. Giorgio ce lo ha detto: "In bicicletta puoi perdere, poi riparti ed è un'altra storia. Nella vita spesso non è possibile. In fondo, i campioni del ciclismo o dello sport ti fanno sentire quello che vorresti essere. Forte, deciso, convinto". Ed è vero, ma è anche vero che lui starà qui fino alle cinque e mezza per vedere tutti ed applaudire anche ciclisti che non conosce, anche gli ultimi, i gregari, coloro che magari domani si ritireranno. Perché essere forti non significa essere campioni, significa dare tutto ciò che si ha. E queste persone lo fanno tutti i giorni, in diversi modi: trascinando un vaso con le mani segnate dall'artrite, volendo partire e lavorare, andando a vedere qualcosa che non ti è mai piaciuto, perché sai che, se riesci a entusiasmarti, hai vinto, a prescindere da tutto.
Sono forti, incredibilmente forti. Perché spingere a tutta quando il traguardo nemmeno si vede è difficile. Ma è l'unico modo di essere ciclisti e, forse, anche di essere uomini.
Foto: Luigi Sestili
Il momento dell'attesa
Aldo, ieri mattina, si è alzato presto ed è andato a comprare il giornale. Glielo ha insegnato suo padre, quando era ragazzo, e lui non l'ha mai dimenticato, nemmeno oggi che è un signore di quasi novant'anni. «Il giornale dei giorni prima della partenza del Giro d'Italia si compra e poi si conserva per tre settimane perché lì ci sono tutte le informazioni per seguire la corsa» dice convinto, mentre guarda da lontano i corridori nel parco del Castello del Valentino. Poi continua: «Molti di questi nomi non so nemmeno pronunciarli, ma va bene lo stesso».
Dal cancello d'ingresso al palco saranno cinquanta metri. Tutti fanno attenzione al modo in cui gli atleti si mostrano sul palco, eppure, forse, è in quella passerella che si capisce qualcosa in più di ogni ragazzo. C'è chi, per timidezza o giovane età, non riesce a guardarsi intorno e abbassa lo sguardo, chi vorrebbe abbassarlo ma teme di sembrare diverso, debole, invecchiato- ciclisticamente si intende- e allora va avanti fiero, ma dentro chissà a cosa pensa. Sì, qualcuno ci ha detto che gli è capitato: arrivare ad una grande gara, attesa da mesi, e dirsi che sarebbe stato meglio stare a casa. Vai a capire la mente ed i suoi inganni.
Dylan Groenewegen, forse, ha fatto questo pensiero qualche volta, immaginando il proprio ritorno alle gare. Ieri no, ieri ha alzato la mano e ha salutato convinto quando è stato chiamato. Chissà, magari anche a lui il padre ha detto che certe cose si devono fare, per educazione. Quella mano l'ha riabbassata insieme allo sguardo quando lo speaker ha ripreso a parlare: «Ha sbagliato, ha pagato, sono felice che sia qui». Perché alcuni errori non te li perdoni nemmeno se paghi. Ci sono Simon Yates e Vincenzo Nibali che arrivano al palco vestiti di un orgoglio antico, come chi sa quanto vale e al diavolo tutto il resto. C'è Egan Bernal che non vuole scuse: «Le persone che pretendono risultati non devono essere fonte di pressione. Chi ti chiede tanto è perché sa che puoi farlo. Ringrazio queste persone. Spero di farle divertire».
Da lontano, Aldo ci indica un muretto e annuisce: saranno quattro, cinque bambini, accovacciati a guardare. Sta parlando Remco Evenepoel, che sabato tornerà in gruppo dopo circa nove mesi. Sta dicendo che soprattutto è felice e che l'importante per lui è ringraziare chi lo ha aspettato, la sua squadra.
Non riusciamo più a vedere Aldo, ma lo immaginiamo mentre fa sì con la testa, come quando ha visto quei bambini. Già, perché sa anche lui che nel tempo i giornali sono cambiati e oggi si trova tutto su internet senza conservare nulla, ma non gli interessa ed il giornale lo compra lo stesso, come parla di ciclismo pur pronunciando solo i nomi italiani. Perché sia il giornale che il ciclismo lo fanno sentire atteso, aspettato, lo fanno sentire come un tempo anche se quel tempo è passato e questo non gli piace poi molto. Per questo Aldo è tornato al Giro. E forse per questo ci ha raccontato quella storia che sembrava non interessare a nessuno ed invece interessa a tutti.
