Thibaut Pinot, eroe tragico

Attorno a Thibaut Pinot si forma rapidamente un capannello di videocamere, fotografi, giornalisti. Ha lasciato la bici chissà dove ed è già accasciato contro le transenne. Tiene la schiena dritta, ma lo sguardo fissa l’asfalto; all’interno di ginocchia allargate appoggia le braccia, che sembrano scollate dal corpo. Le mani grandi sono piene di calli e vesciche. Un massaggiatore gli mette un asciugamano attorno al collo, lo invita ad alzarsi per infilargli una tuta più pesante.

Pinot beve distrattamente da una bottiglia di plastica riempita con una bevanda proteica. Compaiono Charles e Pierre, due videomaker de L’Équipe che a ogni finale di tappa piombano sul miglior francese di giornata per chiedergli un’opinione a caldo. Tutti sono pronti a catturare ciò che Pinot sta per dire, ma dopo aver aperto la bocca il nativo di Mélisey si accorge di non essere emotivamente pronto. Si gira verso la valle, sputa di nuovo oltre le transenne. Riesce a stento a trattenere le lacrime. È una scena straziante.

Sempre più persone aspettano di sentire le sue parole. Non vince dalla conquista del Tourmalet al Tour de France 2019. Tra oggi e quel trionfo, millesei giorni con più bassi che alti. Oggi era tanto vicino alla vittoria che a Geoffrey Bouchard non hanno detto nulla alla radio: il vincitore della prima tappa di questo Tour of the Alps è arrivato con quattro minuti di ritardo e, visto il trambusto nei pressi di Pinot, pensava che il suo amico avesse vinto. Cerca di chiamarlo, esclama qualcosa tipo «grande Thibaut hai vin…», ma l’entusiasmo nella sua voce cala man mano che si rende conto di come sono realmente andate le cose. Qualcuno si gira per dirgli che no, Thibaut non ha vinto, e l’espressione sul suo volto da raggiante diventa funerea.
A Thibaut Pinot vogliono bene tutti, per questo dispiace l’esito della tappa, anche se ha vinto un Miguel Ángel López altrettanto in cerca di risultati dopo un’annata complicata in Movistar. Un Miguel Ángel López che ha esultato mettendosi il dito in bocca perché la compagna è in attesa del secondo figlio. Un Miguel Ángel López che è andato di forza a prendersi una vittoria meritata. Ma Thibaut Pinot vorrebbe «che la vita mi sorridesse, almeno per un giorno», vorrebbe voltare «quella pagina merdosa e passare al prossimo obiettivo». Vorrebbe tornare a vincere perché «non hai molte chance da professionista».

Un campione tragico, che ha tatuato “solo la vittoria è bella”, oggi voleva vincere con tutto sé stesso. È arrivato secondo.


Lennard Kämna è tornato (felice)

Non è chiaro cosa successe a Lennard Kämna nel maggio 2021. Qualcosa di certo si ruppe: portò a termine una Volta ao Algarve piuttosto incolore, poi decise di dimenticare la bici per qualche mese. Doveva essere la stagione della consacrazione: nel 2020 vinse una tappa al Tour de France e una al Delfinato, ma l’anno successivo « ho vissuto la mia vita in modo sbagliato» racconta. La pressione e l’auto-imposto stress per rendere al meglio lo hanno sfibrato: «Forse ho prestato troppa poca attenzione al mio recupero fisico e a ciò che il mio corpo provava a dirmi».
Ha parlato di questo momento difficile anche dopo la sua vittoria al Tour of the Alps, nella terza tappa con arrivo a Villabassa, un paesino incantevole in Alta Pusteria. «Non andrò nei dettagli, ma sono stato molto contento di riattaccarmi il numero alla schiena. Ho imparato a capire chi sono, dove sono». Lo ha molto aiutato un’esperienza fatta in Sudafrica col compagno di squadra Ben Zwiehoff, a una durissima corsa di mountain bike a coppie, la Cape Epic. Zwiehoff ieri mi ha detto, con una certa sorpresa, che Lennard se l’era cavata egregiamente pur non avendo un background da biker come il suo.
La BORA-hansgrohe lo ha supportato nel periodo lontano dalle corse su strada, rinnovandogli il contratto per un ulteriore anno. In questa stagione Kämna ha già vinto due corse, entrambe pane per i suoi denti: attaccando da un gruppo ridotto, con tanto dislivello nelle gambe prima del finale. «Nella prima ora io e Domen Novak abbiamo tirato a tutta per un’ora per non far andar via la fuga» mi dice uno stremato Edoardo Zambanini dopo la tappa. Poi finalmente la fuga è partita. Kämna è riuscito a riacciuffare il gruppetto di testa e non se n’è più andato. Con un timido sorriso da introverso qual è, all’arrivo dice di essere contento. «Sono tornato».


