Una lezione di cross da Daniele Fiorin

Se vi capitasse di osservare Daniele Fiorin al lavoro, durante qualche gara di ciclocross, siamo sicuri che anche voi, come noi, rimarreste colpiti dal senso di ”cura” messo in campo da quest’uomo nei confronti dei suoi ragazzi. Daniele Fiorin è una guida, questo è importante sottolinearlo: «Cerco di trasmettere la mia esperienza in tema di interpretazione del percorso. Nel giusto o nell’errore, ci mancherebbe, non ho la presunzione di non sbagliare mai. Anzi, lo dico sinceramente: alcuni fra i miei ragazzi sono anche più bravi di me e possono permettersi di adottare soluzioni diverse da quelle che suggerisco. Io ho il dovere di indicare una o più chiavi di lettura del percorso. Può capitare che la traiettoria migliore sia adottata da qualcun altro, allora il ragazzo deve avere l’alternativa: il mio dovere è indicare le possibilità e le alternative». Daniele Fiorin monta in sella a una bici, si sposta da un lato all’altro del tracciato e con le mani indica ogni singolo ostacolo, suggerisce la strada da prendere, quando stare in sella e quando scendere e prendere la bicicletta in spalla. «I miei ragazzi hanno diverse età: l’impostazione cambia ma neanche troppo. Da giovanissimi è un gioco, successivamente subentra qualcosa di più tecnico. A me è sempre piaciuto lavorare sulle abilità motorie, mi sono focalizzato sul ciclocross e sulla multidisciplina quando ho visto che con il passaggio agli esordienti questi aspetti mancavano. Pensare che da ragazzo davo del ”pazzo” a chi praticava ciclocross d’inverno, li consideravo stacanovisti che non riposavano mai. In realtà, fatto nei dovuti modi e con i dovuti tempi di recupero, è un grosso aiuto sia dal punto di vista tecnico che condizionale».

(Crediti: Fabiano Ghilardi)

La parola chiave Fiorin l’ha già usata, è “gioco”: «L’ho capito studiando all’ISEF. La vecchia concezione prevedeva che il ciclista potesse fare solo ciclismo: io, per esempio, ho imparato a nuotare a diciotto anni, non avevo quasi mai toccato una palla, ho imparato le basi del salto in alto e del salto in lungo. Tutto in un’estate, per l’esame di ammissione. Mi sono sempre detto che i miei ragazzi non avrebbero mai dovuto arrivare a quel punto: va bene l’impegno nel ciclismo ma deve essere affiancato dal divertimento e da altre esperienze sportive». Il cambiamento di approccio che Fiorin ha adottato in questi anni, coincide con un personale cambiamento: i primi allenamenti dei ragazzi venivano svolti durante la fase di defaticamento dei propri allenamenti. Parliamo infatti del periodo in cui anche lo stesso Fiorin correva. Successivamente una sorta di squarcio del cielo pirandelliano: lo studio lo porta a capire ciò che veramente è essenziale dare a questi ragazzi e a queste ragazze: «Come nelle gare si indicano le alternative alla traiettoria designata, così nel percorso di crescita bisogna fare in modo che sia sempre presente la possibilità di scelta. Proprio provando e scegliendo, sono nate atlete come Alice Maria Arzuffi e Maria Giulia Confalonieri. L’una specializzatasi nel cross, l’altra nella pista. Entrambe discipline che da noi vengono considerate assolutamente in subordine rispetto alla strada». Qui si tocca la radice del problema: «Si tratta di un fattore storico e di mentalità. Il primo dipende dal fatto che la nostra nazione ha sempre privilegiato il ciclismo su strada. Gli anglosassoni, pur arrivati dopo, ci hanno surclassato in quanto in grado di sperimentare ed innovare. A noi manca questa capacità. Il secondo è anche un problema dei tecnici: è più semplice insegnare quello che già sai. Per insegnare qualcosa di nuovo è necessario mettersi in gioco e magari imparare i fondamentali della pista già in età adulta. Io, ad esempio, non avevo esperienze nel ciclocross. Tutto quello che ho imparato, l’ho appreso da autodidatta, cercando di osservare con senso critico ciò che facevano gli altri e di ”rubare” ciò che credevo fosse giusto. Senza alcuna paura di chiedere spiegazioni».

(Crediti: Fabiano Ghilardi)

Sara e Matteo sono i figli di Daniele e anche loro praticano ciclismo a trecentosessanta gradi, dal cross, alla pista, alla strada, alla cronometro: «Sono molto felice della loro passione ma devo ammettere che non è sempre così facile conciliare il ruolo di tecnico con quello di padre. Mi spiego meglio: come tecnico sono un punto di riferimento per i miei ragazzi. Tante volte i genitori mi chiedono di parlare con i loro figli per spiegare determinate cose. L’impatto che ha un tecnico è certamente diverso da quello che ha un genitore. Con i miei figli manca questo passaggio intermedio. Nell’ambito della squadra si sono dovuti abituare a non avere tutte le attenzioni che magari vorrebbero. Sai, talvolta per non agevolarli si finisce per penalizzarli. Questo mi spiace, davvero, ma forse potrebbe anche essere un bene. Se avranno la fortuna ed il desiderio che il ciclismo diventi il loro lavoro e passeranno in squadre importanti, dovranno abituarsi a essere trattati come ”uno fra tanti”: le troppe attenzioni genitoriali, in questo senso, sarebbero deleterie». Daniele Fiorin è franco. Sia nella chiacchierata con noi che con i suoi ragazzi: «La realizzazione personale dei miei ragazzi è la cosa che più mi interessa. Per questo ripeto sempre: la scuola e il lavoro vengono prima. Quando lavoravo con gli juniores, lo dicevo: “Se vi capita un lavoro che può sistemarvi, pensateci bene. Un conto è divertirsi con la bicicletta, l’altro conto è lavorare con la bici. A potersi mantenere grazie al ciclismo sono ben pochi”».

(Crediti: Fabiano Ghilardi)

Alla base di tutto cosa c’è? «L’importante non deve essere il risultato in termini assoluti. Quello può essere condizionato da vari fattori: un infortunio o una circostanza sfortunata, ad esempio. Bisogna lavorare sulla prestazione e provare a migliorare se stessi, non il risultato. Come? Come si faceva a scuola quando si lavorava sulla resistenza, nella corsa ad esempio. Devi pensare ai cento metri davanti a te, certe volte anche meno, raggiungerli e poi ripartire da lì. Così riesci a mantenerti positivo, così riesci ad arrivare al traguardo. La stessa cosa accade quando scali una salita: devi pensare al tornante successivo, non al Gran Premio della Montagna in vetta. Altrimenti rischi di scendere dalla sella e ritirarti. Se ti focalizzi solo sul risultato, sarai molto più portato a smettere non appena questo risultato dovesse non arrivare o non arrivare più». Sarà per le sue capacità tecniche, sarà per la sua capacità di far leva sui giusti stimoli, sarà per come riesce ad entrare nella testa dei suoi ragazzi o per quella cura, scevra da giudizi, che mostra ad ogni gara, ma di Daniele Fiorin parlano tutti bene: «Un allenatore, un tecnico, soprattutto con i giovani, deve essere un educatore. Non riesco a immaginare un modo diverso per interpretare questo ruolo. Quando si entra nei meccanismi psicologici, è utile ribadirlo: non sono uno psicologo e, sicuramente, avrò sbagliato diverse volte e diverse volte ancora sbaglierò. Però provo a prendermi cura del benessere psico-fisico dei miei ragazzi. La mente, spesso, è molto più importante delle caratteristiche fisiche. Se si inceppa qualcosa a livello mentale, si inceppa tutto. Serve molta attenzione».

(Crediti foto in evidenza: Fabiano Ghilardi)


Alessandro Fancellu: «In cima al Mortirolo…»

Alessandro Fancellu, quel giorno, stava andando in vacanza con i suoi genitori ad Aprica, dal nonno: «Ho visto la scritta indicante la salita del Mortirolo. Mi ha incuriosito. Avevo una mountain bike e ho voluto provare a scalarlo. Non ho nemmeno idea di quanto tempo ci abbia messo ma ci sono riuscito, sono arrivato in cima». Quella sera, Alessandro ha parlato con papà: «Mi ha detto: “Hai mai visto qualche scalata di Marco Pantani? Dovresti vederlo. Cerchiamo qualche tappa e guardiamola assieme”». Fancellu aveva smesso da poco di giocare a calcio e i genitori erano stati chiari: «Non mi piaceva. Forse anche perché, non essendo molto bravo, stavo spesso in panchina. Non mi divertivo. I miei me lo avevano detto subito: “Non ti piace il calcio? Va bene, ma sei giovane. Non vorrai stare tutto il giorno a far nulla al parco. Pensa a qualcosa per occupare il tuo tempo libero”. Fino a quei giorni, Alessandro, che ha studiato agraria, nel tempo libero si dilettava di meccanica: «La verità è che vorrei fare troppe cose. L’ho detto giusto l’altra sera a mia mamma: “Una vita non mi basterà mai per realizzare tutti i progetti che ho in mente. Me ne servirebbero almeno un paio”». Quell’omino di sessanta chili che “venuto dal mare sconquassava le montagne”, come scrisse qualcuno, lo incantò subito: «Marco Pantani era un uomo coraggioso. Quando ha attaccato, al Tour de France del 1998, aveva circa nove minuti di ritardo. Chi lo avrebbe fatto? Molti si sarebbero rassegnati, avrebbero puntato a una tappa. Lui ci ha provato e non è facile come dirlo. Ha passato molti periodi difficili e ha resistito tanto nella sua vita. A me piacciono atleti di questo tipo. Non a caso, oggi, ammiro molto Vincenzo Nibali e Julian Alaphilippe: sai che, se attaccano il numero alla schiena, vogliono inventarsi qualcosa. Anche se i pronostici sono contrari. Pensiamo a Nibali alla Milano-Sanremo o ad Alaphilippe al Tour de France».