Foto: ©Luigi Sestili
Sicurezza in strada e in corsa: intervista a Matteo Trentin
«Sono decenni che le nostre strade non sono sicure e noi continuiamo a parlarne senza mai cambiare nulla. La tragedia di Silvia era evitabile, come tante altre. Non si può solo parlare, servono persone in grado di agire. Da noi mancano capacità e conoscenza». Matteo Trentin è desolato, innervosito, e quando si parla di sicurezza stradale non fa sconti a nessuno. «Non ho letto i provvedimenti del Pnrr, ma basta guardarmi in giro per vedere che le cose non vanno. Ora apprendo che si sono previsti 570 chilometri di piste ciclabili urbane e sono stati stanziati 600 milioni per la realizzazione di ciclovie turistiche e ciclabili urbane. Mi sembra ridicolo. In primis 570 chilometri sono un nulla, solo la città di Parigi ne ha di più. Inoltre: quanto si è parlato di transizione ecologica? Questo dovrebbe essere il primo punto su cui investire, se si vuole la transizione ecologica. Ci rendiamo conto che, anche se sostituiamo tutte le auto con macchine elettriche, non abbiamo risolto nulla? Capiamo che avremo sempre gli stessi incidenti e che se un'auto piomba su un ciclista o su un pedone i danni sono ingenti, elettrica oppure no? Forse ci sarà meno inquinamento, ma quella energia, in qualche modo, andrà pur prodotta».
Trentin legge molto sul tema e proprio l'altro giorno è stato colpito dalla riflessione di un urbanista. «Lui afferma che le persone, di fatto, usano ciò che gli si mette a disposizione. Ed è vero. Se continuiamo a costruire autostrade poi non possiamo meravigliarci che la gente giri in auto. Tutti sanno che la bicicletta è il mezzo del secolo: il più comodo che esista, ti muovi agevolmente, risparmi denaro, tempo e non hai nemmeno il problema del parcheggio, però tutti preferiscono prendere l'auto, anche per fare cinquecento metri. Perché la società spinge in quella direzione: la bicicletta non è considerata indispensabile, l'auto sì. Tutto il resto viene di conseguenza. In una strada così affollata di auto, in cui viene a mancare il principio base della civiltà, quello del rispetto per i più deboli, andare in bicicletta fa anche paura. Io andavo a scuola in bicicletta, oggi, se mio figlio me lo chiedesse, gli direi di no».

Tanto più che, spiega Trentin, in Italia le possibilità per costruire ciclabili ci sono tutte. «Non si parla di paesini abbarbicati sui monti in cui questo sarebbe difficile. Qualcosa si è fatto: a Milano, per esempio, o a Ferrara che credo sia la città più ciclabile d'Italia. Ma serve ancora fare tanto. Nelle grandi città si sta iniziando ad accettare l'idea che le auto debbano restare fuori dai centri storici, nei piccoli paesi si fa più fatica. Sembra di vietare chissà cosa quando si parla di centro pedonale. E pensare che in quei centri, con altri mezzi, ci si muoverebbe meglio».
Ma la questione è più complessa e Matteo Trentin torna sul tema del rispetto. «Forse nemmeno una ciclabile avrebbe salvato Silvia, perché per allenarsi non l'avrebbe usata. Giustamente, non ci si può allenare sulle ciclabili. Il rispetto, però, l'avrebbe salvata di sicuro. Perché a scuola guida non si parla di rispetto per gli utenti deboli? Perché la legge non fa nulla per questo? In Italia ci battiamo da anni per il metro e mezzo di distanza per la nostra sicurezza. Petr Vakoč mi ha detto che, la stessa istanza, in Repubblica Ceca, è arrivata in parlamento in pochi mesi. Io ieri ho rischiato ben tre volte, di cui due per persone che passano apposta a pochi centimetri dalla bicicletta, quasi per spaventarti». Qui l'affondo: «Le colpe vanno certamente ripartite, perché anche chi va in bicicletta sbaglia, ma da noi si è giunti all'assurdo. Anche se c'è un errore dell'utente debole, non è possibile giustificare l'auto che gli piomba addosso. Non deve succedere, a prescindere».