L'ultimo muro di Don Alejandro

Già, proprio così. Anche se qualcuno ancora non ci crede e spera possa ripensarci. Chi, romantico o illuso, non riesce ancora a venire a patti con il tempo che passa.
Gli ultimi minuti di Alejandro Valverde sul Muro di Huy, domato per cinque volte in carriera, sono stati proprio gli ultimi. A 42 anni ha provato a vincere di nuovo la Freccia Vallone, ma cos'è mancato? Un niente.

Che poi un niente... parliamone. Era la forma di Dylan Teuns, primavera d'acciaio la sua, piazzato e piazzato bene ovunque. Oggi ha vinto lui e ha meritato. Alejandro Valverde ci ha creduto, come tutti noi, come la sua squadra che lo portava davanti con Mas a scandire il ritmo prima del cambio di pendenza finale.

Mentre Pogačar arrancava - ed è una novità - e faceva il buco nel quale inghiottiva Alaphilippe e Martinez, Valverde davanti, posizionato benissimo come chi conosce ogni centimetro di questa salita, come l'avesse progettata dopo averla vista in sogno, accelerava, accelerava e accelerava. Ma Teuns, agile e scattante, con quella fisionomia da suricato, non ne voleva sapere di staccarsi. A chi interessa la storia del ciclismo? A nessuno se c'è da vincere una Freccia Vallone.

Indifferente dall'avere davanti chi a suo piacimento ha dominato su queste terre, Teuns non mollava un attimo, perfido, affiancava Valverde e lo batteva superandolo poco prima del traguardo. E Don Alejandro chiudeva la sua ultima volta sul Muro al secondo posto.
Il tempo abbatte tutto in modo inesorabile. Come le gambe che sentono l'usura dell'età. Come una ruga che spunta sul viso e viene a ricordarti chi sei.


Forza sapiente sul Mur de Huy

Una decina di giorni fa all'Amstel Gold Race, Marta Cavalli decideva di cogliere alla lettera il significato di "prendere l'attimo giusto" trasformandolo in una vittoria. Oggi, sulla strade della Freccia Vallone, più precisamente sul Mur de Huy, la storia si è ripetuta in una forma leggermente diversa, ma con un risultato simile.
Tatticamente perfetta, Marta Cavalli ha scrutato i movimenti delle altre, banalmente ha battezzato l'unica ruota che sapeva sarebbe andata via, o che almeno ci avrebbe provato, quella di Annemiek van Vleuten.
A qualche centina di metri dall'arrivo, nel tratto più duro, l'olandese faceva la differenza o almeno così pareva a un occhio disattento, mentre l'italiana, il suo un occhio attento, all'apparenza calma e con un filo di gas, si adagiava quatta quatta alla sua ruota. Quando la strana spianava e partiva la decisiva volata a due, Marta Cavalli sprigionava quella che in questo momento è la miglior gamma a due ruote. In fatto di testa e gambe.
Ci vuole testa, appunto, ma ci vogliono le gambe: oggi Marta Cavalli mette insieme un binomio che - ciclisticamente parlando - quando la strada sale rasenta la perfezione.
Non svegliateci da questo momento. Quello in cui il ciclismo femminile italiano sta dominando il ciclismo femminile mondiale.