Il carattere di Alessandro Fancellu emerge chiaro da quanto detto e non servirebbero neanche troppe descrizioni. Lui si definisce estroverso e “tranquillo” ma neanche troppo: «Diciamo che, soprattutto in corsa, posso essere abbastanza impulsivo. Fa parte del mio essere, come la testardaggine». Della necessità di essere testardo si rende sempre più conto. In particolare le volte in cui le cose non vanno come vorrebbe: «Credo che la tappa del Montespluga, al Giro d’Italia Under23 di quest’anno, sia stata la mia peggiore giornata da quando corro. Ero debilitato e ogni giorno andavo più piano. Lo dico: è stata una bella batosta». Fancellu, però, al traguardo è arrivato anche quel giorno e, ai pullman, ad aspettarlo ha trovato Ivan Basso, alla guida del Team Eolo-Kometa: «Con Ivan ci sentiamo al telefono quasi ogni settimana. Mi chiede come sto e mi consiglia. Quel giorno mi attese e mi aiutò molto a livello morale. Mi disse: “Ale, capita a tutti. Non sai quante volte ho lavorato bene per un appuntamento, l’ho preparato nei minimi dettagli e poi è crollato tutto. Succede. Devi reagire, è l’unico modo per andare avanti”. Aveva ragione». La grinta deriva dalla motivazione e la motivazione cresce anche grazie alle giuste parole di chi ti guida: «Rino De Candido è unico da questo punto di vista. Ricorderò sempre la sera prima della prova di Innsbruck: “Avete paura di Evenepoel? Certo, è forte. Ma è un ragazzo come voi. Ha due braccia e due gambe come voi. Allora, come la mettiamo?”. Giuro che, quando sono andato a letto, mordevo il cuscino dalla foga». Poi arrivò il grande giorno: «Fino a quando ero con il corridore svizzero e davanti a noi c’era solo Evenepoel, ho collaborato. Il podio, per me, valeva tanto a prescindere dalla piazza. Il punto è che presto mi sono accorto che davanti a noi c’era anche un altro atleta. Mi sono detto: “Terzo sì, ma quarto no”. Sai, quando guardi i pantaloncini e vedi quella scritta, “Italia”, dai l’impossibile». È così che Fancellu si è portato a casa il bronzo iridato.

Gli inizi, con la maglia azzurra, hanno il suono di una telefonata di Arnaboldi, il direttore sportivo del Team Canturino, prima squadra di Fancellu: «Mi disse che De Candido voleva vedermi a Montichiari: mi venne un colpo. Avevo preso qualche chilo di troppo rispetto al peso forma e andavo anche abbastanza piano. Avevo il timore di fare una figuraccia. Ci pensi? Per fortuna è andata bene ed il ritiro di Riccione è una delle più belle esperienze che possa raccontare». Ci spiega che si “sente scalatore” ma la sua umiltà gli impone una precisazione: «Posso dirti cosa mi piacerebbe essere. Che vorrei mi si ricordasse come un buon corridore e uno scalatore ma non so quello che effettivamente diventerò. Tutti vorrebbero diventare dei campioni, ma è ciò che fai a definirti. Sono giovane, devo ancora conoscermi». Di sicuro, quando si parla di strade, Alessandro Fancellu parla di salite: del Brinzio, “montagna simbolo della zona di Varese”, e del Monte Generoso, in particolare. «Quando questa situazione si sistemerà, potrò tornare su quei tornanti. Inizia a essere più difficile vivere queste limitazioni: si sente la mancanza, ci si sente spogliati della normalità». Qualche anno fa, al Premio Torriani, dopo “Il Lombardia”, Fancellu incontrò personalmente Alberto Contador: «Mi presentarono a lui come futuro componente della squadra che stava nascendo. Quell’incontro mi rimase impresso: ho proprio visto un campione che, piano piano, si è aperto e mi ha accolto umanamente. Qualcosa di raro. Ma alla Eolo-Kometa si lavora così. Non è solo una squadra forte, è una bella squadra. All’inizio era un problema perché molti ragazzi sono spagnoli e io non parlavo spagnolo. Ora che l’ho studiato, siamo amici prima che compagni di squadra».

Davanti ad Alessandro Fancellu c’è la realtà del professionismo, “parliamo di una passione che diventa lavoro, quanti possono dirsi così fortunati?”, e un traguardo personale che, questa volta, non è una linea d’arrivo: «Un domani, fra dieci, dodici anni, mi piacerebbe che qualcuno, dopo avermi ascoltato, potesse dire: “Davvero interessante questa cosa. Quasi quasi la imparo”. Sì, mi piacerebbe poter lasciare un insegnamento ai più giovani».

Foto: Vuelta a León


Lucia Bramati: «Gladiatori del fango»

Ci siamo chiesti più volte come si possa raccontare la sensazione che si prova nelle domeniche impastate di brina e fango dell’inverno del ciclocross. In una serata a Nalles, in mezzo a una bufera di neve, Lucia Bramati ci ha dato la risposta: «Il cross è una sorta di arena. Noi siamo i gladiatori della terra, tra due ali di gente che grida con tutta la voce che ha, nel fumo del loro respiro che si mescola alla nebbiolina che si deposita a terra. Il percorso è tutto lì, lo conosci a memoria. In estate faccio mountain-bike, ma non c’è paragone. Qualche tratto di quelle strade percorse in mountain-bike mi spaventa. Qualche discesa scoscesa o qualche irta salita. Le strade della mountain-bike si disperdono in tanti rivoli. Quelle del cross sono raggruppate in un fazzoletto di terra con cui familiarizzi». C’è una semantica di ogni intervista. Un circolo di parole che ritornano perché parte dell’intervistato e del suo approccio a ciò che fa. Certe volte si tratta di sensazioni primordiali: «Papà e mamma mi hanno sempre detto di fare sport, qualunque sport. Papà è stato un ciclista ad alti livelli. Ho giocato a tennis, fatto saggi di danza, atletica e anche pallavolo. Nel ciclismo però ho trovato qualcosa che altrove non riuscivo a rintracciare: un senso di casa. Ricordo quando ho vinto la prima gara da G3, a Bergamo: ho sentito di appartenere a qualcosa, di essere simile a qualcosa. Non mi era mai accaduto». E pensare che gli inizi col ciclismo non erano stati proprio idilliaci: «Non me ne andava bene una da piccolina. Ero molto timida, chiusa. Forse non tiravo fuori nemmeno tutto il carattere che serviva».

Lucia Bramati ha diciassette anni e guardandosi indietro focalizza chiaramente alcuni cambiamenti che le hanno fatto bene: «Se sono cambiata è anche, se non soprattutto, grazie al ciclismo. Alla fine, il mondo che frequenti ti plasma un poco. Il mio carattere si è aperto qui. Ho messo da parte quella timidezza, pur custodendola, e mi sono buttata in quello che volevo fare. Certe volte, la troppa timidezza ti frena anche e non è giusto. Ho imparato a divertirmi correndo in bici. Ho imparato a dare il massimo, a fare sacrifici, con serenità». Già, serenità perché l’ansia divora: «Papà me lo ha sempre detto: “Stai tranquilla perché l’ansia ti divora l’energia”. Ed è vero. Prima delle gare mi metto tranquilla sul letto della mia camera e ascolto musica indie o guardo film. So quello che devo fare ma faccio attenzione a non farlo diventare ossessione».

Quando vedeva le gare di ciclocross in televisione, Lucia Bramati si diceva che, da grande, avrebbe voluto assomigliare a Eva Lechner e a Pauline Ferrand Prevot: «Poi le ho conosciute, le ho incontrate, ci ho parlato. Fa strano vedere a pochi metri da te ragazze che prima vedevi solo in televisione. Ricordo che guardavo le immagini e mi dicevo: “Quanto vorrei provare anche io”. Quando durante il riscaldamento mi passano accanto van der Poel o van Aert mi volto sempre sorpresa e li fisso. Quando provo il percorso, ricordo le immagini della tv e mi dico: “Hai visto Lucia? Ci sei tu qui. Proprio tu”. Ti dici che stai crescendo. Che stai diventando grande».