Altra tematica discussa in questi giorni riguarda l'introduzione dell'obbligo del casco per i cicloamatori o i turisti. «Sarei favorevole, assolutamente. Credo, però, non sia questo il momento di parlarne. Iniziamo ad avere tante persone che si spostano in bicicletta e poi ci pensiamo. Il casco salva in incidenti fra biciclette, quando cadi da solo, ma se un'auto ti travolge le conseguenze sono gravi ugualmente. Lì il casco non cambia nulla».
Poi c'è la sicurezza in gara, i veri problemi e quelli trasformati in problemi da chi «dovrebbe conoscere il ciclismo, visto che lo governa ed invece, a quanto pare, non lo conosce per nulla». Trentin parla della faccenda borracce. «Le premesse e le promesse erano diverse. Poi non si sono ascoltati gli atleti e si è presa un'altra direzione. Un conto è parlare di passaggio della borraccia in sicurezza, altro conto è vietare un'usanza tipica del nostro sport da secoli. Tra l'altro con borracce biodegradabili e persone che non vedono l'ora di raccoglierle. Dicono che in alcune parti del mondo non vengano raccolte e restino a bordo strada. Bene, facciamo qualcosa di diverso in quei paesi. In Europa questo rischio non c'è».
Infine un plauso, perché le cose fatte bene vanno riconosciute. «Parlo di Flanders Classics e delle nuove transenne adottate per le classiche di primavera. Non sono un tecnico, non posso giudicare nei dettagli queste barriere. Apprezzo il fatto che qualcuno si sia informato e sia andato da un'azienda a richiedere un progetto, senza che ci fosse un obbligo di legge. Che lo abbia fatto per la sicurezza di tutti. Altrimenti poi succede come in Turchia. Io non sono mai caduto in mezzo alle transenne e spero di non finirci mai. Spesso, però, le nostre sono transenne vecchie di anni, non si sono mai cambiate per risparmiare ed oggi i costi sono elevatissimi. Se si fosse lavorato nel tempo, forse, non saremmo a questo punto. Certo, non tutte le organizzazioni possono permettersi di sostenere costi simili, ma se si comprassero assieme e si condividessero? Almeno per gare che non coincidono a livello temporale. Perché non pensarci?».
Foto: Vincent Kalut/PN/BettiniPhoto©2021
A Liegi vince la fantasia
A Place Saint-Lambert, alla partenza della Liegi-Bastogne-Liegi, qualcuno ricorda Antoine d'Ursel, l'uomo che "tentò di truffare la Liegi", nel 1892, non proseguendo per Bastogne, ma restando lì, nascosto, nell'attesa del suo rivale Leòn Houa. D'Ursel perse, venne scoperto e fuggì in America, in preda all'imbarazzo. A Liegi resta anche qualcosa di Georges Simenon e del commissario Maigret, qualcosa di quello studio in cui lo scrittore si chiudeva, con del cognàc e delle pipe. Potresti immaginarlo ovunque, guardando verso l'alto di un edificio, dietro una finestra. Non c'è posto per strane idee.
Da Liegi a Bastogne e ritorno, ma da un'altra strada. Quella infarcita di côte, denti a mordere i muscoli. C'è la fuga, c'è anche un italiano davanti, Lorenzo Rota, ma le strade imbastite di case con tetti di ardesia, a cupola, a torretta, a ricordare i Castelli della Loira, non hanno pietà. Lui, Huys e Marczyński saranno gli ultimi fra i sette fuggitivi a cedere alla caccia del gruppo. Vliegen si bloccherà d'improvviso qualche metro prima, massacrato dai crampi, come un rantolo sordo. L'inizio dei saliscendi è una campana a morto per chi è in coda al drappello di testa come al plotone: atleti che si staccano, indolenziti dall'acido lattico, come tendini che si strappano, mentre davanti si buttano le prime carte.