Fatica, illusioni, Pello Bilbao

È difficile immaginare due partenze di tappa più diverse dalla prima e la seconda del Tour of the Alps 2022: nella prima si è passati velocemente dai 670 m.s.l.m. di Cles ai 190 di Trento, un falsopiano tendente alla discesa per una quarantina di chilometri. Nella seconda tappa, invece, si parte con il Passo Rolle: 20.8 km al 5.9% di pendenza media ai quali bisogna arrivare caldissimi. Al contrario di ciò che il meteo ha predetto per settimane, è una bellissima giornata di sole e i ciclisti preparano il brusco avvio di tappa in svariati modi. La BORA-hansgrohe ha piazzato i rulli lungo il fiume e tutti pedalano assieme, Omar El Gouzi della Bardiani si aggira nel parcheggio sorridente, fermandosi solo per salutare qualcuno del Tirol KTM Cycling Team, sua ex squadra.
Quando mi avvicino a Márton Dina, ciclista ungherese della Eolo-Kometa, mi dice che già si immagina cosa sto per chiedergli: della Grande Partenza del Giro da Budapest. Mentre mi parla delle sue aspettative e della stagione, è rimasto solo nel fare i rulli. Ha il fiatone perché aumenta l’intensità fino a sudare copiosamente. Toglie l’asciugamano dal collo per passarlo sulla fronte e con rispetto mi fa capire che, se la smettessi di fare domande, sarebbe meglio. Tra poco si parte.
Parte anche il media shuttle in direzione dell’arrivo, Lana. Iniziato il Passo Rolle, una sagoma piuttosto riconoscibile si palesa tra un tornante e l’altro: Chris Froome ha deciso di scaldarsi sulla salita stessa. Caldo dalla giornata precedente, in cui la volata era valsa solo per il secondo posto, invece, era Pello Bilbao: ha messo di nuovo la squadra al lavoro e ha fermato Hermann Pernsteiner, furbo ad entrare nella fuga e a fermarsi proprio per permettere al gruppetto di Bilbao di ricucire lo strappo.
La Bahrein ha dominato la corsa, tanto che nell’ultimo chilometro Buitrago e Landa hanno lanciato la volata di Bilbao: «A Landa ho detto di andare a sinistra che io sarei andato a destra», spiega Pello in un italiano spagnoleggiante. Bilbao sembra aver raggiunto un nuovo livello: «tutti gli anni vado al Giro con l’illusione» di poterlo vincere, quest’anno magari è la volta buona.


Scappare

In “Le miniere di Primiero”, un volume curato da Sandro Gadenz, Marco Toffol e Luigi Zanatel, si racconta di tante leggende legate all’attività mineraria, che in queste valli è iniziata nel XIV secolo. Una in particolare è simile alla tappa odierna, la prima del Tour of the Alps, da Cles a Primiero San Martino di Castrozza: la notte di Natale, dice la leggenda, la montagna si apre, mostrando ai passanti inestimabili tesori. Bisogna però ricordarsi di andarsene, di scappare, prima che il ventre della roccia si richiuda al dodicesimo rintocco di campana.
Il libro è aperto alla fruizione di tutti coloro che salgono verso il Palazzo delle Miniere. Da quassù, si gode di una splendida vista sul traguardo e su Fiera di Primiero, sede di un comune che ha inglobato anche San Martino di Castrozza.

Al primo passaggio sotto lo striscione d’arrivo, due bambine vestite d’altri tempi incitano Geoffrey Bouchard, che, come insegna la leggenda, è uscito appena in tempo. Non doveva nemmeno andare in fuga («avevamo tante possibilità oggi, poi mi sono trovato in fuga e ho tirato dritto»), non era del tutto soddisfatto («Ben Zwiehoff ha dato troppo sulla prima salita, ma anch’io ho fatto alcuni errori») e non era sicuro di vincere fino all’ultimo (ha capito che non lo avrebbero più preso «solo negli ultimi duecento metri»).
È evaso dal gruppo con un po’ di fortuna, ha attaccato dal gruppo di testa al momento giusto, per una manciata di secondi ha resistito al furioso recupero guidato dalla Bahrain-Victorious.
Il tempo è una bestia strana nella vita di Geoffrey Bouchard: è lui stesso in conferenza stampa a ricordare che «da giovane non ho mai corso per la Nazionale. Ho fatto l’università, ho lavorato alla Decathlon, poi ho chiesto ai miei genitori di mollare tutto e provarci col ciclismo».

È passato professionista nel 2018, a 26 anni; fino ad oggi contava zero vittorie. Ci era andato vicino tante volte, anche vincendo due classifiche di miglior scalatore in Grandi Giri (Vuelta ’19, Giro ’21): oggi, dalla miniera del gruppo, è scappato al momento giusto.