Lucia studia, è al quarto anno delle superiori, e si allena duramente con una consapevolezza rara: «I sacrifici pagano sempre. Tu fai sacrifici e vedrai che qualcosa di bello succederà. Prendi il terzo posto in Coppa del Mondo lo scorso fine settimana. Non me lo aspettavo. Sai perché? Perché nelle prove di inizio stagione almeno cinque o sei ragazze andavano più forte di me. Invece stavo proprio bene. Siamo andate via subito in tre e per un buon tratto mi sono giocata anche il primo posto. Cosa significa? Che lavorando cresci, che lavorando migliori sempre. E quando te ne rendi conto ti viene una grinta che non si può nemmeno lontanamente immaginare». E dopo? «Dopo è ancora più bello. Non so quante volte ho chiesto: “Ma è vero? Ditemi che è vero. Sto sognando? Non svegliatemi se non è vero. Per favore”». Tra l’altro, a Tabor, c’erano proprio le condizioni climatiche che piacciono a lei: «Era freddo. Ma un freddo assurdo. Io con il freddo, con la pioggia, con il fango mi galvanizzo. Il percorso diventa più tecnico e vado meglio. A me piacciono percorsi come Brugherio: è uno spettacolo quel tracciato. Il cross deve essere così: movimentato, imprevedibile, caotico. Se c’è tutta pianura, che gusto c’è?».

Lucia Bramati ha vinto tante volte ma solo una volta ha pianto di un pianto forte, vero. Di quel pianto che prende la bocca dello stomaco, di quelle lacrime grosse come noci a scorrere sulle guance: «Parlo del campionato italiano da allieva secondo anno. Venivo da una stagione disastrosa: prima un infortunio, poi il citomegalovirus e, alla fine, persino la mononucleosi. Ero stata ferma due, forse tre mesi. Mi sono presentata in corsa solo per provare, per tornare a fare ciò che amavo: andare in bicicletta. Ho vinto. Non mi sembrava possibile. Ero disperata di felicità. Ho pianto». Lucia Bramati, alle partenze, ama ascoltare: «Sono fortunata. Nella mia squadra ci sono diverse fra le migliori atlete nella specialità al mondo. A me piace stare ad ascoltarle. Mi danno consigli ma soprattutto mi raccontano le loro esperienze: questo è molto importante perché anche dalle esperienze altrui si può imparare. Vorrei fare bene al mondiale per la categoria junior ma soprattutto vorrei confermarmi al passaggio fra le élite. Credo lì sia in un’altra dimensione, una dimensione che impone una ripartenza e una conferma. Solo lì puoi davvero sentirti arrivata dove volevi arrivare».

Le parole corrono veloci come gli appunti sul nostro taccuino. Di certe cose ti accorgi solo rileggendo: «Sono una ragazza semplice. una ragazza che ama uscire con gli amici per andarsi a mangiare una pizza e stare in compagnia a tavola. Una ragazza che è contenta ogni volta in cui gli amici le dicono: “Vogliamo venire a vederti alle gare. Vogliamo esserci anche noi a fare il tifo per te”. Magari non posso partecipare a qualche gita scolastica. Magari devo rinunciare a qualche uscita serale, ma sono contenta. Quello che sto facendo, lo sto facendo per me. Per il mio domani. E il domani te lo costruisci giorno per giorno. Rinuncia per rinuncia. Essere liberi significa proprio questo. E a me la libertà piace da morire».

Foto: Lucia Bramati, Instagram


Guarda, c'è l'ammiraglia di Moser

Aldo e Francesco. Come tutti i loro fratelli, ben dodici, e come tanti altri ragazzi. Almeno fino ad un certo punto, ma forse anche dopo. Insieme a Palù di Giovo, anche negli inverni in cui c’era più neve che anime in città. Oggi sono poco più cinquecento gli abitanti di questa frazione in provincia di Trento e, non fosse che per il silenzio di certi giorni, Palù di Giovo è come tante altre città. Non sappiamo quanti abitanti ci fossero negli anni sessanta del novecento, ma non abbiamo difficoltà a immaginarci le strade di Palù in quegli anni. Non abbiamo difficoltà a figurarci lo stupore raccontato da Francesco Moser in questi giorni, quando Aldo, il fratello maggiore, tornava a casa in ammiraglia: «Non eravamo abituati. In queste vie passavano solo i carri trainati dai buoi o dai cavalli». Si vedevano poche macchine, l’ammiraglia era quasi un mezzo futuristico. Non solo per i fratelli minori in casa Moser ma per tutti coloro che affacciandosi alle finestre vedevano quest’auto così diversa parcheggiare in città. Qualcosa che assomigliava alle speranze di un futuro diverso anche per i più poveri. Qualcosa che somigliava a un domani in una grande città e a un lavoro che potesse riscattare un passato difficile. Per i più giovani ma anche per i più anziani che in quel domani ci avevano creduto ed erano stati delusi sin troppe volte.

Francesco e Aldo come tutti quei fratelli che si divertivano assieme nei cortili e per le strade e poi si fermavano a mangiare un panino appoggiati a un muretto, magari con i pantaloncini corti e le ginocchia sbucciate. A fianco un piccolo podere di famiglia, il primo, e il cimitero del paese. Aldo che è del 1934, Francesco del 1951. Aldo che diventa uno sportivo importante mentre Francesco sta ancora crescendo. Francesco che sente ciò che tutti dicono di suo fratello ed è certo di essere fortunato ad avere un fratello così. E si parla a voce e a testa alta di un fratello maggiore così e quell’aggettivo possessivo si acuisce di tutto quello che, ora più che mai, appartiene ai Moser: grinta, dignità, orgoglio. Gente di poche parole e di tanta concretezza perché in quegli anni non potevi che essere in questo modo per poter sperare di farcela. Quando Aldo torna dal Giro d’Italia del 1969, guarda Francesco e glielo dice. Gli dice: «Ma perché non provi anche tu? Dai, prova anche tu». In quelle tre settimane in giro per l’Italia era andato tutto bene e Aldo aveva capito che il ciclismo poteva avere lo stesso volto di quello sperare e credere in quel paesino che gli aveva dato i natali. Dovevi fare fatica, certo. Ma non l’avresti fatta fra quella terra? La terra è sincera, ti restituisce crudamente ciò che dai. In questo assomiglia alla bicicletta. Entrambe non possono mentire.

Francesco che quel giorno si sentì scelto e probabilmente pensò quello che pensiamo tutti quando qualcuno ci sceglie: «Davvero credi io possa farcela? Pensi davvero io sia come te?». Fiero perché Aldo era, ed è, il suo modello e pensare che, in fondo, quel fratello maggiore lo immaginava così simile a lui non poteva che farlo felice. E Aldo faceva lo stesso che fino a qualche anno prima aveva fatto Francesco: ne parlava con gli amici e con i colleghi. Li portava a vederlo correre e diceva: «Certo che il mio fratellino corre davvero forte. Guardalo». Lui che aveva scalato il Bondone sotto una nevicata degna di questi giorni, ma era giugno. Era l’8 giugno del 1956 e, per oltrepassare i massi di neve, la bicicletta la si prendeva pure in spalla. Mentre qualche direttore sportivo faceva ritirare i suoi atleti perché “non aveva più senso”. Forse molti gli avrebbero semplicemente detto: «Non gasarti troppo. Dovrai vederne di cose». Lui si stupì e lo disse a tanti. E noi siamo certi sia stato meglio così.

Non sappiamo cosa Aldo abbia detto a Francesco, quando lo vide tornare a casa in maglia rosa dal Giro d’Italia del 1984, quel Giro che Francesco Moser vinse. Non sappiamo, ma ci piace immaginarlo, come Aldo Moser vivesse la rivalità Saronni-Moser. Come si gustasse le corse in televisione e cosa dicesse, al telefono con Francesco, di “quello là”. Chissà come lo chiamava. Chissà cosa si sono detti in quell’ultima passeggiata assieme. Chissà che aria c’è oggi a Palù di Giovo. Forse qualcuno guarderà fuori dalle finestre, poi cercherà con lo sguardo un bambino e gli dirà: «Vedi quel parcheggio? Lì, tanti anni fa, c’era l’ammiraglia di Aldo Moser…».

Foto: Aldo Moser al Trofeo Baracchi 1956


Asja Paladin: «Hakuna Matata»

«Se ripenso a quei giorni in Kenya, non molti anni fa, penso a quanto sia facile essere felici. A quanto poco basti per essere felici. Forse il fatto è proprio questo: la felicità è un concetto molto semplice, ma noi tendiamo a complicarlo. Di fatto si complicano le cose quando non si capiscono. Quando qualcosa ci è chiaro riusciamo a semplificarlo. Ad arrivarne all'osso. La felicità noi non l’abbiamo capita. L'hanno capita quei bambini lì, che sono felici con in mano un tocco di cibo o una manciata d'acqua. Loro, non noi». Asja Paladin sta parlando di noi, di tutti noi, ma anche di sé stessa: «Vale anche per me. Non a caso mi sono tatuata quella frase sulla pelle. Ho una mente abbastanza iperattiva, continuo a riflettere, a ragionare, magari a preoccuparmi. Allora me lo dico: “Asja, hakuna matata!”. Che è come dire: non ci sono problemi, non complichiamo le cose, vediamole e viviamole per quello che sono. Lo so, dirlo è facile, farlo è molto più difficile. Però si può fare, si deve fare. Ci sono cose prioritarie, cose importanti e cose che, in fondo, non sono per nulla importanti. Riusciamo a distinguerle? Riusciamo a capire per cosa vale la pena di non essere felici e per cosa no? Forse è questo il problema. Forse per questo non riusciamo ad avere lo stesso sorriso di quei bambini. Forse per questo non capiamo molto la felicità».