Luis Leòn Sànchez e Omar Fraile scattano sulla Côte de Wanne, placcati dal gruppo. Anche Philippe Gilbert si farà vedere in testa sullo Stockeu, colle che ricorda una stoccata, qualcosa di rapido ma doloroso. Lui che, nei giorni scorsi, è andato dal suo macellaio, a Remouchamps, accanto a La Redoute a comprare una bistecca. Emozionato perché non gli capitava da tanto di essere a casa nei giorni prima della Doyenne. Sono graffi, niente più. Rosier e Desnié sono solo fatica, pura fatica, nelle gambe, in attesa di una corsa che scalpita, un purosangue nervoso che cerca di scrollarsi di dosso un fantino inesperto.
L'azione della Deceuninck-Quick Step e successivamente quella della Ineos frantumano il plotone una prima volta su La Redoute, una seconda volta sulla Côte de Forges, la più innocua all'apparenza, ma, dopo duecentoquaranta chilometri, le apparenze somigliano a miraggi: ingannano sempre.
Il nome Redoute deriva dal linguaggio bellico, significa fortino di guerra, luogo in cui mimetizzarsi e nascondersi. Qui è ancora possibile fingere. Poco più in là ogni imbroglio è scoperto e pagato a prezzo d'oro. Richard Carapaz riuscirà ad andare via così, grazie alla tattica di squadra, a tutta, testa bassa e denti talmente digrignati che quasi ti chiedi come facciano a non saltare sotto tanta pressione. Chi sbaglia, paga. Vale per l'Astana che dopo tanti attacchi resta a bocca asciutta quando l'attacco è quello giusto. Vale anche per lo stesso Carapaz che forse esagera nello scatto e quando partono Valverde, Alaphilippe, Woods, Pogačar e Gaudu non può che restare a guardarli, da lontano.
Siamo sulla Roche-aux-Faucons, salita che nel nome ricorda i falchi, per assonanza, loro che ghermiscono e portano via. Roglič è dietro, Schachmann anche, Kwiatkowski pure.
Ora la strada verso Liegi scorre veloce, prima perché in discesa, poi perché i cinque in testa spingono i pedali a gran velocità, sembrano non sentire la fatica, mentre provano a seminare il gruppo. Nel frattempo le squadre degli attaccanti rompono i cambi e favoriscono la fuga.
L'ingresso nell'ultimo chilometro è attesa, battito e respiro trattenuto. Gaudu si sposta a bordo strada, Alaphilippe si volta a destra e a sinistra, favorito in volata, Valverde è in testa, quarantuno anni oggi e ad un passo dalla quinta Liegi, come Merckx, alla sua ruota Woods, Pogačar pizzica la radiolina e si mette in ultima posizione. Valverde parte lungo, Alaphilippe sembra rimontarlo, è pronto al colpo di reni finale, Pogačar è un equilibrista che dal lato delle transenne si butta all'interno e lo supera sul traguardo. Al secondo posto il campione del mondo che ancora una volta viene beffato da uno sloveno, terzo Gaudu.
Vincono l'imprevedibilità e la fantasia di un ragazzo di ventidue anni che l'anno scorso ha vinto il Tour de France e che ancora riesce solo a immaginare dove può arrivare. Perché Simenon ed il suo Maigret lo sanno bene: a Liegi non si può barare, ma è concesso, anzi doveroso, inventare.
Foto: Peter De Voecht/BettiniPhoto©2021
Questione di scelte
Ci sono Umberto e Martino, su una barca, con le canne da pesca tirate, in mezzo alle acque del Lago di Garda, mentre l'alba solleva una leggera fuliggine. Sono pescatori, da decenni. «Sinceramente invidio chi riesce ancora a stupirsi per le acque. Per un pescatore diventano ossessione, anche preoccupazione. E sai com'è difficile vivere in preda alle bizze del lago o del mare?». Forse chiunque guarderebbe il lago in maniera diversa se parlasse con loro.
La fuga di oggi ha anche qualcosa di quella barca. Matteo Fabbro, ad esempio, si porta quel cognome che ha tutta l'umiltà dei lavori più semplici e la genuinità di quei ragionamenti: «Il punto non è se ci sono tanti sacrifici da fare, il punto è quanto ti pesano quelle rinunce. A me non danno fastidio». Thibaut Pinot, invece, col lago ha un rapporto speciale. Lo ricordiamo a Como, a ottobre del 2018, quando ci disse che amava quelle strade perché simili a lui. Dicono che l'altro giorno, in un momento difficile, volesse ritirarsi e che sia ripartito solo grazie al sostegno di un compagno. Nicolas Roche deve aver provato ciò che provano quei pescatori quando si è accorto di essere un onesto pedalatore, non un campione come il padre. «Sogno è ciò che puoi fare, illusione è ciò che ti fanno credere di poter fare. I sogni ti aiutano a migliorare, le illusioni ti fermano, ti rendono cieco». Ma anche per Cepeda, in gruppo, vale lo stesso. Lui che ieri mattina ha sceso a fatica l'ultimo gradino del palco presentazione, forse per fatica, forse per dolore, eppure non lo diresti mai vedendolo pedalare. Come quei pescatori che salutano spensierati e faticano a prendere sonno la sera.