 


La bellezza di una giornata all'inferno

La bellezza, per definizione, è qualcosa di soggettivo. Il fascino, l'eleganza, attraggono osservatori e ammiratori che ne rimangono colpiti. La Paris-Roubaix di oggi, soleggiata e polverosa, quasi perfetta, è un brutale inno alla bellezza, ma non c'erano dubbi. Parlavamo di definizioni: questa corsa pare abbia intriso nel suo significato il concetto di bello.
Emblematico il suo vincitore: Sua Eleganza van Baarle, per quel modo che ha di pedalare e muoversi in gruppo, di stare in bicicletta. Un tutt'uno armonico, affascinante, cadenzato. Preciso, nato insieme al suo mezzo.
Quando lo vedi accelerare rimani a bocca aperta. Appare tranquillo. Alto, ma aerodinamico, potente, ma leggero. Quando attacca, oggi, e lo fa più di una volta prima dell'azione decisiva che lo porterà a conquistare la corsa, sembra rallentare - a un certo punto sembrava avesse forato - e invece spinge e stacca chi, alla vigilia, partiva con l'idea di entrare prima di lui nel velodromo di Roubaix. Spinge e non lo rivedono più.
A rendere riconciliante la bellezza di una corsa che di suo non avrebbe bisogno di aggiunte di alcun genere, ci ha pensato la sua squadra. Quando pensi di aver visto Roubaix di ogni tipo, la Ineos ti ricorda che si può osare. Si possono aggiungere altri ingredienti rendendo 5 ore e 37 minuti di corsa una caduta in apnea.
Attacca, la Ineos, quando mancano 210 km all'arrivo, quando al primo settore di pavé un'ora e mezza. Davanti tirano a turno Turner (menzione speciale: primavera fenomenale la sua), Sheffield, Ganna, Rowe, Wurf; van Baarle ogni tanto dà qualche cambio, gestisce insieme a Kwiatkowski, e lo vedi, pulito nell'azione, come all'arrivo, pulito ma con la faccia impolverata. Senza ombra di dubbio il più forte oggi, come spesso è stato il più bello da vedere.
E forse a qualcuno può restare l'amaro in bocca per non aver goduto di una sfida epocale tra van Aert - prima o poi riuscirà a superare senza un problema Arenberg? - e van der Poel che raschia il barile, ma non è il solito van der Poel. A qualcuno può restare l'amaro in bocca per non aver celebrato Ganna fino alla fine, dopo averlo visto -Arenberg compreso - domare le pietre come se non avesse mai fatto altro in vita sua. Il messaggio di Ganna è chiaro: tornare qui e provare a vincere. Oggi è stato messo qualche tassello.
La bellezza, tremenda, brutale bellezza, oggi è in Davy che è il primo a cadere, e col corpo tumefatto dà una mano ai suoi compagni di squadra nel tentativo di ricucire sui primi. È Askey, il più giovane all'arrivo, che va avanti e chiude 42° nonostante le ginocchia insanguinate.
È Mohoric che coglie ogni attimo possibile per provare ad anticipare e vincere una corsa che sembra non amare i padroni. In Lampaert che sfiora un tifoso e cade non c'è alcun tipo di bellezza, ma ci ricorda che questa è la Roubaix e fatti di questo genere sono dietro ad ogni curva. Pichon e Devriendt sono la bellezza di una corsa che, quando si è capaci di cogliere il momento, può donarti una giornata indimenticabile.
La bellezza, ovvero, la Paris-Roubaix. Perché non c'è corsa più fuori dal mondo. Se poi ci regala quasi 6 ore così, non si può davvero chiedere altro a questo Inferno.


Uno splendido giro in bicicletta

Difficile trovare le parole in un sabato pomeriggio in cui Elisa Longo Borghini decide di accelerare e andare via da sola. Mancano trentatré chilometri all'arrivo e nella sua testa un progetto folle: arrivare, da sola, nel velodromo di Roubaix.

Difficile trovare le parole e magari aiutateci voi nei commenti, altrimenti ci facciamo supportare da qualche foto, oppure, dopo aver ripreso fiato, guarderemo e riguarderemo la corsa centinaia di volte come si usa fare con un bel film, di quelli che non vorresti mai terminare e che alla fine hai imparato a memoria.
Siamo deboli. Di cuore. Siamo inclini all'emozione. Siamo pieni di retorica. Questi sono quei momenti in cui ci concediamo qualcosa; le parole vengono fuori di getto come un'azione di Longo Borghini sul pavé. Superlativi. Eccessi di gioia e di foga. Non riusciamo a stare fermi.