Quella di quei giorni è una scoperta e Asja con le scoperte ha un rapporto particolare. Asja se ne intende di scoperte. Sa, per esempio, che se una parte delle scoperte è nell'inesplorato, nell'epico, nell'estremo, l'altra parte è nella normalità. Di quella parte, delle scoperte che risiedono nella normalità, si parla meno, quasi per nulla per lo stesso motivo per cui si fatica a parlare in maniera semplice di felicità. Perché? Perché non le abbiamo capite. «Ho ventisei anni. Ho corso per vent'anni in bicicletta. Quanti posti avrò incrociato? Quasi tutti i giorni mi sposto in macchina: dai finestrini quanti luoghi vedrò? Abito a Cimadolmo. A Verona sono stata diverse volte, conosco la città. I centosessanta chilometri da Cimadolmo a Verona li avrò percorsi decine di volte. Posso dirti la verità? Quei centosessanta chilometri io non li conoscevo per nulla». Poi c'è un'idea, quasi improvvisata, e la voglia di rispondere e di rispondersi sì: «Sai che quella notte non ho dormito? Mi giravo e mi rigiravo nel letto e mi rimproveravo da sola: “Ma insomma, Asja. Sembra che devi andare a gareggiare. In realtà si tratta di un giro con amici. Perché devi fare così?”. Il motivo preciso non te lo so dire ancora, sarà il mio carattere. Però so che è stato un misto di entusiasmo, di voglia di partire, di soddisfazione ma anche di paura. In allenamento non sono mai partita con quei chilometraggi, si cresce gradualmente, e all'inizio l'idea di tutti quei chilometri, seppur inconsciamente, ti spaventa. Tutto torna la sera, come arrivi a casa e sei stanca morta ma soddisfatta. Guardi una cartina e ti dici: “Vedi tutti quei chilometri? Li ho percorsi io, con le mie gambe e la mia bicicletta”».

Ma la sorpresa più grande non è nemmeno questa. La sorpresa più grande Asja l'ha avuta quando si è fermata a bordo strada a guardare. «Sembra impossibile ma mi sembrava di essere in posti nuovi, in posti che non conoscevo per nulla. Solo il fatto di esserci arrivata in bicicletta, di averlo fatto con amici, di essermi presa il mio tempo, ha fatto tutto questo. Ho visto cose che non avevo mai visto e le ho viste in modi che non avrei mai immaginato. Alla fine bastava una bicicletta, poco equipaggio e voglia di far fatica. Non è poi molto, ma bastava». Quella sera, guardando la cartina, Asja ha ripensato a tante cose: «Sono orgogliosa della mia carriera in bicicletta. Mi spiace non correre più, ti direi una bugia non ammettendolo. Ma non c'è rimpianto: ho imparato tanto e nulla sarà sprecato. Mi sento più forte, so che posso fare ciò che voglio nella vita. So di esserne capace. Mi hanno sempre insegnato che nella vita è essenziale dare tutto, anche più di quello che hai se tieni veramente a qualcosa. Molte cose, poi, non dipendono da noi e non possiamo farci nulla. Sono giovane e ho molta voglia di progettare e organizzare. In un certo senso, progettare e organizzare mi tranquillizza. Il bikepacking è questo. Il momento dell'organizzazione è uno dei più belli: pensi a cosa portare con te, alleggerisci o appesantisci i bagagli, chiedi consigli, nel mio caso a mia sorella Soraya, e ascolti proiettandoti in avanti con l'immaginazione. A proposito di progetti, ho già guardato le cartine: da qui alla casa di una mia amica in Germania ci sono 800 chilometri. Quando farà meno freddo, ci penserò. Poi vorrei andare a Napoli, una città che amo».

Sulla sua schiena, nella tasca posteriore della divisa, Asja tiene un piccolo panda di peluche: «Si chiama Yugen ed ho deciso che lo porterò con me ad ogni avventura. Yugen è una parola giapponese, intraducibile letteralmente. Per me è una sorta di consapevolezza della bellezza nascosta nell'universo: qualcosa che non si può descrivere a parole ma che fa emozionare. Un fascino profondo insito nelle cose che non riusciamo a capire fino in fondo ma che ci sono, che sentiamo».

Guardando la bicicletta, l'ha vista diversa e non ha avuto dubbi: «La bicicletta non è cambiata. Sono io che ho depurato la bicicletta da molte cose che erano essenziali per la mia carriera e che oggi posso permettermi di non considerare. Ho visto quanto è bello vivere il ciclismo così, senza ansie, senza preoccupazioni. Senza fretta. Solo per il gusto di stare su quel sellino e pedalare su una strada».

Foto: Asja Paladin


Enrico Gasparotto: «A trentotto anni smetto»

La fine di questa storia è, in realtà, l'inizio. E l'inizio di questa storia racconta di un ragazzo che a ventitré anni, nel 2005, uscendo di casa dice a papà: «Papà, corro in bici. Dovrò stare lontano da casa per molto tempo ma ti prometto una cosa: a trentotto anni, qualunque cosa accada, smetto e mi riprendo il mio tempo con voi». Quel ragazzo è Enrico Gasparotto e quel tempo è arrivato. Così, il 24 novembre, Enrico ha parlato con papà e gli ha detto che era arrivato il momento di scendere dalla bicicletta: «Mio padre c'è sempre stato. Ha corso parecchi in bici. Anche lui avrebbe voluto essere un professionista e, in fondo, la mia vita è stata anche un poco la sua. Era affezionato all'idea di avere un figlio ciclista. L'ho ringraziato. Sì, perché è stato capace di esserci ma in disparte, condividendo in silenzio ogni scelta senza volerne mai essere protagonista. Papà Toni è molto emotivo e a sentire queste parole gli sono scesi due lacrimoni sulle guance. Avrei voluto abbracciarlo». Quel giorno, Enrico ha capito anche un'altra cosa, una cosa che ha commosso anche lui: «Sai, spesso quando si smette di correre, la vita cambia completamente e anche i rapporti familiari ne risentono. Io in questi giorni sto capendo quanto mia moglie sia davvero mia moglie. Intendo dire, quanto quella parola le calzi a pennello. C'è, è qui ed è più tranquilla di me. Mi infonde tranquillità. Ora che non ci sono corse è anche più semplice non pensare a cosa non sarò più, ma sono certo che alla ripresa della stagione quello che ero mi mancherà. Sapere che ci sarà lei, qui con me, mi tranquillizza».

Il tempo che si ferma è anche il tempo dei ricordi che fluiscono liberi: «Quando ho vinto il campionato italiano nel 2005, è cambiato tutto. Sai di essere attenzionato e, se ad un lato, ti fa piacere, dall'altro le pressioni si fanno sentire». Qui Gasparotto si permette un inciso: «Dei miei sedici anni di professionismo ho un ricordo bellissimo. Ho vissuto quattro diverse ''ere'' del ciclismo. Le cose sono cambiate: fra i miei ricordi ci sono uscite serali che ora non sarebbero più replicabili. I ragazzi devono prestare molta più attenzione ad ogni aspetto e questo, se da un lato, li rende estremamente più professionali, anche più forti, dall'altro rischia di accorciare la loro vita da atleti. A questi livelli credo non saranno più immaginabili carriere di sedici anni. Parleremo di carriere di otto, dieci anni. A trent'anni probabilmente smetteranno e anche questo sarà un bene e un male: troveranno lavoro più facilmente ma staranno per meno tempo nel loro mondo». Un mondo che lascia qualcosa che va oltre ciò che tutti vedono: «Penso alla prima volta dello Zoncolan al Giro d'Italia: non ho dovuto pedalare in pratica, non so quante mani mi hanno spinto. Non si potevano contare, erano troppe. Penso alla visita a parenti a Casarsa della Delizia e ai primi giorni in maglia rosa: a tutto ciò che provavo».