Großschartner ci pensava questa mattina. Ogni giorno una fuga e poi nulla da fare: la frustrazione non la scacci più. Tutti ti dicono che la fuga è bella anche se non arriva, anzi, forse se non arriva è ancora più bella perché, alla fine, per gli sconfitti si tifa bene e si scrive ancora meglio. Già, facile essere generosi con la fatica altrui, non costa nulla in fondo. All'austriaco, invece, tornare in fuga è costato ed anche molto.
Ad ogni chilometro pensava e sperava che potesse essere la volta buona, poi guardava la cartina e si ricordava di quante volte si era raccontato la stessa storia nei giorni prima. La solitudine se l'è conquistata con il ritmo, con la costanza e pure con qualche paura. Chissà cosa avrà pensato quando, da solo in testa, gli hanno gridato nelle orecchie che dal gruppo era partito Quintana. «Ecco, adesso arrivano questi e siamo fregati un'altra volta». Non è stato così perché quello di Quintana era un fuoco soffocato in un camino, un rigurgito d'orgoglio, troppo facile per Simon Yates andare a chiudere. Chissà cosa avrà pensato ad ogni tornata, Lago di Tenno-Tenno-Varone-Riva, quel finale che non era la fine. Non ancora, almeno.
Il finale è una vipera incattivita dal bastone di un cercatore di funghi, che volta di scatto la testa e sibila cercando di infondere veleno. Großschartner, che sino a quel momento, aveva del ritmo il suo veleno per i rivali, perde la pazienza e forza l'andatura. Vuole arrivare quanto prima alla fine. All'ultimo chilometro quasi la bicicletta gli scivola via, tanto pedala duro, lungo rapporto e posizione aerodinamica. Si volta, guarda se dietro c'è qualcuno, si alza sui pedali, leggero, quasi a sgranchirsi i muscoli e poi alza le braccia. Lui vince la tappa, Simon Yates vince il Tour of the Alps.
Martino e Umberto non sono qui. Martino stamattina ha guardato Umberto quando gli abbiamo chiesto se volessero farci compagnia. Poi si è voltato: «Anche volendo non potremmo. Questo pomeriggio dobbiamo lavorare e domani mattina ci si sveglia alle quattro. Ma va bene così». E Umberto, spostando un attrezzo dalla barca: «Guarda, la nebbia è scomparsa. Ora puoi vedere bene il lago». Perché, in fondo, anche se non lo ammettono, il lago continua a piacere anche a loro. Hanno scelto così, come Großschartner ha scelto di tornare in fuga, perché la parte brutta delle cose esiste comunque, a noi il compito di renderla sopportabile. Loro lo sanno e sono felici.
Foto: Dario Belingheri/BettiniPhoto©2021
Una giornata particolare
È il giorno in cui bisogna dimostrare. Arriva in tutte le corse, questa volta arriva alla penultima tappa, da Naturno a Pieve di Bono, dopo Passo Castrin, Passo Magno e Boniprati, circa 4000 metri di dislivello, arriva soprattutto dopo una discesa a rotta di collo verso il traguardo.