Abbiamo avuto più di un sussulto. Quando Elisa Longo Borghini prendeva male quella curva dentro Camphin-en-Pévèl, settore numero 5, uno di quelli decisivi. Oppure ci si è stretto il cuore quando Kopecky da dietro faceva il forcing sul pavè e il distacco per un attimo era di poco superiore ai dieci secondi.

Difficile trovare parole quando il traguardo si avvicinava ed Elisa non smetteva mai di spingere il rapportone. Lei aveva male alle gambe? Noi avevamo male alle gambe. Lei aveva male alle braccia? Noi avevamo male alle braccia. Non riuscivamo a trovare pace. Dai, traguardo, arriva, avrà pensato lei. "Dai traguardo, arriva!" ci siamo detti noi.
Giornata blu. Cielo caldo. Difficile trovare le parole in un sabato pomeriggio passato a spingere Elisa Longo Borghini, partita mentre sulla sua destra il Moulin de Vertain a Templeuve era vestito con i colori della Roubaix.

Tutto intorno i tifosi spingevano le atlete che in qualche modo facevano rotolare le loro ruote sulle pietre infide della Regina delle classiche.
Siamo senza parole. Come Elisa Longo Borghini a fine gara: non ci crede o forse ci crede più di tutti noi. Tranquilla ai microfoni come dopo una bella pedalata. «E pensare che nemmeno ci volevo venire qui. Sono stata poco bene, non avevo intenzione di fare la comparsa, ma la squadra ha insistito». Vieni, attacca e vinci, le hanno detto.
Tranquilla, Longo Borghini, come dopo una bella pedalata nella storia di questo sport. Entrata direttamente dal varco che porta all'Inferno del Nord. Oggi, così polveroso da sembrare un paradiso in terra. Grazie Elisa Longo Borghini per lo splendido giro in bicicletta.


Rottura di nervi

È vero che una corsa di bicicletta, a questi livelli, non è come fare sciambola, direbbero a Milano. Divertirsi in modo sfrenato, fare baldoria. Nemmeno se sul podio in premio c'è un enorme boccale di birra. È intrinseco proprio nell'atto del pedalare dover fare fatica per vincere, o semplicemente per arrivare.
Certo, vedendo Mathieu van der Poel il più delle volte, potremmo essere smentiti, anche se oggi, dato pure il volto un po' incupito all'arrivo e le sue parole - «Abbiamo rischiato ma ci è andata male» - ci sentiamo dalla parte della ragione nel sostenere questa tesi.

L'Amstel Gold Race, poi, è tutto fuorché un divertimento, almeno per chi la corre. Un continuo e snervante susseguirsi di strappi, curve, rilanci, cadute, frenate, corridori che si arrotano, incidenti, attacchi, crolli improvvisi. Insomma, tutto il campionario che una corsa al nord si porta appresso. Pietre o salitelle, côte o berg, poco cambia.
E quindi? Proprio perché il ciclismo ha in sé tutti gli aspetti del dramma, siamo costretti a vivere finali di questo genere? Non bastava così? Per un attimo ci rivolgiamo proprio a te, ciclismo, nella fattispecie a te, Amstel Gold Race: non ci tieni proprio alla salute dei corridori e al cuore degli spettatori? L'ultimo chilometro, anche oggi come già qualche giorno fa al Fiandre, è da vivere con i nervi a fior di pelle, per chi guarda da casa che non sa stare fermo, per chi è davanti e si gioca la vittoria, perché non sa mai qual è il momento migliore per partire, o la posizione migliore, perché se rallenti dietro ti prendono, però non vuoi nemmeno favorire il tuo avversario.

Oppure per chi da dietro insegue. Frena per risparmiare qualche prezioso grammo (si misurano in grammi?) di energia; sta al vento e chiede il cambio che non gli viene dato e poi parte qualcuno di lato e bisogna fare un altro sforzo per andargli dietro e così via.
Ciclismo sei crudele, Amstel Gold Race sei beffarda. Noi non vorremmo essere nei panni di Cosnefroy. Anche quest'anno, come l'anno scorso, hai deciso che il verdetto definitivo lo avrebbe scelto il fotofinish, ma c'è modo e modo, dai.