In questi momenti, Enrico Gasparotto pensa a Antoine Demoitiè, suo compagno di squadra, scomparso in un incidente il 27 marzo 2016, e a quella vittoria all’Amstel Gold Race. Una vittoria per tornare ad alti livelli dopo un periodo difficile, una vittoria per sua moglie e per la sua famiglia, per il suo gruppo di lavoro e per i suoi amici, una vittoria piena di caparbietà dedicata anche ad Antoine: «Ero da solo in ritiro e pensavo a lui. Tutto quello che ho fatto, l'ho fatto anche per lui. Quella vittoria all'Amstel è anche per lui, per Antoine. Quando sono tornato al bus, i miei compagni piangevano tutti. Io non ci riuscivo. Piangeva anche il mio direttore sportivo, un uomo di settantacinque anni che non avrei mai immaginato di vedere così». Enrico Gasparotto racconta che su quelle strade, sulle strade dell'Amstel, della Freccia, della Liegi, avrebbe voluto tornarci con calma nel 2021, prima di chiudere la carriera: «Sarebbe stato un lungo saluto. Lo avrei assaporato diversamente. Come quando torni in un luogo significativo e riempi ogni angolo di ricordi. Ma quest'anno è stato un anno particolare e questa possibilità non c'è stata. Così ho scelto di fermarmi e ho fatto bene: bisogna essere capaci di dire basta, è indispensabile».

Sì, indispensabile. Perché Gasparotto crede al valore di ciò che è stato e raramente lo senti felice come quando immagina quanto il suo passato possa essere d'aiuto a qualcuno. Una sorta di gratitudine resa viva e tangibile: «Parto da Mario Cipollini perché l'ultima sua vittoria, il Giro della Provincia di Lucca, è stata una delle mie prime gare. Trovo poco generose alcune parole che gli sono state rivolte. Può sembrare un guascone ma in realtà ho conosciuto pochi atleti così perfezionisti sul lavoro. Gente da cui c'è solo da imparare. Stessa cosa vale per Alexandre Vinokurov. Vino non si fermava mai. Cadeva, si faceva male, lo vedevi sanguinante ma ritornava in sella. Se sono stato professionista sedici anni, parte del merito è anche loro. Da loro ho visto cosa significava fare questo lavoro». E quando ti senti fortunato, spesso senti anche la voglia di restituire quella fortuna. Di portarla ad altri, di farli felici. Qualcosa Enrico Gasparotto ha già restituito: «Il mio arrivo in Wanty-Goubert è coinciso con il passaggio dal World-Tour ad un team professional. Ho provato a prendermi sulle spalle i ragazzi più giovani. Sono stato contento di farlo, di condividere piccoli e grandi insegnamenti e di vederli crescere. Lo vorrei fare ancora. Credo la mia strada adesso sia quella. Questa primavera ho preparato un progetto di talent scout da sottoporre a diverse squadre: ricercare i migliori giovani nel mondo e affiancarli. Non solo a livello sportivo ma anche a livello psicologico. Ogni ambiente è diverso e ognuno di noi ha bisogno di un ambiente differente per stare bene e fare bene il proprio lavoro. Lo ho vissuto sulla mia pelle. Io sostengo da tempo la necessità di figure quali il mental coach o lo psicologo sportivo. Gli atleti di alto livello hanno bisogno di questo supporto, i giovani più che mai. Altrimenti di fronte alle difficoltà non riescono ad andare avanti. Non riescono a resistere. A me è capitato spesso ma, avendo già qualche anno di esperienza, mi richiamavo ai momenti difficili precedenti e mi dicevo: ''Dai, Enrico. Se ce l'hai fatta quella volta, ce la farai anche qui. Forza!''. Un ragazzo di diciotto anni non ha queste esperienze a cui aggrapparsi, ha bisogno di qualcuno che lo aiuti».

Enrico Gasparotto riflette qualche istante, noi riprendiamo a parlare e lui ci ferma: «No, scusami ma devo dirlo. Le persone hanno paura a parlare delle loro fragilità. Hanno paura perché vengono etichettate come deboli. In Italia, in particolare. Altrove non è così. Questa cosa non ha senso. Io ne parlo. Sono una persona che vive nel presente, convinta delle proprie scelte. Se oggi siamo quello che siamo è anche per il nostro passato, nel bene o nel male. Dobbiamo esserne consapevoli. Nel 2015, il mio passaggio in Wanty è coinciso con un periodo molto complesso per me. Avevo perso la bussola. Non mi ritrovavo più. Ho avuto bisogno di supporto psicologico. Anche mia moglie in quel periodo ha intrapreso un importante percorso di studi in questo settore. Vuoi la verità? Senza quel percorso di analisi, non ce l'avrei fatta. Non avrei mai retto i lutti di Antoine e di Michele (Scarponi). Mi è servito tempo, tanto tempo. Ho dovuto capire perché facevo ciò che facevo. Ne avevo bisogno: lo facevo per i soldi? Per la fama? Per la fatica? Per prendere freddo e rompersi le ossa ad ogni caduta? No, assolutamente no. C'è qualcosa in più. C'è sempre qualcosa in più dietro ciò che vogliamo fare. Le motivazioni profonde sono altre. Dovremmo tutti trovare il tempo di chiederci il perché. Perché facciamo ciò che facciamo? Non è facile. Anzi, è molto difficile. Ma è importantissimo».

Foto: Claudio Bergamaschi


Umberto Inselvini: «Per farli stare meglio...»

«Magari sei lì, seduto su queste sedie di plastica, in un paese sperduto e passi agli atleti il loro sacchetto del rifornimento. Ci hai messo qualcosa che non si aspettavano e loro ti guardano stupiti e ti ringraziano. Anni fa, all'inizio della stagione, gli hotel aprivano apposta per le gare, talvolta erano freddi e allora noi compravano delle coperte elettriche per riscaldare il lettino dei massaggi. Vuoi mettere quando senti un ragazzo che ti dice: “Che caldo, dopo il freddo di oggi, era quello che ci voleva”. Ora puoi trovare di tutto in ogni angolo del mondo, una volta non era così. Allora, prima di partire per la Colombia o per l'Australia, pensavamo a comprare tutte quelle piccole cose che potevano servire per fare stare meglio i ragazzi. Per farli contenti. Per noi non chiediamo tanto. Ci basta uno sguardo soddisfatto o un pollice alzato. Un pizzico di gratitudine ci rende più felici di molto altro. Tanti ci dicono che siamo fortunati a fare questo lavoro: forse è vero, ma è un lavoro difficile, con tante varianti. Spesso si è stanchi e dopo una giornata in auto, lontano dalle famiglie, devi saltare giù dalla macchina e metterti a smontare e rimontare biciclette. Forse bisognerebbe viverlo dall'interno per capirlo meglio». Umberto Inselvini è massaggiatore dal 1984, fra i professionisti dal 1985, ne ha viste davvero di tutti colori ma, per i suoi ragazzi, ha sempre voluto solo una cosa: «Parlo della tappa del Gavia del 1988: i corridori arrivavano al traguardo congelati. Noi avevamo l'hotel lì vicino: dovevamo portarli a braccetto per le scale, farli distendere sul letto, avvolgerli in delle coperte e strofinarli forte, per riscaldarli prima della doccia. Certe volte li accompagnavamo noi in doccia, ancora vestiti, e li aiutavamo a spogliarsi. In quei momenti senti che loro hanno bisogno di te, ti senti utile, sai che li hai aiutati, li hai fatti stare meglio e così stai meglio anche tu».

Far stare bene gli altri o, per quanto, farli stare meglio: Inselvini spiega che l'essenza del massaggio è questa. «Dal punto di vista fisico il massaggio ti permette di smaltire in anticipo le tossine che il corpo accumula. In un certo senso velocizza un processo del tutto naturale. Qual è il punto? L'aspetto psicologico è importante. Se tu stai bene su quel lettino, se tu ti senti a tuo agio, se ti senti libero, il corpo reagisce meglio. Il mio compito non è solo massaggiare, il mio compito è mettere a proprio agio la persona, fare in modo che in quel momento stia bene, che possa riposarsi facendo ciò che preferisce. C'è chi vuole parlare della gara, chi di informatica, di calcio, o di casa. C'è chi vuole stare in silenzio e chi vuole leggere e rispondere ai messaggi. Io devo lasciare questa libertà, devo modellarmi sulle loro esigenze: sono lì per loro». Questo significa che da quel momento, dal momento in cui il ragazzo entra in camera, devi mettere da parte la tua vita: «Ci sono giorni in cui anche io sono nervoso, preoccupato, giorni in cui non sto bene. Sono cose di cui devi scordarti. Devi metterti al lavoro e pensare solo ai ragazzi. Non puoi permetterti di sfogare le tue ansie o preoccupazioni. Il ragazzo deve alzarsi alleggerito da quel lettino, non puoi appesantirlo con i tuoi problemi. Questo bisogna impararlo, soprattutto quando si lavora a contatto con gli altri: non dobbiamo mai scaricare sugli altri ciò che ci opprime o ci infastidisce. Allo stesso tempo è necessario restare ciò che si è, tenere viva la voglia di ascoltare e di capire. Solo così potrai fare un buon lavoro». Un lavoro che negli anni è cambiato molto pur mantenendo ferme alcune caratteristiche: «Sai, una volta al Tour de France, a fine cena, non avevi neanche voglia di andare in camera. Alcune camere erano anche senza aria condizionata e rischiavi di soffrire il caldo. Così uscivi in giardino e ti mettevi seduto sull'erba, tiravi tardi e ridevi e scherzavi con gli atleti. Adesso è cambiato molto: si va in camera, si guardano i social o si chiamano i parenti, anche dall'altra parte del mondo. Questo è importante: sentire la tua famiglia, poterci parlare, ti aiuta ed è un motivo in più per lavorare serenamente. Però toglie qualcosa al rapporto fra colleghi e al rapporto con i ragazzi. Ci si parla meno, ci si conosce meno nei momenti di spensieratezza. Ci si vede anche meno: le gare sono aumentate e si disputano in sempre più paesi. Con alcuni colleghi ti vedi a dicembre e dopo la conclusione del Tour de France. Non dico sia peggio, è diverso. Prima c'erano anche più squadre che investivano, oggi ci sono squadre con molto budget che possono permettersi stipendi molto alti. La carriera del corridore finisce presto e i ragazzi scelgono anche in base a questo aspetto. Non perché non si trovino bene in squadra, ma perché la paura dei mancati rinnovi li induce ad assicurarsi un contratto fino a che possono. A novembre alcuni corridori non sanno ancora cosa ne sarà del loro futuro. Qualche anno fa a maggio, giugno, si sapeva. Non è facile. Anche loro hanno una famiglia».