Simon Yates ha dedicato solo a se stesso la vittoria nella seconda tappa, perché si può arrivare al traguardo mentre tutti ti attendono o arrivare quando nessuno più ti cerca, quando il vincitore sta già tornando in albergo e, se non sei tu ad aspettarti, rimani comunque da solo anche se attorno hai tanta gente. Andrea Vendrame lo ha imparato da ragazzino, quando il padre cercava di convincerlo a lasciar perdere il ciclismo: «Ora ci crede anche lui, ma ora è anche facile». Matteo Fabbro dice che l'unico modo per dimostrare è continuare a provare, anche se sbagli, come è accaduto alla BORA-Hansgrohe nei primi giorni. Chris Froome nella sua carriera ha già dimostrato e sa che non se ne può mai fare a meno. Questo intende quando dice: «Non chiederei mai a un mio gregario di fare qualcosa che io non farei per lui». Questo intendeva quando è scattato dopo la partenza, come uno dei tanti. Assieme a lui nomi a cavaturacciolo, scioglilingua pungenti: Pernsteiner, Ghebreigzabhier, Großschartener, tra gli altri.
Ogni gregario delle squadre che si sono messe in testa al gruppo ai quaranta chilometri dal traguardo sa bene cosa sia questo giorno. Qualcuno racconta: «Essere gregari è anche una scelta. Lo scegli, per esempio, quando ti rendi conto che la pressione ti schiaccia e rischi di smettere». Così si sfiniscono e quando si spostano a bordo strada quasi si fermano, cercando il respiro nelle viscere. Così ha fatto spesso Oliviero Troia, ultimo in classifica generale, a circa un'ora e oggi ritirato. C'è frenesia nel giorno in cui bisogna dimostrare, come il gruppo che si rimescola in preda alla follia della velocità, dopo aver ripreso la fuga, a pochi chilometri dall'attacco della salita di Boniprati, mentre gli uomini di classifica limano, si sfiorano, quasi si graffiano per trovare il proprio posto. Il giorno in cui devi dimostrare è anche il giorno in cui devi controllarti, tenerti calmo. Non c'è riuscito Pavel Sivakov che oggi è parso il più terribile dei masochisti. Il ritmo della sua squadra in salita lo ha cancellato, annientato. «Vai, non ce la faccio» dice a Dani Martìnez, suo ultimo uomo. Lui continua a guardarlo, prigioniero del senso del dovere, smarrito. È il buio.
Davanti impazza Vlasov, Quintana dapprima attende, poi cede. Simon Yates è la calma che siede sul trono. Guarda i suoi avversari che si azzannano come lupi attorno alla carcassa e li sfida con l'impassibilità, la freddezza. Fa male l'indifferenza, manda in tilt. Daniel Martin, alle loro spalle, sbanda una prima volta e cade sul brecciolino della discesa, a peso morto, senza sganciare il pedale, poi torna a cadere in preda alla paura. Non ha alcun timore, invece, Bilbao che si lancia come un kamikaze e si riporta su Yates e Vlasov, già convinti di averla scampata. A Yates va anche bene così, Vlasov prima è stizzito, poi staccato. Può solo tirare dritto e nascondere i dubbi dietro gli occhiali. Rientrerà mentre Bilbao starà per lanciare la volata e ripartirà ribaltandosi lo stomaco dalla foga negli ultimi duecento metri. Sarà secondo, lui che, se avesse vinto, avrebbe parlato di Michele Scarponi. Chiunque lo avrebbe fatto oggi. «Ci ricordiamo tutti di lui» dice Bilbao.
Stasera Yates penserà a domani, perché sarà un altro giorno in cui dimostrare, come ogni mattina in cui ti metti a fare ciò che hai scelto e hai sempre paura di aver scelto male. Così prendi una canzone triste e provi a farla bella. Questo dicevano i Beatles a Jude, sulle note di una canzone che esce da una macchina al traguardo. Questo dice Yates a chi anche oggi ha dovuto dimostrare e stasera torna a casa temendo di non esserci riuscito.
Foto: Ilario Biondi/BettiniPhoto
Le crepe del ghiaccio
L'odore del primo caffè è acre a Sankt Leonhard im Pitztal. Simon Yates, affacciato alla finestra, osserva il ghiacciaio di fronte all'albergo. Maria racconta che su quella cima ha perso la vita il fratello. «Ho perdonato quel ghiacciaio, ma non lo guardo più. So che è molto grande, ma ti assicuro che si può anche non vederlo». C'è qualcosa di antico, di gentile, nelle sue parole come i castelli tra Imst e Naturno. La realtà è che è sempre difficile restare gentili quando si perde qualcosa o qualcuno.