Allora ha ragione Thomas De Gendt quando sostiene che prima di assegnare una vittoria bisognerebbe aspettare il fotofinish, ma forse chi scrive la sceneggiatura di questa corsa ultimamente ha deciso di inserire pathos ulteriore a un sistema che già di suo ti manda in fibrillazione e in ansia come fosse un thriller svedese.
Noi non vorremmo avere la faccia di Cosnefroy. Dopo il traguardo la telecamera indugia su di lui come si fa col possibile vincitore. Arriva la comunicazione che dice "hai vinto". Lui, giustamente, esulta. Sarebbe la vittoria più importante di una carriera che promette bene, ma che ancora non ha preso lo slancio.
Poi c'è l'attesa. Perché non si sa mai, perché appunto c'è lo sceneggiatore a cui piace infierire e c'è la corsa crudele. Le immagini smentiscono la prima chiamata e mostrano come, per qualche centimetro, è più avanti la ruota di Kwiatowski, volpe se ce n'è una, del ciclismo contemporaneo. Corridore, se ce n'è uno, forse per motore e testa, per pacatezza e abilità, che sembra tagliato apposta per i berg del Limburgo, per quelle stradine che sollecitano in maniera esagerata nervi e muscoli. Tanto da far sacrificare quel marcantonio di Turner, Sua Eleganza in Bicicletta van Baarle, o il talento sconfinato di Pidcock.

Così alla fine abbiamo capito il perché della birra. Non c'entra nulla con lo sponsor della corsa, serve a distendere i nervi. Kwiatkowski si fa la foto con la versione gigante del boccale e si scola una versione piccola. Mentre Cosnefroy dice: «Se piangessi dopo un podio, dovrei smettere di pedalare. Riesco sempre a mettere le cose in prospettiva, questa è la mia forza. Sul podio ero emozionato, altroché. Nemmeno van der Poel è salito sul podio. Sinceramente, non c'è niente per cui piangere». Le immagini lo inchiodano, il pensiero gli è venuto dopo essersi scolato pure lui una birra piccola.


Riscrivere l'attimo

Mancavano, secondo il GPS, esattamente 1750 metri al traguardo quando Marta Cavalli ha deciso di riscrivere il significato dell'attimo. Passo indietro: che cos'è l'attimo? Si dice sia la durata tra lo scatto del verde al semaforo e il tizio dietro spazientito che suona il clacson.
Per Marta Cavalli, superato il Cauberg a ruota di sei compagne di viaggio sgranate dopo il forcing di Annemiek van Vleuten, l'attimo era quello da cogliere mentre il suo direttore sportivo dall'ammiraglia la esortava a spingere: «Vai Marta, è arrivato il momento! Parti ora: o tutto o niente!»

È scattato il semaforo verde, le altre si sono guardate, l'acido lattico poteva essere per un attimo dimenticato. È partita mentre van Vleuten, Lippert, Vollering, Niewiadoma, Garcia e Moolman-Pasio rimanevano sbigottite a guardare, vittime del tempismo altrui, dei giochi di squadra, del marcamento, delle rivalità. Di quel profondo solco che viene scavato tra tempo e spazio in una gara di ciclismo, quando al traguardo manca poco, pochissimo, ma la tua testa elabora così tanti dati da non riuscire più ad avere il senso della misura.
È partita, Marta Cavalli, e ha riscritto il significato dell'attimo. Aveva solo quel modo per vincere: resistere in una corsa matta, frenetica, restare agganciata sull'ultimo Cauberg e poi lanciarsi da dietro, approfittando del rallentamento, come se nel frattempo avesse tenuto il segno con un dito nel libro che parla dell'arte del perfetto finisseur.
Ha vinto così Marta Cavalli, l'Amstel Gold Race, riscrivendo l'attimo, da perfetta finissuer, ricordando dopo il traguardo quando l'anno scorso aveva sofferto il freddo: «Per questo ho pensato quest'anno di coprirmi meglio e restare più calda». Sorride, e racconta semplicemente così, e facendo come ogni ciclista della domenica sogna di fare dopo un bel giro in bici. Abbracciare un gigantesco bicchiere di birra e farsi un bel sorso. Sul palco.