Nello stesso modo sono cambiate le persone e anche lo stesso Inselvini: «Quando ho iniziato a massaggiare non ero ancora sposato, non avevo figli, avevo ventisette anni. Certe volte mi ritrovavo a massaggiare atleti con più anni di me. Ora ho due figli e massaggio ragazzi che hanno l'età dei miei figli. Certe volte massaggio anche i figli di atleti che ho avuto a inizio carriera. Le esperienze di vita ti aiutano sempre a capire e magari a cambiare. Ho sessantadue anni e alcuni mi dicono: “Ma vai ancora in giro con i corridori?”. Sì, perché il ciclismo è una passione e sul ciclismo ho basato gran parte della mia vita. Mi sono sposato al giovedì e non al sabato per avere quindici giorni per il viaggio di nozze. Ho vissuto con il mio primo figlio i primi quindici giorni dopo il parto in quanto la stagione non era ancora partita e sono tornato in aereo dalla Polonia per il parto cesareo di mia moglie quando è nato il secondo. Ricordo tutte le vacanze invernali con i compiti dei bambini per fare in modo che, pur perdendo qualche giorno di scuola, non rimanessero indietro con il programma». Questo lavoro nato per caso e proseguito per scelta: «Quando ho smesso di correre, a ventitrè anni, mi sono trovato a fare la considerazione che fanno tutti i ragazzi: “Adesso cosa faccio? Devo trovarmi un lavoro”. Ho fatto per un paio di anni l'assicuratore poi, da una telefonata con il mio ex direttore sportivo, alla vigilia della Settimana Bergamasca, è nato tutto questo. Non avrei mai pensato di fare questo lavoro per così tanti anni e invece sono ancora qui. Il mio è un lavoro che fa scorrere il tempo molto velocemente: viaggi, ti sposti, hai stimoli continui, quando torni a casa ti godi la famiglia, ti organizzi quei mesi prima di ripartire e poi riprendi la corsa».

Umberto Inselvini ha una parola chiave per svolgere il proprio lavoro: «Dico sempre che è fondamentale il rispetto dei ruoli. Io devo attenermi alle mie competenze e rispettare quelle altrui. Rispetto a qualche anno ci sono molte più figure che hanno competenze specifiche all'interno delle squadre. Se ognuno fa ciò per cui ha competenze si lavora meglio, le cose vanno meglio e si è anche più sereni». Certo, perché poi c'è il momento del giudizio. Momento inevitabile: «Tutti veniamo giudicati per il nostro operato. È giusto: percepiamo uno stipendio e dobbiamo portare a casa dei risultati. Qui c'è anche un altro aspetto: quello della comprensione. Quando vinci, il giudizio è facile. Quando non vinci ma aiuti gli altri è più difficile. I capitani non sarebbero lì senza chi li aiuta. Personalmente non amo nemmeno chiamarli gregari: sono ragazzi che aiutano altri ragazzi. Questi ragazzi sono importantissimi per la squadra. Fondamentali. Questa utilità, però, non è lampante come quella delle vittorie. Deve essere compresa. L'opinione pubblica, certe volte, la trascura e fornisce giudizi che sono massi. La realtà di un ciclista è fatta di molti aspetti e molte sfaccettature, non basta guardare l'ordine d'arrivo per capire cosa hanno dato i ragazzi quel giorno. Quello che conta è quello che hanno dato. Bisognerebbe pensarci due volte prima di esprimere giudizi senza sapere».

Foto di Ilario Biondi per gentile concessione di Umberto Inselvini


Andrea Vendrame: «La mia rivoluzione»

Andrea Vendrame è un’opera puntinista. Le opere puntiniste hanno questa caratteristica: ogni dettaglio, ogni puntinismo, sembra quello che è e tanto altro se proiettato al di fuori della cornice in cui è inserito. Un dettaglio che si scompone e si ricompone tramite le pupille che lo fissano. Lo stesso dettaglio, però, è imprescindibile per l’opera che lo comprende. Ogni singolo punto è essenziale, come una finissima tessitura. Vendrame è così. Ti si presenta con quell’aria ironica e scanzonata che è il non plus ultra dell’intelligenza. Sa tenere attento l’ascoltatore e lo fa con gli aneddoti di cui infarcisce il racconto: «A maggio avevo detto al mio procuratore, Carera, che avrei voluto correre in Francia, in una squadra francese ed essere l’unico italiano. Abbiamo analizzato le diverse proposte e scelto per l’Ag2r La Mondiale. Arriva il giorno di partire per il ritiro. Il primo giorno ci aspetta una passeggiata nei boschi, tutti assieme. Devo dire che mi ero accorto che fra loro i ragazzi parlavano solo francese e scrivevano solo in francese ma ero fiducioso. Mi dicevo: “Ma sì, dai. Adesso ti chiederanno se parli francese, ti parleranno in inglese o faranno qualcosa”. Il francese non lo conoscevo molto bene, non mi restava che aspettare. Tu pensi che qualcuno sia venuto da me? Ma figurati! Non mi filavano proprio. Ho preso il telefono e, appena sono rimasto solo, ho chiamato il mio procuratore: “Puoi parlare? No, volevo chiederti: ma che scelta sbagliata abbiamo fatto?”». Ad ogni aneddoto una sensazione diversa. Ci sono casi, come quest’ultimo, in cui si ride assieme e altri in cui emerge un profondo senso di fierezza.

«Sono molto legato al mio successo alla Tro Bro León. In parte perché non me lo aspettavo assolutamente e, come tutte le cose inaspettate, è più bello. In parte per come è maturato. Ad un certo punto ho chiesto all’ammiraglia se qualcuno potesse portarmi una borraccia d’acqua. Prima non risponde nessuno, poi sento la voce di Cheula: “Vieni a prenderla tu, sei rimasto da solo”. Sono riuscito a vincere una corsa da solo. La sera sono tornato in albergo con la consapevolezza di chi sa che sta facendo il mestiere che fa per lui. L’anno scorso, al Giro, sono arrivato secondo nella diciannovesima tappa, dopo due salti di catena. Mi è spiaciuto per il secondo posto ma ho fatto un’ulteriore scoperta: quanto la gente riesca a ricordarsi di te e ad immedesimarsi nelle tue sfortune. Ho sentito tanta vicinanza, tanta immedesimazione». Questa ironia di Vendrame, questo piacere nel raccontare, viene da lontano. Da un passato che ne è l’esatto contrario. Già, perché Andrea Vendrame ha dovuto meritarselo questo sguardo sulle cose e lo ha fatto nell’unico modo possibile: «I miei genitori sono separati. Mio papà non ha mai digerito molto questa mia scelta. Mi diceva che non sarei mai riuscito a sfondare, a diventare un campione. Mi consigliava di lasciar perdere, mi spiegava che avrei dovuto mettere la testa a posto e cercarmi un lavoro. Discutevamo molto quando ero ragazzo. Io volevo fare il ciclista, avevo mia mamma e mio zio che mi appoggiavano e proseguivo per la mia strada. Papà si è ricreduto dopo, quando sono passato professionista e sono arrivati i risultati. Forse anche troppo facile così, ma è quanto è successo. I nostri rapporti sono migliorati in quegli anni».