Tejay van Garderen, in fuga oggi, può raccontarlo. Quando al Tour de France 2015 si ritirò, pallido e sfiancato, aveva troppe spiegazioni da dare. Possiamo solo immaginare come si sia sentito nel dover dire alla moglie che non c'era più nulla, che suo marito quel giorno era malato e pedalava più piano dei velocisti. Poi la squadra, i giornali, i tifosi. E se mandassi tutti al diavolo? No, van Garderen quelle spiegazioni le ha date tutte.
A Naturno raccontano una storia simile, tra i meleti: «Sai, quelle piante di mele sono troppo vecchie per dare il frutto, eppure nessuno le taglia. È una forma di rispetto per quel che erano. E quelle mele, pur buone, non erano per nulla belle, erano bitorzolute, storte, piene di nebbiolina sulla superficie». Chissà, forse quel contadino parlava anche dei ciclisti, pur non conoscendoli, gesticolando con quelle mani piene di terra.
La strada, poco più in là, è un intestino attorcigliato, in preda a convulsioni. A Passo Resia c'è quel campanile sommerso dall'acqua, addormentato dal tempo, magnifico e dolente. A Frinig un senso di inquietudine pervade stradine strette come budelli. Dalla mattinata tutti dicono che la fuga può andare al traguardo, ma non è così facile. Sì, perché il gruppo ti illude e poi ti punisce. Non ti racconta quasi mai la verità. Vanno via in quindici. Moscon e Fabbro non si fidano, sentono il respiro del plotone e danno la prima sgasata. Seduto sulla sella, possente, Moscon, sui pedali, da destra a sinistra e da sinistra a destra, Fabbro. Sono loro due a prendersi la responsabilità di scegliere anche per Storer e Großschartner che diventano proiezione della loro ombra. È il punto di rottura. Come quella ragazza che pattinava sull'acqua ghiacciata, guardando le crepe. Come quel ghiacciaio da non guardare. L'elastico salta e la fuga si frantuma.
Dopo Tarres la strada è quasi tutta dritta verso il traguardo. Il peggio che possa capitare perché nascondersi dietro una curva è il modo migliore per far paura. Quando non ti vedono, si scoraggiano e mollano la presa.
In gergo ciclistico si dice che Moscon abbia lanciato una volata lunghissima e così abbia superato Großschartner. Una volata lunga è quella che ti frantuma i polmoni e che solitamente perdi, una volata lunghissima è quella per cui poi devi dare spiegazioni.
Moscon non ha paura di tutto questo. L'altro giorno, a un collega che gli chiedeva del suo carattere, dei suoi scatti di nervosismo, ha spiegato che guardare indietro non ha senso perché lì non puoi cambiare nulla. Ha detto “grazie per la domanda”, nient'altro.
Ci ha ricordato Maria che riesce a non guardare, a non vedere, una cima impossibile da trascurare. Ci ha ricordato tutti coloro che per continuare devono scordarsi troppe cose ed anche chi, nonostante continui a provarci, non trova una via d'uscita. Pinot, per esempio, che qualche anno fa non avrebbe mai tentato quell'attacco, così lontano dal traguardo, ed invece oggi ha maledetto quella foratura.
Ma, soprattutto, ci ha ricordato quel contadino e quelle vecchie piante di mele. Perché se è vero che è difficile restare gentili con le proprie sconfitte e con le proprie difficoltà, è altrettanto vero che quello è l'unico modo per non lasciarsi andare. Così Moscon non vince solamente perché precede l'austriaco, vince soprattutto perché ha imparato.
Ilario Biondi/BettiniPhoto©2021
L'intelligenza del ragno
Aulst conosce tutti e tutti conoscono Aulst, ad Innsbruck. Sotto i portici della città, seduto su una coperta a pochi metri dal Tettuccio d'Oro, si accarezza la barba, imbiancata dal tempo e arricciata dall'ultima pioggia. Cinquant'anni circa, qualche schiaffo dalla vita e poche parole, dense. «Mi sono rimasti solo gli amici. E sapete come sono bravi i miei amici?» dice mentre mostra un sacchetto stropicciato con all'interno un pezzo di focaccia. Fuori il tempo si imbizzarrisce, lui prende il cappello dalla tasca della giacca e se lo infila. Il suo tetto sono questi portici, oggi più silenziosi che mai. «Un giorno, forse, qualcuno mi regalerà una bicicletta nuova, sarebbe bello. Con una bicicletta si può andare via». Dice così Aulst, proprio mentre le biciclette se ne vanno, e mangia un altro boccone. Pensieroso.