Non è mai stato facile. In parte perché facile non è mai e in parte perché le vicende della vita ci mettono sempre del loro. Il sette aprile del 2016, mentre è in allenamento, Andrea Vendrame viene investito da un’auto proveniente dal senso di marcia opposto: «Se non avessi avuto il carattere che ho, non credo che mi sarei mai rialzato da quel giorno. Ero distrutto. Lo ammetto: nei giorni dopo l’incidente ho davvero avuto paura che fosse tutto finito. Per qualche tempo mi sono anche convinto a cercarmi un lavoro come diceva papà, sfruttando il mio diploma. Poi, per fortuna, le cose sono ripartite». Sul tema della sicurezza stradale l’affondo più severo: «Perché non proviamo a guardare quello che accade negli altri stati? Da noi continuiamo a parlare del metro e mezzo di distanza e di piste ciclabili. Secondo me bisognerebbe ampliare la visuale. Ci rendiamo conto che abbiamo piste ciclabili che escono accanto ad abitazioni familiari? Noi magari andiamo a quaranta all’ora: come facciamo ad usufruire di quelle piste? Esce una macchina dall’abitazione e ti carica sul cofano. Se va bene sei tutto rotto, se va male non ci sei più. Questa estate mi sono allenato più volte nel Principato di Andorra. Dietro di me c’era una fila incredibile di auto. Stavano lì, tranquille. Senza insultare o suonare il clacson. Non passavano nemmeno quando facevo cenno di sorpassarmi. Mi hanno detto: “Noi abbiamo rispetto dei ciclisti e li superiamo solo negli appositi spazi”. Da noi cosa succede? Da noi sembra una gara a chi ti passa più vicino o a chi fa la manovra più sconsiderata. Perché? Per risparmiare qualche minuto. Ma ci rendiamo conto che siamo tutti uomini? Si tratta di vite. Bisognerebbe partire dalla scuola guida e avere tutti un poco più di buon senso».

Se Andrea Vendrame dovesse scegliere un aggettivo per descriversi, sceglierebbe “rivoluzionario”: «Altrimenti perché sarei venuto a correre in Francia? Vedi che tutto torna? A parte gli scherzi: nel ciclismo sono così, rischio e improvviso molto. Sempre con l’adeguata preparazione, ci mancherebbe. Nella vita no, nella vita sono diverso. Ho imparato a scindere: ho figure di riferimento per la vita e figure di riferimento per il ciclismo. Sono molto riservato e i piani devono restare separati». Del suo lavoro apprezza molto l’aspetto del “gruppo”: «Penso una cosa: se al ciclismo togli il lavoro di squadra e la sensazione di famiglia che si crea, gli togli tanto tantissimo. Ma non vale solo per il ciclismo, vale per ogni lavoro. Se non resta quella, cosa resta? In Ag2r ho trovato questo. Dico sempre che Androni era una piccola famiglia, Ag2r una grande famiglia. Sono importanti entrambe. Ognuno fa quello che può con quello che ha e, se lo fa bene, merita riconoscenza».

Ogni tanto, qualche giovane avvicina Vendrame e gli chiede consigli: «Alla base di tutto c’è il fatto che devono divertirsi. Questo sempre. Ovvio che quando inizia a diventare qualcosa di simile a un lavoro, anche prima del professionismo vero e proprio, le cose cambiano. Ma io lo dico sempre: non devono fermarsi. Anche se non vincono, non devono fermarsi o buttare tutto all’aria. Dopo ogni caduta, si torna in sella: è un dovere. Si riflette, si capisce dove si è sbagliato ma non si molla. Il passaggio al professionismo è un passo davvero difficile, oggi in particolare. Se ci credono, però, hanno il dovere di tentarci». Già, perché Andrea Vendrame sa bene cosa significa crederci. Lo sa per come ama il suo lavoro, per l’impegno e la coerenza che ci mette: «Non mi ha mai deluso il mio mondo. Certo, ci sono stati tanti cambiamenti e tanti step da compiere. Gradualmente sono cambiato anche io, certo. Ma non sono stato deluso. Fossi stato deluso, non sarei qui. Fossi stato deluso, avrei cambiato strada. Non sarei rimasto in un mondo che non mi piaceva».

Foto: per gentile concessione di Andrea Vendrame, Getty Images


Martina Fidanza: «Così come sono»

Lo si capisce subito. Bastano pochi minuti di chiacchierata per averne la certezza: Martina Fidanza è una ragazza coraggiosa. Molto coraggiosa. Ed è coraggiosa perché non ha paura di raccontarsi, nemmeno in quelle sfumature caratteriali che i più omettono di dire. Sì, le omettono perché poi la società ti convince che certe cose non vanno dette, altrimenti vieni considerato debole o magari non vieni proprio considerato. Lei questa cosa l’ha capita bene, lei sa quanto quelle piccole fragilità siano preziose, siano il bello di ciascuno di noi, per quanto male possano fare e le racconta: «Sono una ragazza estremamente emotiva, da sempre. L’emotività è una sorta di cassa di risonanza che amplifica le sensazioni e, certe volte, le rende difficilmente sopportabili. L’emotività ti fa sentire di più. Io sono così, nella vita e nel ciclismo. Per questo patisco un poco, in particolare prima delle gare. Mi prende l’ansia e la paura di sbagliare, di fallire. In tanti mi hanno detto: “Ma perché fai così? In fondo, cosa succede di grave, se sbagli. Non succede nulla, proprio nulla”. Hanno ragione. L’errore forse andrebbe vissuto diversamente ma dentro di me ho questa spinta. Non so da dove mi arrivi, da cosa derivi. Non me lo so spiegare. Ci combatto e cerco di razionalizzare le situazioni ma poi quello che senti dentro vince quasi sempre».

Martina spiega che ha un rapporto complesso con gli errori, con i propri errori: «Sono molto severa con me stessa e mi giudico molto. Tra l’altro in maniera ferrea. Quando va male una gara fatico a vedere gli errori lucidamente. Mi colpevolizzo, mi dico che non ho fatto abbastanza, che avrei dovuto fare di più. Capisci che, a lungo andare, questo approccio è distruttivo. Mi salva papà». Papà che non è un papà qualunque. Non esistono papà qualunque, tutti i padri sono un poco speciali, ma il papà di Martina Fidanza, parlando di ciclismo, è un maestro. Si tratta di Giovanni Fidanza: «Non è scontato che il rapporto tra genitori e figli che fanno lo stesso lavoro fili liscio. Certe volte si può avvertire la pressione o il giudizio. Papà è esattamente l’opposto. Lui mi calma, lui mi mostra il lato buono delle situazioni, lui mi salva del pessimismo di fronte agli errori. Se c’è un momento della mia infanzia che ho sempre amato sono state le pedalate con lui. Lì ho imparato ad avere pazienza, a lasciare che il tempo passi. Giovanni riesce a spiegarmi dove sbaglio, chiaramente ma con una delicatezza tale che oltre l’errore si vede sempre la possibilità di fare meglio».

Martina è nata nel 1999 ed ha ventun anni ma il carattere che ha la rende molto più consapevole di alcune realtà: «C’è stato un periodo in cui mi raccontavo molto sui social network. Raccontavo proprio me stessa oltre l’aspetto puramente ciclistico o lavorativo. Mi sembrava giusto farlo e mi piaceva. Poi ho capito. Proprio l’emotività fa si che ciò che mi viene detto mi resti attaccato addosso. Di più: l’emotività mi fa ascoltare molto ed anche assorbire molto di ciò che ascolto. Ho iniziato a sentire cose che non mi piacevano, giudizi gratuiti. Ci sono stata male e da allora ho cambiato modo di usare i social: le persone non ti conoscono e non sai mai come possono interpretare ciò che scrivi, tanto più che giudicare è molto facile. Così penso sempre tanto prima di pubblicare una foto o un post. Penso a quello che vorrei dire io e a quello che potrebbero capire gli altri. Ci sono tante cose che avrei voluto postare e non l’ho fatto. Credo sia giusto così». Quando parla di ciclismo parla di pista, di velocità, di adrenalina, di emozioni ma anche di sensibilità: «Nei momenti più belli ci sono indubbiamente le vittorie: lì coroni ciò per cui hai lavorato. Lì dai un significato a molte cose che qualche volta rischiano di perderlo. Quando sono caduta al mondiale, per esempio: un momento davvero difficile. Ma ci sono altri momenti per cui vale la pena di fare questo lavoro e sono tanti. Personalmente ricordo che, da piccola, sognavo di entrare nelle Fiamme Oro. Sai quei significati che quando sei bambino attribuisci alle cose? Per me entrare nelle Fiamme Oro voleva dire essere fra le più forti, voleva dire essermi realizzata. Ho pensato tante volte a come avrebbe potuto essere quel giorno. Oggi lo so, quel giorno è il mio orgoglio».

Dicevamo della sensibilità: «Credo che questo periodo, quello legato alla pandemia, debba insegnare a tutti a comprendere il lato sensibile degli atleti. La loro umanità. A fare qualcosa per quella sensibilità e quell’umanità. Perché i risultati arrivano da lì prima che dalla prestazione atletica. Se non stai bene mentalmente, se non sei sereno, diventa tutto difficile. Questo periodo è stato difficile perché non sapevamo nulla, non sapevamo cosa ne sarebbe stato del nostro lavoro durante l’inverno». Quella stessa sensibilità che le fa dire quella frase, davvero intensa, parlando di ciclismo femminile: «Noi cosa possiamo fare in più? Noi ci alleniamo, facciamo fatica e facciamo gli stessi identici sacrifici dei nostri colleghi uomini. Ci si può chiedere altro? Purtroppo il problema è economico, dovuto agli sponsor. La scelta di affiancare il calendario femminile a quello maschile ha portato dei risultati, come il WorldTour. Speriamo che si prosegua in questa direzione. speriamo che le cose cambino perché ce lo meriteremmo anche».

Martina Fidanza ci confida che, da bambina, il suo modello non era molto lontano. Era la sorella Arianna: «Immaginati di crescere vivendo i successi di una sorella come la mia. Ti senti felice per lei e diventa il tuo modello, la tua ispirazione. Essendo una sorella maggiore questo vale ancora di più. Lei va davvero fortissimo. Molti mi chiedono perché non ci alleniamo molto assieme. Perché mi stacca, io non vado forte come lei. Non so come faccia. Ci completiamo perché ci vogliamo molto bene ma siamo molto diverse. Lei è un poco più lucida nelle situazioni e questo mi aiuta molto». La grande passione di Martina Fidanza è il disegno, per questo ha scelto il liceo artistico: «Sono sempre stata molto testarda. Volevo fare il liceo artistico e l’ho fatto. Volevo uscirne con buoni voti e ci sono riuscita. Io mi sono trovata molto bene ma non è per tutti così. Credo sia un problema di società: la scuola tende a capire poco i ragazzi che fanno uno sport ad alto livello. Io ho fatto davvero tanti sacrifici e sono contenta di averli fatti. Studiavo ad orari improponibili. Ma non si può chiedere questo a tutti. Servirebbe maggiore comprensione». Se le chiediamo di rappresentarci il ciclismo su un foglio, lo immagina come un disegno astratto con tanti colori e tante sfumature: «Le parole, ogni tanto, non riescono a comunicare. Succede a tutti, no? Ci sono alcune cose che non riusciamo a dire a parole. Invece, con un foglio bianco davanti, tutti riusciamo ad esprimere ciò che proviamo. Basta una macchia di colore. Non serve essere artisti ed è un bene che l’arte sia accessibile a sempre più persone. Perché è un modo per comunicare, per trasmettere qualcosa agli altri, per fargli sentire qualcosa. Ne abbiamo bisogno. Tutti».

Foto: per gentile concessione di Martina Fidanza


Marco Frapporti: «Non mi mordo la lingua»

La fuga, per Marco Frapporti, non è solo la fuga, non è solo l'andare in avanscoperta per chilometri e chilometri, spesso da soli e con la consapevolezza che si tratta di un gioco impari, perché il gruppo ti inghiotte. La fuga è un modo di essere: «Io sono così, vivo così. Molto all'estremo, in prima persona senza troppe paure di assumermi le mie responsabilità. Ero così anche da ragazzino: se dovevo dire una cosa la dicevo, anche se poteva farmi danno. Non so controllarmi ed è un bene ma anche un male: a molte persone non piace la schiettezza, molte persone preferiscono le vie di mezzo o le mezze verità. Se vedo un torto o un qualcosa che percepisco come ingiusto, devo intervenire. Devo dire la mia e difendere la persona che si sente accusata. Sarebbe meglio stare zitti? Può essere ma non mi interessa».

Marco e Simona, sua sorella, correvano sin da ragazzini. I genitori gestiscono un'azienda e di ciclismo non conoscono quasi nulla ma vedendoli così appassionati decidono di buttarsi in una nuova avventura: raccolgono qualche sponsor, investono loro risparmi e danno vita a una squadra di ciclismo che cresce una sessantina di ragazzi, da giovanissimi a juniores: «Mi mettevo in testa al gruppo e scattavo. Per me correre significava stare lì davanti. Ritorna quel concetto del metterci la faccia: non è detto che si debba vincere ma se non ci si prova non ha senso. Ho fatto così per tante gare e alla fine mi sono reso conto che quel modo di interpretare le corse mi riusciva bene. Potrei dire che mi apparteneva. Sai, nell'andare in fuga, c'è qualcosa che si impara e qualcosa che appartiene al tuo dna». Il discorso si infittisce e Frapporti snocciola ogni meccanismo delle fughe: «Non è che in fuga ci si trovi. Quelli che aspettano di trovarsi in fuga, sono quelli che poi, in fuga, non vedi mai. Devi correre davanti e volere fortemente la fuga. Non a caso si dice "portare via la fuga". Vuol dire farsene carico. Puoi imparare, certo, ma una parte è istintuale. A tanti corridori si chiede di andare in fuga ogni mattina, per magari cinque o sei tappe. Non ci riescono, ci provano ma non entrano nelle fughe. Questa è una componente che o ti appartiene o non ti appartiene. C'è poco da fare. Poi subentrano altri meccanismi, quelli che in televisione non si vedono e si raccontano poco. Per esempio il barrage. Cos'è? Beh, quando parte la fuga puoi scegliere cosa fare e lo scegli in base a diversi fattori. Il primo è se nella fuga hai un uomo della tua squadra. Se non lo hai devi andare in testa al gruppo e tirare a tutta per riprenderla e, magari, provare a ripartire. Se lo hai devi "coprirgli le spalle". Noi lo chiamiamo "barrage". In sostanza ci sono tratti di strada più complessi, con strettoie, curve, dossi. Ecco, se hai un compagno in fuga, devi metterti in testa al gruppo e rallentarne l'andatura così da favorire il tuo compagno. Io lo ho fatto diverse volte per Giovanni Visconti, quest'anno».

Marco Frapporti racconta che il ciclismo per lui, Simona e Mattia, il fratello minore, è un forte collante: «Non esiste giorno in cui, sentendoci, non ci si dica qualcosa del nostro lavoro. Ci consigliamo o ci rimproveriamo, prendiamo spunto gli uni dagli altri e, magari, ci chiediamo, cosa avremmo fatto noi in quella situazione. Io e Simona ci somigliamo molto per indole caratteriale, Mattia no. Mattia è proprio tranquillo, uno dei classici ragazzi del tipo "se cade il mondo, mi sposto un poco più in là". Devo dirti che lo invidio, perché è fortunato, vive molto meglio rispetto a me». Di sicuro, quello che non manca a Marco è l'intensità che si riverbera sia sul fare che sul raccontare: «Provo sempre a vincere, purtroppo sono anche abbastanza sfortunato. Però mi emoziona vivere la corsa in un certo modo. Ricordo un paio di anni fa, in Israele, venni ripreso a due chilometri dal traguardo. Sì, ti spiace aver perso, ti rode, però per come sono fatto io ero comunque contento. Anche solo per tutta quella gente che ti applaude e per quei luoghi nuovi che hai visto. Di sfuggita ma li hai visti e tante persone non hanno questa fortuna».

Per parlare in maniera approfondita di Bruno Reverberi, di Gianni Savio e di Luca Scinto, tre figure che hanno segnato e segnano la sua vita da atleta, servirebbe un libro ma Frapporti ne tratteggia bene qualche caratteristica: «Reverberi ha sempre creduto che la differenza la fanno i corridori e, forse per questo, dei materiali o di altre finezze, si è interessato poco. In parte ha ragione perché se non vai, la bicicletta non può farci nulla. I materiali ed il contorno, però, sono importanti e credo sia sbagliato non considerarli. Savio è un "uomo passione". Ed è questa sua passione a fargli fare tutto ciò che fa, condivisibile o meno. Lui si butta molto nelle cose, magari anche senza conoscerle. Io, per esempio, non ho mai condiviso i suoi continui paragoni fra calcio e ciclismo: sono sport diversi, è inutile raffrontarli. In ogni caso, è un grande scopritore di talenti e allestisce squadre di ottimo valore. Scinto, fra i tre, è quello che sa meglio motivare. Ti tira fuori una grinta che nemmeno tu pensi di avere. Credo si noti anche dalla televisione». E Frapporti ha mai pensato a un futuro in ammiraglia? «Tanti mi dicono che mi vedrebbero direttore. Non lo so. I miei hanno un'azienda e, se dovessero aver bisogno, io non esiterò un attimo ad andare a lavorare da loro. Se mi arrivasse una proposta all'interno dell'ambiente del ciclismo la valuterei seriamente: questo è il mio mondo».

Lo sguardo su una realtà è tanto più interessante quanto più viene da chi quella realtà la vive. Ancor di più se chi fornisce questo sguardo non bada a ipocrisie e convenienze d'occasione: «Il ciclismo è un mondo solare, senza dubbio. Ma, con altrettanta franchezza, devo dirti che non è un mondo meritocratico. Non c'è meritocrazia. Molti interessi sono prettamente di natura economica e vengono gestiti da procuratori che hanno voce in capitolo e forza contrattuale. Questo va anche a discapito di corridori forti, che hanno competenze e professionalità. Non voglio peccare di presunzione ma credo che mi sarei meritato di più nella mia carriera. Questo detto con il massimo rispetto delle realtà per cui lavoro ed ho lavorato. Realtà a cui sono riconoscente».

Marco Frapporti non è solo questo. C'è tanto altro e prima o poi ve lo racconteremo ma, in primis, una novità: «Questi giorni a casa li sto vivendo molto bene. Mi sto dedicando alla mia compagna: è incinta, a maggio diventerò papà. I medici ci hanno detto che il termine è fissato per il 24 maggio. Speriamo tardi un poco e mi dia tempo di tornare dal Giro d'Italia».

Foto: Marco Frapporti, Instagram