Gianni Moscon, forse, vorrebbe raccontargli qualcosa. Qualcosa che ha a che vedere con la fatica che si fa per andarsene, in fuga, in un'altra città o in un'altra casa, anche se andarsene è tutto ciò che si vuole. Qualcosa che ha imparato da Cioni: «Io volevo fare troppo e, quando esageri, non ti alleni, ti sfinisci. Ti stravolgi. Bisogna anche respirare, darsi tempo». Perché non basta una bicicletta per andare via, ovunque si vada: il peso più grande è il tuo, il tuo corpo, la tua carne, quello che sei. Forse è per questo che i ciclisti nei momenti di maggiore sforzo si alzano sui pedali, quasi a volersi scrollare il peso di dosso. Così fanno Thompson, Janse Van Rensburg, Bais, Vacek, Hulgaard ed Engelhardt quando scattano.
La strada è tutta all'insù. Il sudore che si affaccia sui volti degli atleti non ha tempo di cadere a terra, scivola lungo il viso, sulla gola e si infila a goccioloni nella casacca. Freddo come l'aria che vortica tra le Alpi Venoste. Bais e Thompson non si voltano neppure quando, durante la seconda ascesa al Piller Sattel, il gruppo rinviene su di loro, guardano il vuoto e storpiano la bocca. Il plotone in certi casi lo senti, non lo vedi, ed è meglio così. Nairo Quintana li lascia sfilare, quasi un ultimo atto di pietà, poi attacca. Occhi fissi nei pochi metri che seguono, alla maniera degli scalatori, alla maniera di quelli che non hanno paura delle pendenze, che non guardano mai il tornante successivo.
Alcuni raccontano che nei momenti prima di una crisi ti senti in grado di spaccare il mondo, sei euforico, poi ti cedono le gambe e ti stacchi. Se non sei lucido, crolli verticalmente, Quintana limita i danni, ma ha innescato l'ingranaggio ed è nella sua morsa. Pavel Sivakov e Dani Martinez rilanciano, uno scatto dopo l'altro, lo controllano e aspettano che reagisca. Una ragnatela di finte e bugie, come il ragno che tesse ogni filo e si apposta nell'angolo migliore per controllare il moscerino mentre si dibatte senza speranze.
Cosa avrà pensato il colombiano? Quante alternative e quante possibilità avrà stracciato come fogli scarabocchiati? Simon Yates, invece, è il ragno. Lucido, attento, concentrato. Osserva silenzioso le mosse degli avversari, lascia che sfoghino ogni pretesa, ogni rabbia repressa, ogni fantasia. Poi parte, scatta come freccia scoccata dall'arco. Salita, discesa e ancora salita verso Feichten im Kaunertal.
Yates che, nella sua carriera, è andato più volte da solo in testa al gruppo, ma qualche volta è anche rimasto solitario in coda. Pure quando non lo avrebbe mai immaginato, per esempio, al Giro d'Italia 2018, dopo che aveva detto di non avere paura, che sullo Jafferau avrebbe avuto rispetto per tutti e timore per nessuno. Poi era arrivato a mezz'ora da Froome, sfinito ma composto nella sofferenza, mentre con le braccia tremanti si asciugava il volto. Forse il giorno prima aveva mentito ai giornalisti, forse già seduto su quella sedia, in conferenza stampa, sentiva i muscoli tirare e i nervi stanchi, forse non poteva fare altro, come Quintana oggi. «Credo sia duro da accettare- aveva dichiarato- in fondo, però, è solo una corsa in bicicletta». Così quel giorno aveva provato a dare il giusto peso a quella bicicletta che sembrava incastrata nel catrame e a ciò che aveva dentro. Allo stesso modo ha vinto qui, con una bicicletta per andarsene e tutta la leggerezza che serve per riuscire a guidarla.
Chissà se qualcuno regalerà una bicicletta a Aulst, a quest'ora ancora sotto quei portici, appoggiato ad una colonna di cemento e allo zaino. Chissà soprattutto se Aulst, quel giorno, sarà così felice da poter ripartire.
Foto: Dario Belingheri/BettiniPhoto©2021